Nota a Cassazione civile sez. trib., 02/10/2020, (ud. 27/02/2020, dep. 02/10/2020), n.21121

Corrado Spriveri[1]

Estratto:  Nel contenzioso tributario, non può essere attribuita alcuna autorità di cosa giudicata alla sentenza penale irrevocabile emessa in materia di reati fiscali, anche se i fatti esaminati  siano i medesimi, visto che nel processo tributario valgono i limiti in materia di prova stabiliti dal comma 4 dell’art.7, decreto legislativo  n.546/1992, i quali consentono l’ingresso anche alle presunzioni semplici,  le quali non sono idonee da sole a supportare una pronuncia penale di condanna. Di conseguenza, il contribuente assolto in sede penale per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste può comunque essere ritenuto responsabile ai fini fiscali quando l’atto impositivo si fondi su indizi validi, i quali sarebbero insufficienti ai fini di un giudizio di responsabilità penale ma idonei ai fini di quello tributario

La sentenza penale irrevocabile non ha alcuna efficacia di giudicato nel giudizio tributario riguardante gli stessi fatti. Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n.21121/2020.

Con la pronuncia in commento il Supremo Collegio accogliendo il ricorso dell’Agenzia delle Entrate ha sancito, in buona sostanza, che la sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa con la formula assolutoria piena “perché il fatto non sussiste”,  non spiega automaticamente efficacia di giudicato nel processo tributario, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente, ma può essere presa in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario il quale, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione, deve verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui detta decisione è destinata ad operare[2].

Invero, l’art.20 del decreto legislativo n.74 del 2000 stabilisce che “Il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione”.

Il legislatore conferma, quindi, la completa autonomia fra il procedimento tributario, il processo tributario e il processo penale[3]. Nulla dispone, invece, a proposito dell’eventuale efficacia del giudicato penale nel processo tributario.

La scelta espressa dal legislatore del 2000 sul problema delle relazioni tra il processo penale e l’accertamento giurisdizionale tributario si sintetizza in un concetto elementare “escludere ogni possibile pregiudizialità[4].

L’evoluzione storica delle relazioni, complicate, tra procedimento amministrativo di accertamento delle imposte e processo penale per i reati tributari è stata segnata, per lungo tempo, dalla vigenza della regola della c.d. “pregiudiziale tributaria[5].

Il legislatore del “29” attraverso questo sistema aveva scelto di subordinare il procedimento penale alla definitività del contenuto dell’avviso di accertamento e, quindi, al giudicato formatosi nell’ambito del processo tributario[6].

L’abbandono definitivo della pregiudiziale tributaria fu segnato dalla legge 7 agosto 1982, n.516 con l’introduzione del principio secondo il quale il processo penale poteva avere inizio senza attendere il definitivo esito dell’accertamento dell’imposta evasa, cd.  principio del “doppio binario”.

Invero, l’art.12, primo comma della legge n.516 del 1982 aveva capovolto l’ordine fissato dalla pregiudiziale tributaria affermando, in primis, che nessuno dei due procedimenti dovesse attendere gli esiti dell’altro, potendo evolvere ciascuno per proprio conto, ma sancendo poi che la sentenza irrevocabile di condanna o di proscioglimento dovesse avere “autorità di cosa giudicata nel processo tributario per quanto concerne i fatti materiali oggetto del giudizio penale”.

La rilevanza del giudicato penale era, dunque, circoscritta ai soli fatti storici ed oggettivi dal medesimo accertati. Si doveva trattare, inoltre, di fatti materiali che potevano essere direttamente produttivi di effetti tributari ovvero, in altre parole, essi dovevano risultare idonei a costituire, modificare o estinguere un rapporto giuridico di natura tributaria[7].

Va opportunamente precisato in merito al citato art.12 della legge n. 516/1982 che la giurisprudenza di legittimità ne aveva già affermato la tacita abrogazione ad opera dell’art.654 del codice di procedura penale, prevedendo quest’ultima disposizione che “la sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione abbia efficacia di giudicato nei giudizi civili o amministrativi, solo a condizione che la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa”[8].

Invero, si ritenne che l’abrogazione non fosse limitata o impedita per il fatto che l’art.12 costituiva norma “speciale” giacché l’art.654 del codice di rito deve osservarsi anche nei procedimenti relativi ai reati previsti da leggi speciali, ex art.207 disp. att. c.p.p.[9].

Inoltre, sempre secondo il medesimo orientamento giurisprudenziale ciò avrebbe prodotto la naturale conseguenza, in ultima analisi, di “sopprimere definitivamente qualsiasi effetto vincolante del giudizio penale nel giudizio delle Commissioni tributarie, in ragione delle limitazioni del regime probatorio vigenti in quest’ultimo”.

Negli stessi termini si è espressa, sotto la vigenza del nuovo articolato, autorevole dottrina[10] che ha inteso evidenziare come la novella legislativa di cui al decreto legislativo n.74/2000 rafforzi <<”il meccanismo del doppio binario” sancendo la piena autonomia del giudizio tributario rispetto a quello penale: l’art. 20 rubricato “Rapporti tra procedimento penale e processo tributario” non solo esclude la possibilità di sospendere il procedimento amministrativo di accertamento e il processo tributario “per la pendenza del processo penale avente ad oggetto i medesimi fatti o atti dal cui accertamento comunque dipenda la relativa definizione” ma, inoltre, non attribuisce alcuna automatica efficacia esterna al giudicato penale >>[11].

Nel caso di specie, la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza in commento[12],  tenuto conto dei principi desumibili dal decreto legislativo 31 dicembre 1992, n.546, art.7, dall’art.654 c.p.p., nonché dal decreto legislativo n.74 del 2000, art.20, ed evidenziando proprio le diverse regole probatorie poste a governo del materiale istruttorio nel processo penale e in quello tributario, ha sancito come in materia di contenzioso tributario, nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorché i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l’accertamento degli Uffici finanziari, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in materia di prova posti dal decreto legislativo n.546 del 1992, art. 7, comma 4, consentendo invece, l’ingresso anche alle presunzioni semplici, di per sé inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna.

Ne consegue che l’imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, “per non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non sussiste”, può essere ritenuto responsabile fiscalmente qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario[13].

IL CASO:

L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso avverso la sentenza n.339/32/12, depositata il 30.11.2012 dalla Commissione tributaria regionale della Campania, che, confermando la sentenza del giudice di primo grado, aveva rigettato l’appello dell’Ufficio avverso l’annullamento dell’avviso di accertamento notificato a G.P., con il quale era stato rideterminato il suo reddito di partecipazione nella società Panar Computers s.r.l., quale socio di fatto.

Ha riferito che a seguito di verifiche condotte nei confronti della suddetta società da militari della Guardia di Finanza relativamente all’anno d’imposta 2001, ne era emersa la funzione di mera cartiera, con emissione e utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti.

Con l’atto impositivo era stato pertanto accertato un maggior reddito d’impresa ai fini Irpeg ed Irap ed un maggior volume d’affari ai fini Iva. Conseguentemente l’Amministrazione finanziaria aveva contestato il maggior reddito di partecipazione ai soci, tra i quali aveva identificato anche il G. quale socio di fatto.

Il contribuente aveva impugnato l’avviso di accertamento, negando il ruolo di socio di fatto ed eccependo preliminarmente la carenza di legittimazione passiva.

Con la sentenza n.750/05/2010 la Commissione tributaria provinciale aveva accolto il ricorso del G., fondando il proprio convincimento sulla sentenza penale di proscioglimento del ricorrente dai reati fiscali, per mancanza di prova della sua partecipazione di fatto alla società.

L’Agenzia aveva appellato la decisione dinanzi alla Commissione tributaria regionale della Campania, che con la sentenza ora al vaglio della Corte aveva confermato le statuizioni di primo grado, invocando la pregiudiziale penale.

L’Ufficio censura la sentenza dolendosi della violazione del D.lgs. 10 marzo 2000, n.74, art.20, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perché erroneamente il giudice d’appello avrebbe fondato la sua decisione sulla sentenza penale che aveva escluso la prova del coinvolgimento del G. nella compagine sociale. Ha pertanto chiesto la cassazione della sentenza. Il G., cui risulta tempestivamente notificato il ricorso, non ha inteso costituirsi.

MOTIVI DELLA DECISIONE:

Con l’unico motivo l’Agenzia delle entrate critica la decisione per essere erroneamente fondata sugli esiti assolutori del giudizio penale. Al contrario, sostiene, quand’anche prosciolto in sede penale per ritenuta carenza di prova della partecipazione occulta alla società, il giudice tributario avrebbe dovuto decidere sul maggior debito fiscale del G., valutando autonomamente le prove, per le diverse regole probatorie che in materia investono i due distinti settori del diritto. Il motivo è fondato.

La sentenza, dopo aver riportato uno stralcio della motivazione della decisione di primo grado e aver avvertito che l’Ufficio critica l’appiattimento del giudice di primo grado sulla statuizione del giudice penale senza valutare tutti gli indizi emergenti dal processo verbale di constatazione, ha affermato che: “se è indubbio che la pregiudiziale penale vale solo per l’accertamento del fatto ma non se sia dovuto o no il tributo va rilevato che nella specie il “fatto” va individuato proprio nella partecipazione o no, in qualità di socio di fatto, del G.P. alla Pamar srl. Una volta esclusa con la sentenza penale la sua partecipazione alla srl Pamar Computers ne deriva quale logica conseguenza l’esclusione di ogni sua responsabilità in sede tributaria”.

Il ragionamento è viziato. Questa Corte, già con espresso riferimento al “fatto”, ha affermato che la sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa con la formula “perché il fatto non sussiste”, non spiega automaticamente efficacia di giudicato nel processo tributario, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente, ma può essere presa in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione, deve verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui detta decisione è destinata ad operare (Cass. n. 5820/2007; n. 10578/2015; 17258/2019).

D’altronde, in un’ipotesi in cui il giudice di merito aveva ricondotto la sua decisione solo genericamente ad una sentenza di assoluzione penale, senza richiamarne il contenuto, né specificarne la rilevanza ai fini dell’accertamento tributario, la Corte ha affermato che la motivazione di una sentenza può essere redatta per relationem rispetto a quella di un’altra decisione, anche se non passata in giudicato, purché riproduca i contenuti mutuati e li renda oggetto di un’autonoma valutazione critica, così consentendo la verifica della compatibilità logico – giuridica del rinvio (Cass., n. 5209/2018).

Ma più in generale, tenendo conto dei principi desumibili dal D.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, dall’art. 654 c.p.p., nonché dal D.lgs. n. 74 del 2000, art.20, ed evidenziando proprio le diverse regole probatorie poste a governo del materiale istruttorio nel processo penale e in quello tributario, questa Corte ha avvertito come in materia di contenzioso tributario, nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorché i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l’accertamento degli Uffici finanziari, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in materia di prova posti dal D.lgs. n. 546 del 1992, art.7, comma 4, consentendo invece l’ingresso anche alle presunzioni semplici, di per sé inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna. Ne consegue che l’imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste, può essere ritenuto responsabile fiscalmente qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario (cfr. Cass., nn. 8129/2012; 16262/2017; 28174/2017).

I principi di diritto riportati, costituiscono un orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità, cui questo Collegio intende dare continuità.

Ne consegue che nel caso di specie, riguardante l’accertamento della sussistenza o meno della relazione soggettiva tra la società cartiera ed il G., quale socio di fatto, il giudice regionale ha erroneamente applicato le norme di diritto, non adeguandosi all’interpretazione ormai consolidata di questa Corte.

La sentenza va pertanto cassata e il giudizio va rinviato alla Commissione tributaria regionale della Campania, che in diversa composizione, oltre che sulle spese, deciderà la controversia tenendo conto dei principi di diritto somministrati.

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Campania in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

In definitiva, con la sentenza n.21121/2020 la Suprema Corte ha sancito, in buona sostanza, che <<Nel contenzioso tributario, non può essere attribuita alcuna autorità di cosa giudicata alla sentenza penale irrevocabile emessa in materia di reati fiscali, anche se i fatti esaminati siano i medesimi, visto che nel processo tributario valgono i limiti in materia di prova stabiliti dal comma 4 dell’art. 7, d.lgs. n.546/1992, i quali consentono l’ingresso anche alle presunzioni semplici, le quali non sono idonee da sole a supportare una pronuncia penale di condanna. Di conseguenza, il contribuente assolto in sede penale per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste può comunque essere ritenuto responsabile ai fini fiscali quando l’atto impositivo si fondi su indizi validi, i quali sarebbero insufficienti ai fini di un giudizio di responsabilità penale ma idonei ai fini di quello tributarie>>.


[1] Avvocato.

Per un approfondimento sulla disciplina del diritto penale tributario: Corrado Spriveri, “Il sistema penale tributario in Italia. Dalla teoria alla prassi applicativa, alla luce delle novità  introdotte dal c.d. Decreto Fiscale (d.l. n. 124/2019 convertito con modificazioni dalla legge n. 157/2019)”, Bari, Cacucci, 2020.

[2] Corte di Cassazione, sentenza n.5820/2007; Corte di Cassazione, sentenza n.10578/2015; Corte di Cassazione, sentenza n.17258/2019.

[3] A dire il vero, l’affermazione di tale regola risulta in maniera diretta dall’art.20, soltanto con riferimento al procedimento di accertamento e al processo tributario; per il processo penale il divieto di sospensione discende dalla disciplina generale degli artt.3 e 479 del codice di procedura penale che, rispettivamente, individuano i casi in cui il giudice penale può sospendere il procedimento di propria competenza. Si veda in proposito G. Corso, “Compendio di procedura penale”,  III ediz. Padova, Cedam 2006.

[4] Sono le considerazioni espresse dall’autore: A. Martini, “Trattato di Diritto Penale – Parte Speciale – Reati in Materia di Finanze e Tributi”, pag. 238. Sulle implicazioni processuali della riforma penal-tributaria del 2000, si veda G. Casartelli, “Reati tributari. Questioni Processuali”, Milano Giuffrè 2007.

[5] La pregiudiziale tributaria era prevista dall’art.21, comma 4 delle legge 7 gennaio 1929, n.4, il quale stabiliva che “Per i reati previsti dalla legge sui tributi diretti l’azione penale ha corso dopo che l’accertamento dell’imposta e della relativa sovraimposta è divenuto definitivo a norma delle leggi regolanti tale materia”, derogando a quanto stabilito dal successivo art.22, comma 1, per cui qualora l’esistenza del reato dipendesse dalla risoluzione di una controversia tributaria, il giudice competente a conoscere del reato decideva anche la controversia concernente il tributo. Il principio della pregiudiziale sarà, poi, sostanzialmente recepito dall’art. 56, comma 3, del D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 (in tema di imposte dirette) e dall’art.58, comma 5, del D.P.R. n. 633/1972 (in materia d’imposta sul valore aggiunto).

[6] In altri termini, il pubblico ministero poteva esercitare l’azione penale solo dopo la conclusione del procedimento amministrativo di accertamento e dell’eventuale processo tributario ed alle risultanze di quest’ultimo doveva attenersi il giudice penale nel decidere.

[7] N. Pollari –  F. Loria, “Elementi di diritto repressivo tributario”,  pag.156.

[8] Corte di Cassazione, pen, sez. III, sentenza del 20 ottobre 1994, n.10792.

[9] Corte di Cassazione, civ, sez. I, sentenza del 10 giugno 1998, n.5730.

[10] M. Adda, “Gli effetti del giudicato penale in relazione all’istruttoria processuale tributaria” in il fisco n.44/2005, pag. 6913.

[11] C.  Spriveri, “Il sistema penale tributario in Italia. Dalla teoria alla prassi applicativa, alla luce delle novità  introdotte dal c.d. Decreto Fiscale (d.l. n. 124/2019 convertito con modificazioni dalla legge n.157/2019)”, Bari, Cacucci, 2020, pagg. 167-170.

[12] Corte di Cassazione, civ., sez. trib.,  sentenza  del 02/10/2020, n.21121.

[13] In tal senso anche: Corte di Cassazione, sentenza n.8129/2012; Corte di Cassazione, sentenza n.16262/2017;  Corte di Cassazione,  sentenza n.28174/2017.

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