cassazionista

Riceviamo e pubblichiamo

LETTERA APERTA

Buongiorno,

lo scorso 22 dicembre ho partecipato ad un’udienza della sezione fallimentare del Tribunale di Roma e, purtroppo, ho potuto constatare direttamente quanto da tempo mi veniva riferito da colleghi più anziani: un’atmosfera – salvo che per pochi eletti – di assoluto dispregio per la classe forense da parte di alcuni  rappresentati  di  quell’istituzione  che  dovrebbe  garantire  il  regolare  e paritario  svolgimento  del processo.

Com’è  noto,  per  diventare  Magistrati  è  necessario  molto  studio  e  per  proseguire  con  questo meraviglioso, ma al contempo usurante mestiere, sono  necessari tanta passione, tanto buon senso, tanta umanità, spirito si sacrificio ed umiltà … qualche volta assenti nei confronti di coloro che, onestamente, si guadagnano il pane con l’attività giornaliera e non con lo stipendio a fine mese.

Con questo non si vuole di certo fare “di tutta l’erba un fascio”. Vi sono Magistrati del tutto equilibrati,  bravissimi  sia  dal  punto  di  vista  umano  che  tecnico,  Decidenti  e  Pubblici  Ministeri  di elevatissimo spessore umano e giuridico.

Purtroppo alcuni non sono così … e questo è dimostrato dalle cronache all’ordine del giorno, dal fatto che, sempre, ormai troppo, troppo spesso si cerchino distacchi in sedi differenti rispetto l’attività di Giudicante e rispetto alle funzioni che gli sono proprie.

Questo fenomeno a mio parere ha due matrici, per alcuni versi collegate tra loro: da un lato dalla frustrazione che pervade alcuni Giudicanti data  – nei casi migliori – dal cattivo ed “ultralento” andamento del sistema giustizia, dal non vedersi riconosciuti i propri meriti, dal fatto di guadagnare molto meno di ex compagni di università avvocati che, probabilmente” ne sanno” meno di loro, dal fatto di dover svolgere delle udienze come ad un supermercato, nel mezzo della confusione più assoluta, tra telefoni che squillano e  testimoni  autogestiti  dalle  parti,  dal  pressapochismo  di  alcuni  colleghi,  dal  non  disporre  di  risorse materiali, di cancelleria e di personale sufficienti etc. ;  dall’altro dall’essersi impegnati tanto per alcuni (o molti)  anni e sopravvivere nell’anonimato, che  in loro sorge, dunque, uno spirito di rivalsa che, si potrebbe anche percepire, in un certo senso come  giustificato.

Tuttavia questo non autorizza il “frustrato” che è restato coraggiosamente (?) nei suoi panni a prendersela con chi gli appare più debole, perché praticante abilitato o, perché, “tanto il giudice sono io ed alla fine decido io”… soprattutto se lo fa addirittura asserendo cose non corrette.

Ritornando al caso di specie, lo scorso 22.12 il Magistrato della Sezione fallimentare, dopo essersi rivolto in maniera a dir poco sgarbata, intimandomi a più riprese di non mettermi le mani in tasca[1], ha affermato “lei non ha diritto di parola, io non sto parlando con lei, ma con …”, oltre ad una lunga serie di tentativi di umiliazione[2] e di frasi – a dire poco – scortesi e fuori luogo (asserendo, peraltro, che io ed il mio collega svolgevamo il lavoro superficialmente e che avremmo danneggiato i nostri clienti).

Premetto  che   soffro,  purtroppo,  sotto  varie  forme,  di  spondilosi  cervicale,  di  sofferenza dell’innervazione motoria e, quindi, di una radicolopatia di origine neurogena.  Ciò mi crea parestesie alle mani e alle gambe, disestesie, formicolii, etc. … e patisco particolarmente il freddo, in special modo nelle zone periferiche come dita delle mani e dei piedi. É per questo che, a tratti, infilavo le mani nelle tasche del mio giaccone.

Tuttavia mi domando: come si permette un Magistrato ad entrare nella mia sfera personale ed a sindacare dove io tengo le mani o non le metto, a rimproverami ed offendermi di fronte a terzi per questo ripetutamente? Come si permette a dirmi che io non ho diritto di parola e che quando ho parlato ho già sbagliato (peraltro, ho controllato bene: e sul punto controverso chi si sbagliava era lui!! sic).

Delle due l’una: o il Giudicante riteneva la procura a me conferita insieme ad  un avvocato invalida, oppure, in accordo ed ai sensi della rinnovata legge n. 247/2012  c.d. “Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”  (che con l’art. 41  ha abolito il Limite ad valorem di cui all’art. 7 della legge Carotti), riteneva la procura congiunta valida ed idonea a conferirmi i poteri di cui all’art. 84 c.p.c..

Nulla autorizzava il Magistrato – non nuovo a tali “Iniziative” – ad offendermi, essere scortese, sgarbato e privarmi del diritto di parola … perché praticante, perché più giovane e perché,  per non essere costretto a svolgere una successiva opposizione (vincente),  facendo perdere altro tempo al mio assistito, ho dovuto “mordermi la lingua”.

Spero, perciò che, re melius perpensa, il Giudice in questione le prossime volte sia più garbato, gentile educato, umile … ricordandosi quando lui stesso era più giovane e doveva “barcamenarsi” tra mille rivoli (che, visti i tempi, con ogni probabilità, erano  certamente meno intricati di quelli odierni).

Praticante del Foro di Roma

 

 



[1]  Senza neppure darmi la possibilità di controbattere

[2]  Trattasi di tentativo di umiliazione non perché le frasi ed il modo non fossero sufficienti per causare disdoro, ma perché è necessario, perché vi sia una vera e propria umiliazione, che il soggetto passivo si senta umiliato … nel caso di  specie mi sono sentito sdegnato, forse infastidito, ma non umiliato. Riflettevo, invece, sulla non commendevole performance del pubblico impiegato.

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