ANNULLAMENTO IN SEDE GIURISDIZIONALE DELL’AGGIUDICAZIONE E SORTE DEL CONTRATTO.

TUTELA IN FORMA SPECIFICA E PER EQUIVALENTE DEL RICORRENTE.

 

di Federica Federici

 

Per contratti ad evidenza pubblica si intendono quei negozi giuridici bilaterali medianti i quali lo Stato si procura i beni e i servizi di cui abbisogna, quando non ricorre iure imperio all’imposizione di prestazioni obbligatorie. Utilizzando lo strumento contrattuale lo Stato si spoglia della veste di autorità pubblica ed opera in condizioni di piena parità con l’altro soggetto, ma essendo tenuta a curare l’interesse pubblico, questa commistione tra disciplina privatistica e disciplina pubblicistica pone dei problemi di non semplice soluzione circa i rapporti tra pubblico e privato nei contratti delle amministrazioni pubbliche, stante da un lato la neutralità di tali contratti rispetto all’interesse reciproco di volta in volta perseguito dalle parti e da esse liberamente determinato, e dall’altro il loro assoggettamento ad un regime che non consente una verifica puntuale e concreta in tal senso. Il bando di gara, atto con cui la PA esterna la sua volontà – contenuta nella deliberazione a contrarre  di addivenire ad un contratto – costituisce legge del procedimento (lex specialis) e ad esso devono attenersi non solo i partecipanti al concorso, ma anche la stessa amministrazione procedente, e come tale non è derogabile neppure se alcune delle sue regole risultassero non più conformi allo ius superveniens, con il solo ovvio limite del ricorso ai poteri di autotutela.  Seppure riconducibile allo schema dell’offerta al pubblico avente valore di proposta contrattuale ex art. 1336 cod. civ., esso è qualificato pacificamente come atto amministrativo e una volta avvenuta l’aggiudicazione e quindi l’accettazione della proposta contrattuale, esso diventa contratto ex art. 1326 cod. civ. e quindi impugnabile (sotto forma di facoltà-onere per il privato, autotutela per la PA) da chiunque vi abbia interesse rispetto a specifiche clausole o alla sua interezza.

Va tuttavia sottolineato come l’interesse pubblico incida sulla causa del contratto, che non è più interna ad esso o con esso coincidente, ma è il contratto stesso a servire tale causa, essendo l’uno e l’altra legati da un vincolo di strumentalità, formalizzato da un iter contrattuale piuttosto complesso ma in cui si possono distinguere fondamentalmente due fasi: la fase procedimentale, che abbraccia la deliberazione di addivenire al contratto, la scelta del sistema da seguire per il reperimento del contraente, la formazione del prezzo contrattuale, l’esperimento della relativa gara, la predisposizione delle clausole contrattuali e l’approvazione del contratto (in cui domina il diritto pubblico coi suoi principi e criteri) e la fase negoziale, relativa all’esecuzione del contratto (in cui domina il diritto privati e prevale la logica della parità tra le parti, titolari entrambi di diritti soggettivi e di obblighi giuridici. A tale ripartizione di fasi, operata soprattutto dalla giurisprudenza, non corrisponde un’altrettanto rigida separazione di discipline.

La formazione del contratto, in questo specifico ambito, passa infatti attraverso una serie di atti governati dal diritto privati ma in parallelo ad un procedimento amministrativo e ad una sequenza di atti amministrativi ciascuno dei quali si intreccia agli atti privatistici, per cui il regime giuridico applicabile agli atti dipenderà dalla loro appartenenza all’una o all’altra di queste serie. Per queste ragioni si rivela spinoso – quanto determinante – il sindacato sul contratto, in quanto affermare la sua natura pubblicistica, se appare da un lato operazione coerente e ovvia, in realtà si rivela spesso frutto di forzature giurisprudenziali ispirate ad esigenze di tutela dei terzi, forzature che si pongono necessariamente nell’ottica della suddetta interdipendenza, capacità di influenza e condizionamento reciproco. E’ proprio in queste esigenze che la dottrina evidenzia la necessità di qualificare – o riqualificare – come atti amministrativi e quindi pubblicistici atti di stretta natura negoziale o prenegoziale, che dovrebbero di contro appartenere alla sfera privatistica.

Gli atti della PA non producono direttamente modificazioni giuridiche unilaterali, almeno nel senso che sono destinati ad essere integrati dal consenso privato e che la disciplina giuridica del rapporto deriva non da essi, bensì dal contratto. La delibera a concludere un contratto a trattativa privata, che pregiudica l’interesse protetto dell’imprenditore il quale aspira a partecipare alla gara, e l’aggiudicazione o approvazione del contratto possono pertanto essere lesivi di interessi legittimi e di conseguenza venire autonomamente impugnati. Il risultato dell’attività negoziale posta in essere dalla parte pubblica e dal privato è riconosciuto dall’ordinamento generale in quanto siano rispettate le comuni condizioni di validità poste dall’ordinamento stesso. A seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione (giurisdizionale nella traccia proposta, ma possibile anche in via di autotutela e che potrebbe riguardare anche singoli atti amministrativi) e dei suoi effetti si producono conseguenze che si riverberano sulla validità del contratto.

Sugli effetti dell’annullamento di un provvedimento di aggiudicazione sopravvenuto alla stipula di un contratto la giurisprudenza si è affannata e lungo senza dare risposte univoche e senza una unanimità di vedute: nel 2004 il CdS ha deferito all’Adunanza plenaria la questione. In quell’epoca secondo un primo indirizzo si riteneva che l’annullamento dell’aggiudicazione integrasse una causa di nullità del contratto ex art. 1418 cod. civ. o per mancanza di accordo tra le parti (ai sensi del comma 2 che rinvia ai requisiti prescritti dall’art. 1325 cod. civ. sul presupposto che nell’aggiudicazione si esprime la volontà della PA di pervenire ad un determinato contratto) o per violazione di norme imperative (ai sensi del comma 1, tali dovendosi considerare quelle attinenti alla fase di scelta del contraente che, nei procedimenti di formazione dei contratti ad evidenza pubblica, è regolata da norme di diritto pubblico). Posizioni quindi definite della nullità per mancanza del consenso e della nullità virtuale. Un secondo indirizzo riteneva che più che di nullità si dovesse parlare di caducazione immediata degli effetti del negozio: operazione ermeneutica di fatto omogenea alla prima, tesa ad assicurare in ogni caso l’effettività della tutela giurisdizionale attraverso l’eliminazione automatica del contratto con il ricorso alla categoria dell’inefficacia, travolgimento meccanico giustificato sulla premessa che l’aggiudicazione rappresentasse il presupposto fondante ed imprescindibile della stipulazione. Vi erano poi tesi che si discostavano da tali indirizzi, predicando l’applicazione dei principi dell’annullamento basandosi sulla necessità di un assenso della PA: gli atti amministrativi che devono precedere la stipulazione dei contratti della PA costituiscono mezzi di integrazione della capacità e volontà dell’ente pubblico, sicché i loro vizi non possono che comportare l’annullabilità del contratto, deducibile, in via di azione o di eccezione, soltanto dallo stesso ente, il tutto sul presupposto che, essendo il procedimento di evidenza pubblica dettato a tutela dell’interesse della PA, esso dovrebbe avere la precipua ed esclusiva funzione di salvaguardare la corretta formazione del consenso da parte della stessa. Tale orientamento, da considerarsi tradizionale e sostenuto per decenni dalla Suprema Corte, tendeva ad incentrare l’analisi sul contratto e a valorizzare l’autonomia della fattispecie privatistica rispetto all’iter pubblicistico che la prepara e la giustifica e presentava alcune varianti laddove la causa dell’annullabilità veniva fatta coincidere con l’incapacità legale di contrattare, o con un vizio del consenso (in particolare l’errore essenziale e riconoscibile) o ancora con il difetto di potere rappresentativo, secondo la disciplina del falsus procurator.

A tale teoria sono state mosse delle obiezioni quali: che le norme regolanti la fase amministrativa di formazione del contratto non sono tutte afferenti l’interesse particolare del soggetto committente o al procedimento determinativo della sua volontà negoziale, bensì sovente mirano a tutelare i principi fondamentali della concorrenza e del mercato o valori primari delle imprese concorrenti; che l’amministrazione aggiudicatrice risulta perciò essere soggetto passivo di un complesso rapporto amministrativo obbligata all’osservanza di una serie di norme poste a tutela di soggetti terzi, titolari di posizioni giuridiche di vantaggio, protette dall’ordinamento comunitario e nazionale; che la stipula del contratto vanificherebbe ogni prospettiva di assicurare l’effettività della tutela dei partecipanti, in quanto pur in presenza di una par condicio tra i concorrenti e di illegittimità di atti di gara, gli spazi di ristoro del soggetto pregiudicato sarebbero limitati alla possibilità di richiedere un risarcimento per equivalente; che rimettere al soggetto soccombente nel giudizio di annullamento dell’aggiudicazione la decisione se provocare l’annullamento del contratto o vanificare con l’inazione l’utilità specifica della pronuncia giurisdizionale favorevole al ricorrente rappresenta non solo una soluzione singolare, ma anche contraria al buon senso e a ragioni di equità sostanziale; che un simile meccanismo si pone in controtendenza con la volontà legislativa di favorire un controllo più incisivo e pieno sui rapporti giuridici di cui è parte la PA e una protezione più intensa ed efficace in termini ripristinatori della situazione giuridica lesa dall’attività illegittima dell’amministrazione, volontà che si sostanzia – come si tratterà meglio in seguito –  nell’attribuzione della giurisdizione esclusiva al GA circa il potere di disporre la reintegrazione in forma specifica nell’ottica di concentrazione e semplificazione delle tecniche di tutela giurisdizionale.

Tali obiezioni hanno suscitato notevoli perplessità che hanno persuaso parte della giurisprudenza ad abbandonare la strada dell’annullabilità per aderire alle teorie precedentemente esposte e all’epoca minoritarie, sottolineandosi che la categoria civilistica della nullità non può che esprimere un valore atecnico sul piano concettuale, data l’insussistenza nella specie di una inefficacia originaria  per un vizio genetico del contratto che lo infici fin dal principio e che legittimi la proposizione di un’azione dichiarativa in violazione del termine decadenziale proprio del giudizio amministrativo, trattandosi al contrario di inefficacia sopravvenuta al previo e necessario annullamento dell’atto amministrativo viziato oggetto di impugnativa rituale e tempestiva. Non solo: ritenendosi condivisibile e opportuna la scelta di far ricorso ed applicare, con le peculiarità del caso, il meccanismo del collegamento negoziale, capace di ingenerare un’ipotesi non di invalidità ma di perdita di efficacia caducante, espressione del principio generale che coglie il nesso di connessione inscindibile tra un pluralità di atti iscritti nell’ambito di una vicenda sostanzialmente unitaria (inefficacia in senso stretto).

Tale inefficacia successiva andrebbe interpretata come inidoneità funzionale in ci viene a trovarsi il programma negoziale per l’incidenza ab externo di interessi giuridici di rango poziore incompatibili con l’interesse interno negoziale.

Partendo da tali assunti un’ulteriore posizione è giunta a qualificare come “relativa” l’inefficacia del contratto, evidenziando come con l’annullamento dell’atto di aggiudicazione di una gara d’appalto pubblico viene meno retroattivamente la legittimazione della PA a negoziare, di modo che il contratto stipulato diviene efficace ab origine, ma tale inefficacia sopravvenuta può essere fatta valere solo dalla parte che abbia chiesto ed ottenuto il predetto annullamento, senza però pregiudicare i diritti acquistati dai terzi in buona fede, in applicazione analogica delle disposizioni di cui agli artt. 23 e 25 cod. civ.: il contratto rimarrebbe vincolante inter partes salva l’iniziativa del ricorrente. Tale impostazione mira a salvaguardare la certezza dei rapporti giuridici esaltando la centralità del ruolo del ricorrente e della sua pretesa azionata in giudizio, per cui l’invalidazione dell’atto assume una portata non reale ma solo obbligatoria, ove la buona fede soggettiva coincide con la mancata consapevolezza del vizio che inficiava l’atto su cui si è fondati l’acquisto e che il terzo in mala fede non risulta aver concluso un contratto invalido, ma subisce piuttosto l’opponibilità nei propri riguardi degli effetti dell’annullamento dell’atto stesso: oggetto  della cognizione giudiziale diventa la pretesa del ricorrente e non l’accertamento circa la validità o meno del contratto. Anche tale impostazione non è stata esente da critiche, principalmente basate sul fatto che negli appalti pubblici il contraente difficilmente può qualificarsi come terzo in buona fede , dato che il vizio che colpisce l’atto della PA concerne un procedimento aperto cui egli stesso ha partecipato e che assume il rischio circa gli effetti di un futuro giudizio  sulla stipulazione stessa, nell’evenienza che l’illegittimità della procedura sia direttamente connessa ad un vizio provocato o cogenerato dal vincitore che abbia partecipato alla gara in difetto dei requisiti prescritti. Quando un atto amministrativo costituisce il presupposto unico e necessario di un altro atto amministrativo susseguente, l’annullamento del primo  determina la caducazione automatica del secondo senza necessità di un’apposita impugnazione, rapporto di presupposizione che verrebbe però ad instaurarsi tra due atti eterogenei (provvedimento amministrativo e contratto) con costruzione di un modello che non rinverrebbe positivi riscontri né a livello normativo, né nei principi generali del diritto civile. Per questo il CdS ha introdotto a tale impostazione un “temperamento”  consistente nella esigenza di tutela della buona fede del contraente privato che non potrebbe subire pregiudizi derivante dall’accertata  illegittimità provvedi mentale, tutelando pertanto il terzo che ha medio tempore stipulato il contratto con la PA.

Ricostruite quindi le varie tesi della nullità, annullabilità ed inefficacia, anche relativa, è consequenziale analizzare ora le implicazioni sul piano della giurisdizione e dei rimedi a tutela dell’evento annullamento contratto.

La recente direttiva 11 dicembre 2007, n. 2007/666/CE, che modifica le direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE, del Consiglio per quanto riguarda il miglioramento dell’efficacia delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici, stabilisce che, in presenza di talune gravi violazioni della normativa di evidenza pubblica, la sanzione è costituita dalla “privazione di effetti” del contratto: espressione generica e di portata limitata, demandando ai singoli legislatori nazionali di individuare e qualificare più specificamente il rimedio, l’indicazione va certamente inquadrata nel senso di prevedere mezzi di tutela incidenti sul rapporto e non sull’atto.

Vale la pena brevemente puntualizzare che, in tema di riparto di giurisdizione che qui interessa in via marginale ma preliminare, lo spartiacque tra le giurisdizioni amministrativa e ordinaria in tema di contratti di appalto è costituito dalla stipula del contratto, per cui, mentre spetta al GO giudicare sull’esistenza e sulla validità del contratto, sulla sua esecuzione ed interpretazione, sull’applicazione dei patti contrattuali, nonché su tutti  i vizi di indole privatistica, spetta per contro al GA, ai sensi dell’art. 244 del Codice appalti, decidere in ordine a tutti gli atti amministrativi che intervengano nel corso del procedimento formativo, dalla deliberazione all’autorizzazione, all’approvazione relativi a procedure di affidamento pubbliche. Fino alla svolta recente del CdS (Adunanza Plenaria del 2008) le questioni relative alla sorte del contratto si riteneva potessero farsi rientrare nella giurisdizione esclusiva del GA, come corollario del suo potere di indagare sulla fase dell’esecuzione oltre che di aggiudicazione.

In seguito a tale nuovo orientamento, per esigenze di economicità, effettività e semplificazione della tutela giurisdizionale e al fine di evitare che il privato sia costretto ad intraprendere un faticoso e dispendioso itinerario giurisprudenziale ricorrendo al GA per l’annullamento dell’aggiudicazione, al GO per la pronuncia sul contratto e, poi, di nuovo al GO per ottenere eventuali danni, con evidente vulnus, il CdS ha attribuito la cognizione delle controversie relative alla sorte del contratto al GA, anche quando il contratto debba ritenersi nullo. Questo in contrasto con la posizione della Cassazione che nel 2007 aveva ritenuto spettasse al GO per due ordini di ragioni; il disposto letterale dell’art. 244 Codice Appalti e la posizione paritetica delle rispettive situazioni soggettive del privato e della PA; il tutto a prescindere dalla tesi che si intende seguire circa il vizio che inficia il contratto e che comunque hanno come comune base e presupposto il fenomeno dell’inefficacia. In ogni caso la Plenaria del 2008, pur non chiarendo in merito alle conseguenze che l’annullamento determina sul contratto stipulato tra PA e privato, ha il merito di aver risolto la questione relativa alla giurisdizione sulle controversie afferenti al contratto a seguito dell’annullamento.

In ogni caso dalle motivazioni delle sentenze sia della Plenaria che della Cassazione, si evince un certo favor per la categoria della inefficacia/caducazione, perché più aderente al funzionamento della fattispecie e inoltre coerente con quanto stabilito dalla Direttiva di cui sopra. Occorre purtuttavia che intervanga una specifica disposizione di legge perché possa ritenersi sussistente una causa di inefficacia di tale tipo e giova ricordare che il Codice appalti non affronta espressamente tale questione, potendosi solo argomentare a contrario l’effetto caducazione.

Come  ricordato dall’Adunanza Plenaria, la PA è tenuta ad adeguarsi alla pronuncia di annullamento dell’aggiudicazione, ponendo in essere tutti i provvedimenti consequenziali.

Pertanto, la PA, prendendo atto dell’intervenuta caducazione, dovrà adottare una serie di provvedimenti in autotutela che adeguino la situazione di diritto a quella di fatto, ad es. mediante l’annullamento del decreto o della delibera di approvazione del contratto e il disimpegno delle somme che erano state accantonate -e, pertanto, rese indisponibili per altra utilizzazione-, al fine della stipulazione del nuovo contratto con il legittimo aggiudicatario.

Se l’Amministrazione non adempie spontaneamente?  Nulla quaestio, sostiene il Consiglio di Stato: è sufficiente adire il giudice dell’ottemperanza che, grazie ai maggiori poteri del giudizio di merito, può provvedere a reintegrare effettivamente il ricorrente nelle sue legittime aspettative, facendogli ottenere anche il bene della vita, rappresentato dall’aggiudicazione dell’appalto.

Tale impostazione è anche quella fatta propria dalla decisione della V sezione  del Consiglio di Stato n. 3070 del 19 maggio 2009 che  ha ritenuto che il GA solo in sede di ottemperanza può conoscere della sorte del contratto e in via incidentale. E che ci siano gli estremi per la rimessione, avanzata dal ricorrente incidentale, alla Corte di giustizia europea per violazione del principio di effettività della tutela. Anche questa sentenza lascia irrisolti i dubbi che tuttora sussistono in ordine all’effettività della tutela del legittimo aggiudicatario in un contesto nel quale le regole europee hanno delineato diritti dei partecipanti alle gare che tendono a dare al ricorrente una risposte esaustiva e definitiva. Che sia il giudice civile (per la pronuncia con efficacia di giudicato) o quello amministrativo (in sede di ottemperanza), questa dilazione in due tempi della tutela diretta ad ottenere un risultato perseguibile con un unico giudizio in caso di concentrazione  presso un unico giudice, continua a porre in dottrina  fondati dubbi sull’effettività della tutela nonché sul rispetto dei principi del giusto processo, ai sensi dell’art. 111 della Costituzione, considerato che la  sua durata va intesa non solo con riferimento ai tempi di una singola vicenda giurisdizionale, ma a quella complessiva dei gradi di giudizio  in relazione  alla necessità di rivolgersi a più giudici per vedere completata e resa effettiva la tutela della medesima situazione giuridica. Una condizione, quindi, confusa e incerta, che espone il legittimo  aggiudicatario a vedere allontanarsi il perseguimento del bene della vita, la PA a richieste risarcitorie e, la comunità, nel cui interesse deve essere realizzata l’opera o effettuato il servizio, sottoposta ai disagi del differimento dell’opera. Tutto ciò in contrasto con l’intenzione del legislatore di vedere definite quanto prima situazioni di tal genere, tanto da predisporre la particolare tutela accelerata prevista dall’art. 23 bis della legge TAR.

Già prima della sentenza delle SSUU n. 500 del 1999 e della legge n. 205 del2000 inmateria di appalti pubblici era assicurata la risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi grazie alle norme di recepimento della disciplina comunitaria dettate dall’art.13 L.1992/142 e dal D. Lgs. 1995/157. Dopo tale sentenza e in base all’art. 7 della legge 205/2000, la tutela risarcitoria di detti interessi legittimi, incisi da atti illegittimi in materia di evidenza pubblica, è estesa anche agli altri contratti pubblici non interessati dalla disciplina comunitaria e viene assicurata dal GA, esclusivo o di legittimità a seconda della giurisdizione sulle specifiche tipologie di contratti. Tale tutela è ulteriormente rafforzata dalle più recenti modifiche legislative.

Infatti, ai sensi dell’art. 246 D. Lgs. 2006/163, relativo ai giudizi davanti agli organi di giustizia amministrativa che comunque riguardino le procedure di evidenza pubblica, si ammette la tutela risarcitoria nell’ipotesi di violazione delle norme relative alla formazione del contratto. Il giudice, oltre a poter conoscere le controversie risarcitorie, può disporre non solo il pagamento di una somma si denaro, ma anche ordinare un facere e può farlo sia nella fase di legittimità che di merito.

In chiave semplicistica si può affermare che con la reintegrazione in forma specifica al danneggiato viene riconosciuto il bene sottrattogli, non nell’aggiudicazione della gara al ricorrente (in quanto in questo modo si attribuirebbe al ricorrente un beneficio maggiore di quello che avrebbe avuto in assenza dell’attività lesiva) ma nella ripetizione delle operazioni; il risarcimento in forma equivalente, invece, sarebbe applicabile solo ove non fosse più possibile la rinnovazione delle operazioni di gara (ciò avviene, per esempio, nel caso in cui l’appalto è stato già integralmente eseguito).

Il giudice amministrativo, chiamato a sindacare la legittimità di una procedura di affidamento di un appalto pubblico su richiesta della parte lesa, previa verifica della sussistenza della fondatezza della pretesa del ricorrente all’aggiudicazione, ha il potere di disporre anche attraverso la reintegrazione in forma specifica il risarcimento del fatto ingiusto, potendosi sostituire all’amministrazione nell’aggiudicazione dell’appalto stesso, nel senso che, in esecuzione della sentenza di accoglimento del ricorso proposto da un soggetto leso, l’amministrazione deve provvedere ad attribuire l’appalto alla ricorrente. La giurisprudenza tuttavia ritiene che il potere di disporre la reintegrazione in forma specifica non possa essere impiegato dal giudice nelle ipotesi in cui sia già stato stipulato il contratto con altro contraente. In tal caso al ricorrente non resterebbe che il risarcimento per equivalente, di norma identificando – in virtù dell’applicazione analogica dell’art. 345, l. 2248/1865, All. F – oggi art. 134 D. Lgs. 2006/163 – il mancato utile con il 10% della base d’asta come ribassata dall’offerta (nel senso della possibilità di esercitare il potere di disporre la reintegrazione anche se è già stato concluso un contratto vi è una sentenza della giurisprudenza di merito del 2000 – TAR Val d’Aosta). Anche se il CdS tende a limitare lo spazio di impiego della figura della reintegrazione in forma specifica come modalità di risarcimento del danno ingiusto, ovvero come rimedio risarcitorio, la cui disciplina è da ricavare  nell’ambito civilistico, nel quale l’istituto è sorto (art. 2058 cod. civ.) e che postula, con requisiti diversi e più gravi rispetto all’azione di adempimento, la commissione di un illecito, l’art. 35, comma 2, D. Lgs. 1998/80 e succ. modifiche, prevede, accanto al meccanismo finora analizzato, quello del risarcimento per equivalente, peraltro caratterizzato  da un procedimento che mira a favorire una soluzione transattiva  tra le parti. In particolare il giudice, allorché non sia possibile  disporre la reintegrazione in forma specifica, né determinare l’esatto ammontare del danno ovvero liquidare una somma in via equitativa “può stabilire i criteri in base ai quali l’amministrazione pubblica o il gestore devono proporre a favore dell’avente titolo il pagamento di una somma entro un congruo termine…”. Se le parti non giungono ad un accordo, al quale si applica l’art. 1326 cod. civ., col ricorso previsto dall’art. 27, comma 4, TU 1924/1054, può “essere chiesta la determinazione della somma dovuta”. In assenza di una soluzione transattiva  della lite, si apre pertanto la via al giudizio di ottemperanza. La ricerca di un accordo sul quantum può risultare utile, dal momento che l’interesse tutelato attraverso il meccanismo risarcitorio ben potrebbe essere un’aspettativa, in ordine alla quale non sempre è possibile indicare l’ammontare del risarcimento con criteri certi. Secondo il CdS tale meccanismo incide anche sull’onere probatorio del danneggiato “trattandosi di un istituto al quale il giudice può ricorrere al fine di addivenire alla determinazione della somma che l’amministrazione è tenuta a pagare”: l’onere medesimo può ritenersi soddisfatto allorché il ricorrente indichi taluni criteri di quantificazione del danno, salvo il potere del giudice di vagliarne la con divisibilità attraverso l’apporto tecnico del consulente. La possibilità di optare per il risarcimento per equivalente e di rifiutare l’esecuzione del giudicato deriva da principi di carattere generale, rinunciando ad avvalersi di effetti conformativi del giudicato, soprattutto laddove la sua esecuzione non sia più possibile in modo pieno. La regola del risarcimento per equivalente viene estesa anche all’ipotesi in caso di fallimento dell’esecutore o risoluzione del contratto per grave inadempimento dell’esecutore. (disposizione già esistente ante art. 246, mutuata dalla legge 2005/80).

La vexata quaestio sulla pregiudiziale amministrativa riguarda proprio la scelta del privato di non utilizzare gli effetti demolitori-conformativi derivanti dal’annullamento dell’atto, e la conseguente discussa preclusione circa la possibilità di ottenere il risarcimento del danno (improcedibilità o meno dell’azione di annullamento e risarcimento del danno).

Una sentenza del 2008 del Tar Molise, non quantifica l’ammontare del risarcimento monetario, ma pone una condanna risarcitoria per equivalente indicando le singole voci in base alle quali le stazioni appaltanti dovranno calcolare il danno consistente nel lucro cessante, specificando che il mancato guadagno andrà quantificato nella differenza tra i ricavi ottenibili dalla prestazione del servizio ed i costi di erogazione, detratta l’IVA e l’incidenza fiscale. L’art. 35 d.lg. n. 80 del 1998, introducendo la giurisdizione del GA in materia risarcitoria, limitatamente, peraltro alle materie soggette alla giurisdizione esclusiva, ha previsto la possibilità, per il Giudice, di «stabilire i criteri» di liquidazione del risarcimento monetario, sostanzialmente demandando alla pubblica amministrazione, la quantificazione dell’ammontare in concreto, salva la possibilità, in caso di disaccordo del danneggiato, di adire nuovamente il Giudice nelle forme del giudizio di ottemperanza.  L’art. 7 legge Tar, nell’estendere e generalizzare la giurisdizione in materia risarcitoria, non ripropone testualmente la stessa formulazione letterale in tema di liquidazione del risarcimento per equivalente, perché non prevede espressamente la possibilità di stabilire i criteri liquidativi.  Ciò posto, può dirsi pacifica la possibilità di applicare il metodo di liquidazione previsto dall’art. 35 D. Lgs. n. 80 del 1998 anche alle ipotesi di giurisdizione di legittimità.  Il GA, dunque, potrà, stabilire i criteri di liquidazione del danno, demandando poi alla PA di individuare il quantum in concreto dovuto. Tale metodo operativo offre l’indubbio vantaggio di snellire l’attività istruttoria, esonerando il Collegio dal disporre chiarimenti ovvero addirittura consulenza tecnica o verificazione in corso di causa, con l’innegabile pregio di ridurre i tempi di adozione della decisione. Da ultimo, questo tipo di condanna risarcitoria per equivalente sostanzialmente rimette nelle mani dell’amministrazione la determinazione della controversia, rappresentato dalla individuazione dell’effettivo valore venale, con l’ulteriore conseguenza che il vantaggio innegabile della maggiore velocità dei tempi della decisione, può risultare completamente vanificato dalla probabile instaurazione di un successivo giudizio, perché il ricorrente, rifiutando l’accordo, sarà costretto ad adire nuovamente il Giudice, con l’effetto che ciò che si è risparmiato in termini di tempi istruttori del giudizio cognitorio, sarà «perso» in sede esecutiva.  Alla luce di quanto specificato con la decisione della succitata Adunanza Plenaria del 2008, nessuna pronuncia di condanna al risarcimento in forma specifica è consentita al Giudice amministrativo, con la conseguenza che dovrebbe dichiararsi il ricorso inammissibile, in parte qua, per difetto di giurisdizione. Deve, infatti, escludersi che di fronte ad una domanda di risarcimento o reintegrazione in forma specifica – cioè alla richiesta di parte di condannare al subentro – il Giudice possa «convertire» la domanda in risarcimento per equivalente (per cui resta ferma la sua giurisdizione). Tale conclusione è impedita dal divieto di ultrapetizione. Né ci si potrebbe limitare ad annullare l’aggiudicazione, senza in alcun modo pronunciarsi sulla domanda di reintegrazione in forma specifica, sempre in ossequio allo stesso principio della domanda che impone al giudice di pronunciarsi su tutte le richieste di parte.

Alla luce di tali principi, nel caso in cui la lesione dell’interesse legittimo, da tutelare con la condanna risarcitoria, derivi dall’illegittimo atto di aggiudicazione, ed emerga che il ricorrente pretermesso avrebbe titolo all’aggiudicazione, il danno da riparare, consisterà:

a) nella ripetizione della procedura o dell’atto viziato epurato dal vizio che lo ha colpito;

b) nella conseguente stipula del contratto.

Pertanto il risarcimento in forma specifica si sostanzierà nella condanna a stipulare il contratto, previa adozione dell’atto satisfattivo dell’interesse del ricorrente (nel caso di specie, aggiudicazione della gara di appalto) e ferma restando la salvezza degli ulteriori provvedimenti della PA, laddove, in base a valutazioni discrezionali da motivarsi debitamente, il mutamento della situazione di fatto o di diritto induca l’amministrazione a modificare le proprie precedenti determinazioni perché non più rispondenti all’interesse pubblico.  Così circoscritto il contenuto della condanna risarcitoria in forma specifica, risulta evidente che essa non imponga di statuire sul contratto perché tale pronuncia esula dal contenuto della tutela invocata che si arresta ad una fase precedente alla statuizione sul contratto, cioè all’ordine di disporre il subentro previa nuova aggiudicazione.  Si può concludere, allora, che il riconoscimento della tutela risarcitoria in forma specifica non equivale a dichiarare, con efficacia di giudicato, l’avvenuta caducazione del contratto perché quest’ultima è, in realtà, una conseguenza della condanna risarcitoria e non la sua essenza.  Da ciò consegue ulteriormente che ben può lasciarsi al GA la tutela risarcitoria in forma specifica, intendendosi questa limitata alla sola condanna della PA a stipulare il contratto, dopo aver riadottato l’atto annullato, emendato del vizio riscontrato in sede giurisdizionale, senza che nessuna statuizione venga adottata sulla sorte del contratto, che resta impregiudicata e verrà esaminata dal G.O., in ipotesi di controversia in ordine agli effetti dell’annullamento dell’aggiudicazione sul contratto. In ipotesi di richiesta risarcitoria in forma specifica, pertanto, esclusa ogni statuizione (se non incidentale) sul contratto, il Giudice dovrà – e potrà – limitarsi ad ordinare che l’Amministrazione disponga il subentro del ricorrente e, dunque, stipuli il contratto, salve diverse e motivate valutazioni derivanti da eventi sopravvenuti. Atteso infine che al di fuori delle ipotesi di giurisdizione di merito, resta preclusa al GA ogni valutazione in ordine all’esercizio discrezionale dei poteri dell’Amministrazione, tale tipo di pronuncia non potrà mai spingersi a prevedere, sic et simpliciter, l’aggiudicazione in favore del ricorrente.

Giova infine ricordare che la tutela restitutoria o ripristinatoria, stante la diversità ontologica rispetto a quella risarcitoria non richiede l’accertamento dell’elemento psicologico.  Infatti sarebbe irragionevole escludere l’aggiudicazione del contratto al ricorrente vittorioso, tutte le volte in cui ciò sia ancora possibile, pur se difetti il requisito della colpa.  Da ciò consegue che, nel momento in cui si dispone l’annullamento della precedente aggiudicazione, prevedendo che questa avvenga in favore di altra partecipante (sempre che ciò sia possibile e con i limiti determinati dal rispetto della discrezionalità amministrativa) risulta superfluo l’accertamento della colpa.  Dunque, mentre il risarcimento per equivalente andrà escluso se ad es. lo stato della giurisprudenza sia incerto o la normativa che presiede alla disciplina della fattispecie concreta non sia di agevole interpretazione, la tutela ripristinatoria – cioè l’aggiudicazione ed il conseguente subentro – non troverà ostacoli perché questa non va intesa in funzione risarcitoria, ma di riequilibrio degli assetti di interessi.

In ogni caso il Giudice ha sempre a propria disposizione, per verificare la praticabilità concreta della tutela invocata, la clausola generale della buona fede che potrebbe essere utilizzata, anche nelle ipotesi di richiesta di riparazione in forma specifica, per evitare che l’attribuzione del rimedio si concreti in un adempimento insostenibile per la pubblica amministrazione a causa dello stato avanzato di esecuzione del contratto. Il criterio della buona fede, infatti, imponendo di salvaguardare l’utilità altrui, sia pure nei limiti di un apprezzabile sacrificio, consentirebbe di modulare al meglio, rispetto al caso concreto, l’atteggiarsi della tutela ed eviterebbe al contempo di adottare condanne rovinose per l’interesse pubblico.

Infatti, pur in mancanza di una specifica ed espressa previsione normativa che attribuisca al GA il potere di riconoscere la tutela ripristinatoria-restitutoria, i già citati artt.7 l. Tar e 35 d.lg. n. 80 del 1998 rappresentano un utile punto di riferimento per ammetterla.

Va infine ricordato che, secondo parte della recente giurisprudenza, il concorrente escluso illegittimamente può richiedere il risarcimento del danno per perdita di chance, non solo quando dimostri che sarebbe risultato vincitore ove la gara si fosse svolta correttamente, ma pure nelle ipotesi in cui sussistono probabilità di successo: secondo il CdS la chance deve essere ragionevole, ed è chiaro che stabilendo un risarcimento di questo tipo si apre la possibilità di un’iperprotezione dell’interesse pretensivo ove la parte ottenga poi anche il provvedimento favorevole nel prosieguo dell’azione.

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