“Rilevanza della psicoterapia nella prevenzione degli esiti tragici dei disturbi dell’umore”

Avv. Salvatore Magra

 

Introduzione

Con questo contributo ci si propone di esaminare in chiave criticala tendenza, presente nell’ambito della gestione della “salute mentale”, di non tener conto delle peculiarità del singolo pazientenella gestione dei disagi emotivi, aderendo all’idea che la prescrizione di medicinali non possa essere sufficiente all’impostazione di una terapia risolutoria, senza tener conto del sostrato emotivo, che rappresenta la “traccia”, a volte non sufficientemente luminosa, della conformazione della personalità del paziente, la quale rende peculiare la patologia del medesimo, rispetto a quella di altri soggetti che, a un esame superficiale, possano presentare delle patologie identiche, quando l’identità è solo paragonabile a quella fra due vestiti dello stesso stilista, indossati da soggetti ontologicamente diversi. L’attenzione del giurista (non medico) sarà concentrata sulla depressione, ma l’idea di fondo è estensibile ad altre forme di disagio. Non bisogna dimenticare che la psichiatria ha elaborato il concetto di“depressione mascherata”1, in cui il sostrato depressivo è comunicato tramite metafore, esplicitantisi in somatizzazioni (in alcuni casi ci si è espressi in termini di “dolori fantasma”), che mimetizzano un disagio interiore più o meno intenso. Ove non si sondi l’emotività del soggetto, possono sfuggire patologie depressive latenti. Il diritto alla salute, nelle sue varie articolazioni, è una delle componenti principali, su cui si basa la civiltà giuridica. Esso si esplica sia sul piano dell’integrità fisica in senso stretto, sia su quello dell’integrità psichica, concetti che in realtà occorre sovrapporre, perché si compenetrano reciprocamente.

L’intervento terapeutico, nella cura delle patologie mentali, va svolto in modo globale, non potendosi limitare il Medico, aderendo a una visione organicista e non olistica, in cui non si tenga conto della necessità di concepire la dicotomia corpo-mente all’interno di una cornice unitaria, alla mera somministrazione di farmaci, in ossequio al principio di multifattorialità delle variabili incidenti nello sviluppo dei disturbi emotivi, in cui s’intersecano predisposizioni genetiche e circostanze ambientali. La gestione delle patologie mentali va attuata col massimo grado di responsabilizzazione, specialmente quando la sintomatologia delle medesime trascenda in uno stato psicotico. Si tende a distinguere la psicosi dalla nevrosi, con riguardo alla perdita o al mantenimento del contatto con la realtà, da parte del paziente, anche se spesso si verificano ipotesi intermedie, non facilmente delimitabili (“borderline”), in cui si riscontra un’alternanza fra momenti di lucidità e momenti di assenza della stessa.

La “multifattorialità”, cui si è accennato, fa comprendere come approccio organicista e approccio psicologico vadano integrati, nella cura dei disagi emotivi e di questo occorra tener adeguato conto nella somministrazione ed effettuazione delle terapie, per

curare i disagi stessi. Non può enuclearsi un rapporto causa-effetto in termini semplicistici, secondo un meccanismo stimolo-risposta,ma occorre adottare un approccio, che consideri più elementi,che interagiscono.

Posizione giuridica del Medico psichiatra

Può affermarsi che il medico (e, quindi, lo psichiatra), nei rapporticon il paziente assume la posizione di “garante”, ex art. 40 cpv.cod. pen., in relazione all’obbligo di evitare che il paziente, in conseguenza delle sue precarie condizioni di salute, compiacondotte autolesionistiche. Tale conclusione vale in misura ancora maggiore, quando, in concreto, si tratti dei rapporti fra psichiatra e paziente, affetto da disturbo emotivo dell’umore (depressione,nelle varie forme in cui si estrinseca tale patologia), in quanto, in tale ipotesi, il concreto rischio di suicidio rappresenta un esito prevedibile della patologia.

La posizione di garanzia del Medico deriva da un vero e proprio obbligo giuridico di impedire l’evento, in ragione del ruolo ricoperto, in quanto soggetto esercente la professione sanitaria e trae fondamento già dagli art. 2 e 32 Cost, che pongono in primo piano l’esigenza di una protezione adeguata del bene dell’integrità fisica dei pazienti, rispetto a qualsivoglia pericolo, che ne possa minacciare l’integrità. Tale obbligo di protezione è presente anche quando il soggetto in difficoltà emotiva si sia rivoltodi sua volontà al Medico, allo scopo di ottenere una diagnosi e una terapia.

Si comprende come la prevenzione di gesti irreparabili rappresenti un compito, intimamente collegato al ruolo di uno psichiatra, che deve, di là dal somministrare una terapia farmacologica, fornire anche un “aiuto morale”, rispetto allo stato di disagio dell’assistito, anche quando questo sostegno umano non si formalizzi in una vera

e propria psicoterapia. D’altronde la stessa non va concepita in chiave ortodossa e con una logica “parrocchiale”, ma va valutato un approccio di tipo “integrazionista”62, in cui si associno elementi di una scuola con un’altra, per pervenire a una più efficacia terapia del paziente. La psicoterapia può effettivamente, se ben condotta, portare a un mutamento delle condizioni psico-fisiche del paziente e comportare dei cambiamenti organici.

Ha perso significato e non è costruttivo appiattirsi sulla dicotomia visione organicista – visione psicologica, in base a cui la depressione si basa, secondo il primo approccio, su uno squilibrio del metabolismo neurotrasmettitoriale, posto a base della regolazione dell’umore del soggetto, il quale andrà corretto attraverso un intervento farmacologico, che agisca sulla serotonina o su altri neurotrasmettitori (dopamina, noradrenalina, etc,.),inibendone il riassorbimento (si pensi alle costruzioni che si sono fatte diversi anni fa sulla fluoxetina, definita come “molecola opillola della felicità”) o, secondo l’altra concezione, su traumi odistorti schemi di pensiero del paziente, che determinano una

rappresentazione in negativo della realtà circostante. Interveniresolo sul metabolismo dei neurotrasmettitori non è sufficiente ealcuni psichiatri sono arrivati a chiedersi (mi è stata posta questa questione in occasione di un colloquio informale) se occorra che ciascunindividuo presenti lo stesso livello di neurotrasmettitori,rispetto agli altri, o se tale livello ottimale vada distinto da soggettoa soggetto. Il processo di omologazione può condurre anche aqueste diatribe, che rischiano di automatizzare le concezioni dei meccanismi del rapporto umano. La soglia di sopportazione del dolore varia da individuo a individuo e i farmaci non sono così ”intelligenti” (in quanto non hanno capacità speculative) da intercettare la struttura di tale soglia, nello specifico paziente. Occorre una specifica focalizzazione sul dramma interiore vissuto dal soggetto, che solo la psicoterapia può dare. E’ stato affermato che “Secondo la concettualizzazione della suicidologia classica, il suicidio è il risultato di tre elementifondamentali. Affinché un suicidio avvenga deve esserci unprocesso di accensione della ‘miccia’, che passa attraverso diversi stati che precedono l’atto letale. Un primo stato cheinequivocabilmente si ritrova sulla via che conduce al suicidio sembra essere l’inimicizia verso se stessi (inimicality) o in altri termini essere il proprio peggior nemico, agire contro il proprio interesse senza saper gestire l’aumento della pressione derivante da sconfitte, rifiuti, malattie, ecc. Non si tratta del masochismo classiconel quale è insito il concetto di punizione piuttosto un concetto più ampio nel quale l’individuo cerca di far spazio all’autodistruzione agendo contro il proprio interesse. Associato all’inimicizia si ritrova lo stato perturbato di cui si è già detto. Lo stato perturbato fariferimento a quanto un individuo sia sconvolto, scosso e disperato.E’ uno stato difficile da definire e da inquadrare in una precisa entità diagnostica. Comprende stati emotivi negativi ed è caratterizzato da un dolore psicologico insopportabile, spesso con manifestazioni somatiche e localizzazioni dell’angoscia come all’ipocondrio o alla gola, tipico del pianto trattenuto. Mi viene da pensare che se solo i soggetti suicidi potessero piangere probabilmente salverebbero le loro vite o che se solo un altroindividuo facesse scattare il pianto avrebbe già fatto abbastanza per mettere in salvo il soggetto a rischio di suicidio. Conseguente aquesto stato è la visione tunnel o lo stato di contrizione (constriction) con il quale l’individuo perde la possibilità di valutare opzioni alternative e far leva su sicurezze precedentemente acquisite. Il soggetto suicida volta le spalle al suo passato e permette ai suoi ricordi di divenire irreali focalizzandosi solo sulle emozioni intollerabili attuali e sul come liberarsene. Tipico di questo stato è il pensiero dicotomico nel quale il soggetto tende ad usare parole come ‘solo’, ‘sempre’, ‘mai’, ‘per sempre’, ‘oppure’. Il range delle opzioni si restringe a due: risolvere immediatamente il dolore

(soluzione magica) oppure suicidarsi. Quando gli stati fin qui descritti si riscontrano in uno stesso soggetto il rischio di suicidio è elevato e significa che la miscela sta per esplodere irreparabilmente”3. Una concezione del suicidio, appiattita sullavisione organicistico-psichiatrica, secondo cui tale esito tragico è solo sintomo di una patologia dell’umore, ignora la specifica vulnerabilità di natura psicologica di un soggetto, da cui può derivare l’esito infausto, che il paradigma organicista solo in alcune ipotesi è in grado di intercettare. Occorre promuovere la disponibilità dell’individuo ad aprirsi e a esternare la propria sofferenza. Occorre riflettere sulle diverse elaborazioni, effettuate dalla suicidologia: Il modello sociogenico sostiene la visione di Durkheim (1897) secondo cui il suicidio è il risultato della posizione dell’individuo in un certo contesto sociale. Un certo gruppo può “richiedere”, ad individui ben integrati nella società e che rispettano i suoi valori, il suicidio come atto altruistico, contrassegnato daonore e sacrificio. All’opposto si colloca il suicidio egoistico eseguito da individui per nulla integrati e che non rispondono ai voleri della società. Il suicidio anomico è invece il risultato di mancanza diregole nella società in cui l’individuo non è né bene ne’ poco integrato; caso questo che viene spesso associato alla moderna società industriale ed a quella contemporanea. L’ultimo tipo disuicidio e’ quello fatalistico, solo brevemente accennato dall’autore, descritto come fenomeno raro e che include le vite di soggetti senza alcuna ricompensa come gli schiavi, donne senza figli, mariti giovanissimi. Ma da qualsiasi prospettiva si studi il suicidio, si pone l’accento sul fatto che l’individuo è vittima della società e dunque il gesto è una risposta alle forze sociali sulle quali non si ha controllo64. La psicoterapia e la farmacologia vanno integrate con un tentativo di inserimento sociale dell’individuo all’interno del tessuto, in cui vive, favorendo la comunicazione del soggetto conse stesso e con gli altri in una dimensione empatica.

Legge Basaglia e nosocomi

La circostanza del mutamento di contesto, in cui viene esercitata l’attività neuropsichiatrica, a seguito dell’emanazione della legge Basaglia e della soppressione dei nosocomi per pazienti affetti da patologie mentali, non esclude la possibilità che siano previste fasi di “custodia” del paziente, qualora esista un alto rischio che il medesimo possa mettere in pericolo la propria vita o quella di altri. La legislazione sul “trattamento sanitario obbligatorio” conferma quanto sopra rilevato. In giurisprudenza si è affermato che a fronte di una disciplina previgente, incentrata sull’aspetto custodiale per la tutela dei terzi da atti aggressivi, nonché per la protezione della incolumità del medesimo paziente da condotte auto lesive, la L. 13 maggio 1978, n. 180 (c.d. “legge Basaglia”) “ha limitato il

contenimento personale ai soli casi di necessità in una prospettiva di cura e di superamento, ove possibile, del disagio e della malattia” (Cass. pen., Sez. IV, 14 nov. 2007, n. 10795, in “CP”, 12-2008, p. 4622.).

Si comprende che, quando un’analisi della vicenda concreta renda il ricovero l’unica o la più adeguata misura di prevenzione di condotte auto lesive, esso va attuato, come strumento di terapia, ulteriore, rispetto alla somministrazione dei farmaci, adatti al tipo di patologia. Nella bioetica psichiatrica si è progressivamente affermato il criterio, in base al quale va attuata, nei confronti di un paziente, l’”alternativa meno restrittiva possibile”, in rapporto allasituazione clinica, ma, in ogni caso, l’alternativa restrittiva (quale ilricovero) andrà senz’altro praticata, qualora vi siano seri rischi di condotte auto-lesive o etero lesive del malato. Appare pocodifendibile il sanitario, che non utilizzi tutti gli strumenti terapeutici a disposizione, per migliorare le condizioni del paziente.

E’ in re ipsa come i pensieri suicidiari rappresentino un sintomo della depressione, nelle sue varie modalità e, pertanto, è chiaro come il verificarsi dell’evento dannoso o pericoloso o del gesto auto-lesivo sia altamente più probabile in un malato depresso, piuttosto che in un soggetto, che non presenti disturbi dell’umore (ma in taluni casi i disturbi dell’umore sono latenti e occorre penetrare nella situazione clinica, non soffermandosi superficialmente sulle dichiarazioni del soggetto, circa la volontà di attuare o meno condotte auto-lesive).

Pertanto, già sulla base di un ragionamento di mera probabilità logico-statistica, la previsione di un evento autolesionistico è di gran lunga maggiore, in ipotesi di soggetto depresso. Lo strumento d’individuazione del nesso causale si sostanzia nell’applicazione di regole di esperienza, relative alla circostanza del mancato verificarsi dell’evento, ove fosse intervenuta una certa condotta umana (Cass. n. 2898-1993), strumentale al suo impedimento, e questo principio andrà applicato anche alla responsabilità del medico psichiatra, in connessione con la valutazione del rischio suicidiario in soggetti, che presentino segni esteriori di depressione. Ai fini di una valutazione prognostica di tale tipo, non è conducente soffermarsi semplicemente sull’attenzione al metabolismo neurotrasmettitoriale del paziente, ma valutare il contesto ambientale e familiare, in cui egli vive, eventualmente avvalendosi di tests psicologici, che sono stati costruiti appositamente, per verificare la presenza di stati depressivi eventualmente latenti. E’ essenziale che si strutturi un’empatia fra paziente e Medico, in modo che l’anima del paziente possa essere “accarezzata” e con la speranza che ragionamenti di tale tipo non siano totalmente utopistici e fuori dal mondo in cui viviamo. Spesso, l’effettivo disagio, più o meno latente, è il tentativo d’intraprendere una sorta di pellegrinaggio verso la libertà, l’autostima e il riconoscimento del proprio valore personale. La mancata percezione di questi elementi anche in rapporto alla centratura della propria ragion d’essere, basantesi sul consenso esterno, piuttosto che attraverso uno sguardo concentrato sulla propria interiorità, contribuisce ad amplificare il senso di annichilimento.

Da ciò discende l’esigenza di una “scossa”, che faccia ritrovare la direzione all’individuo in difficoltà e lo possa ricondurre verso l’idea che il suo ruolo è prezioso nella dinamica sociale. L’effetto, talvolta euforizzante, dei farmaci è pur sempre una soluzione provvisoria, che può, peraltro, slatentizzare la ripetizione di determinati schemi di comportamento ed emozioni da decodificare, in un contesto, in cui l’individuo tende a insistere nei suoi schemi distorti, i quali possono provocare delle ricadute. Alla base di taluni disturbi emotivi vi è una paura di crescere e viene strutturata l’idea di una soluzione “magica”, che elimini i problemi. La sola terapia farmacologica, se non accompagnata dal contestuale progetto terapeutico di far proseguire il paziente con le proprie gambe, puòrivelarsi una cura incompleta. Il depresso grave ritiene di trovarsi nella situazione di chi sbatte davanti a un muro, senza poter tornare indietro, si sente schiacciato e occorre instillare nel medesimo la convinzione che si possa creare un’alternativa al suo stallo esistenziale. Al riguardo, in molti casi, i farmaci non bastano, essendo necessario il “vuoto”, vale a dire la creazione di una disponibilità a rimettere in discussione il ruolo, fino a quel momentosvolto dal soggetto e la predisposizione a dare spazio ad aspetti fino a quel momento trascurati della propria struttura di personalità.

Tale sensazione di “tabula rasa” delle proprie concezioni può consentire la partenza verso un “pellegrinaggio” alla ricerca di nuovi orizzonti e valori, o alla rielaborazione in chiave più matura econsapevole di quelli preesistenti5.

L’esigenza di un supporto psicoterapeutico è, se possibile, ancorapiù necessaria nella depressione bipolare6, in cui l’umore oscilla frai poli opposti “positivo”  e “negativo”, e occorre aiutare l’individuo a trovare una stabilità solida. La depressione “bipolare” è un “ossimoro” dell’emotività, in cui i due poli energetici della persona in difficoltà si contendono il campo e un’artificiale creazione di una sorta di “fissità dell’umore”, attraverso i farmaci (litio,carbamazepina, antipsicotici), o l’uso di antidepressivi a scopopreventivo, non è sufficiente per un pieno riconoscimento di sé.Chi ha pensieri autolesionistici spesso ha bisogno (anche secontemporaneamente ha timore) di dialogare con se stesso e ha necessità di trovare uno specchio (che può essere rappresentato dal terapeuta), in cui riflettere e meditare sulle proprie emozioni.

L’esigenza di trovare un proprio centro interiore non può esser delegata a delle sostanze chimiche, che restano pur sempre essenziali, nell’impostazione della terapia. Spesso i disagirappresentano il tentativo di emersione di aspetti nascosti dellapropria personalità (l’”ombra” in senso junghiano)7.In vicende, riguardanti la causalità omissiva, va effettuatal’indagine, attraverso l’uso di massime di esperienza, con i necessariadattamenti alla peculiarità del comportamento omissivo, in modo da affermare che la condotta dovuta (nella nostra ipotesi: somministrazione di una terapia più idonea, attuazione di un ricovero ospedaliero), se realizzata, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento. Al riguardo, La Cass. SS.UU. 10 Luglio 2002 – 11 Settembre 2002 n. 30328, ha statuito che il rapporto di causalità omissiva è configurabile quando, ipotizzandosi come intervenuta avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con alto grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. Va rilevato che la sopra richiamata sentenza delle Sezioni Unite ha tentato di dirimere un contrasto di giurisprudenza fra la posizione, secondo cui, in materia di responsabilità professionale medica, al criterio di responsabilità per colpa professionale del Medico al criterio della certezza degli effetti della condotta, può sostituirsi quello della probabilità di tali effetti e della idoneità della condotta a produrli, probabilità che deve essere seria e apprezzabile a avere un alto grado di probabilità di successo (Cass. 126-2000) e un’ulteriore posizione giurisprudenziale, secondo cui il nesso causale può ravvisarsi solo ove l’azione doverosa avrebbe impedito l’evento con alto grado di probabilità logica ovvero conun’elevata credibilità razionale (Cass. 9780-2001). La sentenza delle Sezioni Unite sopra citata (nota in letteratura come sentenza “Franzese”) ha sostanzialmente aderito a tale posizione. La sentenza delle Sezioni Unite in esame valorizza la teoria della probabilità logica, in relazione all’impiego della legge statistica nel caso concreto, al fine di raggiungere una soddisfacente verità processuale. Va accertata l’attendibilità della legge statistica e l’applicazione della medesima alla singola vicenda umana.

La sentenza Franzese prosegue ancora, asserendo che il Giudice deve abbandonare “l’illusione di poter ricavare deduttivamente la conclusione sull’esistenza del rapporto di causalità da una legge scientifica che riproduca in laboratorio la sua ipotesi di ricostruzione dell’evento e dovrà fare ricorso, sempre, alla ricerca induttiva verificando l’applicabilità delle leggi scientifiche eventualmente esistenti alle caratteristiche del caso concreto portato al suo esame, tenendo in considerazione tutti i fattori specifici presenti e quelli interagenti e pervenendo quindi ad un giudizio di elevata credibilità razionale, secondo i criteri di valutazione della prova previsti da tutti gli elementi costitutive del reato” .

La Cassazione, in altra decisione, insegna che “In tema di responsabilità professionale del medico-chirurgo, pur gravando sull’attore l’onere di allegare i profili concreti di colpa medica posti a fondamento della proposta azione risarcitoria, tale onere non si spinge fino alla necessità di enucleazione e indicazione di specifici e peculiari aspetti tecnici di responsabilità professionale, conosciuti e conoscibili soltanto agli esperti del settore, essendo sufficiente la contestazione dell’aspetto colposo dell’attività medica secondo quelle che si ritengono essere, in un dato momento storico, le cognizioni ordinarie di un non – professionista che, espletando la professione di avvocato, conosca comunque (o debba conoscere) l’attuale stato dei profili di responsabilità del sanitario (omessa informazione sulle possibili conseguenze dell’intervento, adozione di tecniche non sperimentate in sede di protocolli ufficiali, mancata conoscenza dell’evoluzione della metodica interventistica, negligenza – intesa oggi come violazione di regole sociali e non solo come mera disattenzione -, imprudenza – intesa oggi come violazione delle modalità imposte dalle regole sociali per l’espletamento di certe attività -, ed imperizia – intesa oggi come violazione delle regole tecniche di settori determinati della vita di relazione e non più solo come insufficiente attitudine all’esercizio di arti e professioni” ). (Cass. civ. 19 maggio 2004, n.9471.)

In termini generali, può affermarsi che la giurisprudenza di legittimità, successiva alla sentenza Franzese, si è uniformata alla ricostruzione della medesima (cfr. Cassazione 17379-2003, 27975-2003, 36805-2004),

La Cass. civ. sez. III 04-03-2004, n. 4400 ha affermato l’applicabilità dei princìpi stabiliti in materia di causalità omissiva penale alla responsabilità civile. In particolare,in tale pronuncia si sostiene che “applicando anche in questa sede civile risarcitoria, i principi già espressi in sede penale (Cass. Pen. S.U. 11.9.2002, n. 30328,Franzese), tenuto conto che il nesso di causalità materiale vadeterminato a norma degli artt. 40 e 41 c.p.” ; ne consegue che “non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno,dell’ipotesi dell’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile”.

Nell’illecito omissivo occorre accertare l’evento-comportamento omissivo, in termini di probabilità inversa, onde inferire se l’incidenza del comportamento omesso si ponga in relazione probabilistica con l’evento.

Pur condividendosi l’impostazione, secondo cui nella causalità omissiva viene formulato un giudizio ipotetico 8 (all’interno del quale occorre individuare quale sia in concreto il comportamento omesso, che avrebbe dovuto essere attuato, al fine di evitare il pregiudizio alla vittima (nel nostro caso: al paziente), appare sostenibile che, nella nostra ipotesi, sia agevolmente intuibile anche a un non addetto ai lavori quali condotte integrative avrebberopotuto essere attuate. Occorre enucleare sul piano astratto il comportamento, che si sarebbe dovuto attuare e successivamente inserirlo nella vicenda concreta, onde verificarne la sua attuabilità; in dottrina si è affermato che: “Sul piano concettuale la costruzione dell’antecedente virtuale come congettura concreta non pareesercizio difficile: partendo dallo schema dedotto dalle regole fondanti l’obbligo giuridico, all’interprete toccherà contestualizzare tale schema astratto, trasformando il comando di agire nellacondotta che in concreto doveva essere realizzata: il che implica necessariamente la considerazione della situazione di fatto nella quale l’omittente avrebbe dovuto agire e il tener quindi conto delle circostanze storiche esistenti al momento in cui sarebbe stato doveroso attivarsi. All’atto pratico: tanto maggiori saranno le variabili concrete da apprezzare, tanto più complessa e delicata sarà la formulazione della congettura concreta (…). D’altronde la necessaria consapevolezza in ordine a questo non eludibile passaggio ricostruttivo ne permette un corretto inquadramento all’interno della serie causale effettiva e, insieme, assicura la controllabilità dell’operazione stessa. (FRANCESCO MUCCIARELLI, “Omissione e causalità ipotetica, qualche nota”, in “Diritto e questioni pubbliche”, Palermo 2011)

In particolare, l’attuazione di un trattamento psicoterapeutico disostegno, come complemento alla terapia farmacologica, può consentire di percepire in modo più completo la situazione interiore della persona, per comprendere appieno il suo stato d’animo. La psicoterapia, specialmente quando si affronti la fase acuta della depressione, può consentire di cogliere aspetti dell’attuale atteggiarsi della struttura di personalità del paziente, su cui la terapia farmacologica, per la sua stessa natura, non può fornire alcun orientamento, in quanto essa agisce sull’aspetto meramente organicistico, come se l’organismo del paziente si fosse “guastato” e occorresse procedere a una sua riparazione. L’uomo, secondo un approccio radicalmente centrato su tale orientamento, viene concepito come una macchina, da inserire nuovamente all’interno di una catena di montaggio e non ci si preoccupa della sua componente più volatile e meno percepibile sul piano materiale. La Cassazione, Sezione IV, in una fattispecie di responsabilità professionale del medico psichiatra per il suicidio del paziente, ha avallato ritenendola priva di vizi logici, la decisione dei Giudici di merito, che hanno riconosciuto la responsabilità per omicidio colposo di uno psichiatra, considerando idonea l’efficacia causale della sua condotta omissiva, in relazione al suicidio di una donna gravemente depressa, in quanto il Medico in questione ha autorizzato l’uscita dalla struttura sanitaria della paziente, pur avendo questa manifestato forti istinti suicidiari, affidandola aun’accompagnatrice volontaria, priva di specializzazione adeguata. A tale accompagnatrice il medico non ha fornito alcuna informazione sullo stato mentale della malata. Posta la piena condivisibilità di questo orientamento della citata sentenza della Cassazione, a maggior ragione deve ritenersi stigmatizzabile la condotta dei Medici che sottovalutino la potenzialità autolesiva della paziente, tale da consigliare il ricovero coatto o, almeno, la degenza in casa con il controllo continuo dei familiari. La Cassazione, con sentenza 15993-2011, ha affermato, in tema di rapporti fra medico e paziente che, una volta dimostrato il contratto o il contatto sociale e l’aggravamento della patologia, grava sulla controparte dimostrare che l’inadempimento non vi è stato o che non ha determinato il danno lamentato. I Medici devono prendere in considerazione l’ipotesi di una proposta di ricovero ospedaliero volontario nei confronti del paziente, o, quanto meno, informare i parenti delle gravi condizioni psichiche del medesimo.

Si aggiunga che lo stato psicotico non va esaminato unicamente sotto l’aspetto dei sintomi, riscontrabili nel paziente, ma va analizzata la situazione esistenziale del paziente, come quando si tratti di una depressione, successiva a un parto. Negli stati psicotici mutano l’intersoggettività e la relazione emotiva, la percezione del linguaggio e del corpo, nonché l’interpretazione dello spazio e del tempo.

Il principio del consenso informato, secondo cui il Medico è tenuto a informare correttamente i pazienti sui rischi della terapia, valeanche nei rapporti fra psichiatra e paziente; in ogni caso, ove il paziente non sia sufficientemente “ricettivo” sotto questo profilo, in ragione del disagio emotivo provato, è pur sempre doveroso fornire adeguata informazione sulla terapia prescritta ai familiari. L’obbligo di informazione, circa le conseguenze del trattamento sanitario adottato, è parte integrante del principio del consenso informato e l’omissione di un’esauriente informazione implica responsabilità del  sanitario. Il paziente, che alleghi di aver patito un danno alla salute, in conseguenza dell’attività professionale del medico, o di non aver beneficiato di miglioramenti, a seguito della terapia, somministrata dal Medico, deve provare solo l’avvenuta instaurazione del rapporto con il sanitario e l’ inefficacia del trattamento prescritto, mentre costituisce onere del Medico provare che l’insuccesso dell’intervento è dipeso da fattori indipendenti dalla sua volontà, dimostrando di aver osservato, nell’esecuzione della prestazione sanitaria, la diligenza esigibile dal sanitario, in rapporto al suo grado di specializzazione.

Il rapporto che si instaura fra paziente e struttura sanitaria, in cui opera il Medico, che si prende carico del paziente, può qualificarsi in termini di “contratto con effetti protettivi nei confronti dei terzi”, da cui sorgono, a carico della struttura sanitaria, anche obblighi concernenti la prevenzione di eventuali emergenze che, nella ipotesi di trattamento di casi clinici di depressione, ben possono identificarsi nella prevenzione di condotte auto lesive. La responsabilità della struttura sanitaria ha natura contrattuale e può conseguire dall’inadempimento di obbligazioni, poste direttamente a suo carico, così come da inadempimento di obbligazioni del medico, che operi all’interno della medesima. A conforto di quanto adesso affermato, si rifletta sul seguente insegnamento della Suprema Corte: “Il rapporto che si instaura tra paziente e casa di cura privata (o ente ospedaliero) ha fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell’obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall’assicuratore, dal Servizio Sanitario Nazionale o da altro Ente), insorgono a carico della casa di cura (o dell’ente), accanto a quelli di tipo “lato sensu”alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze. Ne consegue che la responsabilità della casa di cura (o dell’Ente) nei confronti del paziente ha natura contrattuale, e può conseguire, ai sensi dell’art. 1218 c.c., all’inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonché, ai sensi dell’art. 1228 c.c., all’inadempimento della prestazione medicoprofessionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essereanche “di fiducia” dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto ” (Cass. n. 13066/2004; e negli stessi termini Cass.n. 2042/2005).

La giurisprudenza più recente si è rivelata propensa a reputare la responsabilità dell’ente come autonoma, rispetto a quella del Medico; secondo la Cassazione SS.UU. 9556-2002, il rapporto fra paziente e struttura sanitaria comprende la messa a disposizione di personale medico e paramedico, nonché la fornitura dei medicinali e delle attrezzature necessarie, per consentire la cura del malato.

La diagnosi errata o inadeguata integra di per sé un inadempimento della prestazione sanitaria, specialmente in presenza di fattori di rischio, legati alla gravità della patologia e alle precarie condizioni di salute della paziente, (cfr. Cass. 4013-2004, che configura come voce autonoma di danno la perdita di chance, consistente nella perduta possibilità, per il paziente, di conseguire un risultato positivo, a seguito della somministrazione di una terapia adeguata). Accanto alla responsabilità della struttura sanitaria, andrà configurata la responsabilità del Medico, che in concreto ha somministrato la terapia al paziente, il quale risponde,in conseguenza del “contatto sociale”, che si è instaurato con ilmalato, assumendo una responsabilità, che permane in ambito contrattuale (Cass. 589-1999), ma in cui possono innestarsi profili extracontrattuali.

NOTE

1 Con tale termine si individuano le forme di depressione che presentano una predominanza di sintomi somatici piuttosto che dei sintomi tipici delladepressione categorizzati secondo il DSM IV-TR. Cfr. “La depressione mascherata” del Dr. FRANCO SAVERIO RUGGERO in www.medicitalia.it

2 Cfr. L. MINIO “Il punto di vista integrazionale in psicoterapia”, in www.luigiminio.it

3 Cfr. POMPILI, “Le mie lunghe e splendide giornate a studiare il suicidio”, in www.psychomedia.it

4 POMPILI, op.ul cit. Questo acuto saggio va letto integralmente.

5 Cfr. SHELDON KOPP “Se incontri il Buddha per la strada, uccidilo”, Astrolabio, Roma , 1975 passim

6 Dal sito www.medicitalia.it “Il disturbo bipolare è una patologia caratterizzatadalla presenza di stati dell’umore fortemente contrapposti tra loro che sialternano, anche in breve tempo e lasciano spazi ad altri periodi, più o menolunghi, di equilibrio.

Sono diverse le fasi che un malato di disturbo bipolare può attraversare. Quella che è costante in tutte le forme di disturbo bipolare è la fase depressiva. Il soggetto depresso si presenta il più delle volte giù di morale, poco attento e concentrato, spesso convinto di essere la causa del proprio ed altrui male, privo di forze e di iniziativa, incapace di provare piacere e gioia anche per avvenimenti positivi o per attività abitualmente piacevoli”.(…) “Alla fase depressiva in cui tutto sembra grigio e cupo può alternarsi la cosiddetta fase maniacale dove il paziente è in preda ad una euforia difficilmente contenibile, è convito di poter fare tutto, di risolvere da solo ed in breve tempo anche compiti complessi e per i quali è richiesta maggiore calma e preparazione, di poter compiere azioni pericolose senza l’ausilio della prudenza”.

7 Cfr. JOHN P CONGER, Jung e Reich, Il corpo come ombra“, inwww.gianfrancobertagni.it, , materiali psiche da cui si cita “Letteralmenteparlando, l’Ombra è la parte repressa dell’Ego e rappresenta quello che nonsiamo capaci di riconoscere di noi stessi. Il corpo che si nasconde sotto gli abiti spesso esprime in modo manifesto quello che neghiamo a livello conscio.Nell’immagine che noi diamo agli altri, spesso non vogliamo mostrare la nostra rabbia, l’ansia, la tristezza, le costrizioni, le depressioni o i nostri bisogni. Fin dal 1912 Jung scriveva: “Bisogna ammettere che il rilievo dato dal Cristianesimo alla spiritualità porta inevitabilmente a una intollerabile svalutazione dell’aspetto fisico dell’uomo, producendo così una sorta di caricatura ottimistica della naturaumana” . cfr. altresì GULLOTTA “Ombra”, in www.treccani.it

8 Cfr. G. FIANDACA, E. MUSCO, “Diritto penale. Parte generale”, Bologna, 1995; A. PAGLIARO, “Principi di diritto penale. Parte generale”, 1980, pag. 354; F. MANTOVANI, “Diritto penale”, 1979, pag. 176)

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