Nota a Corte di Cassazione, sez. III, sentenza  (ud. 08/07/2021) 31/08/2021, n.32389

Corrado Spriveri[1]

Estratto:   “Il  delitto  di  indebita compensazione  sussiste anche qualora l’indebito risparmio di imposta, che la norma incriminatrice tende a colpire, non sia limitato al mancato versamento delle imposte dirette o dell’Iva, ma coinvolge necessariamente anche le somme dovute a titolo previdenziale e assistenziale, il cui mancato pagamento, attraverso lo strumento della compensazione effettuata utilizzando crediti inesistenti o non spettanti, determina per il contribuente infedele un analogo risparmio di imposta”.

La Suprema Corte con la sentenza che qui si annota[2] ha ritenuto inammissibile il ricorso proposto dall’imputato affermando, in buona sostanza,  che la fattispecie delittuosa di “Indebita compensazione”, ex art.10-quater decreto legislativo n.74 del 2000[3], sussiste anche qualora l’indebito risparmio di imposta non sia limitato al mancato versamento delle imposte dirette o dell’IVA, ma coinvolge anche le somme dovute a titolo previdenziale e assistenziale, il cui mancato pagamento, attraverso lo strumento della compensazione effettuata utilizzando crediti inesistenti o non spettanti, determina per il contribuente infedele un analogo risparmio di imposta.

La fattispecie delittuosa di “Indebita compensazione”, viene collocata dal legislatore nel novero dei “Delitti in materia di pagamento delle imposte”, poiché la condotta di chi omette il versamento di somme dovute, avvalendosi dell’istituto della compensazione, si traduce esclusivamente in un omesso versamento, non presupponendo alcuna violazione riferita ai contenuti della dichiarazione[4].

Sotto il profilo sanzionatorio la condotta incriminata si realizza attraverso l’omesso versamento di somme dovute avvalendosi dell’istituto della compensazione, in modo scorretto, per un importo superiore a euro cinquantamila – soglia di punibilità –  per ciascun periodo d’imposta; precisamente opponendo in compensazione crediti “inesistenti” ovvero “non spettanti”.

Tale condotta si perfeziona al momento della presentazione del modello di versamento cd. “F24” il quale rileva, tra l’altro, anche ai fini dell’individuazione del giudice competente per territorio, ex art.18 decreto legislativo n.74/2000.

Secondo l’orientamento di una parte della dottrina[5], si tratta di un reato dove può essere assolutamente carente l’intenzione della frode fiscale e, con riferimento al quale, la soglia di punibilità fissata dal legislatore in cinquantamila euro per anno d’imposta (e non modificata con la legge 19 dicembre 2019, n.157) appare francamente troppo bassa.

Come ben precisato dalla Circolare dell’Agenzia delle Entrate n.28/E del 4 agosto 2006, nel caso in cui nel corso di uno stesso periodo d’imposta siano state effettuate compensazioni con crediti “non spettanti” o “inesistenti”, per importi inferiori alla soglia di punibilità, il delitto si perfeziona alla data in cui si procede nel medesimo periodo d’imposta alla compensazione di un ulteriore importo di crediti “non spettanti” o “inesistenti” che, sommato agli importi già utilizzati in compensazione, sia superiore a cinquantamila euro.

L’elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice è il “dolo generico” che si realizza attraverso l’omesso versamento di somme dovute a motivo dell’utilizzazione in compensazione di crediti “non spettanti” o “inesistenti”.

Nel caso di specie, la giurisprudenza di legittimità[6], superando una isolata pronuncia[7], ha, con orientamento oramai consolidato, sancito che “il reato di indebita compensazione di cui al D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10-quater  riguarda  l’omesso versamento di somme di denaro attinente a debiti, sia tributari, sia di altra natura, per il cui pagamento debba essere utilizzato il modello di versamento unitario”.

In buona sostanza, con la sentenza che qui si commenta si è chiarito che in considerazione dell’ampliamento delle ipotesi di compensazione in ambito tributario previste dall’art.17 del decreto legislativo  n.241 del 1997 – a norma del quale i contribuenti che devono eseguire versamenti unificati di imposte, di contributi previdenziali e assistenziali, di premi INAIL e di altre somme a favore dello Stato, delle Regioni, delle Province, dei Comuni e di altri enti possono utilizzare in compensazione i crediti risultanti dalle dichiarazioni fiscali o dalle denunce periodiche contributive –, il reato di indebita compensazione possa configurarsi sia in caso di compensazione “verticale”, riguardante crediti e debiti afferenti alla medesima imposta, sia in caso di compensazione “orizzontale”, concernente crediti e debiti di imposta di natura diversa, in quanto può avere ad oggetto tutte le somme dovute che possono essere inserite nell’apposito modello di versamento F24, incluse quelle relative ai contributi previdenziali e assistenziali[8].

Invero, la Suprema Corte con la pronuncia in commento ravvisa la ratio della disposizione in esame, nella necessità di punire tutti quei comportamenti che si concretizzano, in realtà, nell’omesso versamento del dovuto e nel conseguimento di un indebito risparmio di imposta mediante l’indebito ricorso al meccanismo della compensazione tributaria, ossia attraverso la materiale redazione di un documento ideologicamente falso idoneo a prospettare una compensazione che non avrebbe potuto avere luogo, o per la non spettanza o per l’inesistenza del credito.

Da qui l’irrilevanza della natura dei debiti compensati dall’imputato che possono, ai fini della rilevanza penale,  essere anche di natura previdenziale oltre che di natura tributaria.

IL CASO:

Con sentenza del 15 ottobre 2020, la Corte d’appello di Campobasso in parziale riforma della sentenza

del Tribunale di Larino, in accoglimento dell’appello del Procuratore generale, ha disposto l’applicazione delle pene accessorie di cui al D.lgs. 10 marzo 2000, n.74, art.12, ed ha confermato la sentenza del Tribunale di Larino di condanna dell’imputato, alla pena di anni uno e mesi tre di reclusione, in relazione ai reati di cui al D.lgs. 10 marzo 2000, n.74, art.10 quater (capi a) e b) per avere, quale legale rappresentante della Marina S.r.l. omesso di versare somme dovute utilizzando in compensazione, ai sensi del D.lgs. n.241 del 1997, art.17, crediti inesistenti per un ammontare complessivo pari a Euro 131.238,00 per l’anno 2011 e Euro 129.068,00 per l’anno 2012 e di cui al D.lgs. 10 marzo 2000, n.74, art.10 (capo d) per avere occultato le scritture contabili e i documenti di cui è obbligatoria la conservazione in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi, al fine di evadere le imposte, accertato il 21/01/2014.

Avverso la sentenza di condanna ha presentato ricorso l’imputato, a mezzo del difensore di fiducia, e ne ha chiesto l’annullamento deducendo i seguenti motivi di ricorso:

  • violazione di cui all’art.606 c.p.p., comma 1, lett. b) in relazione all’erronea applicazione della legge penale segnatamente il D.lgs. 10 marzo 2000, n.74, art.10 quater.  

La corte territoriale avrebbe ritenuto sussistente il reato contestato sull’unico presupposto della ricorrenza di alcune fatture di importi notevoli che avrebbero generato operazioni in contestazione, fatture che in sede di verifica fiscale non venivano adeguatamente dimostrate con altra documentazione contabile.

Tale conclusione si porrebbe in contrasto con le pronunce della corte di legittimità laddove ha espresso il principio secondo cui l’indebita compensazione deve risultare dal mod. F24 di cui nel caso in esame non vi è prova che fosse stato effettivamente compilato e presentato e ciò in quanto è la compensazione che esprima la componente decettiva o di frode insista nella fattispecie in questione.

  • violazione di cui all’art.606 c.p.p., comma 1, lett. e) in relazione alla contraddittorietà della motivazione della corte territoriale rispetto a quella del Tribunale che aveva ritenuto che i crediti portati in compensazione erano crediti Iva, mentre la corte territoriale ha ritenuto che la compensazione riguardasse debiti previdenziali e assicurativi.
  • violazione di cui all’art.606 c.p.p., comma 1, lett. b) in relazione all’erronea applicazione della legge penale segnatamente il D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10.

La corte territoriale avrebbe reso una motivazione insufficiente limitandosi a ribadire la responsabilità penale dell’imputato limitandosi a rilevare il mancato reperimento nella sede legale della documentazione contabile, senza provare che la documentazione contabile, di cui si assume l’occultamento o la distruzione, sia stata istituita.

  • violazione di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) in relazione alla violazione del canone della condanna al di là del ragionevole dubbio.

MOTIVI DELLA DECISIONE:

Il ricorso è inammissibile per la proposizione di censure generiche e comunque meramente ripetitive di

quelle già devolute al giudice dell’impugnazione e da quel giudice disattese con motivazione congrua, il che costituisce causa di inammissibilità.

Deve, in primo luogo, rammentarsi il principio secondo il quale quando le sentenze di primo e secondo grado concordano nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complessivo corpo argomentativo, sicché è possibile, sulla base della motivazione della sentenza di primo grado colmare eventuali lacune della sentenza di appello (Sez.4, n.15227 del 14/02/2008, Rv. 239735).

Il ricorso non si confronta con la sentenza impugnata che, sulla scorta della deposizione testimoniale del dipendente dell’Agenzie delle Entrare di Termoli, che aveva effettuato gli accertamenti nei confronti dell’imputato compendiati nel verbale di constatazione in data 20/02/2014, verbale acquisito su accordo delle parti dopo l’assunzione della testimonianza del collega accertatore I., ha ritenuto dimostrato che l’imputato, legale rappresentate della Marina S.r.l., aveva utilizzato in compensazione a debiti derivanti da fatture e debiti Irap della società, crediti Iva superiori a Euro 7.500,00 negli anni di imposta 2011 e 2012, limitandosi a produrre solo alcune fatture di acquisto e di vendita e omettendo di esibire i registri Iva e tutta la restante documentazione prevista dalla legge ai sensi del d.P.R. n.600 del 1973, art.14 e riteneva dimostrata l’inesistenza di siffatti crediti sul rilievo dell’inesistenza della documentazione contabile non prodotta e sul fatto che all’indirizzo indicato come sede sociale della società emittente vi era una stalla e la società risultava in liquidazione.

Ora il ricorrente ripropone la censura già devoluta mettendo in dubbio la stessa esistenza del mod. F24, censura che non coglie nel segno dal momento che il controllo dell’Agenzia delle Entrate era stato proprio, e necessariamente, effettuato su tale modello nel quale era stata rilevata la compensazione di debiti con crediti Iva inesistenti, né il ricorrente deduce il travisamento della prova. Da cui la manifesta infondatezza del motivo.

Anche il secondo motivo è inammissibile. La giurisprudenza di legittimità, superando una isolata pronuncia (n.380342/2019), ha, con orientamento oramai consolidato, affermato che il reato di indebita compensazione di cui al D.lgs. 10 marzo 2000, n.74, art.10-quater riguarda l’omesso versamento di somme di denaro attinente a debiti, sia tributari, sia di altra natura, per il cui pagamento debba essere utilizzato il modello di versamento unitario (Sez. 3, n.389 del 18/09/2020) Rv. 280776 – 01).

Si è chiarito che in considerazione dell’ampliamento delle ipotesi di compensazione in ambito tributario previste dal D.lgs. n.241 del 1997, art.17 – a norma del quale i contribuenti che devono eseguire versamenti unificati di imposte, di contributi previdenziali e assistenziali, di premi INAIL e di altre somme a favore dello Stato, delle Regioni, delle Province, dei Comuni e di altri enti possono utilizzare in compensazione i crediti risultanti dalle dichiarazioni fiscali o dalle denunce periodiche contributive – l’orientamento prevalente di questa Corte, richiamato come tale anche nella sentenza n.35 del 2018 della Corte costituzionale, ha ritenuto che il reato di indebita compensazione possa configurarsi sia in caso di compensazione “verticale”, riguardante crediti e debiti afferenti alla medesima imposta, sia in caso di compensazione “orizzontale”, concernente crediti e debiti di imposta di natura diversa, in quanto può avere ad oggetto tutte le somme dovute che possono essere inserite nell’apposito modello F24, incluse quelle relative ai contributi previdenziali e assistenziali.

Tale giurisprudenza ravvisa la ratio della disposizione in esame nella necessità di punire tutti quei comportamenti che si concretizzano in realtà nell’omesso versamento del dovuto e nel conseguimento di un indebito risparmio di imposta mediante l’indebito ricorso al meccanismo della compensazione tributaria, ossia attraverso la materiale redazione di un documento ideologicamente falso idoneo a prospettare una compensazione che non avrebbe potuto avere luogo, o per la non spettanza o per l’inesistenza del credito.

Ed è evidente che, in questa prospettiva, l’indebito risparmio di imposta che la norma incriminatrice tende a colpire non può essere limitato al mancato versamento delle imposte dirette o dell’Iva, ma coinvolge necessariamente anche le somme dovute a titolo previdenziale e assistenziale, il cui mancato pagamento, attraverso lo strumento della compensazione effettuata utilizzando crediti inesistenti o non spettanti, determina per il contribuente infedele un analogo risparmio di imposta (ex plurimis, Sez. 3 n. 13149 del 03/03/2020, Rv. 279118; Sez.3, n. 5934 del 12/09/2018, Rv. 275833; Sez.3, n. 8689 del 30/10/2018, Rv. 275015; 4/02/2015, n. 5177; Sez.3, n. 15236 del 16/01/2015).

Da qui l’irrilevanza della natura dei debiti compensati che possono essere anche di natura previdenziale

oltre che di natura tributaria e della diversa indicazione contenuta nella sentenza impugnata sulla natura dei crediti rispetto alla sentenza di primo grado (pag. 3), essendo tutti debiti compensati con crediti inesistenti.

Infine, di carattere generico è il terzo motivo di ricorso non confrontandosi con la decisione impugnata nella parte in cui ha dato atto che era predisposta una qualche documentazione contabile, circostanza, peraltro, confermata dalla sentenza di primo grado dal momento che erano state prodotte dall’imputato alcune fatture di acquisito e di vendita (pag. 3). La censura che genericamente si appunta sulla mancata

motivazione sul presupposto dell’istituzione della documentazione contabile, di cui si assume l’occultamento o la distruzione, è inammissibile.

È noto che la condotta del reato de quo non può sostanziarsi in un mero comportamento omissivo, ossia il non avere tenuto le scritture in modo tale che sia stato obbiettivamente più difficoltosa – ancorché non impossibile – la ricostruzione ex aliunde ai fini fiscali della situazione contabile, ma richiede, per l’integrazione della fattispecie penale, un quid pluris a contenuto commissivo consistente nell’occultamento ovvero nella distruzione di tali scritture.

Nel caso in esame, contrariamente a quanto assume il ricorrente, la Corte territoriale è pervenuta all’affermazione della responsabilità penale in ordine al delitto di cui all’art.10 cit. con motivazione logica, aderente al dato probatorio e giuridicamente corretta alla luce dell’interpretazione della norma incriminatrice di cui sopra.

La sentenza impugnata dà rilievo all’accertata circostanza dell’esistenza di fatture attive e passive e della mancata produzione in sede di accertamento, da cui l’affermazione della responsabilità penale al di là del ragionevole dubbia come genericamente sostenuto nell’ultimo motivo di ricorso che è, anch’esso, inammissibile per genericità.

Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali ai sensi dell’art.616 c.p.p.

Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n.186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

In definitiva, con la sentenza che qui si annota la Suprema Corte con motivazione logica aderente al dato probatorio e alla luce dell’interpretazione della norma incriminatrice, come meglio ut supra  descritta, ha statuito, in buna sostanza, che  “Il  delitto  di  indebita compensazione  sussiste anche qualora l’indebito risparmio di imposta, che la norma incriminatrice tende a colpire, non sia limitato al mancato versamento delle imposte dirette o dell’Iva, ma coinvolge necessariamente anche le somme dovute a titolo previdenziale e assistenziale, il cui mancato pagamento, attraverso lo strumento della compensazione effettuata utilizzando crediti inesistenti o non spettanti, determina per il contribuente infedele un analogo risparmio di imposta”.


[1] Avvocato.

Per un approfondimento sulla disciplina del diritto penale tributario: Corrado Spriveri, “Il sistema penale tributario in Italia. Dalla teoria alla prassi applicativa, alla luce delle novità  introdotte dal c.d. Decreto Fiscale (d.l. n. 124/2019 convertito con modificazioni dalla legge n. 157/2019)”, Bari, Cacucci, 2020.

[2] Corte di Cassazione, sez. III, sentenza  31/08/2021, n. 32389.

[3] L’art.10-quater del decreto legislativo n. 74/2000, rubricato: “Indebita compensazione”, prevede che “1. È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti non spettanti, per un importo annuo superiore a cinquantamila euro. 2. È punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti inesistenti per un importo annuo superiore ai cinquantamila euro”. Testo normativo con le modifiche introdotte dal decreto legislativo n. 158/2015, in vigore dal 22 ottobre 2015.

[4] N. Pollari F. Loria, “Elementi di diritto repressivo tributario”, pag..54.

[5] R. Fanelli, “Sanzioni fiscali, previdenziali e societarie”, pag..814.

[6] Corte di Cassazione, sez. III, sentenza 18/09/2020, n.389.

[7]  Corte di Cassazione, sentenza  n. 380342/2019.

[8] Si veda in proposito: Corte Costituzionale,  sentenza n.35 del 2018.

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