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Cassazione civile sezione lavoro sentenza 12 ottobre 2012 n 17438 – Malattia professionale, tabelle, causa di lavoro, prova, probabilità, rilevanza

Cassazione civile sezione lavoro sentenza 12 ottobre 2012 n 17438
Malattia professionale, tabelle, causa di lavoro, prova, probabilità, rilevanza

La sezione llavoro
(Presidente La Terza – Relatore Bandini)

Svolgimento del processo
Con sentenza del 10 – 22.12.2009 la Corte d’appello di Brescia,
in riforma della pronuncia di prime cure, condannò l’Inail a
corrispondere a M. I. la rendita per malattia professionale
prevista per l’invalidità all’80%.
Il M. aveva agito in giudizio deducendo che, in conseguenza
dell’uso lavorativo protratto, per dodici anni e per 5-6 ore al
giorno, di telefoni cordless e cellulari all’orecchio sinistro aveva
contratto una grave patologia tumorale; le prove acquisite e
le indagini medico legali avevano permesso di accertare, nel
corso del giudizio, la sussistenza dei presupposti fattuali dedotti,
in ordine sia all’uso nei termini indicati dei telefoni nel corso
dell’attività lavorativa, sia all’effettiva insorgenza di un
“neurinoma del Ganglio di Gasser” (tumore che colpisce i nervi
cranici, in particolare il nervo acustico e, più raramente, come
nel caso di specie, il nervo cranico trigemino), con esiti
assolutamente severi nonostante le terapie, anche di natura
chirurgica, praticate; sulla ricorrenza di tali elementi fattuali,
come evidenziato nella sentenza impugnata, non erano state
svolte contestazioni in sede di appello, incentrandosi la
questione devoluta al Giudice del gravame sul nesso causale
tra l’uso dei telefoni e l’insorgenza della patologia.
La Corte territoriale, rinnovata la consulenza medico legale,
ritenne dì dover seguire le conclusioni a cui era pervenuto il
CTU nominato in grado d’appello, osservando in particolare
quanto segue:
– i telefoni mobili (cordless) e i telefoni cellulari funzionano
attraverso onde elettromagnetiche e, secondo il CTU, “In
letteratura gli studi sui tumori cerebrali per quanto riguarda il
neurinoma considerano il tumore con localizzazione al nervo
acustico che è il più frequente. Trattandosi del medesimo
istotipo è del tutto logico assimilare i dati al neurinoma del
trigemino”; in particolare era stato osservato che i due
neurinomi appartengono al medesimo distretto corporeo, inquanto entrambi i nervi interessati si trovano nell’angolo ponto-

cerebellare, che è una porzione ben definita e ristretta dello
spazio endocranico, certamente compresa nel campo
magnetico che si genera dall’utilizzo dei telefoni cellulari e
cordless;
nella CTU erano stati riassunti con una tabella alcuni studi
effettuati dal 2005 al 2009 ed in tre, effettuati dall’Hardell
group, era stato evidenziato un aumento significativo de!
rischio relativo di neurinoma (intendendosi per rischio relativo la
misura di associazione fra l’esposizione ad un particolare
fattore di rischio e l’insorgenza di una definita malattia,
calcolata come il rapporto fra i tassi di incidenza negli esposti
[numeratore] e nei non esposti [denominatore]);
– un lavoro del 2009 del medesimo gruppo aveva considerato
anche altri elementi quali età dell’esposizione, l’ipsilateralità e il
tempo di esposizione, indicando, per quanto riguarda il
neurinoma dell’acustico, un Odd ratio per l’uso dei cordless di
1,5 e per il telefono cellulare di 1,7; considerando l’uso
maggiore di 10 anni, gli Odd ratio erano rispettivamente di 1,3
e di 1,9, intendendosi per Odd ratio il rapporto tra la frequenza
con la quale un evento si verifica in un gruppo di pazienti e la
frequenza con la quale lo stesso evento si verifica in un gruppo
di pazienti di controllo, onde se il valore dell’Odd ratio è
superiore a 1 significa che la probabilità che si verifichi l’evento
considerato (per esempio una malattia) in un gruppo (per
esempio tra gli esposti) è superiore rispetto a quella di un altro
gruppo (per esempio tra i non esposti), mentre significato
opposto ha un valore inferiore a 1;
– una recente review della The International Commission on
Non- lonizing Radiation Protection aveva evidenziato i limiti
degli studi epidemiologici fino ad allora attuati, concludendo
che, allo stato attuale, non vi era una convincente evidenza
del ruolo delle radiofrequenze nella genesi dei tumori, ma
aggiungendo che gli studi non ne avevano escluso
l’associazione;
– un’ulteriore autorevole review (Kundi nel 2009) aveva
confermato i dubbi che gli studi epidemiologici inducono per
quanto riguarda il tempo di esposizione e concluso per un
rischio individuale basso, ma presente; l’esposizione poteva
incidere sulla storia naturale della neoplasia in vari modi:
interagendo nella fase iniziale di induzione, intervenendo sul
tempo di sviluppo dei tumori a lenta crescita, come i neurinomi, accelerandola ed evitando la possibile naturale
involuzione;
– l’analisi della letteratura non portava quindi ad un giudizio
esaustivo, ma, con tutti i limiti insiti nella tipologia degli studi, un
rischio aggiuntivo per i tumori cerebrali, ed in particolare per il
neurinoma, era documentato dopo un’esposizione per più di
10 anni a radiofrequenze emesse da telefoni portatili e cellulari;
– tale tempo di esposizione era un elemento valutativo molto
rilevante, poiché, nello studio del 2006, l’esposizione per più di
10 anni comportava un rischio relativo calcolato di 2,9
sicuramente significativo;
– si trattava quindi di una situazione “individuale” che gli esperti
riconducevano al “modello probabilistico-induttivo” ed alla
“causalità debole”, avente comunque valenza in sede
previdenziale;
– doveva dunque riconoscersi, secondo il CTU, un ruolo almeno
concausale delle radiofrequenze nella genesi della neoplasia
subita dall’assicurato, configurante probabilità qualificata:
– la censura dell’lnail relativa agli studi utilizzati dal CTU non
coglieva nel segno, poiché lo studio del 2000 dell’OMS, che
aveva escluso effetti negativi per la salute, si era basato su dati
ancor più risalenti, non tenendo quindi conto dell’uso più
recente, ben più massiccio e diffuso, di tali apparecchi e del
fatto che si tratta di tumori a lenta insorgenza, risultando quindi
più attendibili gli studi svolti nel 2009;
– inoltre, come osservato dal CT di parte M., gli studi del 2009
non erano stati condotti su un basso numero di casi, ma, al
contrario, sul numero totale dei casi (679) che si erano verificati
in un anno in Italia; inoltre, a differenza dello studio della IARC,
co-finanziato dalla ditte produttrici di telefoni cellulari, gli studi
citati dal CTU erano indipendenti;
– ancora, secondo quanto osservato dal CT di parte M.,
confrontando il dato di rischio individuale calcolato dal CTU
(2,9) con quello rilevato per il fattore di rischio, universalmente
riconosciuto, dell’esposizione alle radiazioni ionizzanti, doveva
considerarsi come per i sopravvissuti alle esplosioni atomiche
giapponesi di Hiroshima e Nagasaki fosse stato accertato un
rischio relativo di tipo oncologico di 1,39 per “tutti i tumori” con
un minimo di 1,22 per i tumori di “utero e cervice” ed un
massimo di 4,92 per la “leucemia”, il che stava a significare che
il rischio oncogeno medio delle radiazioni ionizzanti era
inferiore a quello che si aveva per l’esposizione alle radio

frequenze in riferimento ai neurinomi endocranici, ciò che
rendeva ancora più evidente la reale portata di quanto
affermato dal CTU;
– secondo l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità,
nel caso di malattia professionale non tabellata, come anche
in quello di malattia ad eziologia multifattoriale, la prova della
causa di lavoro, che grava sul lavoratore, deve essere valutata
in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la
rilevanza della mera possibilità dell’origine professionale,
questa può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante
grado di probabilità; e, a tale riguardo, il giudice deve non
solo consentire all’assicurato di esperire i mezzi di prova
ammissibili e ritualmente dedotti, ma deve altresì valutare le
conclusioni probabilistiche del consulente tecnico in tema di
nesso causale, considerando che la natura professionale della
malattia può essere desunta con elevato grado di probabilità
dalla tipologia delle lavorazioni svolte, dalla natura dei
macchinari presenti nell’ambiente di lavoro, dalla durata della
prestazione lavorativa e dall’assenza di altri fattori
extralavorativi, alternativi o concorrenti che possano costituire
causa della malattia;
– doveva quindi ritenersi la sussistenza del requisito di elevata
probabilità che integra il nesso causale richiesto dalla
normativa. Avverso la suddetta sentenza della Corte territoriale
rinati ha proposto ricorso fondato su due motivi e illustrato con
memoria L’intimato M. I. ha resistito con controricorso, illustrato
con memoria.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo l’Istituto ricorrente denuncia violazione
dell’art. 3 dpr n. 1124/65, rilevando che, secondo i principi di
diritto elaborati in materia dalla giurisprudenza di legittimità, la
corretta applicazione della norma suddetta richiede, in
particolare, l’accertamento sulla base di dati epidemiologici e
di letteratura ritenuti affidabili dalla comunità scientifica, che
l’agente dedotto in giudizio sia dotato di efficienza
patogenetica, quanto meno probabile, per la specifica
malattia allegata e diagnosticata; la suddetta relazione
causale non poteva dunque essere suffragata “dalla personale
valutazione dell’ausiliario del giudice, fondata sulla preferenza
per taluni dati epidemiologici rispetto ad altri, ma deve essere
supportata da un giudizio di affidabilità dei dati stessi espresso dalla comunità scientifica”; nel caso di specie il CTU si era
soffermato esclusivamente sui risultati del gruppo Hardell, in
contrasto con quelli della comunità scientifica; inoltre il CTU
aveva del tutto arbitrariamente utilizzato la contabilità tra
esposizioni a radiofrequenze e neurinoma del nervo acustico,
ipotizzata dal gruppo Hardeil, per affermare la relazione
causale, addirittura con giudizio di probabilità qualificata, tra
tali radiofrequenze e il neurinoma del trigemino; doveva al
riguardo rilevarsi che la Commissione scientifica per
l’elaborazione e la revisione periodica delle malattie di cui è
obbligatoria la segnalazione ai sensi dell’art. 139 dpr n. 1124/65,
in occasione dell’aggiornamento dell’elenco approvato con
decreto ministeriale 11.12.2009, non aveva ritenuto di dover
includere i tumori dei nervi cranici, indotti da esposizione alle
radiofrequenze, tra le malattie di possibile origine professionale.
1.2. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, nel caso di
malattia professionale non tabellata, come anche in quello di
malattia ad eziologia multifattoriale, la prova della causa di
lavoro, che grava sul lavoratore, deve essere valutata in
termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la
rilevanza della mera possibilità dell’origine professionale,
questa può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante
grado di probabilità; a tale riguardo, il giudice deve non solo
consentire all’assicurato di esperire i mezzi di prova ammissibili e
ritualmente dedotti, ma deve altresì valutare le conclusioni
probabilistiche del consulente tecnico in tema di nesso
causale, facendo ricorso ad ogni iniziativa ex officio diretta ad
acquisire ulteriori elementi in relazione all’entità ed
all’esposizione del lavoratore ai fattori di rischio ed anche
considerando che la natura professionale della malattia può
essere desunta con elevato grado di probabilità dalla
tipologia delle lavorazioni svolte, dalia natura dei macchinari
presenti nell’ambiente di lavoro, dalla durata della prestazione
lavorativa e dall’assenza di altri fattori extralavorativi, alternativi
o concorrenti, che possano costituire causa della malattia (cfr,
ex plurimis, Cass., nn. 6434/1994; 5352/2002; 11128/2004;
15080/2009).
La sentenza impugnata ha fatto applicazione di tali principi,
ravvisando, in base alle considerazioni diffusamente esposte
nello storico di lite, la sussistenza del requisito di elevata
probabilità che integra il nesso causale.

Non è quindi ravvisabile il denunciato vizio di violazione di
legge, che si fonda infatti su una pretesa erronea valutazione
(da parte del CTU e della Corte territoriale) della affidabilità
dei dati presi in considerazione al fine di suffragare tale
requisito e, pertanto, sostanzialmente su un vizio di motivazione
(in effetti dedotto con il secondo motivo di ricorso).
Il motivo all’esame va pertanto disatteso.
2. Con il secondo motivo l’Istituto ricorrente denuncia appunto
vizio di motivazione, assumendo che:
– il CTU di secondo grado, dopo avere evidenziato che la
review della The International Commission on Non-lonizing
Radiation Protection aveva concluso che, allo stato attuale,
non vi era una convincente evidenza del ruolo delle
radiofrequenze nella genesi dei tumori, pur non
escludendosene l’associazione, senza consequenzialità logica
e senza motivazione aveva tratto la conclusione della
probabilità qualificata di un ruolo almeno concausale delle
radiofrequenze nella genesi della neoplasia per cui è causa;
– doveva ritenersi priva dì qualsivoglia fondamento scientifico
la ritenuta assimilabilità, sul piano eziopatogenetico, del
neurinoma del nervo acustico e di quello del trigemino,
essendo “nozione comune” della scienza medica che tumori
dello stesso istotipo, ma con localizzazione diversa, anche se
nell’ambito dello stesso distretto anatomico, riconoscono
cause diverse e che qualsiasi potenziale agente cancerogeno
che venga in contatto con il corpo umano modifica la sua
azione a seconda dei tessuti che attraversa o con cui viene in
contatto; e, in effetti, il nervo acustico e il nervo trigemino, in
particolare il ganglio di Gasser, hanno una diversa
collocazione nella teca cranica e diverse sono le strutture
anatomiche che li separano dall’esterno e fra loro;
la Corte territoriale non aveva risposto alle osservazioni svolte
dall’Istituto, anche con riferimento alla circostanza che era “in
corso” uno studio epidemiologico internazionale “interphone”,
coordinato dalla IARC e che l’OMS, in base al principio di
precauzione, aveva suggerito “una politica di gestione del
rischio che viene applicata in una situazione di “incertezza
scientifica””:
– doveva ritenersi inconferente sul piano scientifico
l’affermazione della Corte territoriale circa l’attendibilità,
perché indipendente, dello studio del gruppo Hardell, a fronte
del cofinanziamento della ricerca “interphone” da parte dei produttori di telefoni cellulari, trascurando che tale ricerca è
finanziata dalla Unione Europea e diretta e coordinata dalla
IARC (Agenzia internazionale ricerca sul cancro dell’OMS);
– neppure la Corte territoriale aveva ritenuto di chiamare il CTU
a chiarimenti a fronte delle ricordate osservazioni critiche.
2.1. La giurisprudenza di legittimità ha reiteratamente
affermato che nei giudizi in cui sia stata esperita CTU di tipo
medico-legale, nei caso in cui il giudice del merito si basi sulle
conclusioni dell’ausiliario giudiziario, affinché i lamentati errori e
lacune della consulenza tecnica determinino un vizio di
motivazione della sentenza denunciabile in cassazione, è
necessario che i relativi vizi logico -formali si concretino in una
palese devianza dalle nozioni della scienza medica o si
sostanzino in affermazioni illogiche o scientificamente errate,
con il relativo onere, a carico della parte interessata, di
indicare le relative fonti, senza potersi la stessa limitare a mere
considerazioni sulle prospettazioni operate dalla controparte,
che si traducono in una inammissibile critica del
convincimento del giudice di merito che si sia fondato, per
l’appunto, sulla consulenza tecnica (cfr, ex plurimis, Cass., nn.
16392/2004; 17324/2005; 7049/2007; 18906/2007).
Nel caso all’esame l’Istituto ricorrente, nel contestare la ritenuta
assimilabilità, sul piano eziopatogenetico, del neurinoma del
nervo acustico e di quello del trigemino, non specifica –
rifugiandosi nel concetto di “nozione comune” – le fonti
scientifiche, ritualmente dedotte ed acquisite al giudizio, in
base alle quali avrebbero dovuto ritenersi scientificamente
errate le affermazioni rese al riguardo dal CTU e seguite dalla
sentenza impugnata, finendo per richiedere al riguardo a
questa Corte una valutazione di merito inammissibile in sede di
legittimità.
Neppure è dato rilevare il preteso e denunciato vizio di
mancanza di consequenzialità logica e di motivazione in
ordine alle conclusioni della probabilità qualificata di un ruolo
almeno concausale delle radiofrequenze nella genesi della
neoplasia per cui è causa, posto che tale giudizio, come
diffusamente esposto nello storico di lite, non discende dalla
mera indicazione delle conclusioni (evidentemente difformi) a
cui era pervenuta la ricordata review della The International
Commission on Non-lonizing Radiation Protection, ma,
piuttosto, dai riscontri di altri studi a carattere epidemiologico
svolti al riguardo. Inoltre, e significativamente, la sentenza impugnata, seguendo
le osservazioni del CTU, ha ritenuto di dover ritenere di
particolare rilievo quegli studi che avevano preso in
considerazione anche altri elementi, quali l’età dell’esposizione,
l’ipsilateralità e il tempo di esposizione, atteso che, nella
specie, doveva valutarsi la sussistenza del nesso causale in
relazione ad una situazione fattuale dei tutto particolare,
caratterizzata da un’esposizione alle radiofrequenze per un
lasso temporale continuativo molto lungo (circa 12 anni), per
una media giornaliera di 5 – 6 ore e concentrata
principalmente sull’orecchio sinistro dell’assicurato (che, com’è
di piana evidenza, concretizza una situazione affatto diversa
da un normale uso non professionale del telefono cellulare).
L’ulteriore rilievo circa la maggiore attendibilità proprio di tali
studi, stante la loro posizione di indipendenza, ossia per non
essere stati cofinanziati, a differenza di altri, anche dalle stesse
ditte produttrici di cellulari, costituisce ulteriore e non illogico
fondamento delle conclusioni accolte.
Né è stato dedotto – e tanto meno, dimostrato – che le indagini
epidemiologiche le cui conclusioni sono state prese in
particolare considerazione provengano da gruppi di lavoro
privi di serietà ed autorevolezza e, come tali, sostanzialmente
estranei alla comunità scientifica.
L’asserita prevalenza che, secondo il ricorrente, dovrebbe
essere attribuita alle conclusioni di altri gruppi di ricerca (le cui
indagini, peraltro, secondo quanto dedotto, almeno all’epoca
del giudizio di merito erano ancora “in corso”), si risolvono
anch’essi nella richiesta di un riesame del merito, non
consentito in sede di legittimità. Avendo inoltre la Corte
territoriale riscontrato nelle considerazioni già svolte dal CTU e
dal CT di parte M. elementi ritenuti sufficienti a confutare le
osservazioni critiche dell’Istituto, non sussisteva la necessità di
investire ulteriormente il CTU di una richiesta a chiarimenti.
Anche il secondo motivo di ricorso va quindi disatteso.
3. In definitiva il ricorso va rigettato
L’esito fra loro difforme dei giudizi di merito e la novità, sotto il
profilo della peculiarità fattuale, della vicenda dedotta in
causa, consigliano la compensazione delle spese.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso; spese compensate.

Cassazione civile sezione lavoro sentenza 12 novembre 2012 n 19644 – La scelta dei lavoratori da collocare in mobilità non deve necessariamente interessare l’intera azienda, ma può avvenire anche nell’ambito di una sola unità o di un solo settore produttivo

Cassazione civile sezione lavoro sentenza 12 novembre 2012 n 19644
La scelta dei lavoratori da collocare in mobilità non deve necessariamente interessare l’intera azienda, ma può avvenire anche nell’ambito di una sola unità o di un solo settore produttivo

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROSELLI Federico – Presidente
Dott. FILABOZZI Antonio – rel. Consigliere
Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere
Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere
Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere

ha pronunciato la seguente sentenza

sul ricorso 7105-2008 proposto da (OMISSIS), gia’ elettivamente domiciliato in (OMISSIS),
presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti e
da ultimo domiciliato presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI
CASSAZIONE;
– ricorrente


contro (OMISSIS) S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in (OMISSIS), presso lo STUDIO (OMISSIS) & PARTNERS, rappresentata e
difesa dall’avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;
– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1459/2007 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il
04/01/2008 R.G.N. 316/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/10/2012 dal Consigliere
Dott. ANTONIO FILABOZZI;
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CORASANITI Giuseppe che
ha concluso per l’inammissibilita’ del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’appello di Firenze, rigettando l’appello proposto da (OMISSIS), ha confermato la
sentenza di primo grado con cui era stata ritenuta la legittimita’ del licenziamento per
riduzione di personale intimato al ricorrente dalla (OMISSIS) spa con lettera del 27.12.2005. A
tali conclusioni la Corte territoriale e’ pervenuta osservando che la Legge n. 223 del 1991,
articoli 4 e 5, non preclude al datore di lavoro, nella valutazione delle esigenze tecnico-produttive, di individuare uno stabilimento o comunque una unita’ produttiva della quale si

rende necessaria la chiusura e di concentrare solo su tale unita’ la scelta dei dipendenti da
licenziare, cosi’ come era avvenuto nel caso di specie, in cui era stata chiusa la sede di
(OMISSIS), alla quale era addetto il (OMISSIS), ed erano stati licenziati tutti i dipendenti che
erano addetti alla stessa sede ed erano gia’ stati posti in cassa integrazione.
Avverso tale sentenza ricorre per cassazione (OMISSIS) affidandosi ad un unico motivo cui
resiste con controricorso la (OMISSIS) spa.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1.- Con l’unico motivo si denuncia violazione di norme di diritto e dei contratti e accordi
collettivi nazionali di lavoro in relazione alla Legge n. 223 del 1991, articolo 4, commi 1 e 9, e
articolo 5, comma 1, chiedendo a questa Corte di stabilire se “allorche’ la societa’, i cui
lavoratori siano stati posti in cassa integrazione straordinaria, ritenga di non essere in grado
di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi e di non poter ricorrere a misure
alternative … la stessa societa’ deve aprire la procedura di mobilita’ nei confronti di tutti i
lavoratori posti in cigs, consentendo cosi’ l’esame congiunto delle parti sociali sull’insieme dei
lavoratori posti in cigs, salva la possibilita’, all’esito della procedura, di individuare i lavoratori
eccedenti, secondo il prevalente criterio oggettivo di tipo tecnico produttivo, anche presso una
sola sede o reparto dell’impresa; essendo comunque tenuta ad indicare nelle comunicazioni
Legge n. 223 del 1991, ex articolo 4, comma 9 nei confronti dell’Ufficio Regionale del Lavoro,
della Commissione Regionale per l’impiego e delle associazioni di categoria, anche i nominativi
di coloro che non sono colpiti dal licenziamento ed i relativi requisiti, al fine di consentire il
controllo del puntuale rispetto dei criteri di scelta di cui alla Legge n. 223 del 1991, articolo 5,
comma 1”.
2.- Il ricorso e’ infondato.
La questione all’esame, attinente all’ambito entro il quale deve essere operata la scelta dei
lavoratori da licenziare, e’ gia’ stata oggetto di disamina da parte della giurisprudenza di
questa Corte, che ha affermato il principio secondo cui, in caso di licenziamento collettivo per
riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo
esclusivo ad un’unita’ produttiva o ad uno specifico settore dell’azienda, la comparazione dei
lavoratori, al fine di individuare quelli da avviare alla mobilita’, non deve necessariamente

interessare l’intera azienda, ma puo’ avvenire, secondo una legittima scelta dell’imprenditore
ispirata al criterio legale delle esigenze tecnico-produttive, nell’ambito della singola unita’
produttiva, ovvero del settore interessato alla ristrutturazione, in quanto cio’ non sia il frutto
di una determinazione unilaterale del datore di lavoro, ma sia obiettivamente giustificato
dalle esigenze organizzative che hanno dato luogo alla riduzione di personale (cfr. ex plurimis
Cass. n. 26376/2008, Cass. n. 14612/2006, Cass. n. 13783/2006, Cass. n. 11034/2006, Cass. n.
10590/2005, Cass. n. 13182/2003, Cass. n. 12711/2000 e, da ultimo, Cass. n. 2429/2012). Al
riguardo, e’ stato osservato che “… la delimitazione del personale a rischio si opera in relazione
a quelle esigenze tecnico produttive ed organizzative che sono state enunciate dal datore con la
comunicazione di cui all’articolo 4, comma 3; e’ ovvio che, essendo la riduzione di personale
conseguente alla scelta del datore sulla dimensione quantitativamente e qualitativamente
ottimale dell’impresa per addivenire al suo risanamento, dalla medesima scelta non si puo’
prescindere quando si voglia determinare la platea del personale da selezionare”. Dovendosi
tuttavia attribuire il debito rilievo anche alla previsione testuale della norma secondo cui le
medesime esigenze tecnico produttive devono essere riferite al “complesso aziendale”, “… si
arguisce facilmente che non vi e’ spazio per una restrizione all’ambito di applicazione dei
criteri di scelta che sia frutto della iniziativa datoriale pura e semplice, perche’, come gia’
detto, cio’ finirebbe nella sostanza con alterare la corretta applicazione dei criteri stessi, che la
Legge n. 223 del 1991, articolo 5, intende sottrarre al datore, imponendo che questa venga
effettuata o sulla base dei criteri concordati con le associazioni sindacali, ovvero, in mancanza,
secondo i criteri legali. E’ dunque arbitraria e quindi illegittima ogni decisione del datore
diretta a limitare l’ambito di selezione ad un singolo settore o ad un reparto, se cio’ non sia
strettamente giustificato dalle ragioni che hanno condotto alla scelta di riduzione del
personale. La delimitazione dell’ambito di applicazione dei criteri dei lavoratori da porre in
mobilita’ e’ dunque consentita solo quando dipenda dalle ragioni produttive ed organizzative,
che si traggono dalle indicazioni contenute nella comunicazione di cui all’articolo 4, comma 3,
quando cioe’ gli esposti motivi dell’esubero, le ragioni per cui lo stesso non puo’ essere
assorbito, conducono coerentemente a limitare la platea dei lavoratori oggetto della scelta”
(cfr. in motivazione Cass. n. 25353/2009, nonche’, nello stesso senso, Cass. n. 9711/2011). 3.-
Nel caso in esame deve rilevarsi che dalla sentenza impugnata risulta che la procedura di
mobilita’ era stata preceduta da una crisi settoriale che aveva determinato la chiusura
dell’unita’ produttiva di (OMISSIS), alla quale era addetto il lavoratore, e la successiva
sospensione, con ricorso alla c.i.g.s. dal luglio 2002 al dicembre 2005, dei dipendenti della
stessa sede.
L’individuazione dei lavoratori interessati al provvedimento di sospensione era avvenuta sulla
base dei criteri concordati con le organizzazioni sindacali, e cioe’ con riferimento alla

situazione delle singole unita’ produttive e “sulla base delle effettive esigenze tecnico
produttive derivanti dalle attivita’ eseguibili e dalle professionalita’ impiegabili in dette
attivita'”.
Al termine del periodo di c.i.g.s., la societa’, non avendo la possibilita’ di garantire il reimpiego
dei lavoratori sospesi dal lavoro, aveva avviato la procedura di mobilita’ nei confronti di tutti i
dipendenti (quattro) rimasti nella sede di (OMISSIS).
4.- Nel contesto sopra indicato, il collegamento con l’ammissione alla c.i.g.s. del personale
addetto alla sede di (OMISSIS) e con l’impossibilita’ del suo reimpiego giustifica, quindi,
l’avvio della procedura di mobilita’ e legittima la decisione del datore di lavoro di limitare
l’ambito di selezione ad una singola unita’ produttiva. 5.- Il ricorrente, d’altra parte, non ha
dedotto che la limitazione dell’ambito di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da
porre in mobilita’ non dipenda dalle ragioni produttive ed organizzative che si traggono dalle
indicazioni contenute nella comunicazione di cui alla Legge n. 223 del 1991, articolo 4, comma
3, inviata dalla (OMISSIS) alle organizzazioni sindacali, ne’ che tale limitazione non sia
coerente con le suddette ragioni, limitandosi a sostenere, in contrasto con l’indirizzo
giurisprudenziale sopra menzionato, che, anche quando il progetto di ristrutturazione
aziendale si riferisca in modo esclusivo ad una unita’ produttiva o ad uno specifico settore
dell’azienda, la comparazione dei lavoratori, al fine di individuare quelli da avviare alla
mobilita’, debba interessare necessariamente l’intera azienda.
6.- In definitiva, quindi, in difetto di una specifica contestazione inerente alla completezza e
alla veridicita’ delle indicazioni contenute nella comunicazione di cui all’articolo 4, comma 3, in
ordine alle ragioni che non consentono che l’esubero possa essere assorbito, o alla eventuale
incoerenza della delimitazione dell’ambito di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da
porre in mobilita’ rispetto alle suddette indicazioni, non puo’ ritenersi che detta delimitazione
sia dipesa da una pura e semplice iniziativa datoriale e non sia invece giustificata dalle
esigenze organizzative che hanno dato luogo alla riduzione di personale, cosi’ come indicate
nella comunicazione di inizio della procedura, conducenti a limitare la platea dei lavoratori
oggetto della scelta. 7.- Alla stregua delle argomentazioni che precedono, deve ritenersi
insussistente anche la dedotta violazione della Legge n. 223 del 1991, articolo 4, comma 9,
giacche’, anche a voler prescindere dal fatto che non viene riportato nel ricorso per cassazione
il contenuto della comunicazione prevista dalla suddetta disposizione, la mancata indicazione,
nella detta comunicazione, anche dei dipendenti addetti ad altre sedi, che hanno invece
conservato il posto di lavoro, risulta comunque coerente con la delimitazione (ritenuta
legittima) dell’ambito applicativo dei criteri di scelta dei lavoratori da porre in mobilita’ ad
una singola unita’ produttiva. 8.- In conclusione, il ricorso deve essere respinto con la conferma della sentenza impugnata,
restando assorbite in quanto sinora detto tutte le censure non espressamente esaminate.
9.- Le spese del giudizio di legittimita’ seguono la soccombenza e vengono liquidate tacendo
riferimento alle disposizioni di cui al Decreto Ministeriale 20 luglio 2012, n. 140 e alla tabella
A ivi allegata, in vigore al momento della presente decisione (articoli 41 e 42, Decreto
Ministeriale cit.).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro
40,00 oltre euro 2.500,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.

Cassazione civile sezione III sentenza 13 marzo 2012 n 3969 – Terzo, intervento, garanzia impropria, impugnazione, rapporto principale, limiti

Cassazione civile sezione III sentenza 13 marzo 2012 n 3969
Terzo, intervento, garanzia impropria, impugnazione, rapporto principale, limiti

La terza sezione civile
(Presidente Petti – Relatore Amendola)

Svolgimento del processo
I fatti di causa rilevanti ai fini della decisione del ricorso possono così ricostruirsi sulla base
della sentenza impugnata. Con citazione notificata il 29 novembre 1995 D.H.M.A. convenne in
giudizio innanzi al Tribunale di Torre Annunziata V.S., per ivi sentir pronunciare la
risoluzione del contratto preliminare di vendita concluso in data 24 giugno 1992. Espose che la
conclusione del definitivo era stata impedita dalla esistenza di un giudizio di divisione
ereditaria avente ad oggetto il suolo sul quale era stata costruita l’unità abitativa promessale
in vendita, immobile per il cui acquisto ella aveva già versato la somma di lire 85.000.000,
della quale il 20% a titolo di caparra confirmatoria. Domandò anche il risarcimento dei danni
subiti.
Il convenuto contestò le avverse pretese. Chiese, ed ottenne, di chiamare in causa i suoi danti
causa, R.G. e M.L. , nonché il notaio G.B., che aveva rogato l’atto con il quale egli aveva
acquistato.
Su iniziativa di quest’ultimi, infine, il contraddittorio venne esteso alla società assicuratrice
Danubio s.p.a., poi incorporata da Zurich Insurance PLC. Con sentenza del 20 marzo 2003 il
giudice adito dichiarò risolto il preliminare; condannò V.S. a restituire a D.H.M.A. la somma
di Euro 43.899,00; condannò quest’ultima a restituire al S. l’immobile nonché a pagargli
l’indennità di occupazione; condannò G.R., R.M.L. e il notaio G.B. a rimborsare al S., a titolo di
manleva e di responsabilità contrattuale, la somma dallo stesso dovuta in restituzione alla
D.H., e la società assicuratrice a tenere indenne il notaio dalle somme versate.
Propose appello Zurich Insurance, deducendo, tra l’altro, l’erroneità della condanna del notaio
al rimborso del prezzo della mancata vendita nonché l’inoperatività della polizza con
riferimento alle domande di restituzione.
G.B., a sua volta, propose appello incidentale tardivo, aderendo, per quanto di ragione,
all’appello di Zurich, e spiegando appello incidentale, al fine di ottenere la riforma della
sentenza impugnata nella parte in cui aveva affermato la sua responsabilità, con le
conseguenti, ingiuste condanne che l’avevano riguardata.
Pronunciando sui gravami riuniti, la Corte d’appello di Napoli, in data 16 febbraio 2010, ha
dichiarato inammissibile l’appello principale avverso il capo della pronuncia del Tribunale con
il quale il notaio B. era stato condannato a rimborsare a S.V. la somma da lui dovuta in restituzione a D.H.M.A.; ha rigettato nel resto; ha dichiarato inefficace l’appello incidentale
proposto da G.B.
Per quanto qui interessa, così ha motivato il giudicante il suo convincimento.
La chiamata in causa della società assicuratrice, a iniziativa dell’assicurato professionista,
costituiva una chiamata in garanzia impropria, in quanto fondata su un titolo autonomo e
distinto da quello in base al quale il S. aveva, a sua volta, chiesto che il contraddittorio venisse
esteso alla B. . Secondo la giurisprudenza del Supremo Collegio, il garante poteva proporre
impugnazione in ordine al rapporto principale unicamente nel caso in cui fosse stato chiamato
in giudizio non solo a fini di rivalsa, per il caso di soccombenza del chiamante, ma in quanto
ritenuto unico responsabile del fatto generatore della responsabilità, laddove, in tutti gli altri
casi, l’impugnativa del chiamato andava limitata alla causa di garanzia, pur mantenendo lo
stesso, nell’ambito del relativo rapporto, la facoltà di riproporre questioni inerenti alla
esistenza e alla validità dell’obbligazione del chiamante verso l’attore. Posto allora che con il
primo motivo di gravame la società assicuratrice aveva criticato esclusivamente la condanna
del notaio al rimborso, in solido con R.G. e M.L., delle somme dovute dal S. all’attrice, le
relative censure erano inammissibili, perché la garante, estranea al rapporto tra il notaio B. ,
il R. e il S., non poteva formularle.
Quale corollario di tale statuizione, la Corte d’appello ha poi dichiarato l’inefficacia dell’appello
incidentale proposto dalla B., in quanto tardivo.
Con riferimento al secondo motivo dell’appello principale, con il quale Zurich aveva contestato
l’operatività della polizza, avendo questa ad oggetto esclusivamente i danni cagionati a terzi,
ma non le restituzioni dovute dal notaio, il decidente ha ritenuto le censure infondate perché
la pretesa dell’assicurato di conseguire il rimborso di quanto dovuto al terzo danneggiato
integrava esercizio del diritto all’indennizzo, e cioè di un diritto compreso nel contratto di
assicurazione.
Per la cassazione di detta pronuncia ricorre a questa Corte Zurich Insurance PLC, formulando
cinque motivi.
Resistono con due distinti controricorsi B.G. e V.S.
Quest’ultimo ha anche depositato memoria.

Motivi della decisione
Con il primo motivo l’impugnante lamenta violazione degli artt. 31, 100, 102, 105, 106, 107,
269 e 331 cod. proc. civ., ex art. 360, n. 4, cod. proc. civ.
Assume che la decisione della Corte d’appello sarebbe in contrasto con i più recenti arresti del
Supremo Collegio, volti a ribadire che, laddove il convenuto chiami un terzo in causa,
esperendo nei suoi confronti una domanda di garanzia impropria fondata su un titolo diverso e indipendente rispetto a quello posto a base della domanda principale, e il terzo evocato in
giudizio non si limiti a contrastare la domanda di manleva, ma confuti anche l’obbligazione
principale, così contestando la fondatezza della domanda proposta nei confronti del proprio
chiamante, si configura una ipotesi di inscindibilità di cause, con conseguente applicabilità
della disciplina prevista dall’art. 331 cod. proc. civ. e declaratoria di improcedibilità
dell’appello in caso di mancata ottemperanza all’ordine di integrazione del contraddittorio nei
riguardi del suddetto terzo (confr. Cass. civ. 13 maggio 2009, n. 11055). Assume che essa,
avendo contestato, fin dalla costituzione in giudizio, la sussistenza della responsabilità della
sua assicurata, e avendo, conseguentemente assunto la veste di litisconsorte necessario, era
legittimata a impugnare la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva affermato la
responsabilità del notaio B.
1.2 Con il secondo mezzo la ricorrente società denuncia vizi motivazionali, anche in relazione
all’art. 112 cod. proc. civ., ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ. Sostiene che al più la sentenza del
Tribunale poteva ritenersi passata in giudicato nei rapporti tra il S. e la B., non già nei suoi
confronti, avendola essa tempestivamente e integralmente impugnata. Deduce che l’appello
proposto aveva ad oggetto anche il rapporto contrattuale tra Zurich e il notaio, essendo stata
segnatamente contestata l’estensione della copertura assicurativa alle restituzioni, laddove la
garanzia era limitata ai soli danni cagionati ai terzi dall’assicurato. La Corte d’appello avrebbe
del tutto omesso di pronunciare sul punto. In ogni caso, la motivazione sarebbe, in parte qua,
assolutamente insufficiente.
1.3 Con il terzo motivo l’impugnante deduce vizi motivazionali con riferimento all’affermazione
del giudice di merito secondo cui la garante non poteva muovere censure relative al rapporto
tra il notaio B. , i R. e il S. . Sostiene che siffatta affermazione sarebbe in contrasto con la
premessa esposta a pagina 5 della impugnata sentenza, secondo cui il garante (Ndr: testo
originale non comprensibile) proporre impugnazione solo limitatamente alla causa di
garanzia, pur mantenendo, nell’ambito del relativo rapporto, la facoltà di riproporre questioni
inerenti alla esistenza e alla validità dell’obbligazione del chiamante verso l’attore.
1.4 Con il quarto mezzo prospetta violazione degli artt. 1458, 2033, 1292 e 1917 cod. civ. Le
critiche si appuntano contro la ritenuta operatività della polizza assicurativa anche con
riferimento agli obblighi restitutori che, in quanto non rientranti nella nozione di danno, erano
estranei al rischio assicurato
1.5 Con il quinto motivo la ricorrente lamenta omessa motivazione in ordine alla condanna
della B. a restituire il prezzo di una vendita di cui non era parte nonché in ordine alla
condanna della società assicuratrice a manlevare il notaio anche per siffatta condanna. In
relazione alla medesima questione, prospetta altresì violazione degli artt. 1458, 2003, 1917 e
1292 cod. civ. Assume che la motivazione della Corte d’appello, che si era limitata a definire

corretta la statuizione del primo giudice, laddove aveva ritenuto che la pretesa dell’assicurato
di conseguire dall’assicuratore il rimborso rientrasse nell’oggetto del contratto di
assicurazione, era del tutto inesistente, avendo la Corte richiamato, per relationem, le
argomentazioni del Tribunale, a sua volta assolutamente inappaganti, senza farsi carico, in
ogni caso, di confutare gli articolati rilievi formulati nell’atto di gravame.
2 Nel suo controricorso, il notaio B. , dichiara di aderire al ricorso di Zurich, del quale chiede
l’accoglimento, facendo propri i motivi di ricorso.
Deducendo violazione degli artt. 31, 100, 102, 105, 106, 107, 269 e 331 cod. proc. civ., ricorda
segnatamente che il chiamato in causa, il quale abbia contestato l’esistenza e la validità
dell’obbligazione del garantito verso l’attore, oltre ad assumere la veste di litisconsorte
necessario della parte principale, è legittimato a impugnare la sentenza, nella parte in cui
abbia statuito sul rapporto principale. Assume quindi che, in casi siffatti, posto che i motivi
prospettati nell’atto di impugnazione del chiamato investono la esistenza e la misura
dell’obbligazione del chiamante, deve ritenersi ammissibile l’impugnazione incidentale tardiva
del convenuto chiamante. Lamentando vizi motivazionali, rileva poi che la sentenza
impugnata aveva, da un lato, affermato che il garante può, ai fini del rapporto di garanzia,
contestare l’esistenza del rapporto principale, e cioè l’obbligazione del chiamante nei confronti
dell’attore; dall’altro escluso la possibilità di Zurich di muovere censure in ordine alle
statuizioni della sentenza impugnata concernenti il rapporto principale.
3 Il ricorso di Zurich Insurance PLC deve essere rigettato, anche se la motivazione della
sentenza impugnata va integrata e corretta, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 384 cod. proc.
civ.
Va premesso, in punto di fatto, che nel giudizio di gravame non si è mai posto un problema di
integrazione del contraddittorio, essendo presenti nel processo sia la società assicuratrice,
chiamata in manleva e appellante principale, che il notaio B. , chiamante e appellante
incidentale. Non è poi superfluo ricordare, su un piano più strettamente dogmatico, che, in
caso di chiamata in garanzia impropria e di contestazione, da parte del terzo, non solo della
domanda di manleva, ma anche dell’obbligazione principale, gli effetti del carattere scindibile
delle cause (confr. Cass. civ. 4 febbraio 2010, n. 2557; Cass. civ. 22 gennaio 2010, n. 1197;
Cass. civ. sez. un. 27 novembre 2007, n. 24627) sono ormai fortemente stemperati dalla
riconosciuta, ampia ammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva, ammissibilità
affermata sulla base della necessità di tutelare il principio dell’interesse all’impugnazione
della parte che, avendo prestato acquiescenza a una sentenza, veda rimesso in discussione
dall’impugnazione principale di altro consorte in lite, l’assetto di interessi dalla stessa
derivante (confr. Cass. civ. 22 aprile 2011, n. 9308; Cass. civ. 27 novembre 2007, n. 24627).

4. Così ricostruito il contesto processuale di riferimento, osserva il collegio, con specifico
riferimento alle censure svolte nei primi tre mezzi, che ha certamente ragione l’impugnante
Zurich quando afferma che il suo appello, nella parte in cui era volto a contestare le statuizioni
della sentenza di prime cure relative al rapporto principale, non poteva essere dichiarato
inammissibile.
Non par dubbio, infatti, che il chiamato può autonomamente impugnare quelle statuizioni, sia
pure al solo fine di sottrarsi agli effetti riflessi che la decisione avrà sul rapporto di garanzia:
tale principio, pacifico nella giurisprudenza di legittimità, (confr. Cass. civ. 4 febbraio 2010, n.
2557; Cass. civ. 24 gennaio 2003), costituisce l’estensione obbligata della legittimazione del
terzo a svolgere le sue difese, sin dal giudizio di prime cure, non solo al fine di contrastare la
domanda di manleva, ma anche sul terreno dell’obbligazione principale. Ne deriva che ha
errato la Curia territoriale nel dichiarare inammissibile l’appello di Zurich,
contraddittoriamente richiamando, peraltro, proprio le pronunce testé citate.
5. E tuttavia, il riconosciuto vulnus della sentenza della Corte partenopea non ne guadagna
all’impugnante la cassazione, per le ragioni che seguono.
A ben vedere, infatti, le contestazioni che la società muove al rapporto principale sono, al
postutto, le stesse che formula, nel quarto e nel quinto motivo di ricorso, in ordine alla
operatività della copertura assicurativa.
Zurich non ha per vero mai contestato la responsabilità professionale della B., ma ha piuttosto
sostenuto la radicale incompatibilità del ruolo svolto dal notaio nelle transazioni negoziali che
si attuano per tramite del suo ministero, con gli obblighi restitutori gravanti sulle parti in caso
di risoluzione per vizi genetici o funzionali del sinallagma contrattuale. In ogni caso, ha
aggiunto, il rischio assicurato ad essi non si estende, coprendo la polizza i danni e non le
restituzioni.
La prospettiva di fondo è dunque sempre la stessa: che il notaio sia stato impropriamente
condannato a restituire una prestazione che non aveva mai ricevuto e che era stata eseguita
nell’ambito di un rapporto contrattuale al quale era estraneo. Donde l’illegittimità della
condanna e, comunque, l’inoperatività della manleva. Trattasi, tuttavia, di prospettiva errata,
perché, in realtà, come correttamente rilevato dal giudice a quo, la condanna pronunciata nei
confronti della B. è pur sempre una condanna al risarcimento dei danni, ancorché gli stessi
siano stati quantificati assumendo a parametro gli obblighi restitutori gravanti sul convenuto
S. Di talché si poteva al più discutere della congruità di tale liquidazione, ma giammai
contestarla sotto il profilo di una pretesa, inesistente confusione tra ruolo del notaio e ruolo
della parte. Ne deriva che l’appello di Zurich era sì ammissibile, ma andava comunque
rigettato, sia laddove, censurando la sentenza del Tribunale, criticava una condanna

restitutoria, che, in realtà non era mai stata pronunciata, sia, per le medesime ragioni,
laddove sosteneva l’insussistenza di un sinistro assicurato.
Il ricorso, in definitiva, deve essere respinto, previa modifica della motivazione della sentenza
impugnata nel senso testé esposto.
Peraltro, considerato che la decisione è comunque incorsa in errore, si ravvisano giusti motivi
per compensare integralmente tra le parti le spese del giudizio. A ciò aggiungasi, per quanto
riguarda la B., che la stessa, come testé evidenziato, ha sostanzialmente aderito
all’impugnazione della società Zurich.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio.

Cassazione civile sezione III sentenza 09 marzo 2012 n 3717 – Pubblicità sanitaria, attività professionale, società, Ordini, autorizzazione

Cassazione civile sezione III sentenza 09 marzo 2012 n 3717
Pubblicità sanitaria, attività professionale, società, Ordini, autorizzazione

La terza sezione civile

Svolgimento del processo
1. L’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della
Provincia di La Spezia irrogava la sanzione, di sei mesi di
sospensione dalla professione, al Dott. P.G.D., nella qualità di
direttore sanitario di due cliniche odontoiatriche, facenti parte
del network internazionale “Vital Dent”, denominate
Genoveva Uno srl e Genoveva Due srl. Veniva riconosciuta la
violazione del codice deontologico (del dicembre 2006): per
non aver comunicato all’Ordine l’incarico di direttore sanitario
(art. 69); per la mancanza di trasparenza e veridicità della
pubblicità effettuata dalle società, mediante la distribuzione
di volantini, contenenti la seguente dicitura “Prima visita,
diagnosi, radiografia e preventivo gratuiti” e l’indicazione di
“estetica” tra le prestazioni offerte (artt. 55 e 56).
2. La Commissione Centrale per gli esercenti le professioni
sanitarie, adita dal medico, riduceva la sanzione a mesi
cinque (decisione del 30 luglio 2010).
3. Avverso la suddetta sentenza, il Dott. P. propone ricorso per
cassazione con unico motivo, illustrato da memoria.
L’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della
Provincia di La Spezia si difende con controricorso, illustrato da
memoria.
Il Procuratore della Repubblica di La Spezia e il Ministero della
salute, cui il ricorso è stato notificato, non si difendono.

Motivi della decisione
1. Preliminarmente, deve rilevarsi che è priva di fondamento
l’eccezione dell’Ordine dei medici di La Spezia, concernente
la mancata indicazione delle parti processuali nel ricorso, ai
sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 1, con conseguente richiesta di
inammissibilità, sollevata sulla base dell’interpretazione di tale
articolo da parte della giurisprudenza di legittimità (da ultimo
Cass. 7 settembre 2009, n. 19286).
1.1. Ritiene il Collegio che la circostanza che nell’intestazione
e nel corpo del ricorso non risultino individuati gli intimati non
rileva se, come nella specie, non sussiste alcuna incertezza in
ordine agli stessi.
Infatti, il ricorso per cassazione avverso la decisione della
Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie,

promosso dal sanitario incolpato, ha come contraddittori
necessari, ai sensi del D.P.R. 5 maggio 1950, n. 221, art. 68, gli
stessi contraddittori del procedimento instaurato davanti a
detta Commissione: il Consiglio provinciale dell’ordine dei
medici, il Procuratore della Repubblica ed il Ministro della
salute, (Cass. 27 maggio 2011, n. 11755). Conseguentemente,
nessuna incertezza sulla individuazione degli intimati può
sussistere quando, come nella specie, il ricorrente ha richiesto
la notifica del ricorso (poi effettivamente notificato) ai suddetti
contraddittori.
2. La decisione impugnata si fonda sulle argomentazioni che
seguono.
– I motivi di ricorso che attengono alla “correttezza” del
messaggio pubblicitario sono infondati poichè il D.L. 4 luglio
2006, n. 223, convertito, con modificazioni, in L. 4 agosto 2006,
n. 248, che ha regolato la pubblicità sanitaria in modo diverso
dalla L. 5 febbraio 1992, n. 175, non si applica alle società di
capitali, che restano soggette alla vecchia disciplina. Risulta
accertato, pertanto, che la società ha effettuato la pubblicità
in violazione di un divieto di legge (quella del 1992 ndr).
– Sono infondati i motivi che attengono ai vizi del
procedimento amministrativo.
– Non avendo l’incolpato svolto un ruolo di primo piano nella
realizzazione del messaggio pubblicitario, ma, comunque,
gravando sul direttore sanitario l’onere di garantire la
deontologia professionale (art. 69 cod. deontologico), si
riduce la sanzione.
3. Con l’unico motivo di ricorso, si deduce violazione e falsa
applicazione di legge, laddove la decisione impugnata ritiene
che, in riferimento alla pubblicità sanitaria, la cosiddetta
Legge Bersani del 2006 non si applica alle società di capitali, e
che per tali società vale la precedente disciplina, prevista
dalla L. n. 175 del 1992; ravvisando, conseguentemente, la
violazione del divieto di pubblicità da parte delle società, di
cui il P. era direttore sanitario.
3. Il ricorso va accolto.
La questione all’attenzione della Corte è se la previsione
abrogativa generale contenuta nella L. n. 248 del 2006, art. 2,
lett. b, nella quale è sicuramente compresa l’abrogazione
delle norme in materia di pubblicità sanitaria, di cui alla L. n.
175 del 1992, rilevante nella specie, sia o meno riferibile alle
società di capitali, nelle quali i professionisti svolgano la
professione, anche quali direttori sanitari (come nella specie).
Poichè la decisione impugnata ha ritenuto non riferibile
l’abrogazione della disciplina del 1992 alle società di capitali e

ha ritenuto persistente l’applicabilità alle stesse della vecchia
disciplina abrogata, rinvenendo la violazione nel (pacifico)
mancato rispetto di quest’ultima, per tate ragione non
valutando la trasparenza e la veridicità di pubblicità vietata in
radice, perchè non autorizzata, non manca di decisività il
ricorso che pone la suddetta questione, al contrario di quanto
sostiene l’Ordine contro ricorrente.
Va preliminarmente chiarito che è estraneo alla controversia il
tema dell’esercizio della professione in forma societaria
(regolato in generale dalla L. n. 248 del 2006, stesso art. 2, lett.
c)), trattandosi di direttore sanitario di cliniche di proprietà di
società di capitali, tenuto, ai sensi del codice deontologico
(art. 69) a vigilare sulla correttezza del materiale informativo
pubblicitario attinente alla organizzazione e alle prestazioni
erogate dalla struttura.
Il Collegio reputa che al quesito debba darsi risposta
affermativa.
3.1. La L. del 1992 (e successive modificazioni, sino alla novella
con L. 3 maggio 2004, n. 112) regolamentava rigidamente la
pubblicità sanitaria, disciplinandone mezzi (targhe e inserzioni,
anche mediante i nuovi strumenti di comunicazione) e
contenuti (solo individuazione del professionista o del direttore
sanitario responsabile; titoli di studio, anche specialistici;
onorificenze, artt. 1 e 4). Subordinava le uniche forme di
pubblicità consentite ad autorizzazioni, del Sindaco (art. 2) o
della Regione, previo nulla osta degli Ordini (art. 5, nel caso di
strutture sanitarie, quali case di cura…ecc.). Prevedeva
sanzioni disciplinari in caso di violazione (artt. 3 e 5). In
definitiva, vietava qualunque forma di pubblicità al di fuori dei
mezzi e dei contenuti espressamente previsti e, nell’ambito dei
mezzi e dei contenuti espressamente previsti, consentiva la
pubblicità solo se espressamente autorizzata, secondo la
procedura pure regolamentata.
3.2. Il cosiddetto decreto Bersani del 2006 – emanato mentre
erano in corso i lavori preparatori della direttiva 2006/123/CE,
relativa ai servizi nel mercato interno, anticipandone i principi
ispiratori – ha abrogato le disposizioni legislative e
regolamentari che prevedono, per le attività libero-

professionali, “il divieto, anche parziale, di svolgere pubblicità
informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le
caratteristiche del servizio offerto, nonchè il prezzo e i costi
complessivi delle prestazioni” (art. 2 lett. b); ha attribuito agli
Ordini professionali il compito della verifica del rispetto della
trasparenza e veridicità del messaggio pubblicitario (lett. b),
ultima parte); ha disposto l’adeguamento delle disposizioni deontologiche entro una data individuata (1 gennaio 2007),
prevedendo la nullità di quelle in contrasto a partire dalla
stessa data (art. 2, comma 3). La finalità della suddetta
disposizione di: fornire strumenti “per garantire il rispetto degli
artt. 43, 49, 81, 82 e 86 del Trattato istitutivo della Comunità
Europea ed assicurare l’osservanza delle raccomandazioni e
dei pareri della Commissione Europea, dell’Autorità garante
della concorrenza e del mercato…” (art. 1);
disporre in conformità al principio comunitario di libera
concorrenza ed a quello di libera circolazione delle persone e
dei servizi, nonchè al fine di assicurare agli utenti un’effettiva
facoltà di scelta nell’esercizio dei propri diritti e di
comparazione delle prestazioni offerte sul mercato (art. 2,
primo alinea), risulta chiaramente dallo stesso decreto.
3.2.1. Tale intervento normativo si coordina, andando a
comporre un sistema organico, con altri due successivi e
contemporanei interventi legislativi, sempre attuativi del diritto
comunitario, che hanno introdotto una nuova disciplina in
tema di pubblicità ingannevole (D.Lgs. 2 agosto 2007, n. 145)
e di pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel
mercato interno (D.Lgs. 2 agosto 2007, n. 146), affidando
all’Autorità garante della concorrenza e del mercato il potere
di avviare procedimenti ispettivi, anche su segnalazione di
professionisti e consumatori, non esclusi gli Ordini professionali,
e di adottare i conseguenti provvedimenti inibitori e
sanzionatori.
3.2.2. Nel dare attuazione alla direttiva del 2006 cit.,
intervenendo nuovamente in tema di pubblicità per le attività
libero – professionali – questa volta con alcune esclusioni art. 2,
che, però, non comprendono le professioni sanitarie – il
legislatore, con il D.Lgs. 36 marzo 2010, n. 59, ha
espressamente fatto salva (art. 34) la disciplina introdotta dal
cosiddetto decreto Bersani, aggiungendo che “limitazioni al
libero impiego delle comunicazioni commerciali…devono
essere giustificate da motivi imperativi di interesse generale
nel rispetto dei principi di non discriminazione e
proporzionalità”.
3.3. La stretta derivazione comunitaria del cosiddetto decreto
Bersani, confermata da interventi legislativi nella stessa
direzione, volti a garantire la libertà di concorrenza, secondo
condizioni di pari opportunità, e il corretto e uniforme
funzionamento del mercato; il suo inserimento in un sistema
organico, nel quale l’abrogazione delle norme restrittive della
pubblicità e l’affidamento agli Ordini professionali del
controllo, della libera pubblicità, ai fini disciplinari, sotto il profilo della trasparenza e veridicità (cfr., rispetto agli
avvocati, Sez. Un. 18 novembre 2010, n. 23287, in
motivazione), si coniuga con i poteri inibitori e sanzionatori
attribuiti all’Autorità garante della concorrenza e del mercato,
attivabili anche dal professionista e dal consumatore, non
esclusi gli ordini professionali; la mancanza nelle disposizioni
legislative di qualunque distinguo in ordine ai soggetti che tale
pubblicità effettuano; l’evidente irragionevolezza di sottrarre
alla nuova disciplina la pubblicità posta in essere da soggetti
diversi dal singolo professionista e cioè proprio quei soggetti
(sia che si tratti dell’esercizio della professione in forma
societaria, quando e nelle forme consentite, che dell’esercizio
della attività professionale all’interno dell’organizzazione di
un’impresa di servizi sanitari, nella forma di società di capitali)
che più dei singoli professionisti ricorrono a forme di pubblicità;
tutte queste ragioni impediscono di ritenere che l’abrogazione
– di cui nessuno dubita – della L. del 1992, disposta dal
cosiddetto decreto Bersani, abbia portata limitata e, in
particolare, rispetto alla fattispecie, non si riferisca alle società
di capitali.
3.3.1. In questa direzione si è espressa la giurisprudenza
amministrativa (Tar Emilia Romagna, sez. 2^, sent. 12 gennaio
2010, n. 16, rispetto all’esclusione dei poteri inibitori in capo agli
Ordini professionali). Nè le conclusioni raggiunte sono messe in
discussione da una diversa interpretazione fornita dal Ministero
della salute (con una nota del 30 aprile 2008), non essendo
alla stessa attribuibile alcuna efficacia vincolante. Nè
l’interpretazione adottata contrasta con la sentenza della
Corte (Cass. 18 aprile 2006, n. 8958), richiamata dal
controricorrente, che non ravvisa il contrasto con i principi
comunitari della legge del 1992, essendo relativa a fattispecie
in cui non era applicabile il cosiddetto decreto Bersani e il cui
contesto normativo comunitario era diverso da quello che la
legislazione del 2006 e quella successiva hanno attuato (cfr.
motivazione).
3.4. In conclusione, il ricorso è accolto in applicazione del
seguente principio di diritto: “L’abrogazione generale
contenuta nella L. n. 248 del 2006, art. 2, lett. b, nella quale è
sicuramente compresa l’abrogazione delle norme in materia
di pubblicità sanitaria, di cui alla L. n. 175 del 1992, prescinde
dalla natura (individuale, associativa, societaria) dei soggetti
rispetto ai quali rileva l’esercizio della professione sanitaria,
atteso che la stessa è attuativa dei principi comunitari volti a
garantire la libertà di concorrenza e il corretto funzionamento
del mercato e sarebbe illegittimo, oltre che irragionevole, limitarne la portata all’esercizio della professione in forma
individuale, fermo restando che, all’interno del nuovo sistema
normativo, nel quale la pubblicità non è soggetta a forme di
preventiva autorizzazione, gli Ordini professionali hanno il
potere di verifica, al fine dell’applicazione delle sanzioni
disciplinari, della trasparenza e della veridicità dei messaggio
pubblicitario”. Conseguentemente, la decisione impugnata è
cassata e la Commissione centrale, in applicazione del
suddetto principio di diritto, dovrà giudicare se la pubblicità,
posta in essere dalle due società, delle quali il Dott. P. era
direttore sanitario, fosse o meno conforme a veridicità e
correttezza sulla base del codice deontologico.
4. In ragione della novità della questione di diritto trattata,
sussistono giusti motivi per la integrale compensazione delle
spese processuali del presente giudizio.

P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE accoglie il ricorso; cassa la
decisione impugnata e rinvia alla Commissione Centrale per
gli esercenti le professioni sanitarie;
compensa integralmente le spese processuali del giudizio di
cassazione.

Cassazione civile sezione III sentenza 02 ottobre 2012 n 16754 – Diritto alla salute, feto, malformazioni, responsabilità medica, persone offese

Cassazione civile sezione III sentenza 02 ottobre 2012 n 16754
Diritto alla salute, feto, malformazioni, responsabilità medica,
persone offese

La terza sezione civile
(Presidente: Dott. Alfonso Amatucci – Estensore: Dott.
Giacomo Travaglino)

…omissis…

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1.- Nel febbraio del 1999 M. B. O. e M. O., in proprio e nella
qualità di genitori esercenti potestà sulle figlie minori G., L. e
M., convennero in giudizio dinanzi al tribunale di Treviso il
ginecologo P. D. e la USSL 8 di X., esponendo:
· Che la signora B., appena consapevole del proprio stato di
gravidanza, si era rivolta al dott. D. chiedendo di essere
sottoposta a tutti gli accertamenti necessari ad escludere
malformazioni del feto;
· Che la nascita di un bimbo sano era stata rappresentata al
sanitario come condizione imprescindibile per la prosecuzione
della gravidanza;
· Che il dott. D. aveva proposto e fatto eseguire alla gestante
il solo “Tritest”, omettendo di prescrivere accertamenti più
specifici al fine di escludere alterazioni cromosomiche del
feto;
· Che nel settembre del 1996 era nata la piccola M., affetta
da sindrome di Dawn.
Il ginecologo, nel costituirsi, contestò analiticamente tutti gli
addebiti, chiedendo nel contempo l’autorizzazione alla
chiamata in causa della propria compagnia assicuratrice.
Si costituì in giudizio anche l’azienda sanitaria, lamentando, in
rito, la nullità del libello introduttivo attoreo (per mancata
specificazione delle ragioni di fatto e di diritto sui quali era
fondata la domanda risarcitoria) e la carenza di
legittimazione attiva delle minore, eccependo poi, nel merito,
il regime – cd. in extra moenia – nel quale il medico aveva, da
libero professionista, assistito l’attrice. L’azienda contestò,
ancora nel merito, la stessa fondatezza della pretesa
risarcitoria, per resistere alla quale chiese anch’essa il
differimento della prima udienza, onde chiamare in causa le
proprie compagnie assicurative succedutesi nel rapporto di
garanzia durante l’anno 1996.
L’Assitalia (compagnia assicuratrice del dott. D.), nel costituirsi,
aderì in toto alle difese del proprio assicurato. Le Assicurazioni Generali (originaria assicuratrice della USL)
eccepì, all’atto della costituzione in giudizio, la cessazione
degli effetti della polizza stipulata con la struttura sanitaria nel
30 giugno 1996; declinò ogni responsabilità vicaria per i fatti
successivi a tale data; fece proprie, nel merito, le difese della
propria garantita – salva richiesta, in caso di condanna del
sanitario, di essere da questi rimborsata di quanto
eventualmente tenuta a corrispondere agli attori.
La RAS (succeduta alle Generali nel rapporto assicurativo con
l’unità sanitaria) eccepì, in limine, la non operatività della
polizza, per essere la vicenda di danno lamentata dagli attori
riferibile ad un’epoca anteriore alla data del suo subingresso
alla precedente compagnia, contestando poi nel merito le
pretese risarcitorie nell’an, nel quantum, nel quivis.
Il giudice di primo grado, previa declaratoria di difetto di
legittimazione attiva della minore M. O., respinse la domanda
dei genitori e dei fratelli.
2.- La corte di appello di Venezia, investita del gravame
proposto dagli attori in prime cure, lo rigettò:
– sul punto del ritenuto difetto di legittimazione attiva di M. O.,
facendo propri alcuni passi della motivazione della sentenza
14888/2004 con la quale questa Corte di legittimità aveva
respinto una analoga richiesta, affermando il principio di
diritto a mente del quale verificatasi la nascita, non può dal
minore essere fatto valere come proprio danno da
inadempimento contrattuale l’essere egli affetto da
malformazioni congenite per non essere stata la madre, per
difetto di informazione, messa in condizione di tutelare il di lei
diritto alla salute facendo ricorso all’aborto;
– con riferimento alla pretesa risarcitoria dei familiari, fondata
sul preteso inadempimento contrattuale del sanitario,
ritenendo quest’ultimo del tutto esente da colpa.
Nel rigettare la detta pretesa, la corte lagunare osserverà, in
particolare:
– che, nella specie, la sola indicazione del cd. “tritest” quale
indagine diagnostica funzionale all’accertamento di
eventuali anomalie fetali doveva ritenersi del tutto giustificata,
alla luce dell’età della signora B. (al tempo dei fatti soltanto
ventottenne) e dell’assenza di familiarità con malformazioni
cromosomiche, onde l’esecuzione di un test più invasivo
come l’amniocentesi (che la partoriente conosceva “per
sentito dire”) avrebbe potuto essere giustificata soltanto da
una esplicita richiesta, all’esito di un approfondito colloquio
con il medico sui limiti e vantaggi dei test diagnostici, mentre non risultava né provato né allegata la richiesta di
sottoposizione a tale esame;
– che l’accertamento di una malformazione fetale “non è di
per sé sufficiente a legittimare un’interruzione di gravidanza”,
posto che, nella specie, tale interruzione sarebbe stata
praticata nel secondo trimestre, mentre la sussistenza dei
relativi presupposti di legge, ex art. 6 della legge n. 194/1978
non era neppure stata adombrata dagli attori, onde nessuna
prova poteva dirsi legittimamente acquisita al processo in
ordine alla esposizione della donna a grave pericolo per sua
la vita o per la sua salute fisica o psichica in caso di
prosecuzione della gravidanza nella consapevolezza della
malformazione cromosomica del feto;
– che lo “spostamento” della quaestio iuris sul versante della
carenza di informazione, operato in sede di appello, doveva
ritenersi del tutto estraneo e diverso rispetto alla fattispecie sì
come originariamente rappresentata in funzione risarcitoria:
non era stata, difatti, censurata, con il libello introduttivo, la
privazione del diritto di scelta della puerpera a causa di esami
fatti male o non fatti, bensì l’inadempimento della prestazione
sanitaria richiesta dalla signora B. al dott. D..
3.- La sentenza è stata impugnata da tutti i componenti della
famiglia O. con ricorso per cassazione articolato in sei motivi.
Resistono con controricorso P. D., le Assicurazioni Generali,
l’Ina Assitalia, L’Allianz, l’Azienda sanitaria USSL 8 di Y..
Le parti ricorrenti e le resistenti Assitalia e Allianz, hanno
depositato memorie illustrative.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1.- Devono essere in limine esaminate le due preliminari
questioni processuali poste al collegio dalla difesa della
controricorrente USSL 8.
Entrambe appaiono prive di pregio.
– Quanto alla erronea spendita della veste di rappresentanti
legali delle due figlie – divenute nelle more maggiorenni – da
parte dei genitori (circostanza che, in sé considerata,
renderebbe il ricorso inammissibile, secondo quanto opinato
da Cass. ss.uu. 15783/2005), va rilevato come, al di là ed
prescindere da tale, erronea qualificazione a loro stessi
ascritta da parte dei coniugi B./O., tanto L. quanto G. B.
hanno personalmente sottoscritto la procura speciale
apposta in calce al ricorso per cassazione, onde la impropria
indicazione di una (ormai spirata) rappresentanza legale dei
genitori si risolve, ai fini della regolare costituzione in giudizio, in
un irrilevante flatus vocis, atteso che il nome delle ricorrenti viene legittimamente indicato e speso in proprio dal difensore
altrettanto legittimamente fornito di procura alle liti;
– Quanto alla pretesa carenza di poteri rappresentativi in
appello degli stessi coniugi O. riguardo alla figlia L., la vicenda
deve ritenersi coperta da giudicato implicito ai sensi del
disposto dell’art. 346 c.p.c.: la corte territoriale, difatti, dopo
aver affrontato la questione della legittimazione attiva –
escludendola – di M. O. (ff. 9 ss. della sentenza impugnata),
rigetterà l’appello nel merito, senza affrontare il tema (pur
rilevabile ex officio, essendo stato sollevato, a torto o a
ragione, una questione di legitimatio ad causam e non di
mera titolarità del rapporto sostanziale) della rappresentanza
dei genitori con riferimento alla posizione processuale di L. O.-

la cui domanda verrà conseguentemente rigettata per motivi
di merito (il cui esame presuppone positivamente superata il
vaglio delle questioni pregiudiziali e/o preliminari di rito da
parte del giudice procedente). Sarebbe stato pertanto
necessario proporre, da parte degli interessati, un ricorso
incidentale avente ad oggetto il relativo capo implicito della
sentenza; impugnazione nella specie non proposta, senza che
la relativa eccezione contenuta nel controricorso possa
ritenersi “convertita” in censura incidentale per l’assenza
dell’essenziale requisito dell’istanza di riforma della sentenza di
secondo grado impugnata.
Non merita, infine, accoglimento l’eccezione, sollevata da più
d’una della parti controcorrenti, di inammissibilità del ricorso
per violazione dell’art. 366 bis c.p.c. nella formulazione
anteriore alla novella del 2009, atteso che la sentenza
impugnata risulta depositata il 2 novembre 2010 (epoca
successiva all’abrogazione della norma sui quesiti di diritto,
pertanto inapplicabile nella specie ratione temporis), mentre
la doglianza di difetto autosufficienza del ricorso appare
contraddetta ictu oculi dalla semplice lettura dell’odierna
impugnazione (cui, piuttosto, potrebbero al più muoversi
censure – peraltro irrilevanti sul piano giuridico – di segno
contrario).
2.- Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa
applicazione degli artt. 345 e 346 c.p.c. – Vizio logico di
motivazione.
Il motivo è fondato.
Risulta espresso e non equivoco, nel corpo dell’atto di
citazione di primo grado (che i ricorrenti riportano, per quanto
rilevante in parte qua, al folio 15 dell’odierno atto di
impugnazione), il riferimento “alla valutazione sul livello di
consenso informato che il referto relativo al tritest determina, non essendovi alcun modo per una paziente incolta di
medicina di riuscire a comprendere la relativa finalità, e che
ad esso non era possibile affidarsi con certezza per sapere se
vi fossero o non vi fossero le paventate anomalie”; onde il
successivo atto di appello del tutto legittimamente
denuncerà (a fronte di una sentenza di primo grado che
inesattamente imputa all’attrice “di non aver dimostrato di
avere espressamente richiesto l’effettuazione di accertamenti
invasivi diversi”) la mancata informazione, da parte dei
competenti sanitari, circa la complessiva attendibilità del test
prescelto a dispetto della precisa richiesta della gestante di
venir resa partecipe di eventuali malattie genetiche del feto e
della altrettanto espressa intenzione, in tal caso, di non
portare a termine la gravidanza.
A tanto consegue la impredicabilità di qualsivoglia
“spostamento del thema decidendum dal primo al secondo
grado” erroneamente rilevato dalla corte di appello, la cui
pronuncia deve, sul punto, essere cassata.
3.- Con il secondo motivo, si denuncia: a) violazione e falsa
applicazione degli artt. 1218, 1223 c.c. per mancato
accertamento dell’inadempimento contrattuale rispetto alla
richiesta di diagnosi e al dovere di fornirla e di dare corretta
informazione circa l’inidoneità degli esami previsti in funzione
della diagnosi richiesta; mancata motivazione sul punto;
b) violazione dell’art. 32 comma 1 e 2 Cost.
c) violazione dell’art. 2697 c.c. in ordine al riparto degli oneri
probatori relativi al’adempimento del dovere di informazione
preventiva circa i limiti oggettivi di affidabilità delle metodiche
alternative alla diagnosi suggerite
Il motivo è fondato.
Risulta provato (anche all’esito della mancata contestazione,
sul punto, da parte del medico oggi resistente, non potendosi
ritenere tale la generica affermazione di stile, contenuta
nell’atto di costituzione in giudizio del dott. D., volta alla
“contestazione analitica di tutti gli assunti di parte attrice”)
che la gestante avesse espressamente richiesto un
accertamento medico-diagnostico per esser resa partecipe
delle eventuali malformazioni genetiche del feto, così da
poter interrompere la gravidanza.
Oggetto del rapporto professionale medico-paziente doveva,
pertanto, ritenersi, nella specie, non un accertamento “qual
che esso fosse”, compiuto all’esito di una incondizionata e
incomunicata discrezionalità da parte del sanitario, bensì un
accertamento doppiamente funzionale alla diagnosi di malformazioni fetali e (condizionatamente al suo risultato
positivo) all’esercizio del diritto di aborto.
Ne consegue la non conformità a diritto della motivazione del
giudice territoriale nella parte in cui ritiene (folio 15 della
sentenza impugnata) “non provato e neppure allegato che la
signora B. avesse chiesto di essere sottoposto a tale esame”
(l’amniocentesi), motivazione che illegittimamente capovolge
il riparto degli oneri probatori tra le parti del processo:
– onere della paziente sarebbe stato, difatti, quello di provare
la richiesta della diagnosi di malformazioni funzionale
all’esercizio del diritto di interruzione della gravidanza in caso
di esito positivo;
– onere del medico, di converso, risultava quello di
provvedere ad una completa informazione circa le possibilità
(tutte le possibilità) di indagini diagnostiche, più o meno
invasive, più o meno rischiose, e circa le percentuali di falsa
negatività offerte dal test prescelto (test in ipotesi da
suggerire, ma non certo da eseguire sic et simpliciter, in guisa
di scelta sostitutiva e di assunzione del rischio parimenti
sostitutivo), onde consentire alla gestante una decisione il più
aderente possibile alla realtà della sua gestazione.
Ne consegue una responsabilità del medico predicabile non
soltanto per la circostanza dell’omessa diagnosi in sé
considerata (ciò che caratterizzerebbe il risarcimento per un
inammissibile profilo sanzionatorio/punitivo, in patente
contrasto con la funzione propria della responsabilità civile),
ma per la violazione del diritto di autodeterminazione della
donna nella prospettiva dell’insorgere, sul piano della
causalità ipotetica, di una malattia fisica o psichica.
Deve pertanto ritenersi configurabile, nella specie,
l’inadempimento alla richiesta di diagnosi sì come funzionale
all’interruzione di gravidanza in caso di positivo accertamento
di malformazioni fetali (in senso non dissimile, sia pur con
riferimento a diversa fattispecie, di recente, Cass. 15386/2011),
alla luce dell’ulteriore considerazione costituita dalla
(incontestata) circostanza dell’altissimo margine di errore che
il test selezionato dal ginecologo offriva nella specie (margine
pari al 40% dei cd. “falsi negativi”), onde il suo carattere, più
che di vero e proprio esame diagnostico, di screening del
tutto generico quanto alle probabilità di malformazione
fetale.
4.- Con il terzo motivo, si denuncia violazione e falsa
applicazione dell’art. 2729 c.c. con riferimento alla
presunzione di volontà di esercizio del diritto di interruzione di
gravidanza da parte di donna risultata portatrice di patologia permanente dopo il parto della scoperta malformazione
fetale.
Il motivo è fondato.
Non risulta conforme a diritto, difatti, la motivazione della
corte lagunare nella parte in cui (folio 16 della sentenza
impugnata) si opina “non esservi prova alcuna che, anche se
a conoscenza della malformazione cromosomica del feto, la
signora B. avrebbe potuto interrompere la gravidanza”. E ciò
perché, prosegue il giudice lagunare, “non vi è alcun
elemento dal quale desumere – ovviamente con giudizio ex
ante – che la prosecuzione della gravidanza avrebbe esposto
la signora a grave pericolo di vita o grave pericolo per la sua
salute fisica o psichica”.
A prescindere dalla considerazione per la quale tale
affermazione si pone in contrasto con un principio già
affermato in passato, anche di recente (sia pur con le
precisazioni operate da Cass. 22837/2010, come rileva al folio
23 del controricorso la resistente Generali), da questa corte
regolatrice – per tutte, Cass. 6735/2002, Pres. Carbone, Rel.
Vittoria (risulta erronea la citazione, contenuta al folio 21 del
ricorso, della pronuncia 6365/2004, avente diverso oggetto) a
mente dei quali in tema di responsabilità del medico per
omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente
nascita indesiderata, l’inadempimento del medico rileva in
quanto impedisce alla donna di compiere la scelta di
interrompere la gravidanza. Infatti la legge, in presenza di
determinati presupposti, consente alla donna di evitare il
pregiudizio che da quella condizione del figlio deriverebbe al
proprio stato di salute e rende corrispondente a regolarità
causale che la gestante interrompa la gravidanza se
informata di gravi malformazioni del feto, principi la cui
portata verrà esaminata ed approfondita dal collegio nel
corso dell’esame del quinto motivo di ricorso, è qui sufficiente
osservare come, nel caso di specie, a fronte di una precisa
istanza diagnostica della signora B. espressamente funzionale
ad una eventuale interruzione della gravidanza, appare di
converso ricorrere l’opposta presunzione – ovviamente
predicabile ex ante sul piano della causalità ipotetica ex lege
194/78 – di una patologia materna destinata ad insorgere a
seguito della scoperta della paventata malformazione fetale
(patologia poi puntualmente insorta sotto forma di danno
biologico psichico, come accertato in sede di consulenza
medico-legale, ad indiretta conferma – sia pur ex post e sia
pur con carattere non dirimente ai fini del giudizio prognostico
– della esattezza della presunzione de qua). 5.- Con il quarto motivo, si denuncia:
a) violazione e falsa applicazione dei limiti soggettivi di
legittimazione attiva all’azione di risarcimento danni ex art.
1218 e 2043 c.c. conseguenti all’inadempimento di
obbligazione assistenziale verso una gestante.
b) Violazione dell’art. 1 c.c. e della legge 194/78 che
attribuiscono la titolarità di diritti al feto solo al momento della
nascita. Revisione critica della giurisprudenza in materia
anche alla luce degli orientamenti espressi dalla Corte
Suprema con la sentenza n. 10741/2009.
c) Violazione e falsa applicazione dell’art. 1218 c.c. e dell’art.
112 c.p.c. con riferimento alla mancata pronuncia in ordine
alla legittimazione attiva degli attori diversi dalla signora B. e di
M. O.
La doglianza deve essere accolta.
Rinviando all’esame del quinto motivo la questione della cd.
“legittimazione attiva” di M. O., va in questa sede affermato il
principio di diritto secondo il quale la responsabilità sanitaria
per omessa diagnosi di malformazioni fetali e conseguente
nascita indesiderata va estesa, oltre che nei confronti della
madre nella qualità di parte contrattuale (ovvero di un
rapporto da contatto sociale qualificato), anche al padre
(come già affermato da Cass. n. 14488/2004 e prima ancora
da Cass. 6735/2002), nonché, a giudizio del collegio, alla
stregua dello stesso principio di diritto posto a presidio del
riconoscimento di un diritto risarcitorio autonomo in capo al
padre stesso, ai fratelli e alle sorelle del neonato, che rientrano
a pieno titolo tra i soggetti protetti dal rapporto intercorrente
tra il medico e la gestante, nei cui confronti la prestazione è
dovuta.
L’indagine sulla platea dei soggetti aventi diritto al
risarcimento, difatti, già da tempo operata dalla
giurisprudenza di questa Corte con riferimento al padre (di
recente, ancora, da Cass. n. 2354/2010), non può non essere
estesa, per le stesse motivazioni predicative della
legittimazione dell’altro genitore, anche ai fratelli e alle sorelle
del neonato, dei quali non può non presumersi l’attitudine a
subire un serio danno non patrimoniale, anche a prescindere
dagli eventuali risvolti e delle inevitabili esigenze assistenziali
destinate ad insorgere, secondo l’id quod plerumque accidit,
alla morte dei genitori. Danno intanto consistente, tra l’altro
(come meglio si avrà modo di specificare di qui a breve,
esaminando la posizione di M. O.) nella inevitabile, minor
disponibilità dei genitori nei loro confronti, in ragione del
maggior tempo necessariamente dedicato al figlio affetto da handicap, nonché nella diminuita possibilità di godere di un
rapporto parentale con i genitori stessi costantemente
caratterizzato da serenità e distensione; le quali appaiono
invece non sempre compatibili con lo stato d’animo che ne
informerà il quotidiano per la condizione del figlio meno
fortunato; consci – entrambi i genitori – che il vivere una vita
malformata è di per sé una condizione esistenziale di
potenziale sofferenza, pur senza che questo incida affatto
sull’orizzonte di incondizionata accoglienza dovuta ad ogni
essere umano che si affaccia alla vita qual che sia la
concreta situazione in cui si trova – principio cardine non di
una sola, specifica morale, ma di una stessa ed universale
Etica (e bioetica) della persona, caratterizzata dalla
insostituibile centralità della coscienza individuale.
6.- Con il quinto motivo, si denuncia violazione degli artt. 1218,
2043, 1223, 2056 c.c. con riferimento:
· Alla dannosità dell’handicap congenito per il bambino nato
· Al diritto del medesimo al risarcimento
· Al rilievo causale dell’inadempimento dell’obbligo di
diagnosi precoce nei confronti della madre.
Il motivo è fondato.
Viene posto al collegio il delicato problema della titolarità di
un diritto al risarcimento del danno in capo al minore
handicappato, nato – a seguito della omessa rilevazione, da
parte del sanitario, della malformazione genetica – da una
madre che, contestualmente alla richiesta dell’esame
diagnostico, abbia manifestato la volontà di non portare a
termine la gravidanza nell’ipotesi di risultato positivo del test.
La questione chiama l’interprete, fin dai tempi del diritto
romano classico, ad una complessa indagine sulla natura
giuridica (e sulle sorti) dei diritti riconosciuti a colui qui in utero
est (Dig., 1.5.7.).
Essa oscilla, nella sua più intima sostanza, tra semplicistiche
trasposizioni della abusata fictio romanistica che rimanda al
conceptus come soggetto pro iam nato (habetur) quotiens
de eius commodis agatur (aforisma storicamente confinato,
peraltro, nell’orbita dell’acquisto di diritti patrimoniali
condizionati all’evento nascita), e contrastate adesioni alla
sua rappresentazione sicut mulier portio vel viscerum
(espressiva della teoria cd. pro choice, cara a tanta parte
della giurisprudenza nordamericana in termini di diritto
soggettivo assoluto della donna a decidere della sorte del
concepimento e del concepito).
La questione induce, in limine, ad indagare sulla qualità da
attribuire al concepito nella sua dimensione rigorosamente giuridica, attraverso un’analisi scevra da facili quanto
inevitabili suggestioni di tipo etico o filosofico, onde
predicarne la natura di soggetto di diritto ovvero, del tutto
specularmente, di oggetto di tutela sino al momento della sua
nascita.
on è questa la sede per ripercorrere funditus, in via
interpretativa, le tappe di un complesso itinerario di pensiero
segnato da norme ordinarie e costituzionali non meno che da
(reali o presunte) “clausole generali” – quali quella della
centralità della persona -, itinerario funzionale a scelte di
teoria generale dell’ermeneutica tra giurisprudenza dei
concetti e giurisprudenza degli interessi di cui è compiuta e
approfondita traccia (sia pur non del tutto condivisibile tanto
nelle premesse metodologiche quanto nelle conseguenti
conclusioni) nella sentenza di questa stessa sezione n.
10741/2009.
Ma da tale itinerario il collegio non può, d’altro canto, del
tutto prescindere, proprio al fine di condurre a non
insoddisfacente soluzione giuridica la questione di cui in
premessa, ripercorrendone, sia pur brevemente, le tappe
essenziali, attesi gli espliciti riferimenti operati dalle parti
dell’attuale procedimento proprio alla sentenza n.
10741/2009.
L’analisi delle affermazioni contenute in quella pronuncia
deve, peraltro, essere preceduta dall’esame dei principi di
diritto contenuti nella sentenza n. 14488/2004 di questa
sezione, predicativa, come è noto:
– della irrisarcibilità del danno da nascita malformata
lamentato in proprio dal neonato;
– della speculare limitazione di tale diritto a due soli soggetti,
rappresentati dalla madre e dal padre del bambino
malformato.
6.1.-. Nella vicenda di cui questa Corte ebbe ad occuparsi nel
2004, genitori affetti da talassemia non vennero informati dal
medico, durante la gravidanza, del rischio che anche la
nascitura potesse risultarne contagiata, e perciò convennero
in giudizio il professionista chiedendone la condanna al
risarcimento del danno patito sia da loro che dalla figlia nata
talassemica.
Il giudice di merito riconobbe e liquidò il risarcimento dei
danno subiti da entrambi i genitori per l’omissione del medico,
che aveva così precluso un’eventuale interruzione della
gravidanza, negando peraltro il medesimo diritto alla
neonata, la cui malattia venne ritenuta non evitabile né
rimediabile. La corte di legittimità, sollecitata alla rivisitazione di tale
dictum, confermerà nell’an quella pronuncia, argomentando
diffusamente su questioni la cui delicatezza trascende non
poco il compito dell’interprete, inducendolo a riflettere (come
è stato suggestivamente osservato in dottrina) sul “miserabile
ruolo del diritto” che, nel riconsiderare tanto gli spazi concessi
alla giurisprudenza quanto quelli di esclusiva pertinenza del
legislatore, affronta in questi ultimi anni, con i soli strumenti suoi
propri e perciò solo del tutto inadeguati, l’inedita dimensione
della responsabilità sanitaria del ventunesimo secolo nei suoi
aspetti più problematici, quando cioè essa oscilla tra la vita
(non voluta) e la morte (voluta, per espressa dichiarazione o
per silenziosa presunzione).
L’iter motivazionale della Cass. n. 14488/2004 è scandito dai
seguenti passaggi argomentativi:
a) nel bilanciamento tra il valore (e la tutela) della salute della
donna e il valore (e la tutela) del concepito, l’ordinamento
consente alla madre di autodeterminarsi, ricorrendone le
condizioni richieste ex lege, a richiedere l’interruzione della
gravidanza. La sola esistenza di malformazioni del feto che
non incidano sulla salute o sulla vita della donna non
permettono alla gestante di praticare l’aborto: il nostro
ordinamento non ammette, dunque, l’aborto eugenetico e
non riconosce né alla gestante né al nascituro, una volta
nato, il diritto al risarcimento dei danni per il mancato esercizio
di tale diritto (della madre);
b) la legge n. 194 del 1978 consente invece alla gestante
d’interrompere la gravidanza solo quando dalla prosecuzione
della gestazione possa derivare, anche in previsione di
anomalie o malformazioni del concepito, un reale pericolo
per la sua salute fisica o psichica, ovvero per la sua vita;
c) prevale, in seno agli ordinamenti stranieri, la tendenza a
rigettare la domanda proposta in proprio dal nato
malformato e ad accogliere quella dei genitori relativamente
ai danni patrimoniali e non patrimoniali; peraltro, la Corte di
Cassazione francese in assemblea plenaria, nel celebre arrét
Perruche del 27.11.2001, operando un revirement rispetto alla
precedente giurisprudenza, affermò che, “quando gli errori
commessi da un medico e dal laboratorio in esecuzione del
contratto concluso con una donna incinta impedirono a
quest’ultima di esercitare la propria scelta di interruzione della
gravidanza, al fine di evitare la nascita di un bambino
handicappato, questi può domandare il risarcimento del
danno consistente nel proprio handicap, causato dai predetti
errori”. A tale pronuncia fece immediato seguito l’intervento del legislatore (loi Kouchner 303/2002), che escluse
qualsivoglia pretesa risarcitoria dell’handicappato per il solo
fatto della nascita “quando l’handicap non è stato
provocato, aggravato o evitato da errore medico”;
d) la tutela giuridica del nascituro, pure prevista dal nostro
ordinamento, è peraltro regolata in funzione del diritto del
concepito a nascere (sano), mentre un eventuale diritto a
non nascere sarebbe un diritto adespota in quanto, a norma
dell’art. 1 c.c., la capacità giuridica si acquista al momento
della nascita, ed i diritti che la legge riconosce a favore del
concepito (artt. 462, 687, 715 c.c.) sono subordinati all’evento
della nascita, ma appunto esistenti dopo la nascita. Nella
fattispecie, invece, il diritto di non nascere, fino alla nascita,
non avrebbe un soggetto titolare dello stesso, mentre con la
nascita sarebbe definitivamente scomparso;
e) sotto altro profilo, ma nella stessa ottica, ipotizzare il diritto
del concepito malformato di non nascere significa concepire
un diritto che, solo se viene violato, ha, per quanto in via
postuma, un titolare, ma se tale violazione non vi è (e quindi
non si fa nascere il malformato per rispettare il suo diritto di
non nascere), non vi è mai un titolare. Il titolare di questo
presunto diritto non avrà mai la possibilità di esercitarlo (non
esisterebbe un soggetto legittimato a farlo valere): non può
farlo valere, ovviamente, il concepito, ancora non nato; non
potrebbe farlo valere, altrettanto ovviamente, il medico; non
potrebbe essere esercitato neppure dalla gestante. Il suo
diritto all’aborto non ha, infatti, una propria autonomia, per
quanto relazionata all’esistenza o meno delle malformazioni
fetali, come invece nella legislazione francese, ma si pone in
una fattispecie di tutela del diritto alla salute: il diritto che ha
la donna è solo quello di evitare un danno serio o grave, a
seconda delle ipotesi temporali, alla sua salute o alla sua vita.
Per esercitare detto diritto, nel bilanciamento degli interessi,
l’ordinamento riconosce la possibilità alla donna di
interrompere la gravidanza, ed è la necessità della tutela
della salute della madre che legittima la stessa alla (richiesta
di) soppressione del feto scriminandola da responsabilità (se
l’interruzione della gravidanza, al di fuori delle ipotesi di cui agli
artt. 4 e 6 l. n. 194/1978, accertate nei termini di cui agli artt. 5
ed 8, costituisce reato anche per la stessa gestante ex art. 19
stessa legge);
f) il nostro ordinamento positivo tutela il concepito – e quindi
l’evoluzione della gravidanza – esclusivamente verso la nascita
e non verso la non nascita, per cui, se di diritto vuol parlarsi,
deve parlarsi di diritto a nascere. Già la Corte Costituzionale,

con la sent. 18.2.1975, n. 27, dichiarando costituzionalmente
illegittimo l’art. 546 c.p. nella parte in cui non prevedeva che
la gravidanza potesse essere interrotta quando la sua
prosecuzione implicava danno o pericolo grave,
medicalmente accertato e non altrimenti evitabile, per la
salute della madre, aveva precisato che anche la tutela del
concepito ha “fondamento costituzionale” nell’art. 31 comma
2° della Costituzione, che “impone espressamente la
protezione della maternità” e, più in generale, nell’art. 2, che
“riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali
non può non collocarsi, sia pure con le particolari
caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del
concepito”. La successiva legge 22.5.1978, n. 194,
significativamente intitolata “norme per la tutela sociale della
maternità” oltre che “sull’interruzione volontaria della
gravidanza”, proclama all’art. 1 che “lo Stato …. riconosce il
valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo
inizio”; inizio che, come si evince dal combinato disposto con
gli articoli successivi, va riferito al momento del concepimento
(e non tanto, o non solo allo scadere del novantesimo giorno
dal concepimento, cui fa riferimento il successivo art. 4);
g) va poi osservato che, se esistesse detto diritto a non
nascere se non sano, se ne dovrebbe ritenere l’esistenza
indipendentemente dal pericolo per la salute della madre
derivante dalle malformazioni fetali, e si porrebbe l’ulteriore
problema, in assenza di normativa in tal senso, di quale
sarebbe il livello di handicap per legittimare l’esercizio di quel
diritto, e, poi, di chi dovrebbe ritenere che detto livello è
legittimante della non nascita. Infatti, anche se non vi fosse
pericolo per la salute della gestante, ogni qual volta vi fosse la
previsione di malformazioni o anomalie del feto, la gestante,
per non ledere questo presunto diritto di “non nascere se non
sani”, avrebbe l’obbligo di richiedere l’aborto, altrimenti si
esporrebbe ad una responsabilità (almeno patrimoniale) nei
confronti del nascituro una volta nato. Quella che è una
legge per la tutela sociale della maternità e che attribuisce
alla gestante un diritto personalissimo, in presenza di
determinate circostanze, finirebbe per imporre alla stessa
l’obbligo dell’aborto (salvo l’alternativa di esporsi ad un’azione
per responsabilità da parte del nascituro).
Nei primi commenti alla sentenza, la dottrina non mancò di
osservare come il riconoscimento di un diritto al risarcimento
accordato anche al padre – terzo rispetto al contratto
intercorso tra il medico e la gestante, e privo di qualsivoglia os
ad eloquendum nella sua decisione d’interrompere la gravidanza -, con riferimento agli “effetti protettivi” del
contratto verso i terzi comunque esposti ai pregiudizi
conseguenti all’inadempimento del sanitario, indebolisse la
soluzione del diniego dell’analoga pretesa fatta valere dai
genitori a nome della figlia nata, che a più forte ragione
doveva ritenersi ricompresa nella cerchia dei suddetti terzi
danneggiati. Lo stesso riferimento alla non-imputabilità
dell’evento (per via dell’inevitabilità della malformazione)
all’omissione del medico venne sotto vari aspetti sottoposta a
critica, volta che tale riferimento non appariva poi idoneo ad
escludere non solo l’affermata responsabilità del medico verso
la madre (in quanto) privata della possibilità di
autodeterminarsi nella prosecuzione della gravidanza, ma
anche quella nei confronti del padre, sebbene non
legittimato in alcun modo ad interloquire sull’interruzione della
gestazione (e ciò nondimeno, “egualmente protetto dal
contratto originario”).
Per altro verso, l’argomento cardine utilizzato per negare il
risarcimento richiesto (anche) dalla figlia – costituito dalla
conclamata inesistenza nel nostro ordinamento di un diritto a
non nascere se non sano, in quanto “posizione non meritevole
di tutela” – venne definito “affermazione meramente retorica –

e quindi elusiva del grave problema posto a quel tempo al
collegio, da riassumersi nel quesito se una persona nata con
una malformazione che ne segna la vita e di cui sicuramente
non è responsabile abbia o meno diritto a chiederne conto a
qualcuno, considerato che il nostro ordinamento, per un
verso, favorisce, sì, la procreazione, ma in quanto “cosciente e
responsabile”, ex art. 1 l. n. 194/1978, mentre, d’altro verso,
tutela (come ribadisce la stessa sentenza) il diritto del
concepito a nascere sano. Né la mancata previsione legale
di un diritto a non nascere venne ritenuto argomento
spendibile (“come avrebbe mai potuto l’ordinamento
prevedere un simile diritto?”): se, come è ovvio, ogni tutela
giuridica deve essere, per necessità logica, riferita ad un
soggetto esistente, l’unica alternativa in ordine all’ammissibilità
di una siffatta tutela non era tra non nascere o nascere
malato, bensì tra nascere sano o nascere malato.
Sotto altro profilo, perplessità vennero sollevate perché, nel
discorrere di una pretesa assenza dell’interesse protetto, la
sentenza postulava una valutazione di “non ingiustizia” del
danno estranea all’ambito della responsabilità contrattuale,
(lasciando così il fanciullo handicappato senza alcuna tutela
nei casi di abbandono, di cattiva amministrazione o di
premorienza dei genitori). Si osservò, significativamente, come la questione non consistesse nell’affermare o nel negare
pretesi diritti di nascere (o di non nascere, o di non “nascere
handicappato”) o di morire (o di non morire), né di valutare
quanto valga il “non-essere” rispetto all'”essere”
(handicappato), posto che il vivere una vita malformata è di
per se una situazione esistenziale negativa, onde il danno
ingiusto risarcibile – provocato da un’azione comunque
colpevole altrui – consisterebbe nell’obiettività del vivere male
indipendentemente dalle alternative a disposizione,
espungendo dalla sfera del rilevante giuridico una
concezione del danno come paragone con la vita sana
perché questa vita sana non ci sarebbe stata: a seguito della
nascita, si è sostenuto, “la questione non è più quella della sua
venuta al mondo, ma soltanto quella del suo handicap”.
Poco convincenti apparvero, infine, le ulteriori obiezioni che
paventavano un potenziale quanto “innaturale” diritto
risarcitorio del minore esercitabile nei confronti della madre-

che, correttamente informata dal medico sui rischi della
nascita, avesse liberamente deciso di generare un figlio
invalido – ovvero del padre contro la madre: danni in realtà
irrisarcibili per l’assenza di una condotta colposa, se il fatto di
dare la vita, o la rinuncia, da parte della madre, a
interrompere la gravidanza, non possono mai essere
considerati in termini di colpa né di ingiustizia del danno. L’atto
della procreazione è frutto di una scelta che spetta,
giuridicamente, soltanto ai genitori; ma la donna è,
inevitabilmente, il solo legittimo destinatario del diritto a
decidere se procedere o no all’interruzione della gravidanza.
Ancor meno convincenti apparvero, agli occhi della più
attenta dottrina, le osservazioni contenute in sentenza circa la
disciplina dell’interruzione della gravidanza allo scopo di
individuare “il bene giuridico protetto dalle norme che
sanzionano l’aborto”, considerato che annettere il risarcimento
del danno prenatale nei confronti del fanciullo nato
handicappato al territorio della responsabilità contrattuale
indurrebbe ad opinare che “il bébé préjudice sia risarcibile nei
riguardi del neonato quale conseguenza immediata e diretta
dell’inadempimento (o dell’inesatto adempimento)
dell’obbligazione d’informazione, senza che assuma rilievo la
valutazione della condotta in termini di ingiustizia del danno”.
Onde il voler rifiutare di ammettere che un handicap sia, per
l’andicappato medesimo, un “danno” venne definito “un puro
e semplice sofisma”, se è non la “vita” dell’handicappato che
si tratta di assimilare a un danno, ma proprio il suo handicap. Altro limite rilevato dalla dottrina con riguardo alla
motivazione della sentenza ebbe riguardo a quella che
venne (del tutto condivisibilmente) ritenuta da più parti la
questione giuridica essenziale, quella, cioè, del rapporto di
causalità. La sentenza, difatti, non affrontò specificamente il
problema del nesso eziologico (diversamente da quanto
accaduto in Francia, dove sia la giurisprudenza del Consiglio
di Stato e delle Corti d’appello, sia gli autori che contestarono
la decisione della Cassazione sul caso Perruche motivarono la
soluzione negativa sull’assenza del legame eziologico tra
l’inadempimento e il danno), mentre la questione del nesso di
causalità per il danno patito dal fanciullo handicappato – si
disse -, lungi dal poter derivare da una analisi conseguente
alla cd. biologisation du droit , andava riguardata sotto un
profilo rigorosamente giuridico, così come accade ad
esempio in caso di contagio da trasfusione, ove la causa
“biologica” della malattia è certamente il virus HIV o HCV, ma
nessuno dubita che la responsabilità vada imputata, sulla
base di un criterio di causalità giuridicamente rilevante, a quel
soggetto (pubblico o privato) che, con la sua colpevole
omissione, abbia provocato, reso possibile o non impedito il
contagio.
6.2.- Con la sentenza n. 10741/2009, questa Corte di
legittimità, nuovamente investita della questione della
risarcibilità in proprio del nascituro, sia pur sotto il diverso
profilo della rilevanza – in guisa di conseguente danno ingiusto
– di una attività commissiva (oltre che omissiva) del sanitario,
dopo aver premesso che il nascituro o il concepito devono
ritenersi dotato di autonoma soggettività giuridica (specifica,
speciale, attenuata, provvisoria o parziale che si voglia),
perché titolari, sul piano sostanziale, di alcuni interessi
personali in via diretta, quali il diritto alla vita, e quelli alla
salute o integrità psico-fisica, all’onore o alla reputazione,
all’identità personale, affermò il principio di diritto secondo il
quale, stante la soggettività giuridica del concepito, al suo
diritto a nascere sano corrisponde l’obbligo dei sanitari di
risarcirlo (diritto al risarcimento condizionato, quanto alla
titolarità, all’evento nascita ex art. 1, comma 2, c.c., ed
azionabile dagli esercenti la potestà) per mancata osservanza
sia del dovere di una corretta informazione (ai fini del
consenso informato) in ordine ai possibili rischi teratogeni
conseguenti alla terapia prescritta alla madre (e ciò in quanto
il rapporto instaurato dalla madre con i sanitari produce effetti
protettivi nei confronti del nascituro), sia del dovere di
somministrare farmaci non dannosi per il nascituro stesso. Il collegio ebbe poi cura di precisare, sia pur in guisa di mero
obiter dictum, che quest’ultimo non avrebbe avuto diritto al
risarcimento qualora il consenso informato circa il rischio di
malformazioni prenatali fosse stato funzionale soltanto alla
interruzione di gravidanza da parte della donna, dando così
ulteriore continuità al principio di diritto espresso dalla
sentenza n. 14488/2004.

L’iter motivazionale della sentenza del 2009 – all’esito di una
lunga e approfondita riflessione che, premesse alcune
considerazioni di teoria generale del diritto, specie in tema di
fonti e di interpretazione, giunge alla conclusione della
attuale configurabilità, in seno all’ordinamento, di una
posizione di autonoma soggettività in capo al nascituro – si
caratterizza per i seguenti passaggi argomentativi:
a) il mancato esercizio di una doverosa informazione a
ciascuno dei coniugi circa la potenzialità dannosa di un
farmaco somministrato alla futura madre per stimolarne la
funzione riproduttiva aveva precluso loro di scegliere, con
avvertita coscienza dei rischi, di farne uso o meno, con
conseguente responsabilità del medico nei confronti di
entrambi, in quanto destinatari delle informazioni
colpevolmente omesse;
b) l’esistenza di un danno ingiusto risarcibile era, nella specie,
predicabile anche con riguardo alla posizione del neonato
portatore di handicap e perciò vittima, dopo il suo
concepimento (secondo le accertate risultanze in fatto della
vicenda) degli effetti nocivi del farmaco prescritto, attesa la
molteplicità e concordanza degli indici normativi volti a
riconoscere la soggettività giuridica del nascituro, titolare,
come tale, del diritto (tra gli altri) alla salute, azionabile a fini
risarcitori a seguito della effettiva nascita;
c) il diritto al risarcimento così riconosciuto al figlio nato in
conseguenza di una terapia nociva non contraddice la
esclusione di ogni tutela risarcitoria nel diverso caso della
mancata informazione (sui rischi di malformazione del feto)
incidente sulla decisione della madre di interrompere, in tal
caso, la gravidanza, attesa la già affermata inconfigurabilità
nel nostro ordinamento, di un diritto a non nascere se non
sano.
La grande novità della sentenza, rispetto al precedente
costituto dalla pronuncia n. 6735 del 2002 (che ammise al
risarcimento anche il padre del bambino nato malformato),
consiste nel riconoscimento che gli effetti protettivi del
rapporto obbligatorio (contrattuale o da cd. “contatto

sociale”) instaurato tra la paziente e i sanitari che la assistono
durante la gestazione si producono non solo a favore del
marito, bensì anche del figlio. Per la prima volta questo
giudice di legittimità si è spinto, sia pur sotto un diverso profilo
rispetto a quello che oggi occupa il collegio, a valutare
l’incidenza della nascita di un bambino in condizioni
menomate sul piano dell’esistenza dell’intera famiglia, e non
più solo della coppia, riconoscendo un autonomo diritto al
risarcimento anche al protagonista principale di una vicenda
di danno prenatale.
6.2.- La soluzione della questione di diritto affrontata nella
sentenza n. 10741/09, al pari di quella oggi sottoposta
all’esame del collegio, non sembra, peraltro, postulare né
imporre come imprescindibile l’affermazione della soggettività
del nascituro, soluzione che sconta, in limine, un primo
ostacolo di ordine logico costituito dalla apparente
contraddizione tra un diritto “a nascere sano” (un diritto,
dunque, alla vita, che si perpetuerebbe nel corso della
gestazione) e la sua repentina quanto inopinata
trasformazione in un diritto alla salute di cui si invocherebbe
tutela solo dopo la nascita.
In premessa, l’accurata analisi, gli approfonditi riferimenti e gli
spunti critici riservati in sentenza alla giurisprudenza cd.
normativa, nell’ottica di una rinnovata funzione “creativa”
della speculare Interessenjurisprudenz, ne lascia poi
impregiudicato l’interrogativo circa la collocazione di
quest’ultima nell’ambito della gerarchia delle fonti – salvo a
voler riservare alle sole fonti “poste” tale preordinazione
gerarchica, onde la giurisprudenza normativa sarebbe
singolarmente fuori da quell’assetto. Se quest’ultimo appare a
prima vista l’approdo più agevole sul piano dogmatico, per
altro verso non sembra seriamente discutibile che, così
opinando, il giudice civile, laddove ritenga nell’interpretare la
legge alla luce dei valori costituzionali che essa non tuteli (o
non tuteli a sufficienza) una situazione giuridica di converso
meritevole, interviene a creare una corrispondente “forma”
giuridica di tutela, eventualmente in contrasto con la legge
stessa, ma senza subire alcun sindacato di costituzionalità, in
quanto il sistema non prevede un meccanismo immediato di
sindacato della costituzionalità degli orientamenti pretori salvo
che questi riguardino la stretta interpretazione di una o più
norme di legge esistenti (e sempre che un giudice sollevi la
questione di costituzionalità secondo il consueto
procedimento di cognizione incidentale). Il problema – che non può essere approfondito in questa sede
se non nei limiti in cui la risoluzione del caso concreto lo
impone e che attinge all’equilibrio stesso tra i poteri dello
Stato, oltre che al modo di essere, e dunque di evolversi,
dell’ordinamento giuridico – induce l’interprete ad interrogarsi
sui limiti del suo intervento in seno al tessuto normativo e al di
là di esso, senza mai omettere di considerare che, di
interpretazione contra legem (non diversamente che per la
consuetudine), non è mai lecito discorrere in un sistema (pur
semi-aperto) di civil law, che ammette e legittima,
esaurendone in sé la portata innovativa, l’interpretazione
estensiva e l’integrazione analogica, anch’essa condotta pur
sempre ex lege ovvero ex iure.
Non altro. Non oltre.
Merito della sentenza è senz’altro quello di aver distinto tra
due situazioni apparentemente simili, ma in realtà, sul piano
giuridico, tra loro assai diverse. Al contrario di quanto avviene
nel caso di prescrizione di farmaci teratogeni, la errata o
mancata diagnosi non rileva ex se, sul piano eziologico, con
riguardo alla genesi della patologia sofferta dal bambino,
vicenda per la quale i genitori possono conseguentemente
lamentare, nei confronti dei sanitari, la sola omissione di
informazione circa lo stato di salute del feto per avere tale
difetto di informazione di fatto impedito alla madre di potersi
determinare ad un aborto terapeutico nei termini e alle
condizioni previste dalla legge.
Meno condivisibile appare, per le ragioni che in seguito
meglio si approfondiranno, il principio, ribadito in obiter, della
irrisarcibilità del danno direttamente subito dal neonato, che
ad avviso del collegio perpetua lo stesso equicovo
concettuale immanente alla sentenza n. 14488/2004: quello
secondo il nato non ha comunque diritto ad alcun
risarcimento del danno per essere venuto alla vita, in quanto
privo della titolarità di un interesse a non nascere. La
contraddizione in materia di diritti del concepito sta proprio,
da un lato, nel considerarlo (a torto o a ragione), in fase
prenatale, soggetto di diritto e perciò centro di imputazione di
alcuni diritti, della personalità e patrimoniali – da far valere solo
se ed in quanto nato -; dall’altro, nel riservargli, alla nascita un
trattamento di non-persona, disconoscendone
sostanzialmente gli aspetti più intimi e delicati della sua
esistenza.
La concezione della vita come oggetto di tutela, da parte
dell’ordinamento, in termini di “sommo bene”, di alterità
normativa superiorem non recognoscens – di talché non potrebbe in alcun modo configurarsi un interesse a non
nascere giuridicamente tutelato (al pari di un interesse a non
vivere una non-vita, come invece condivisibilmente
riconosciuto da questa stessa corte con la sentenza 16
ottobre 2007, n. 21748) – è percorsa da forti aneliti
giusnaturalistici, ma è destinata a cedere il passo al raffronto
con il diritto positivo.
Decisiva appare, difatti, la considerazione secondo cui, al
momento stesso in cui l’ordinamento giuridico riconosce alla
madre il diritto di abortire, sia pur nei limiti e nei casi previsti
dalla legge, si palesa come incontestabile e irredimibile il
sacrificio del “diritto” del feto a venire alla luce, in funzione
della tutela non soltanto del diritto alla procreazione
cosciente e responsabile (art. 1 della legge n. 194 del 1978),
ma dello stesso diritto alla salute fisica o anche soltanto
psichica della madre. Mentre non vi sarebbe alcuno spatium
comparationis se, a confrontarsi, fossero davvero, in una
comprovata dimensione di alterità soggettiva, un (superiore)
diritto alla vita e un (“semplice”) diritto alla salute mentale.
E’ questo l’insegnamento, oltre che del giudice delle leggi,
della stessa Corte internazionale di Strasburgo che, con
(ancora inedita) sentenza dell’agosto di quest’anno, ha
dichiarato la sostanziale incompatibilità di buona parte della
legge 40/2004 in tema di fecondazione assistita (che,
comunque, consentiva anche nell’originaria formulazione il
sacrificio di due dei tre embrioni fecondati in vitro), per
(illogicità e) contraddittorietà, proprio con la legge italiana
sull’interruzione della gravidanza, così mettendo in discussione
ab imo la stessa ratio ispiratrice di quella normativa, già
considerevolmente vulnerata in non poche disposizioni dalla
Corte costituzionale nel 2009.
Troppo spesso si dimentica che una norma statuale di rango
primario, più volte legittimata dal vaglio della Corte
costituzionale, riconosce alla madre il diritto ad interrompere
la gravidanza quando questa si trovi “in circostanze per le
quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità
comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o
psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue
condizioni economiche o sociali o familiari, o alle circostanze
in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie
o malformazioni del concepito” (così testualmente l’art. 4
della legge n. 194 del 1978).
Appare di indiscutibile efficacia la scelta lessicale di un
legislatore che descrive la situazione giuridica soggettiva
attribuita alla gestante in termini di diritto alla procreazione cosciente e responsabile, a lei rimesso in termini di assoluta
quanto inevitabile esclusività.
Il diritto alla procreazione cosciente e responsabile è, dunque,
attribuito alla sola madre, per espressa volontà legislativa, sì
che risulta legittimo discorrere, in caso di sua ingiusta lesione,
non di un diritto esteso anche al nascituro in nome di una sua
declamata soggettività giuridica, bensì di propagazione
intersoggettiva degli effetti diacronici dell’illecito (come
incontestabilmente ammesso nei confronti del padre) – salvo
l’indispensabile approfondimento (che di qui a breve seguirà)
sul tema della causalità in relazione all’evento di danno in
concreto lamentato dal minore nato malformato.
Altra e diversa questione è quella se la facoltà riconosciuta ex
lege alla madre di interrompere volontariamente la
gravidanza – consentendole di porre fine, con la propria
manifestazione di volontà, allo sviluppo del feto – possa
ritenersi rappresentativa di un esclusivo interesse della donna,
e non piuttosto anche del nascituro. Questione, peraltro, di
stampo etico, filosofico, religioso, che pone all’interprete
interrogativi destinati a scorrere su di un piano metagiuridico
di coscienza, ma non impone la ricerca di risposte né
tampoco di soluzioni sul piano del diritto positivo, postulando
che l’interesse alla procreazione cosciente e responsabile non
sia solo della madre, ma altresì del futuro bambino, e ciò
anche quando questo si trovi ancora nel ventre materno. La
titolarità del relativo diritto soggettivo, riconosciuto
espressamente dall’art. 1 della legge n. 194 del 1978, non può
che spettare, si ripete, alla sola madre, in quanto solo alla
donna è concessa (dalla natura prima ancora che dal diritto)
la legittimazione attiva all’esercizio del diritto di procreare
coscientemente e responsabilmente valutando le circostanze
e decidendo, alfine, della prosecuzione o meno di una
gravidanza che vede la stessa donna co-protagonista del suo
inizio, ma sola ed assoluta responsabile della sua prosecuzione
e del suo compimento.
Il rigoroso meccanismo legislativo, in consonanza con quello
di natura, esclude tout court la possibilità che il bambino, una
volta nato, si dolga nei confronti della madre, come pure si è
talvolta ipotizzato seguendo gli itinerari del ragionamento per
assurdo, della scelta di portare avanti la gravidanza
accampando conseguentemente pretese risarcitorie. E’ la
madre, infatti, che, esercitando un diritto iure proprio (anche
se, talvolta, nell’interesse non soltanto proprio, pur essendo
tale interesse confinato nella sfera dell’irrilevante giuridico),
deciderà presuntivamente per il meglio: né potrebbe darsi ipotesi contraria, a conferma della mancanza di una reale
soggettività giuridica in capo al nascituro.
A tanto consegue la non condivisibilità, sul piano strettamente
giuridico, della ricostruzione delle singole situazioni soggettive
(della madre, del padre, dei componenti il nucleo familiare,
del neonato stesso) che postulino in premessa l’esistenza, in
capo al nascituro, di un diritto a nascere sano, contrapposto
idealmente ad un non diritto “a non nascere se non sano”.
Altra questione, del tutto fuori dall’orbita del diritto, è quella
che vede tuttora discutersi a vario titolo sulla scelta legislativa
di consentire alla madre di scegliere se proseguire o meno la
gravidanza in presenza di determinate condizioni. Compiuta
una simile opzione normativa da parte del legislatore
ordinario, e ricevuta ripetuta e tranquillante conferma della
sua conformità al dettato costituzionale da parte del giudice
delle leggi, l’interprete è chiamato non ad un compito
“creativo” di pretese soggettività limitate, ma
all’accertamento positivo di un diritto, quello della madre, e di
un interesse, quello del nascituro (una volta in vita), oggetto di
tutela da parte dell’ordinamento, alla procreazione cosciente
e responsabile.

Sarà poi destinata alle considerazioni che di qui a breve
seguiranno l’analisi della questione centrale della causalità, la
questione, cioè, se ledere un siffatto interesse abbia come
conseguenza diretta ed immediata quella di porre il nascituro
malformato in condizioni di diseguaglianza rispetto agli altri
nascituri, e se tale condotta lesiva sia o meno concausa del
suo diritto al risarcimento, da valutare anche sotto il profilo del
suo inserimento in un ambiente familiare nella migliore delle
ipotesi non preparato ad accoglierlo.
Sgombrato il campo dall’equivoco che si annida nella poco
felice locuzione “diritto a non nascere se non sano”, e
ricondotta la vicenda alla sua più corretta dimensione
giuridica, il principio di diritto che appare predicabile è quello
secondo il quale la propagazione intersoggettiva dell’illecito
legittima un soggetto di diritto, quale il neonato, per il tramite
del suo legale rappresentante, ad agire il giudizio per il
risarcimento di un danno che si assume in ipotesi ingiusto
(tuttora impregiudicata la questione del nesso causale e
dell’ingiustizia del danno lamentato come risarcibile in via
autonoma dal neonato).
Ritiene, pertanto, il collegio che la protezione del nascituro
non passi necessariamente attraverso la sua istituzione a
soggetto di diritto – ovvero attraverso la negazione di diritti del
tutto immaginari, come quello a “non nascere se non sano”

locuzione che semplicemente non rappresenta un diritto;
come non è certo riconducibile ad un diritto del concepito la
più ferma negazione, da parte dell’ordinamento (non soltanto
italiano), di qualsiasi forma di aborto eugenetico.
E’ tanto necessario quanto sufficiente, di converso,
considerare il nascituro oggetto di tutela, se la qualità di
soggetto di diritto (evidente astrazione rispetto all’essere
vivente) è attribuzione normativa funzionale all’imputazione di
situazioni giuridiche e non tecnica di tutela di entità protette.
Nessuna rilevanza, in positivo o in negativo, pare assumere
all’uopo il pur fondamentale principio della centralità della
persona, universalmente riconosciuto e tutelato a qualsiasi
livello normativo, ma inidoneo ex se a rientrare nel novero
delle vere e proprie “clausole generali” (quali quelle della
correttezza, della buona fede, della funzione sociale della
proprietà, della giusta causa del licenziamento, della
cooperazione del creditore all’adempimento del debitore,
della solidarietà passiva, tutte espressamente previste, esse sì,
per via normativa). La centralità della persona (al di là della
significazione che si attribuisce al termine “persona”, la cui
etimologia evoca peraltro l’originario significato latino di
maschera del teatro) è qualcosa di più e di diverso rispetto ad
una semplice clausola generale, è un “valore assoluto”,
rappresentabile esso stesso come proiezione di altre norme
(tra le altre, gli art. 2 e 32 della Costituzione) e come autentico
fine dell’ordinamento..
Per altro verso, una corretta e coerente attuazione dei principi
cardine della giurisprudenza degli interessi (a mente della
quale la correttezza della decisione del giudice dipende dalla
altrettanto corretta valutazione dello scopo delle norme,
anche a prescindere dalla relativa struttura semantico-

contenutistica, secondo una ricerca del relativo significato in
una dimensione teleologica, diversamente da quanto
propugnato dalla giurisprudenza dei concetti, che procede
invece per progressiva astrazione da norme di sistema
valutandone soltanto il corrispondente significante) sembra
condurre alla conclusione che tutte le norme, costituzionali e
ordinarie, volte a disciplinare il delicato territorio del
concepimento considerino il concepito come un oggetto di
tutela necessaria, essendo la soggettività – come s’è detto-

un’astrazione normativa funzionale alla titolarità di rapporti
giuridici.
Ne è conferma tanto lo storico dictum della Corte
costituzionale (di cui alla sentenza del 18 febbraio 1975, n. 27,
predicativa del fondamentale principio della non equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di
chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia
dell’embrione che persona deve ancora diventare) quanto le
già ricordate disposizioni sull’interruzione di gravidanza che, se
realmente postulassero un confronto tra due diverse
soggettività giuridiche, e cioè fra due soggetti di diritto
portatori di interessi e istanze contrapposte, non potrebbero
mai operare una comparazione tra una malattia psichica e
una vita privilegiando la prima, dovendosi di converso lasciar
ovvio spazio alla vita in quanto valore supremo superiorem
non recognoscens.
Sotto un ulteriore profilo, non appare seriamente predicabile
l’attuale esistenza, in capo al concepito, dei pur rinvenuti
“interessi personali quali il diritto all’onore, alla reputazione,
all’identità personale”, situazioni soggettive che
presuppongono una dimensione di relazioni sociali (la
reputazione, l’identità personale) ovvero una consapevolezza
di sé (l’onore), che, ipso facto, difettano tout court al
concepito sul piano naturalistico prima ancora che su quello
giuridico.
Non si intende, con ciò, mettere in discussione quanto
recentemente opinato da una attenta dottrina quando
osserva che, malgrado il nascituro, da un punto di vista
terminologico, non sia una figura rintracciabile nella nostra
Costituzione, ciò non significa che non possa essere ricondotto
nell’ambito di tutela ad essa proprio. Quando la Costituzione

si afferma – riconosce l’idoneità a essere titolare di situazioni
giuridiche attive e passive solo a chi è partecipe della qualità
e dignità di uomo, non può che fare riferimento al carattere
biologico del soggetto, dal che deriva l’innegabilità del
riconoscimento in capo al nascituro dei diritti inviolabili
dell’uomo previsti dall’art. 2 della Carta fondamentale, che
esalta l’imprescindibile legame di tali diritti con la natura
umana. Tale conclusione troverebbe “puntuale conferma”
negli art. 2, 30, 31, 32 e 37 Cost., mentre le stesse espressioni
che fanno riferimento alla maternità, contenute negli artt. 31,
comma 2 e 37 comma 1, si saldano logicamente con la
normativa per cui la maternità viene in rilievo come situazione
esistenziale “plurima” da salvaguardare, in quanto la tutela
giuridica si dirige sia verso la madre sia nei confronti del figlio,
e si estende dalla gestante al nascituro. Dalla rassegna delle
disposizioni del codice civile – si sostiene ancora – può inoltre
evincersi che l’attribuzione delle situazioni giuridiche imputabili
al concepito, delle quali solo quelle di natura patrimoniale
sarebbero subordinate all’evento nascita, implica necessariamente la valutazione del medesimo come centro
di interessi suscettibili di tutela.
La locuzione “centro di interessi suscettibile di tutela” è
peraltro espressione anfibologica, dalla quale è lecito dedurre
tanto la conclusione (non necessaria) della soggettività
giuridica del nascituro, quanto quella, più realisticamente
aderente al dato normativo ed alla stessa concezione del
soggetto in termini di fattispecie (come illuminantemente
opinato, oltre sessant’anni fa, da uno dei più illustri esponenti
della civilistica italiana), in termini, cioè, di oggetto di tutela
“progressiva” da parte dell’ordinamento, in tutte le sue
espressioni normative e interpretative.
Al là di alcune recenti e poco condivisibili formulazioni lessicali
(si pensi alla tecnica normativa adoperata dal legislatore
della legge 40/2004 sulla procreazione assistita, la cui
improprietà anche terminologica ha cagionato, come si è
avuto modo di osservare in precedenza, un inevitabile
intervento abrogans di buona parte della sue disposizioni,
mentre ancora più recente risulta l’intervento, parimenti
tranchant, della Corte di giustizia europea, che ne ha
evidenziato la patente contraddittorietà), l’intero plesso
normativo, ordinario e costituzionale, sembra muovere nella
direzione del concepito inteso come oggetto di tutela e non
anche come soggetto di diritto. Solo a seguito dell’evento
nascita, difatti, la fattispecie scrutinata dalla sentenza
10741/2009 si presentò non diversamente da un ordinario caso
di danno alla salute: la lesione inferta al concepito si
manifesta e diviene attuale al momento della nascita, la
situazione soggettiva tutelata è il diritto alla salute, non quello
a nascere sano. Chi nasce malato per via di un fatto lesivo
ingiusto occorsogli durante il concepimento non fa, pertanto,
valere un diritto alla vita né un diritto a nascere sano né
tantomeno un diritto a non nascere. Fa valere, ora per allora,
la lesione della sua salute, originatasi al momento del
concepimento. Oggetto della pretesa e della tutela
risarcitoria è, pertanto, sul piano morfologico, la nascita
malformata, su quello funzionale (quello, cioè, del dipanarsi
della vita quotidiana) il perdurante e irredimibile stato di
infermità. Non la nascita non sana. O la non nascita.
6.3.- I principi sinora esposti risultano già in gran parte affermati
da questa corte nella sentenza n. 9700 del 2011.
La pronuncia afferma, difatti, il principio di diritto secondo il
quale chi sia nato successivamente alla morte del padre può
ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non
patrimoniali verificatisi contemporaneamente alla nascita e/o

posteriormente ad essa, essendo irrilevante la non
contemporaneità fra la condotta dell’autore dell’illecito (che
ben può realizzarsi durante la fase del concepimento) e il
danno (che ben può prodursi successivamente, come già
opinato da questa stessa corte, in sede penale, con la
sentenza n. 11625 del 2000).
Nella specie, si dissero risarcibili i danni subiti dal minore, a
partire dal momento della nascita, in conseguenza
dell’uccisione del padre avvenuta in epoca anteriore alla
nascita stessa, al tempo in cui il minore era soltanto
concepito.
Così modificata la tesi espressa da questo stesso giudice di
legittimità con una risalente pronuncia (Cass. n. 3467 del 1973,
affermativa del carattere eccezionale, e dunque di stretta
interpretazione, delle disposizioni di legge che, in deroga al
principio generale dettato dall’art. 1, comma 1 c.c.,
prevedono la tutela dei diritti del nascituro), La Corte ritenne
irrilevante la questione della soggettività giuridica del
concepito, ed comunque impredicabile una sua giuridica
configurazione al fine di affermare il diritto del nato al
risarcimento “non potendo, d’altro canto, quella soggettività
evincersi dal fatto che il feto è fatto oggetto di protezione da
parte dell’ordinamento”, in evidente e consapevole adesione
all’insegnamento della civilistica classica, uno dei cui più
autorevoli esponenti ebbe efficacemente ad evidenziare
come la soggettività giuridica trovi il suo normale svolgimento
nella capacità giuridica (impregiudicata la questione della
soggettività indipendente dalla capacità degli enti
impersonali, che rileva piuttosto sotto il profilo dell’attitudine
alla titolarità di rapporti giuridici attivi e passivi, in guisa di
soggetti di diritto – e dal diritto espressamente contemplati e
disciplinati sul piano funzionale – come attualmente esistenti, a
differenza del nascituro).
D’altronde, non è senza significato la circostanza per la quale
sono rimasti privi di seguito, non essendo mai stati discussi
neppure in commissione, i due disegni e le due proposte di
legge presentati nel corso dell’attuale legislatura, sia al
Senato che alla Camera, volti a modificare l’art. 1, comma 1,
c.c. sostituendone il testo originario nel senso che “ogni essere
umano ha la capacità giuridica fin dal momento del
concepimento”.
La sentenza 9700/2011 evidenziò ancora, con argomentazioni
che questo collegio interamente condivide, come il diritto di
credito di natura risarcitoria appartenesse alla figlia in quanto
nata orfana, e come tale destinata a vivere senza la figura paterna, mentre la circostanza che il padre fosse deceduto
prima della sua nascita per fatto imputabile a responsabilità di
un terzo assumeva significato nella sola misura in cui condotta
ed evento materiale costituenti l’illecito si erano già verificati
prima che ella nascesse, ma non anche che prima di nascere
ella potesse avere acquistato il diritto di credito al
risarcimento. Questo, difatti, postula la lesione di una
situazione giuridica tutelata dall’ordinamento, da identificarsi,
nella specie, con il diritto al godimento del rapporto
parentale, diritto certamente inconfigurabile prima della
nascita, così come solo successivamente alla nascita si
verificano le conseguenze pregiudizievoli che dalla lesione del
diritto derivano.
Del rapporto col padre – si legge ancora in sentenza – la figlia
è stata privata nascendo, non prima che nascesse. In
precedenza, esistevano solo le condizioni ostative al suo
insorgere per la già intervenuta morte del padre che la aveva
concepita: ma la mancanza del rapporto interpersonale, del
legame emozionale che connota la relazione tra padre e
figlio è divenuta attuale quando la figlia è venuta alla luce.
In quel momento si è dunque verificata la propagazione
intersoggettiva dell’effetto dell’illecito “per la lesione del diritto
della figlia (non del feto) al rapporto col padre, e nello stesso
momento è sorto il suo diritto di credito al risarcimento, del
quale è dunque diventato titolare un soggetto fornito della
capacità giuridica per essere nato”.
La sentenza esclude, infine, che possa revocarsi in dubbio
l’esistenza di un nesso di causalità fra illecito e danno, inteso
questo come insieme di conseguenze pregiudizievoli derivate
dall’evento (morte del padre): il figlio cui sia impedito di
svilupparsi nell’ambito di questo rapporto genitoriale ne può
riportare un pregiudizio che costituisce un danno ingiusto
indipendentemente dalla circostanza che egli fosse già nato
al momento della morte del padre o che, essendo solo
concepito, sia nato successivamente (in tal senso, già Cass. 22
novembre 1993, n. 11503 e Cass. 9 maggio 2000, n. 5881, pur
se non condivisibilmente contraddette, di recente – con
motivazione, peraltro, meramente assertiva – da Cass. 21
gennaio 2011, n. 1410).
Pur se non direttamente investita della questione che occupa
invece oggi il collegio, la sentenza in discorso avrebbe
concluso, con un breve quanto significativo obiter dictum, nel
senso che, nelle modalità di insorgenza del diritto al
risarcimento, il caso scrutinato non si differenziava da quello
della lesione colposamente cagionata al feto durante il parto (dunque prima della nascita), da cui derivi, dopo la nascita, il
diritto del nato al risarcimento per il patito danno alla salute
(danno da lesione del diritto alla salute, dunque, e non già del
cosiddetto “diritto a nascere sano”, che costituisce soltanto
l’espressione verbale di una fattispecie costituita dalla lesione
provocata al feto, ma che non è ricognitiva di un diritto
preesistente in capo al concepito, che il diritto alla salute
acquista solo con la nascita), aggiungendo poi che, “in altro
ambito, null’altro che espressiva di una particolare fattispecie
è la locuzione diritto a non nascere se non sano, alla cui
mancanza, in passato, si è correlata la risposta negativa al
quesito relativo al se sia configurabile il diritto al risarcimento
del nato geneticamente malformato nei confronti del medico
che non abbia colposamente effettuato una corretta
diagnosi in sede ecografica ed abbia così precluso alla
madre il ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza,
che ella avrebbe in ipotesi domandato”. Onde “la diversa
costruzione che il collegio ritiene corretta consentirebbe
invece, nel caso sopra descritto, una volta esclusa l’esigenza
di ravvisare la soggettività giuridica del concepito per
affermare la titolarità di un diritto in capo al nato, di
riconoscere il diritto al risarcimento anche al nato con
malformazioni congenite e non solo ai suoi genitori, come
oggi avviene, sembrando del tutto in linea col sistema e con
la diffusa sensibilità sociale che sia esteso al feto lo stesso
effetto protettivo (per il padre) del rapporto intercorso tra
madre e medico; e che, come del resto accade per il padre,
il diritto al risarcimento possa essere fatto valere dopo la
nascita anche dal figlio il quale, per la violazione del diritto
all’autodeterminazione della madre, si duole in realtà non
della nascita ma del proprio stato di infermità (che sarebbe
mancato se egli non fosse nato)”.
La pronuncia del 2011, pur senza affermarlo espressamente,
ascrive pertanto la vicenda risarcitoria alla categoria dei
danni futuri: a quei danni, cioè, che al tempo della
consumazione della condotta illecita non si sono ancora (o
non si sono del tutto) prodotti pur in presenza di elementi
presuntivi idonei a ritenere che il pregiudizio si produrrà (in
argomento, funditus, Cass. 4 febbraio 1992, n. 1147), senza
che osti a tale ricostruzione il dato letterale dell’art. 2043 c.c.,
che discorre di condotta dolosa o colposa che cagiona “ad
altri” un danno ingiusto, ma non esige per questo l’attuale
esistenza del danneggiato al tempo della condotta lesiva.
6.4.- Va peraltro precisato come fermo convincimento del
collegio sia quello per cui l’evaporazione della questione della soggettività giuridica del concepito non conduca punto
a rinnegare l’evoluzione subita, in materia, dal nostro
ordinamento dal 1942 ad oggi, tanto alla luce delle norme
costituzionali, quanto del ruolo sempre più incisivo delle fonti
sovranazionali.
Non ignora, difatti, il collegio che l’interpretazione dell’art. 1
c.c. non può prescindere da un dato storico certo, quello
secondo il quale il codice del 1942 nasce dalla fusione delle
leggi civili con i principi fondamentali del diritto commerciale,
e dalla conseguente unificazione dei testi normativi
rappresentati dal codice di commercio e da quello civile. La
struttura portante del codice così unificato corre dunque
lungo l’asse dei rapporti intersoggettivi di tipo patrimoniale
piuttosto che attraversare il territorio dei diritti della persona e
della personalità.
E’ del pari innegabile che nell’attuale periodo storico,
caratterizzato ab imis dalla entrata in vigore della Costituzione
repubblicana, la persona – la sua libertà, la sua dignità –
assurge via via a rango di primo motore immobile
dell’ordinamento giuridico e della sua interpretazione. Lo
stesso giudice delle leggi, con specifico riguardo alla
posizione del concepito, ne consacrerà a più riprese un
inviolabile interesse alla protezione, sua e della sua vita
(particolarmente significativa, al riguardo, la pronuncia 10
febbraio 1997, n. 35). Né può seriamente dubitarsi che
l’evoluzione legislativa abbia introdotto una congerie di
norme che prendono in considerazione il concepito in quanto
tale, come ha avuto cura di evidenziare la citata sentenza n.
10741 del 2009.
Ma tale, apprezzabile, condivisibile e probabilmente
inevitabile evoluzione del costume legislativo ed interpretativo
non conduce, ipso facto, all’approdo necessario della
soggettività del concepito.
Non convince, difatti, la pur suggestiva riflessione
recentemente svolta da un’attenta dottrina su di un piano
rigorosamente normativo (e dunque a prescindere da
considerazioni etiche, filosofiche, teologiche) a sostegno della
teoria della soggettività del nascituro.
Essa si fonda sulla generale portata precettiva dell’art. 320,
comma 1, c.c. – che attribuisce ai genitori la rappresentanza
non solo dei figli nati, ma anche dei nascituri, onde
“nell’interpretazione di un linguaggio tecnico come è quello
giuridico, non sarebbe revocabile in dubbio che ogni forma di
rappresentanza, ivi compresa quella legale, è effettivamente
tale se c’è alterità soggettiva fra rappresentante e

rappresentato e, dunque, se il rappresentato è il soggetto
giuridico in nome del quale il rappresentante agisce”.
L’argomento in realtà prova troppo, perché le stesse norme
sulla rappresentanza, in ragione della predicata alterità
soggettiva, esigono in capo al rappresentato non soltanto la
capacità giuridica, ma altresì quella di agire, limitando al
rappresentante la sola capacità di intendere e di volere (se
tale rappresentanza è conferita dall’interessato). Ne
consegue che la “rappresentanza” disciplinata dall’art. 320 sì
come riferita al nascituro è istituto affatto peculiare, di portata
sicuramente eccezionale, altrettanto certamente limitato al
campo dei diritti patrimoniali. E ciò proprio in conseguenza di
quella che altra, pensosa dottrina ha dal suo canto definito
“la singolarità della relazione tra madre e nascituro, che fa di
ogni decisione riguardo al figlio una decisione della madre”,
in una relazione non di alterità ma di immedesimazione,
questa sì, realmente “organica” (come implicitamente
affermato nell’ordinanza 31.3.1988 n. 389 della Corte
costituzionale, che dichiarò, con motivazione tranchant, del
tutto inammissibile la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 5 della legge 194 nella parte in cui non riconosceva
rilevanza alla volontà del padre).
Per altro verso, lungi dall’apparire “irrazionale”, appare
perfettamente compatibile con la concezione del nascituro
inteso come oggetto di tutela e non come soggetto di diritto
la disposizione dell’art. 578 c.p. – che punisce la madre che
non solo cagiona la morte del proprio neonato subito dopo il
parto, ma anche del feto durante il parto, prima che questo si
distacchi definitivamente dal proprio organismo -, poiché non
pare seriamente discutibile la piena equiparazione delle due
situazioni sul piano naturalistico prima ancora che giuridico,
una volta che il parto abbia avuto inizio.
L’indiscutibile e indiscussa rilevanza giuridica del concepito
nel nostro ordinamento, pur a volerne condivisibilmente
predicare, come parte della dottrina esige a gran voce, un
innegabile “carattere generale”, non limitato né limitabile ad
ipotesi puntuali, non ha pertanto come ineludibile
conseguenza la creazione ex nihilo di una sua soggettività,
ma si sostanzia, si ripete, nel riconoscimento, ben più
pregnante e pragmatico, della sua qualità di oggetto
speciale di tutela da parte dell’ordinamento.
Così affrancando il discorso giuridico (come osserverà, di
recente, una avveduta dottrina) “dai pantani della
soggettività, onde assegnare al concepito garanzie di difesa
senza obbligare l’interprete alla necessità pregiudiziale di attribuirgli qualità soggettive nel significato e con le
conseguenze che il diritto riconosce a tale concetto”, e
finalmente liberi “dalle categorie metafisiche costituite dalla
triade concettuale personalità, soggettività, capacità”, la
questione della protezione del concepito non si discosta da
quella della protezione dell’essere umano, nel senso che sarà
compito di un essere umano già vivente assicurare tutela a
chi (come magistralmente insegnato dalla Corte
costituzionale) essere umano deve ancora diventare. E’ sotto
questo profilo che va fermamente respinta l’opinione di chi,
dalla risarcibilità del danno da nascita malformata, pretende
di inferire l’esistenza (e la rilevanza giuridica) di un diritto ad
essere abortito quale rivendicazione propria del
nascituro/soggetto di diritto, alla stregua di un preteso
principio costituzionale di parità di trattamento, tutte le volte
che tale diritto all’aborto sarebbe stato esercitato dalla
madre se opportunamente informata della malformazione su
sua esplicita richiesta. Sostenere – come a più riprese è stato
sostenuto, specie in seno alla dottrina francese all’indomani
della sentenza Perruche – che, se alla madre è consentito
evitare la nascita in vista di una possibile malattia psichica,
sarebbe del tutto contrario al principio di uguaglianza negare
il medesimo diritto al minore, risulta una evidente aporia,
proprio perché il diritto vantato dal minore non è affatto volto
alla sua soppressione “ora per allora”, né tantomeno alla
rivendicazione di dover nascere sano ovvero di dover non
nascere se non sano in attuazione di una ipotetica quanto
inconcepibile eugenetica postnatale, ma alla riparazione di
una condizione di pregiudizio per via di un risarcimento
funzionale ad alleviarne sofferenze e infermità, talora
prevalenti sul valore della vita stessa.
7.- All’esito della ricognizione tanto delle pronunce più
significative rese in subiecta materia da questa corte, quanto
del sempre fondamentale contributo della dottrina (ancor più
necessario tutte le volte che il diritto è chiamato ad affrontare
tematiche che trascendono la funzione sua propria e gli
strumenti di analisi di cui dispone), sembra potersi avviare ad
appagante soluzione la questione processuale sottoposta
all’esame del collegio nella sua dimensione rigorosamente
giuridica, e altrettanto rigorosamente ancorata al dato
normativo (e dunque scevra da facili suggestioni etiche,
filosofiche, o anche solo “creative”).
Vanno conseguentemente analizzati tutti gli elementi della
fattispecie concreta onde inferirne la legittima riconducibilità
alla fattispecie astratta dell’illecito aquiliano in tutti i suoi

elementi di struttura così come descritti dall’art. 2043 c.c..
Premesso che l’analisi delle questioni relative ai criteri di
valutazione del danno, che pur completerebbe l’indagine, è
preclusa dall’estraneità del tema al presente giudizio, il
collegio ritiene necessario condurre l’esame della fattispecie
con riguardo:
· al soggetto legittimato ad agire (rectius alla legittimazione
soggettiva attiva);
· all’oggetto della tutela;
· all’evento di danno;
· al nesso causale;
· alla colpa dell’agente;
· ai presupposti normativi della richiesta risarcitoria (gli artt. 4 e
6 della legge n. 194 del 1978)
· ai presupposti fattuali della domanda risarcitoria (la richiesta
di diagnosi funzionale all’aborto da parte della gestante);
· alla titolarità del diritto di rappresentanza nell’esercizio del
diritto al risarcimento (e all’eventuale conflitto di interessi con i
genitori);
· al riparto degli oneri probatori.
La Corte non ritiene, difatti, del tutto appagante, nel dar vita
ad un così significativo revirement rispetto alle pronunce del
2004 e del 2009, né l’evocazione di quella sensazione di
sotterfugio cui ricorrerebbe la giurisprudenza per riconoscere il
risarcimento in via indiretta all’handicappato, né la pur
suggestiva considerazione volta a rilevare la contraddizione
logica del riconoscere il risarcimento del danno ai genitori e
non riconoscerlo al minore nato con la malattia,
contraddizione resa ancor più evidente se il risarcimento è
riconosciuto non solo alla gestante, poiché è stato leso il suo
diritto ad interrompere la gravidanza, ma anche al marito
della stessa (che non ha un tale diritto), sol perché è diventato
padre di un bambino anormale.
7.1.- La legittimazione soggettiva.
Alla luce delle considerazioni che precedono, non sembra
seriamente discutibile la predicabilità di una legittimazione
attiva del neonato in proprio all’azione di risarcimento.
Superate le suggestioni rappresentate dall’ostacolo
“ontologico” – l’impossibilità per un essere vivente di esistere
come soggetto prima della sua vita – e convertita in
questione giuridica la posizione del soggetto che,
attualmente esistente, avanza pretese risarcitorie (ciò che
sposterebbe il piano dell’analisi non sul versante della
legittimazione soggettiva astratta, ma della titolarità concreta
del rapporto controverso) e prescindendo del tutto, per il

momento, dall’analisi degli ulteriori elementi della fattispecie
(id est il diritto leso, l’evento di danno, la sua ingiustizia, il nesso
di causalità), va riconosciuto al neonato/soggetto di
diritto/giuridicamente capace (art. 1 c.c.) il diritto a chiedere
il risarcimento dal momento in cui è nato. Sul piano giuridico
(che, non va dimenticato, è dimensione meta-reale del
pensiero, nella quale le stesse categorie spazio/tempo si
annullano o si modificano, se si pensa al commercio
elettronico o alla retroattività della condizione sospensiva)
nulla sembra diversificare la situazione soggettiva dell’avente
diritto al risarcimento conseguente alla nascita malformata da
quelle tradizionali pratiche testamentarie di diritto comune
attraverso le quali vengono riconosciuti e attribuiti diritti ad
una “persona” che ancora deve nascere. Né rileva, ai fini
della predicabilità di tale legittimazione soggettiva, la
specularità del senso dell’operazione – poichè non di una
volontà ascendente che istituisce un soggetto che nascerà si
tratta, bensì di un soggetto che, alla sua nascita, istituisce
retroattivamente sé stesso, divenendo così titolare di un diritto
soggettivo nuovo, il cui esercizio non richiede, peraltro, la
finzione di un soggetto di diritto prenatale.
Soggetto “autore” del minore malformato non è, pertanto,
l’ascendente, il testatore, il donante, ma sé stesso. Ben più
che un nuovo diritto soggettivo, il riconoscimento di tale
legittimazione istituisce un nuovo soggetto autonomo, al
punto che la qualità innata della sua vita diviene un diritto
esigibile della persona, senza che – come è stato assai
suggestivamente scritto – “questo nuovo soggetto di diritto
divenga un mostro senza passato”. E senza che, va aggiunto,
la sua pretesa risarcitoria appaia una mostruosità senza
passato, confondendo il tempo della vita con il tempo della
costruzione (e della finzione) giuridica.
7.2.- L’interesse tutelato.
L’assemblea plenaria della corte di cassazione francese,
nell’ammettere la legittimità della richiesta risarcitoria in
proprio del piccolo Nicolas Perruche, si limitò ad osservare che
questi aveva effettivamente subito un pregiudizio risultante
dall’handicap particolarmente grave da cui era afflitto,
specificando che la causalità non potesse, nella specie,
essere ridotta alla sua dimensione scientifica o logica, ma
andasse intesa in senso “giuridico”.
La sentenza, vivacemente contestata, pose e pone tuttora un
problema di non poco momento: quello, cioè, di individuare
con esattezza la situazione soggettiva di cui si lamenta la

lesione, onde ricondurla al conseguente evento di danno

che, da quella lesione, ebbe a generarsi (per poi ricondurre
ancora la condotta colpevole alla lesione della situazione
soggettiva ed all’evento valutato in termini di contra ius).
E’ convincimento del collegio che la domanda risarcitoria
avanzata personalmente dal bambino malformato trovi il suo
fondamento negli artt. 2, 3, 29, 30 e 32 della Costituzione.
Il vulnus lamentato da parte del minore malformato, difatti,
non è la malformazione in sé considerata – non è, in altri
termini, l’infermità intesa in senso naturalistico (o secondo i
dettami della scienza medica), bensì lo stato funzionale di
infermità, la condizione evolutiva della vita handicappata
intese come proiezione dinamica dell’esistenza che non è
semplice somma algebrica della vita e dell’handicap, ma
sintesi di vita ed handicap, sintesi generatrice di una vita
handicappata.
E’ violato il dettato dell’art. 32 della Costituzione, intesa la
salute non soltanto nella sua dimensione statica di assenza di
malattia, ma come condizione dinamico/funzionale di
benessere psicofisico – come testualmente si legge nell’art. 1
lettera o) del d.lgs. n. 81 del 2008, e come recentemente
riaffermato da questa stessa Corte con la sentenza 16 ottobre
2007, n. 21748.
Deve ancora ritenersi consumata:
– la violazione della più generale norma dell’art. 2 della
Costituzione, apparendo innegabile la limitazione del diritto
del minore allo svolgimento della propria personalità sia come
singolo sia nelle formazioni sociali;
– dell’art. 3 della Costituzione, nella misura in cui si renderà
sempre più evidente la limitazione al pieno sviluppo della
persona;
– degli artt. 29, 30 e 31 della Costituzione, volta che l’arrivo del
minore in una dimensione familiare “alterata” (come lascia
presumere il fatto che la madre si fosse già emotivamente
predisposta, se correttamente informata della malformazione,
ad interrompere la gravidanza, in previsione di una sua futura
malattia fisica o psichica al cospetto di una nascita
dichiaratamente indesiderata) impedisce o rende più ardua
la concreta e costante attuazione dei diritti-doveri dei genitori
sanciti dal dettato costituzionale, che tutela la vita familiare
nel suo libero e sereno svolgimento sotto il profilo
dell’istruzione, educazione, mantenimento dei figli.
Tali situazioni soggettive, giuridicamente tutelate e
giuridicamente rilevanti, sono pertanto riconducibili non alla
sola nascita né al solo handicap, bensì alla nascita ed alla
futura vita handicappata intesa nella sua più ampia

accezione funzionale, la cui “diversità” non è discriminata in
un giudizio metagiuridico di disvalore tra nascita e non
nascita, ma soltanto tutelata, rispettata ed alleviata per via
risarcitoria.
Non è a discorrersi, pertanto, di non meritevolezza di una vita
handicappata, ma una vita che merita di essere vissuta meno
disagevolmente, attribuendo direttamente al soggetto che di
tale condizione di disagio è personalmente portatore il dovuto
importo risarcitorio, senza mediazioni di terzi, quand’anche
fossero i genitori, ipoteticamente liberi di utilizzare il
risarcimento a loro riconosciuto ai più disparati fini.
Non coglie dunque nel segno la ulteriore critica, mossa dai
sostenitori della non risarcibilità autonoma del danno da
nascita malformata, che nega ogni legittimazione ad agire al
minore in nome di un preteso rispetto della sua dignità
sull’assunto per cui qualificare la nascita in termini di
pregiudizio costituirebbe una mancanza di rispetto alla dignità
del minore.
Tralasciando ogni considerazione in ordine ad una tale
concezione della dignità umana (dichiaratamente ostile al
soggettivismo della modernità dei diritti dell’uomo, e
funzionale ad un’idea che non di diritto dell’uomo in quanto
individuo si discorra, bensì di diritti del genere umano come
tali opponibili allo stesso individuo onde assoggettarlo ad
obblighi verso questa generica qualità umana che lo
trascende, con conseguente negazione del fondamentale
rapporto dell’individuo con sé stesso in una non negoziabile
dimensione di suitas), va osservato che un vulnus alla propria
dignità così concepito confonde la dimensione giuridica della
richiesta individuale di risarcimento di un pregiudizio
altrettanto individuale da parte della vittima di quel
pregiudizio con la dimensione etica dell’attentato
pregiudizievole non al sé individuale, ma ad una pretesa
alterità trascendente che alberga nel singolo essere umano in
quanto rappresentante di un genere.
Al di là della condivisibilità sul medesimo piano dell’etica di
tale concezione, è innegabile che essa si pone del tutto fuori
dal territorio segnato dalle norme giuridiche e dalla relativa
interpretazione.
Deve pertanto concludersi che l’interesse giuridicamente
protetto, del quale viene richiesta tutela da parte del minore
ai sensi degli articoli della Carta fondamentale dianzi citati, è
quello che gli consente di alleviare, sul piano risarcitorio, la
propria condizione di vita, destinata a una non del tutto libera
estrinsecazione secondo gli auspici dal Costituente: il quale ha

identificato l’intangibile essenza della Carta fondamentale nei
diritti inviolabili da esercitarsi dall’individuo come singolo e
nelle formazioni sociali ove svolgere la propria personalità, nel
pieno sviluppo della persona umana, nell’istituzione familiare,
nella salute.
Non assume, pertanto, alcun rilievo “giuridico” la dimensione
prenatale del minore, quella nel corso della quale la madre
avrebbe, se informata, esercitato il diritto all’interruzione della
gravidanza. Se l’esercizio di questo diritto fosse stato
assicurato alla gestante, la dimensione del non essere del
nascituro impedisce di attribuirle qualsivoglia rilevanza
giuridica.
Come accade in altro meno nobile territorio del diritto, e cioè
in tema di nullità negoziale, l’interprete si trova al cospetto
non già di una qualificazione giuridica negativa di un fatto
(che ne consentirebbe uno speculare parallelismo con la
corrispondente qualificazione positiva), bensì di una
inqualificazione giuridica tout court.
Ciò che è giuridicamente in-qualificato non ha cittadinanza
nel mondo del diritto, onde la assoluta irrilevanza
dell’affermazione secondo la quale “nessuno potrebbe
preferire la non vita alla vita”, funzionale ad un “dovere di
vivere” – ancora una volta relegato entro i confini di una
specifica visione e dimensione etica delle vicende umane
priva di seri riscontri normativi, come già affermato da questa
Corte, in tema di diritti di fine vita con la già ricordata
sentenza del 2007 – che in nessun caso può costituire legittimo
speculum, sul piano normativo, del diritto individuale alla vita.
Il ragionamento apparentemente sillogistico, elaborato da
gran parte della dottrina francese all’indomani del caso
Perruche, secondo cui “sarebbe insanabilmente
contraddittorio considerare che il bambino handicappato,
una volta nato, possa usare la sua acquisita qualità di
soggetto di diritti per chiedere il risarcimento del danno
risultante dal fatto di non essere stato abortito dalla madre,
cosa che gli avrebbe impedito di diventare soggetto di diritti”,
perde ogni ragionevole senso alla luce di quanto sinora
esposto circa l’aspetto soggettivo ed oggettivo della
vicenda: l’obiezione caratterizza, difatti, l’enunciato in termini
di esigenza meramente logico-discorsiva, che non impone al
soggetto un obbligo di vivere, ma un dovere linguistico di non
affermare nulla che possa portarlo a predicare sé stesso
come inesistente.
Tutto ciò resta ai margini del discorso giuridico, così come
estraneo al diritto positivo, se non nei limiti del suo altrettanto

positivo recepimento in norme (ove esistenti), è una
considerazione razionale della natura dell’uomo che ne
implichi un obbligo di vivere, avendo di converso
l’ordinamento positivo eletto ad essenza dei diritti dell’uomo,
prima ancora della dignità (diversamente dall’ordinamento
tedesco, in conseguenza della storia di quel popolo) la libertà
dell’individuo, che si autolimita nel contratto sociale, ma resta
intatta nei confronti di sé stesso, in una dimensione dell’essere
che legittima alfine anche il non fare o il rifiutare.
7.3.- L’evento di danno.
Sgombrato il campo dall’equivoco costituito dalla pretesa
equazione “diritto di nascere o di non nascere/diritto al
risarcimento da nascita malformata” (pare utile rammentare
che la stessa corte di cassazione francese, il 13 luglio 2001,
pochi mesi prima dell’arret Perruche, aveva respinto un ricorso
che trasponeva erroneamente il pregiudizio “sul fatto stesso di
essere in vita”), risulta innegabile come l’esercizio del diritto al
risarcimento da parte del minore in proprio non sia in alcun
modo riconducibile ad un impersonale “non nascere”, ma si
riconnetta, personalmente e soggettivamente, a quella
singola, puntuale e irripetibile vicenda umana che riguarda
quel determinato (e altrettanto irripetibile) soggetto che,
invocando un risarcimento, fa istanza al giudice di piena
attuazione del dettato costituzionale dianzi evocato, onde
essere messo in condizione di poter vivere meno
disagevolmente, anelando ad una meno incompleta
realizzazione dei suoi diritti di individuo singolo e di parte
sociale scolpiti nell’art. 2 della Costituzione.
E’ pertanto un vero e proprio “dibattito sulle ombre” quello
volto a sostenere che tale facoltà, in guisa di diritto a sé stessi,
potrebbe attuarsi soltanto attraverso due modalità
dell’impossibile, il non essere dell’essere ovvero l’essere del
non essere. Riflessioni, si ripete, di indiscutibile spessore
filosofico. Ma irrilevanti sul piano giuridico se, tra natura e
diritto (come lo stesso giusnaturalismo ammette), si erge il
triplice filtro costituito dalla legislazione, dalla giurisdizione,
dalla interpretazione.
E’ dunque confinata nella sfera dell’irrilevante giuridico ogni
questione formulata fuori da tale dimensione, in particolare
quella (incontrollabile dal diritto) del possibile e del non-

possibile ontologico.
La legittimità dell’istanza risarcitoria iure proprio del minore
deriva, pertanto, da una omissione colpevole cui consegue
non il danno della sua esistenza, né quello della
malformazione di sé sola considerata, ma la sua stessa esistenza diversamente abile, che discende a sua volta dalla
possibilità legale dell’aborto riconosciuta alla madre in una
relazione con il feto non di rappresentante-rappresentato, ma
di includente-incluso.
Una esistenza diversamente abile rettamente intesa come
sintesi dinamica inscindibile quanto irredimibile, e non come
algida fictio iuris ovvero arida somma algebrica delle sue
componenti (nascita+handicap=risarcimento), né tantomeno
come una condizione deteriore dell’essere negativamente
caratterizzata, ma situazione esistenziale che, in presenza di
tutti gli elementi della fattispecie astratta dell’illecito, consente
e impone al diritto di intervenire in termini risarcitori (l’unico
intervento consentito al diritto, amaramente chiamato, in tali
vicende, a trasformare il dolore in denaro) affinchè quella
condizione umana ne risulti alleviata, assicurando al minore
una vita meno disagevole.
Consentendo, alfine, per il tramite del diritto, ciò che un logica
astrattamente giusnaturalitica vorrebbe viceversa negare.
L’evento di danno è costituito, pertanto, nella specie, dalla
individuazione di sintesi della “nascita malformata”, intesa
come condizione dinamica dell’esistenza riferita ad un
soggetto di diritto attualmente esistente, e non già destinata
“a realizzare un suicidio per interposto risarcimento danni”,
come pure s’è talvolta opinato.
7.4.- Il nesso di causa.
La esistenza di un nesso di causalità giuridicamente rilevante
tra la condotta del sanitario e l’evento di danno lamentato a
seguito della violazione di un interesse costituzionalmente
protetto del minore (questione che apparve immediatamente
come la più problematica dell’intera vicenda risarcitoria
all’indomani della sentenza Perruche, e che non venne
affrontata funditus dalle due sentenze di questa corte che, nel
2004 e nel 2009, esclusero sotto altro aspetto l’esistenza di un
autonomo diritto al risarcimento in capo al minore) può
ricevere soddisfacente soluzione all’esito della ricognizione
dell’evento di danno così come appena operata.
Si sono correttamente sostenute, in proposito, tanto la
irrilevanza di un nesso causale tra l’omissione di diagnosi e la
nascita – attesa la inconfigurabilità di quest’ultima in termini di
evento dannoso -, quanto la inesistenza di tale nesso tra la
condotta omissiva e l’handicap in sé considerato, atteso che
la malformazione non è conseguenza dell’omissione bensì del
presupposto di natura genetica, rispetto al quale la condotta
del sanitario è muta sul piano della rilevanza eziologica.

Rilevanza che, di converso, appare sicuramente predicabile
una volta identificato con esattezza l’evento di danno nella
nascita malformata intesa nei sensi poc’anzi esposti.
Tale evento, nella più volte illustrata proiezione dinamica
dell’esistente, appare senz’altro riconducibile, secondo un
giudizio prognostico ex post, all’omissione, volta che una
condotta diligente e incolpevole avrebbe consentito alla
donna di esercitare il suo diritto all’aborto (sì come
espressamente dichiarato al medico nel caso di specie).
Una diversa soluzione, sul piano causale, si risolverebbe
nell’inammissibile annullamento della volontà della gestante,
senza che, in proposito possano assumere rilievo ipotesi
alternative confinate, nella specie, in una dimensione
dell’improbabile – e dunque del giuridicamente irrilevante-

circa la eventualità (come ipotizzata dalla corte territoriale) di
un futuro mutamento di decisione da parte della gestante
stessa in ordine alla pur programmata interruzione
condizionata di gravidanza.
Va pertanto affermata, sul piano del nesso di
condizionamento, la equiparazione quoad effecta tra la
fattispecie dell’errore medico che non abbia evitato
l’handicap evitabile (l’handicap, si badi, non la nascita
handicappata), ovvero che tale handicap abbia cagionato
(come nella ipotesi scrutinata dalla sentenza 10741/2009) e
l’errore medico che non ha evitato (o ha concorso a non
evitare) la nascita malformata (evitabile, senza l’errore
diagnostico, in conseguenza della facoltà di scelta della
gestante derivante da una espressa disposizione di legge).
Facoltà il cui esercizio la gestante aveva, nella specie,
espressamente dichiarato di voler esercitare, donde
l’evidente paralogismo che si cela nella motivazione della
corte territoriale nel momento in cui onera la odierna
ricorrente dell’incombente di provare quello che risultava già
provato ed acquisito agli atti del processo.
7.5.- La condotta colpevole
Si è già avuto modo di evidenziare, nel corso dell’esame del
secondo, terzo e quarto motivo di ricorso, come la
colpevolezza della condotta si sia, nella specie, manifestata
sotto il duplice profilo della non sufficiente attendibilità del test
in presenza di una esplicita richiesta di informazioni finalizzate,
se del caso, all’interruzione della gravidanza da parte della
gestante, e dal difetto di informazioni circa la gamma
complessiva delle possibili indagini e dei rischi ad essa
correlati, onde sull’argomento non appaiono necessarie
ulteriori precisazioni. 7.6.- Gli oneri probatori
L’esistenza di una espressa e inequivoca dichiarazione della
volontà di interrompere la gravidanza in caso di malattia
genetica, quale quella espressa dalla gestante nel caso di
specie, esime il collegio da ogni ulteriore valutazione circa la
evidente e determinante rilevanza di tale volontà.
Ritiene tuttavia la Corte che, all’esito della disamina che
precede, un chiarimento sul tema degli oneri probatori si
renda opportuno; con l’ovvia premessa che il problema della
prova che all’interruzione della gravidanza della donna si
sarebbe determinata se fosse stata informata si porrà
esclusivamente nel caso in cui il convenuto ne contesti
l’assunto (anche implicitamente contenuto nell’atto di
citazione)
Nell’ipotesi in cui tale volontà non sia stata espressamente
manifestata dalla gestante, difatti, la presunzione di cui
sembra legittimo discorrere sul piano dell’inferenza logica di
un’intenzione (l’interruzione di gravidanza) desumibile da una
condotta significante (la sola richiesta di accertamento
diagnostico), ha indubbio carattere di presunzione semplice.
Essa costituisce, cioè, l’unico elemento indiziante di una
volontà che si presume orientata verso un determinato esito
finale.
Da tale elemento indiziante il giudice di merito è chiamato a
desumere, caso per caso, senza il ricorso a generalizzazioni di
tipo statistico (o di cd. probabilità a priori), le conseguenti
inferenze probatorie e il successivo riparto dei relativi oneri.
Il giudice di merito dovrà in altri termini accertare e valutare,
secondo il suo prudente apprezzamento, così come disposto
dall’art. 116 del codice di rito, se, tenuto conto di tutte le
circostanze del singolo caso concreto, tale presunzione
semplice – che può essere legittimamente ricondotta a quella
vicenda probatoria definita dalla giurisprudenza di questa
corte come “indizio isolato” (la richiesta di accertamento
diagnostico) del fatto da provare (l’interruzione di gravidanza)
– possa o meno essere ritenuta sufficiente a provare quel fatto.
La rilevanza di tale presunzione andrà, inoltre, valutata da
quello stesso giudice anche in relazione alla gravità della
malformazione non diagnosticata).
Di volta in volta, escluso qualsivoglia automatismo probatorio,
le parti, preso atto della situazione processuale di partenza
costituita dall’esistenza di una vicenda probatoria “di indizio
isolato” rispetto al fatto da provare (conseguentemente
presunto o presumibile), sono chiamate a fornire al giudice gli
elementi, che potranno dipanarsi anche sul piano della prova

ogica, funzionali a dirimere la questione del se le circostanze
concrete e specifiche della concreta vicenda processuale
consentano una valutazione di sufficienza o meno di quella
presunzione semplice.
La questione, assai delicata, della materiale possibilità di
ricostruzione dell’efficacia probatoria della presunzione
semplice in seno al processo, hic et inde, da parte dei
difensori di ciascuna parte, trova risposta, ancora una volta,
nella specificità ed unicità di quello stesso processo: i fatti così
come narrati, le circostanze come di volta in volta
evidenziate, le stesse qualità personali delle parti agenti e
resistenti (così esemplificando in modo di certo non esaustivo
l’elenco degli elementi utili alla formazione di un
convincimento) potranno indurre i protagonisti del processo
ad integrare o svilire la portata della presunzione semplice
che, diversamente da una semplice equazione, non sempre
può indurre alla automatica significazione “richiesta di
diagnosi=interruzione di gravidanza” in caso di diagnosi di
malformazioni.
In mancanza assoluta di qualsivoglia ulteriore elemento che
“colori” processualmente la presunzione de qua, il principio di
vicinanza della prova e quello della estrema difficoltà (ai
confini con la materiale impossibilità) di fornire la prova
negativa di un fatto induce a ritenere che sia onere di parte
attrice integrare il contenuto di quella presunzione con
elementi ulteriori (di qualsiasi genere) da sottoporre all’esame
del giudice per una valutazione finale circa la corrispondenza
della presunzione stessa all’asserto illustrato in citazione.
Non sembra, difatti, predicabile sempre e comunque la
legittimità del ricorso ad un criterio improntato ad un ipotetico
id quod plerumque accidit perchè, in assenza di qualsivoglia,
ulteriore dichiarazione di intenti, non è lecito inferire sempre,
sic et simpliciter, da una richiesta diagnostica la automatica
esclusione del’intenzione di portare a termine la gravidanza.
Ciò è a dirsi, oltre che sotto il profilo del corretto riparto degli
oneri probatori in ipotesi di fatto negativo da dimostrare (Cass.
sez. un. 13533/2001), anche sotto quello, non meno rilevante,
di evitare di trasformare un giudizio risarcitorio (e la natura
stessa della responsabilità civile) in una sorta di vicenda para-

assicurativa ex post, consentendo sempre e comunque,
mercé l’automatica allegazione della presunzione semplice in
discorso, di introdurre istanze risarcitorie anche se la volontà
della gestante sarebbe stata diversamente orientata.
Diverrebbe, in tal caso, vicenda processuale non incerta, ma
già segnata ab origine nel suo vittorioso esito finale, quella che finisce per rendere automatico ogni risarcimento all’esito
di una semplice richiesta diagnostica nonostante la
impossibilità della prova di un fatto negativo da parte del
convenuto (la volontà di non abortire nonostante la diagnosi
infausta).
7.7.- La rappresentanza del minore
La questione centrale che pone il riconoscimento del diritto al
risarcimento del danno in proprio in capo al minore, quanto al
suo conseguente esercizio per mezzo dei suoi legali
rappresentanti – specie quando la intensità del suo handicap
gli impedisce e gli impedirà in futuro qualunque espressione di
volontà -, ruota attorno al pur ipotizzato conflitto di interessi
che potrebbe investire i soggetti della vicenda risarcitoria.
Sono state già esposte in precedenza le ragioni poste a
fondamento dell’esclusione di ogni potenziale conflitto, e
della insostemibilità di ogni ipotetica rivalsa da parte del
minore nei confronti della madre.
A quest’ultima, e a lei soltanto, è rimessa la facoltà di
decidere, in solitudine, della prosecuzione o meno della
gravidanza.
La dimensione diacronica della vicenda risarcitoria mostra,
così, tutta la sua rilevanza sul piano del diritto, volta che,
vulnerata la facoltà di decidere per tale interruzione, il
rapporto di immedesimazione rappresentativa, anch’esso
spettante per legge alla madre (oltre che al padre), consente
a quest’ultima di invocare un risarcimento per la nascita
malformata del figlio.
Possono in tal guisa trovare soluzione le stesse aporie più volte
denunciate in dottrina circa la legittimità di una richiesta
risarcitoria avanzata dal padre (oltre che dalla madre) del
minore malformato e non anche da quest’ultimo, aporie che
non avrebbero potuto, peraltro, costituire esse sole
giustificazione e motivazione, in punto di diritto, della soluzione
oggi adottata.
***
8.- Il sesto motivo risulta assorbito nell’accoglimento di quelli
che lo precedono, dovendo il giudice del merito provvedere
ad una completa revisione della disciplina delle spese
processuali, il cui precedente regolamento deve intendersi (a
prescindere da qualsiasi considerazione sul quantum), ipso
facto caducato nell’an.
9.- In applicazione dei suindicati principi di diritto, il giudice del
rinvio, da designarsi nella stessa Corte d’appello di Venezia, in
diversa composizione, nel regolare anche le spese del giudizio di legittimità, è chiamato a rivalutare ex novo la fondatezza
della richiesta risarcitoria sia della minore, sia dei suoi familiari.

P.Q.M.

la Corte accoglie il primo, secondo, terzo, quarto e quinto
motivo del ricorso, dichiara assorbito il sesto, cassa la sentenza
impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di
cassazione, alla corte di appello di Venezia in diversa
composizione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della terza
sezione civile, il 10.1.2012.
IL CONSIGLIERE ESTENSORE
IL PRESIDENTE

Cassazione civile sezione I sentenza 7 giugno 2012 n 9241 – L’amministratore giudiziario nominato ai sensi dell’art. 2409 cod. civ., pur essendo pubblico ufficiale, rende la prestazione di amministratore della società

Cassazione civile sezioine I sentenza 7 giugno 2012 n 9241
L’amministratore giudiziario nominato ai sensi dell’art. 2409 cod. civ., pur essendo pubblico
ufficiale, rende la prestazione di amministratore della società

La prima sezione civile
Presidente Vitrone – estensore Rordorf

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. I ricorsi proposti avverso la medesima ordinanza debbono preliminarmente esser riuniti,
come dispone l’art. 335 c.p.c..
2. E’ stata eccepita l’inammissibilità del ricorso principale nella sua interezza, siccome
proposto avverso un provvedimento che sarebbe invece suscettibile d’appello (peraltro
anch’esso proposto).
L’eccezione appare, però, destituita di fondamento.
Il controricorrente invoca il principio, affermato in diverse pronunce di questa corte (tra cui
Cass. n. 6578 de 2005), secondo cui le decisioni sulle opposizioni a decreto ingiuntivo in
materia di onorari professionali dovuti agli avvocati hanno valore di ordinanza e sono
impugnabili a mezzo di ricorso straordinario per cassazione quando sia controverso soltanto il
quantum del compensi dovuti al professionista, mentre hanno valore di sentenza, e come tali
sono appellabili, qualora nell’opposizione si facciano valere anche altre ragioni di merito: il che
sarebbe nella specie accaduto.
Sennonchè occorre anzitutto osservare che le varie questioni agitate nella presente causa in
merito alla transazione intervenuta tra le parti ed alla sua validità non implicano mai la
messa in discussione del diritto dell’amministratore giudiziario al compenso, ma rilevano pur
sempre soltanto in funzione della determinazione della misura di tale compenso, avendo il
tribunale ritenuto che la Camping Cisano fosse ormai priva di un adeguato interesse a
contestarne la liquidazione perchè aveva già manifestato il proprio consenso al riguardo
aderendo alla suindicata transazione.
D’altro canto, la specificità della presente vicenda processuale, come s’è già accennato, sta
proprio in ciò: che la parte opponente ha promosso contemporaneamente due procedimenti,
l’uno idoneo a concludersi con un provvedimento immediatamente impugnabile per cassazione
e l’altro invece suscettibile solo d’appello, e che il tribunale ha invece espressamente ricondotto
anche la seconda di tali iniziative nell’alveo della prima dichiaratamente quindi pronunciando
un’ordinanza che, per il procedimento in cui è intervenuta, è soggetta unicamente a ricorso per
cassazione. In realtà, posto che la figura dell’amministratore giudiziario non è assimilabile a quella di un ausiliario del giudice, non avrebbe dovuto trovare spazio il procedimento speciale
di liquidazione dei compensi spettanti a tali ausiliari, essendo invece esperibile avverso il
provvedimento di liquidazione del compenso emesso dal tribunale a norma dell’ultimo comma
dell’art. 93 disp. att. c.c., avente natura monitoria, solo l’opposizione ex art. 645 c.p.c. (si veda
da ultimo, in tal senso, Cass. n. 7631 del 2011). In presenza di siffatto rimedio, in concreto
esperito dalla Camping Cisano, il tribunale investito dell’opposizione avrebbe dovuto dunque
dar corso al relativo procedimento, destinato a concludersi con una sentenza appellabile, e non
perciò immediatamente suscettibile d’impugnazione in sede di legittimità. Ma – come già
dianzi sottolineato – il tribunale ha invece dichiaratamente affermato di voler provvedere a
norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 170, (non essendo all’epoca ancora stato emanato il
D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 15), e poichè tale norma richiama il processo speciale previsto per
la liquidazione degli onorari di avvocato, l’ordinanza che lo conclude – non impugnabile per
l’esplicita indicazione della L. n. 794 del 1942, art. 30, – è assoggettabile a ricorso straordinario
per cassazione.
vendo allora il giudice compiuto una consapevole ed esplicita scelta, coerente con il rito in
concreto adottato, ancorchè tale scelta sia discutibile, non ci si può discostare dal principio
secondo il quale l’individuazione del mezzo d’impugnazione da esperibile contro un
provvedimento giurisdizionale va fatta in base alla qualificazione che sia stata data, con il
provvedimento impugnato, all’azione proposta ed alla conseguente decisione, a prescindere
dalla sua esattezza (principio da ultimo ribadito anche da Sez. un. n. 390 del 2011).
Pertanto, il rilievo secondo cui il tribunale avrebbe travalicato, con la propria pronuncia, i
limiti del procedimento di liquidazione del compenso, decidendo questioni controverse non
comprimibili nel ristretto perimetro di quel procedimento, fondato o meno che sia, avrebbe
potuto eventualmente esser dedotto come ragione d’impugnazione del provvedimento emesso
in forma di ordinanza, all’esito del procedimento svoltosi secondo il rito previsto dal citato
D.P.R. n. 115 del 2002, art. 170, ma non consente di mettere in discussione il regime di
successiva impugnabilità del suindicato provvedimento.
Non è riscontrabile neppure l’ulteriore profilo d’inammissibilità del ricorso, denunciato dal
controricorrente con riferimento alla mancanza di adeguata indicazione dei documenti sui
quali il ricorso si fonda, risultando invece che tali documenti sono senz’altro ben identificabili
(ed allegati al ricorso medesimo).
3. Passando allora all’esame del ricorso principale, va detto subito che una specifica ragione
d’inammissibilità investe il primo motivo.
La doglianza espressa in tale motivo, pur se dichiaratamente volta ad evidenziare vizi di
motivazione dell’impugnato provvedimento, in realtà sollecita una rivisitazione complessiva
delle risultanze documentali in base alle quali il tribunale ha ravvisato l’esistenza tra le parti

di una transazione avente ad oggetto anche le spettanze dell’amministratore giudiziario. La
società ricorrente non individua vizi intrinseci al ragionamento svolto in proposito dal giudice
di merito, ma per un verso afferma che la lettura di alcuni documenti prodotti in causa
avrebbe dovuto condurre ad una conclusione diversa, per altro verso sostiene che altri
documenti (o parti di documenti) sarebbero ugualmente valsi ad avallare una differente
soluzione.
Nell’uno come nell’altro caso, però, il risultato cui si vorrebbe pervenire è frutto non già
dell’evidenza di elementi trascurati dal giudice di merito ed in sè soli decisivi, bensì
dell’insieme di argomentazioni e valutazioni, più o meno condivisibili, ma che sempre
comportano una riconsiderazione complessiva dei dati istruttori raccolti: riconsiderazione che
investe il campo del giudizio di merito e non può essere svolta in questa sede, neppure
ricorrendo al sistema di infarcire il ricorso con copie dei documenti acquisiti in causa per far si
che la Corte di cassazione li esamini e ne valuti direttamente il contenuto, come se fosse essa
stessa un giudice di merito.
4. Col secondo motivo di ricorso la Camping Cisano, nel lamentare la violazione degli artt.
1418 e 1419 c.c., e art. 92 disp. att. c.c., oltre che vizi di motivazione dell’impugnata ordinanza,
insiste nel sostenere che la natura di pubblico ufficiale, espressamente riconosciuta dal
legislatore all’amministratore giudiziario, e la previsione secondo la quale il suo compenso è
liquidato dal giudice osterebbero in radice alla validità di accordi privati con cui le parti
determinino esse stesse la misura di tale compenso. Lo confermerebbe sia il fatto che solo al
giudice spetta stabilire anche a carico di chi il medesimo compenso debba essere posto, sia le
disposizioni degli artt. 2637 e 2638 c.c., che originariamente prevedevano sanzioni penali a
carico dell’amministratore giudiziario in caso di assunzione di un interesse privato o di
accettazione di retribuzioni non dovute e la cui successiva depenalizzazione non implica ora la
liceità di tali comportamenti. Non avrebbe quindi potuto il tribunale supinamente adeguarsi
ad un accordo non lecitamente stipulabile.
4.1. La doglianza non appare fondata.
Il compenso spettante all’amministratore giudiziario è stato liquidato dal giudice in
conformità a quanto previsto dal citato art. 92 disp. att.. Il fatto che la successiva opposizione
sia stata rigettata perchè, secondo il tribunale, la corrispondenza tra quanto giudizialmente
liquidato e la transazione al riguardo intervenuta tra le parti aveva provocato venir meno
l’interesse della società a coltivare detta opposizione non implica, evidentemente, alcuna
indebita abdicazione del giudice alla propria competenza in materia.
D’altronde, la circostanza che il compenso spettante all’amministratore giudiziario debba esser
liquidato dal giudice non esclude affatto, in via di principio, che le parti possano raggiungere
un accordo al riguardo, implicando semmai solo che la pronuncia del giudice non è vincolata a

rispetto di tale accordo e che questo, perciò, è da ritenersi naturalmente condizionato
all’emanazione di un successivo provvedimento giudiziale che non lo contraddica. Ma se – come
nella specie è avvenuto – il giudice non rinviene ragioni per una liquidazione diversa da quella
suggerita o pattuita tra l’amministratore giudiziario e la società in cui favore quest’ultimo ha
prestato la sua opera, non è postulabile che l’accordo intervenuto tra le parti sia nullo e che la
sua nullità renda illegittimo il successivo provvedimento giudiziale di liquidazione che vi si è
adeguato. Nè gioca alcun rilievo, a questo riguardo, la qualifica di pubblico ufficiale spettante
al medesimo amministratore giudiziario, la cui prestazione resta nondimeno quella propria di
un amministratore di società, pur se con caratteristiche e regole in parte sui generis,
instaurandosi tra l’una e l’altro un rapporto da cui deriva un credito per remunerazione di
attività che nulla consente di ritenere indisponibile.
Naturalmente, ciò non significa che per l’amministratore giudiziario sia lecito percepire
retribuzioni non dovute o agire in conflitto d’interesse con la società da lui amministrata (a
prescindere dalle modifiche apportate al testo originario degli artt. 2637 e 2638 c.c.), ma
questo può riflettersi sulla liceità in concreto di singoli comportamenti di volta in volta posti in
essere, non certo implicare a priori la nullità di qualsiasi accordo avente ad oggetto il credito
per compenso di cui l’amministratore giudiziario sia titolare.
5. L’ultimo motivo del ricorso principale denuncia, oltre a vizi di motivazione, la violazione
degli artt. 1394 e 1444 c.c., ribadendo che la transazione stipulata dal Dott. G., in proprio e
nella veste di amministratore della società, era palesemente affetta da conflitto d’interessi,
non sanato dal mero fatto che gli organi di controllo della società avevano poi omesso di
rilevarlo. Sostiene poi la ricorrente che la successiva delibera assembleare con cui i soci
avevano preso atto di detta transazione non conteneva alcuna esplicita volontà di ratificarla,
nè a ciò avrebbe potuto sopperire l’approvazione in seguito manifestata dal rinominato
amministratore unico, giacchè questi era colui contro il quale l’amministratore giudiziario
avrebbe potuto esperire l’azione di responsabilità preventivamente transatta e perciò versava
anch’egli in situazione di conflitto d’interessi.
5.1. Neppure queste doglianze colgono nel segno, benchè occorra sul punto modificare la
motivazione del provvedimento impugnato.
S’è già detto sopra che il tribunale ha operato esso stesso la liquidazione del compenso di cui si
discute e che il riferimento alla transazione precedentemente intervenuta al riguardo tra le
parti è valso solo a far ritenere ormai cessato ogni apprezzabile interesse della Camping
Cisano a rimettere in discussione quella liquidazione.
Questa essendo la logica dell’ordinanza qui impugnata, se è vero che eventuali (ma, come si è
visto sopra, in concreto non riscontrabili) ragioni di radicale nullità della suindicata
transazione effettivamente avrebbero implicato che di essa il giudice non avrebbe potuto tener

conto, neppure nei termini sopra riferiti, altrettanto non può dirsi per i vizi che in ipotesi ne
possano comportare solo l’annullabilità. Vizi che, evidentemente, non impediscono all’atto di
produrre i propri effetti, fin quando esso non venga annullato, e che, in difetto di un’autonoma
azione a tal fine proposta da chi sia legittimato a farlo, non possono esser dedotti in via di
mera eccezione nell’ambito di un procedimento ad oggetto limitato, quale è – come già dianzi si
è ricordato – quello per opposizione alla determinazione del compenso spettante
all’amministratore giudiziario, disciplinato dal combinato disposto del D.P.R. n. 115 del 2002,
art. 170, e L. n. 794 del 1942, art. 28 e segg..
6. Il ricorso incidentale proposto dal Dott. G. e dallo studio Pirola Pennuto Zei e Associati,
quanto ai motivi dal primo al decimo, è dedicato ad illustrare vizi processuali dai quali sarebbe
affetta l’impugnata ordinanza, la quale, a parere dei suddetti ricorrenti, non avrebbe dovuto
emettere alcuna pronuncia di merito sulle domande della Camping Cisano, bensì accogliere
una serie di eccezioni preliminari sollevate dalla parte convenuta e dichiarare l’estinzione del
giudizio o comunque l’inammissibilità oppure l’improcedibilità dell’opposizione.
6.1. Appare però evidente che i suaccennati motivi d’impugnazione incidentale – pur in difetto
di un’esplicita indicazione in tal senso – siano da considerare come logicamente subordinati
all’accoglimento del ricorso principale. Il provvedimento impugnato, infatti, nel rigettare
integralmente nel merito l’opposizione alla liquidazione del compenso avanzata dalla Camping
Cisano, costituisce per gli odierni ricorrenti incidentali il più favorevole tra tutti i possibili
esiti del processo: quindi, giacchè quella pronuncia regge alle censure che le sono state rivolte
col ricorso principale, è chiaro che non residua interesse alcuno delle controparti a coltivare il
ricorso incidentale per profili di carattere meramente processuale.
La reiezione del ricorso principale, per le ragioni illustrate nei paragrafi precedenti, comporta
perciò l’integrale assorbimento dei motivi da uno a dieci del ricorso incidentale.
6.2. Gli ultimi due motivi del ricorso incidentale riguardano il regime delle spese processuali
del giudizio di merito. In particolare, i ricorrenti incidentali si dolgono della motivazione con la
quale il tribunale ha rigettato la loro richiesta di risarcimento del danno per lite temeraria
(undicesimo motivo) e di quella in base alla quale il medesimo tribunale ha invece disposto la
compensazione delle spese di lite (dodicesimo motivo).
6.3. Tali doglianze non appaiono fondate.
Il tribunale ha escluso che al rigetto delle domande proposte dalla Camping Cisano potesse
accompagnarsi la condanna al risarcimento dei danni per lite temeraria; e lo ha fatto sia
precisando che nel caso in esame non è applicabile, ratione temporis, la modifica apportata
dalla L. n. 69 del 2009, all’art. 96 c.p.c., sia notando che l’iniziativa giudiziaria della società
opponente, benchè infondata, trovava spiegazione anche nel comportamento del Dott. G.
(evidentemente considerato, per questo aspetto, non impeccabile), il quale aveva proceduto ad

incassare il contestato compenso prima ancora che ne fosse intervenuta la liquidazione ad
opera del giudice.
Quest’ultimo argomento ha giustificato poi anche la decisione di compensare le spese
processuali tra le parti.
La censura che i ricorrenti incidentali ora muovono trascura del tutto il rilievo concernete
l’inapplicabilità nella specie delle modifiche apportate dal legislatore alla disciplina del
risarcimento del danno per lite temeraria. Modifiche che, com’ è noto, comportano il
superamento della necessità per il richiedente di allegare e di provare, sia pure soltanto per
presunzioni, il danno asseritamente subito. Nel caso di specie, non potendosi tali modifiche
normative applicare, gli odierni ricorrenti incidentali avrebbero dunque dovuto adempiere
quell’onere di allegazione e di prova; ma nel ricorso nulla è detto che consenta di ritenere detto
onere adempiuto, nè si rinviene alcuna censura che investa questo profilo della questione.
Quanto, poi, all’ulteriore argomento addotto dal tribunale per evidenziare aspetti del
comportamento delle parti che non solo hanno fatto escludere la configurabilità di una lite
temeraria, ma hanno addirittura indotto il tribunale medesimo ad avvalersi del proprio potere
di compensare equitativamente le spese processuali, i rilievi critici che si leggono nel ricorso
incidentale non risultano idonei ad evidenziare un qualche vizio logico nel ragionamento svolto
dal giudice. Si tratta di rilievi che esprimono un dissenso, in sè ovviamente legittimo, ma non
sufficiente a configurare un motivo di ricorso riconducibile alla previsione dell’art. 360 c.p.c., n.
5, anche perchè, in definitiva, non in grado di intaccare seriamente il giudizio espresso dal
giudice sul comportamento della parte:
comportamento irrilevante si, ai fini della decisione sul merito della causa, ma non per questo
insuscettibile di esser valutato nel contesto equitativo cui si ispira la pronuncia di
compensazione delle spese processuali.
a reciproca soccombenza induce a compensare tra le parti anche le spese del giudizio di
legittimità.

P.Q.M.

La corte riunisce i ricorsi, li rigetta e compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Sentenza Cassazione civile 14/11/2011, n. 23808 – Il lavoratore viene ceduto assieme al ramo di azienda: è irrilevante la sua volontà

Cessione di ramo di azienda
Il lavoratore viene ceduto assieme al ramo di azienda: è irrilevante la sua volontà
Sentenza Cassazione civile 14/11/2011, n. 23808

Massima

Nella nozione di cessione di ramo di azienda rientra ogni ipotesi di trasferimento anche di
una singola attività di impresa, sempre che sia riscontrabile un complesso di beni o di
rapporti interessati al fenomeno traslativo. In tale accezione, il trasferimento di azienda
può avere ad oggetto anche i soli lavoratori, i quali per essere stati addetti ad un
medesimo ramo dell’impresa ed in virtù delle nozioni e delle esperienze acquisite siano
capaci di svolgere le proprie funzioni presso il nuovo datore di lavoro anche prescindendo
dall’ulteriore supporto dei beni immobili, dei macchinari, degli attrezzi da lavoro e/o di
altri beni, di talché è indubbio che tale schema negoziale con riferimento alla posizione
del lavoratore si risolve in una ipotesi di successione legale del contratto di lavoro
subordinato non abbisognevole del consenso del contraente ceduto ex-art.1406 c.c.

Sintesi del caso

La materia del contendere

Questioni da risolvere

Normativa di riferimento

Nota esplicativa

Irrilevante la volontà del lavoratore “ceduto” La Cassazione conferma il proprio
orientamento che offre una lettura rigorosa dell’art. 2112 c.c. interpretato alla luce della
lettera e della ratio della direttiva in materia, nonché della giurisprudenza della Corte di
giustizia. L’argomento in parola riguarda la fattispecie del trasferimento d’azienda in
ordine al quale sia il Legislatore nazionale che comunitario si sono da sempre preoccupati
di garantire ai lavoratori – assicurando la continuità dell’inerenza del rapporto di lavoro
all’azienda, o alla parte di essa, trasferita ed esistente al momento del trasferimento – la
conservazione dei diritti in caso di mutamento dell’imprenditore.

Ne consegue che per ‘ramo d’azienda’, come tale suscettibile di autonomo trasferimento
riconducibile alla disciplina dettata per la cessione di azienda, deve intendersi ogni entità
economica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento,
conservi la sua identità e consenta l’esercizio di una attività economica finalizzata al
perseguimento di uno specifico obbiettivo, il cui accertamento presuppone la valutazione
complessiva di una pluralità di elementi, tra loro in rapporto di interdipendenza in
relazione al tipo di impresa. Detti elementi consistono nell’eventuale trasferimento di
elementi materiali o immateriali e del loro valore, nell’avvenuta riassunzione in fatto della maggior parte del personale da parte della nuova impresa, dell’eventuale
trasferimento della clientela, nonché del grado di analogia tra le attività esercitate prima
o dopo la cessione, in ciò differenziandosi dalla cessione del contratto ex art. 1406 cod.
civ. che attiene alla vicenda circolatoria del solo contratto, comportando la sola
sostituzione di uno dei soggetti contraenti e necessitando, per la sua efficacia, del
consenso del lavoratore ceduto.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –
Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere –
Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –
Dott. BRONZINI Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 15324/2009 proposto da:
D.N.A., F.M., C.N.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA PISANELLI 4, presso lo studio
dell’avvocato ANTONINO PALAMARA, rappresentati e difesi dagli
avvocati IACOVINO VINCENZO, DI PARDO SALVATORE, giusta delega in
atti;
– ricorrenti –
contro
– AIA AGRICOLA ITALIANA ALIMENTARE S.P.A., in persona del legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA
RIPETTA 22, presso lo studio dell’avvocato RUSSO SERGIO, che la
rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANTONIO BASSO, giusta
delega in atti;
– THE MEAT SHOP S.R.L., in persona del legale rappresentante pro
tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUTEZIA 8, presso lo
studio dell’avvocato ROSI FRANCESCO, rappresentata e difesa
dall’avvocato ROBERTI E’RCOLE VINCENZO, giusta delega in atti;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 141/2009 della CORTE D’APPELLO di CAMPOBASSO,
depositata il 21/03/2009, r.g.n. 625/07;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
28/06/2011 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE BRONZINI;
udito l’Avvocato SERGIO RUSSO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
FUCCI Costantino, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

FATTO
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
C.N., F.M. e D.N.A. esponevano al giudice del lavoro di essere stati assunti dall’AIA
agricola italiana alimentare spa per la quale avevano lavorato sino al 10.5.2002; che
alcuni colleghi di lavoro avevano formato la The meat shop srl che aveva a sua volta
stipulato con l’Aia un contratto di affitto di ramo d’azienda costituito dallo spaccio di
generi alimentari cui i ricorrenti erano adibiti, che l’Aia aveva preteso di non riammetterli
in servizio perchè sarebbe intervenuta la detta cessione di ramo d’azienda e il Presidente
della The meat shop aveva loro chiesto di firmare il nuovo contratto di lavoro per
ammetterli nella nuova azienda. Successivamente era stata contestata da quest’ultima
azienda un’assenza ingiustificata di 6 gg. e comminato il licenziamento. Lamentavano
l’inesistenza di una cessione di azienda, chiedevano la reintegrazione nel posto di lavoro
precedentemente occupato o in ogni caso il diritto alla riassunzione in quella costituitasi
successivamente. Il giudice di primo grado, il Tribunale di Larino, con sentenza del 1.4.2006 annullava il
licenziamento intimato dalla The meat shop ed ordinava alla detta società la riassunzione
o in mancanza il pagamento dell’indennità indicata in sentenza, rigettando le altre
domande.
Sull’appello dei lavoratori la Corte di appello di Campobasso rigettava l’appello.
La Corte territoriale osservava che si era in effetti verificata una successione di ramo
d’azienda in quanto la nuova azienda aveva affittato un negozio adibito alla vendita di
generi alimentari, sito in una porzione di immobile di proprietà della società AIA e dotato
di licenza ad hoc e di mobilio anch’esso ceduto in locazione. Nel contratto era stato
stabilito un affitto mensile pari a 3.100,00 Euro. Si trattava, alla luce dell’art. 2112 c.c.,
come modificato dal decreto legislativo n. 18/2001 applicabile ratione temporis, di
un’autentica cessione di ramo d’azienda in quanto emergeva dall’istruttoria espletata
l’esistenza di una realtà produttiva autonoma e funzionalmente esistente anche prima
della cessione e non creata solo a tal fine. Nel caso in esame era stata affittato un
negozio di alimentari che vendeva al dettaglio prodotti a marchio AIA, con tanto di arredi
ed autorizzazioni amministrative. Alcune circostanze fatte valere dalla difesa dei
lavoratori come il vincolo a vendere prodotti Aia, a tenere i segni distintivi della stessa, il
pagamento da parte della stessa del canone di locazione della sede ove è posto il nuovo
negozio non erano elementi di rilievo tale da poter modificare la causa del contratto. Non
erano emerse circostanze per ritenere che si trattasse di un negozio in frode alla legge,
posto che non è emerso che la The Meat shop srl fosse una società fittizia o un
prestanome della AIA, considerato che aveva investito capitali propri nell’iniziativa con
l’assunzione di un rischio imprenditoriale autentico.
Ricorrono i lavoratori con sei motivi, resistono sia la società Aia che la The meat shop
con controricorso. I ricorrenti hanno prodotto memoria difensiva.
DIRITTO
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si allega la violazione di legge (art. 2112 c.c.), nonchè l’omessa ed
insufficienza motivazione della sentenza impugnata. Nella fattispecie era mancante
l’elemento dell’autonomia funzionale del ramo d’azienda ceduto. Sussisteva una obiettiva
ed incontestabile inseparabilità dell’attività svolta dalla The meat shop dal più ampio
complesso aziendale. Si trattava di un punto vendita strettamente connesso alla
produzione all’ingrosso Aia.
Il motivo appare infondato nel merito, a parte la palese inadeguatezza dei quesiti
proposti non apparendo genuini quesiti di diritto.
Sul punto va ricordato l’orientamento di questa Corte, che in realtà non sembra messo in
discussione da entrambe le parti e che offre una lettura rigorosa dell’art. 2112 c.c.,
interpretato alla luce della lettera e della ratio della direttiva in materia, nonchè della
giurisprudenza della Corte di giustizia: “In materia di trasferimento d’azienda, la direttiva
CE 77/187, come ripresa nel contenuto dalla direttiva CE 98/50 e, infine, razionalizzata
nel testo mediante sostituzione con la direttiva CE 2001/23 (all’origine della rinnovata
versione dell’art. 2112 c.c.), nell’ambito del fenomeno della circolazione aziendale,
persegue lo scopo di garantire ai lavoratori – assicurando la continuità dell’inerenza del
rapporto di lavoro all’azienda, o alla parte di essa, trasferita ed esistente al momento del
trasferimento – la conservazione dei diritti in caso di mutamento dell’imprenditore. Ne
consegue che per “ramo d’azienda”, come tale suscettibile di autonomo trasferimento
riconducibile alla disciplina dettata per la cessione di azienda, deve intendersi ogni entità
economica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento,
conservi la sua identità e (come affermato anche dalla Corte di Giustizia, sentenza 24
gennaio 2002, C-51/00 Temco) consenta l’esercizio di una attività economica finalizzata
al perseguimento di uno specifico obbiettivo, il cui accertamento presuppone la
valutazione complessiva di una pluralità di elementi, tra loro in rapporto di
interdipendenza in relazione al tipo di impresa, consistenti nell’eventuale trasferimento di
elementi materiali o immateriali e del loro valore, nell’avvenuta riassunzione in fatto
della maggior parte del personale da parte della nuova impresa, dell’eventuale
trasferimento della clientela, nonchè del grado di analogia tra le attività esercitate prima
o dopo la cessione, in ciò differenziandosi dalla cessione del contratto ex art. 1406 c.c.,

che attiene alla vicenda circolatoria del solo contratto, comportando la sola sostituzione
di uno dei soggetti contraenti e necessitando, per la sua efficacia, del consenso del
lavoratore ceduto (Cass. n. 6452/2009; cfr. anche 19740/2008; Cass. n. 2489/2008).
Alla luce di questi criteri di ordine generale la motivazione della sentenza impugnata
appare coerente con l’indirizzo di questa Corte, congrua e logicamente ineccepibile. Si è
infatti accertato che l’operazione di cessione (in affitto) ha riguardato un settore
particolare e nettamente individuabile della più generale attività produttiva svolta dalla
AIA, quello concernente un esercizio di vendita di generi alimentari ubicato in una
porzione di immobile di proprietà della società affittante. Unitamente al negozio risultano
affittati o ceduti in uso anche gli impianti, le attrezzature e gli arredi e sono stati
reimpiegati i lavoratori che vi operavano in precedenza. Insieme al locale emerge essere
stata concessa in uso anche la relativa licenza amministrativa. Si tratta quindi in piena
evidenza di un’ attività funzionalmente autonoma e chiaramente distinguibile da quella
nel complesso svolta dalla AIA, obiettivamente enuclearle sia prima che dopo la cessione
che non ha comportato alcuna A trasformazione o mutamento radicale nel complesso
organizzativo incentrato sul negozio di cui si è parlato. Sussiste in base a tali elementi
un’autonomia funzionale preesistente del ramo ceduto al passaggio del personale ex art.
2112 c.c., sicchè non può dirsi raggiunta la prova che l’obiettivo perseguito fosse solo
quello di “staccare” i lavoratori dalla AIA ed imputarli al nuovo soggetto produttivo.
Si deve conclusivamente osservare sul punto che risulta pattuito un canone di locazione
mensile di 3.100,00 Euro comprensivi del consumi e che pertanto sussiste un oggettivo
rischio imprenditoriale a carico della The meat shop che, sotto questo profilo, non può
essere considerata una entità puramente fittizia come si sostiene nel ricorso introduttivo.
La Corte di appello ha già ampiamente esaminato gli elementi addotti da parte ricorrente
per dimostrare la mancanza di autonomia funzionale del ramo ceduto (in affitto), come
l’impegno a vendere prodotti AIA (il che comunque per la sentenza impugnata è
circostanza in parte smentita dall’istruttoria espletata), l’esibizione del marchio AIA o il
pagamento da parte di quest’ultima del canone di locazione della nuova sede del negozio
giudicandoli clausole conformi agli interessi delle parti, ma non tali da incidere sulla
causa del contratto. La motivazione appare congrua e logicamente coerente in quanto,
come si è detto, l’autonomia funzionale dell’attività nel complesso ceduta non è smentita
da tali elementi e precede il contratto di affitto tra le due società; inoltre non emerge che
la nuova società non abbia sopportato un rischio economico autentico e con capitali
propri nell’operazione posto il canone mensile, di una certa entità, pattuito tra le parti.
Gli ultimi accordi ricordati appaiono nel comune interesse favorendo entrambe le società
nel loro rispettivo ambito produttivo che viene nel complesso valorizzato.
Con il secondo motivo si deduce la violazione degli artt. 1344 e 1343 c.c.: si tratterebbe
di un contratto in frode alla legge, la cui finalità sarebbe solo quella di abbassare la
soglia dimensionale per la AIA in modo da poter eludere la disciplina garantistica di cui
alla L. n. 300 del 1970, art. 18.
Anche in questo caso i quesiti formulati non presentano una genuina questione di diritto
ed appaiono quindi inammissibili: in ogni caso, come detto, non sussistono elementi per
ritenere che l’operazione di cessione in affitto della rivendita prima citata sia stata
finalizzata a mascherare una intermediazione illecita di manodopera e/o una fornitura di
prestazione di manodopera per le ragioni prima ricordate. Non vi sono, come detto,
elementi per ritenere che la The meat shop fosse un mero prestanome e che non
sopportasse rischi imprenditoriali, dovendo pagare un canone, pagare il personale,
pagare i prodotti AIA, rivenderli etc. etc. Che si trattasse di personale indesiderato
destinato al licenziamento non emerge da alcun elemento obiettivo, anche solo
richiamato in ricorso.
Con il terzo motivo si allega che l’AIA ha provveduto ad un licenziamento verbale; la
mancanza di comunicazione del recesso al lavoratore determina la nullità del
licenziamento.
La doglianza è mal impostata: non vi è stato infatti alcun licenziamento ma i rapporti di
lavoro sono stati trasferiti ex art. 2112 c.c., in capo alla nuova società. Eventuali atti
posti in essere dalla AIA dopo la cessione del ramo d’azienda non sono giuridicamente
rilevanti, come già correttamente osservato nella sentenza impugnata.

Con il quarto motivo si deduce l’inefficacia del licenziamento intimato oralmente dalla
The meath shop con conseguente obbligo per la detta società del pagamento di tutte le
retribuzioni dal giorno del licenziamento a quello del recesso.
Anche il presente motivo è mal impostato: emerge ex actis che è stato comminato ai
ricorrenti, dopo il trasferimento del loro contratto, un licenziamento per assenze
ingiustificate. Il detto licenziamento è stato già dichiarato illegittimo in primo grado con
ordine di riassunzione o, in difetto, con il pagamento dell’indennità stabilita in sentenza.
Pertanto non vi è stato alcun licenziamento orale, ma un recesso preceduto da
contestazione disciplinare già dichiarato illegittimo dal giudice di prime cure.
Con il quinto motivo si allega la violazione dei principi di buona fede e correttezza: il
responsabile Aia risulta aver rilasciato false dichiarazioni ai fini dell’indennità di
disoccupazione in cui si parla di dimissioni.
Il motivo appare inconferente ed irrilevante ai fini della presente decisione. Le eventuali,
non veridiche, dichiarazioni rese dall’AIA nel modello DS22 non comprovano la malafede
in generale nella conduzione dell’operazione di cui si è parlato, ma rilevano in ipotesi ad
altri fini. Dal punto di vista ” lavoristico” l’operazione di affitto della rivendita di generi
alimentari di cui si parlato, con attrezzature, autorizzazioni amministrative etc., appare
inquadrabile ex art. 2112 c.c. come una cessione di ramo d’azienda attesa l’autonomia
funzionale, organizzativa e produttiva del complesso ceduto per le ragioni prima
ricordate.
Con il sesto motivo si lamenta la violazione della L. n. 1369 del 1960,
sull’intermediazione di manodopera, con violazione, anche, della legge sulla
somministrazione di manodopera.
Sul punto si è già detto: non sussistono i presupposti per ritenere nel caso di specie la
violazione del divieto di intermediazione di manodopera al di fuori dei casi consentiti per
legge. La fattispecie va ricostruita come un trasferimento di ramo d’azienda. Emerge
nella vicenda un genuino rischio imprenditoriale in caso alla neo- costituita The meat
shop srl.
Si deve conclusivamente rigettare il ricorso con condanna dei ricorrenti in solido al
pagamento delle spese del presente grado del giudizio nei confronti della Agricola
Italiana Alimentare spa che liquida in Euro per esborsi e in Euro 3.000,00, per onorari
difensivi oltre IVA, CPA e spese generali. Vanno compensate le spese nei riguardi della
Meat shop srl in ragione della specifica condotta difensiva della società e del contenuto
delle rivendicazioni fatte valere in questo giudizio di legittimità dai ricorrenti.
P.Q.M.
P.Q.M.
La Corte: rigetta il ricorso con condanna dei ricorrenti in solido al pagamento delle spese
del presente grado del giudizio nei confronti della Agricola Italiana Alimentare spa che
liquida in Euro per esborsi e in Euro 3.000,00, per onorari difensivi oltre IVA, CPA e
spese generali. Vanno compensate le spese nei riguardi della Meat shop srl.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 28 giugno 2011.
Depositato in Cancelleria il 14 novembre 2011

Archivio selezionato: Note
Nota a:
Cassazione civile , 14/11/2011, n. 23808, sez. Lavoro

Il lavoratore viene ceduto assieme al ramo di azienda: è irrilevante la sua
volontà

Quotidiano del 19 Novembre 2011

In caso di cessione di ramo d’azienda la posizione del lavoratore si risolve in una ipotesi
di successione legale del contratto di lavoro subordinato non abbisognevole del consenso
del contraente ceduto.
Il fatto. Alcuni lavoratori in servizio presso un’Azienda agricola di rilevanza nazionale
adivano il Tribunale del lavoro per denunciare il loro illegittimo distacco dalla predetta
azienda con contestuale riammissione in servizio alle dipendenze di altra società, nel
frattempo autonomamente costituitasi tra precedenti colleghi di lavoro e divenuta, poi,
partner commerciale della predetta Azienda Agricola in virtù di un contratto di affitto di
ramo di azienda.
Le lavoratrici in discorso rivendicavano l’inesistenza di una regolare cessione di azienda
tra l’ex-datore di lavoro e quello attuale e, quindi, pretendevano la reintegrazione nel
posto di lavoro precedentemente occupato oppure la riassunzione presso la società
affittuaria di azienda dove peraltro avevano subito un licenziamento disciplinare per
assenze ingiustificate.
Il Tribunale adito annullava il licenziamento disciplinare comminato dalla società-

affittuaria di azienda, delibando la condanna alternativa della reintegrazione di esse
lavoratrici-ricorrenti nel posto di lavoro oppure nel pagamento dell’indennità risarcitoria
per nullità del licenziamento.
Sul gravame proposto dalle medesime lavoratrici, ricorrenti in primo grado, la Corte di
Appello respingeva l’impugnazione e confermava la prima statuizione giudiziale.
Al di là del nomen juris conferito al contratto, spetta all’autonomia negoziale delle parti
determinare il contenuto del loro rapporto giuridico patrimoniale; spetta al giudice il
potere di qualificare normativamente il contratto concluso. La Cassazione, ritualmente
interessata dalla controversa vicenda su ricorso promosso sempre dalle lavoratrici,
esordisce nella sentenza in commento plaudendo l’operato della Corte territoriale sulla
corretta qualificazione giuridica del rapporto negoziale in concreto posto in essere
dall’azienda agricola di rilevanza nazionale e la neo-costituita società mercantile
(operante nel settore della distribuzione al dettaglio di generi alimentari), riferendolo allo
schema tipico del contratto di cessione in affitto di ramo di azienda.
Nel corso dell’istruttoria condotta in appello e diretta a ricostruire il fatto storico
sostanziale circa il titolo negoziale dedotto in giudizio, risultava pacifico come la predetta
neo-società avesse rilevato il ramo di azienda ceduto in affitto, consistente nella gestione
di una rivendita di generi alimentari riportanti il marchio della azienda-agricola cedente.
Negozio conforme allo schema astratto e non fittizio con finalità elusive. Pertanto, i
giudici del gravame ritenevano non trattarsi di un negozio posto in essere in frode alla
legge, al fine di modificare il contesto dimensionale dell’azienda agricola per eludere la
tutela reale a garanzia dei lavoratori di cui all’art.18 dello Statuto dei Lavoratori.
La ratio della norma ex art. 2112 c.c. risponde ad una logica comunitaria. Il Consesso
nomofilattico ritiene che l’interpretazione della norma ex art. 2112 c.c. esige una
rigorosa lettura anche alla luce delle innovazioni apportate da successive fonti
comunitarie (cfr. da ultimo CE 2001/23), pertanto nell’ambito del fenomeno circolatorio
dell’azienda (intesa come complesso di beni sia “materiali” che “immateriali” e mezzi a
disposizione dell’imprenditore per l’esercizio dell’impresa) la norma in commento tende
ad assicurare la continuità dell’inerenza del rapporto di lavoro all’azienda stessa oppure a
quella parte di essa oggetto di cessione in affitto, preservando ogni diritto e “status”
professionale rientrante nel contratto di lavoro ed a prescindere dal mutamento
dell’imprenditore-datore di lavoro.
Differenza tra cessione in affitto di ramo di azienda e cessione del contratto: rilevanza
della volontà del lavoratore ceduto. Il ramo di azienda la cui cessione in affitto rileva ai
fini del trasferimento di tutti i rapporti di lavoro subordinato in essere, si risolve in ogni
entità economica stabilmente organizzata preordinata all’esercizio dell’impresa (ossia di
un’attività economica diretta alla produzione e/o allo scambio di beni e servizi) che in
occasione del trasferimento conservi la sua identità ovvero presupponga una
preesistente realtà produttiva autonoma e funzionalmente esistente, difettando invece,
allorchè tale realtà produttiva sia stata creata ad hoc in occasione del trasferimento.
La figura negoziale anzidetta, differisce dalla fattispecie di cessione del contratto ex-

art.1406 c.c. ove la vicenda circolatoria riguarda il solo contratto, risolvendosi quindi, nella sostituzione di uno dei soggetti contraenti e necessitando per la sua efficacia del
consenso del contraente ceduto ossia nella specie trattandosi di rapporto di lavoro, del
lavoratore subordinato ceduto (cfr. Cass. nn.6452/2009; 19740/2008; 2489/2008).
Tornando, alla cessione di ramo di azienda, si fa rilevare come di essa, è stata accolta
una nozione estensiva (cfr. D.Lgs. 2 febbraio 2001 nr.18 attuativo della direttiva
98/50/CE che come detto ha riformulato la disposizione ex-art.2112 c.c.) la quale
ricomprende ogni ipotesi di trasferimento anche di una singola attività di impresa,
sempre che sia riscontrabile un complesso di beni o di rapporti interessati al fenomeno
traslativo.
In tale accezione allargata il trasferimento di azienda potrebbe avere ad oggetto anche i
soli lavoratori, i quali per essere stati addetti ad un medesimo ramo dell’impresa ed in
virtù delle nozioni e delle esperienze acquisite siano capaci di svolgere le proprie funzioni
presso il nuovo datore di lavoro anche prescindendo dall’ulteriore supporto dei beni
immobili, dei macchinari, degli attrezzi da lavoro e/o di altri beni, di talchè è indubbio
che tale schema negoziale con riferimento alla posizione del lavoratore si risolve in una
ipotesi di successione legale del contratto di lavoro subordinato non abbisognevole del
consenso del contraente ceduto ex-art.1406 c.c.

Dottrina

Sentenze e precedenti conformi e difformi

Bibliografia

Testo sentenza

INTESTAZIONE

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIDIRI Guido – Presidente –
Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere –
Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –
Dott. BRONZINI Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 15324/2009 proposto da:
D.N.A., F.M., C.N.,
elettivamente domiciliati in ROMA, VIA PISANELLI 4, presso lo studio
dell’avvocato ANTONINO PALAMARA, rappresentati e difesi dagli
avvocati IACOVINO VINCENZO, DI PARDO SALVATORE, giusta delega in
atti;
– ricorrenti –
contro
– AIA AGRICOLA ITALIANA ALIMENTARE S.P.A., in persona del legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA
RIPETTA 22, presso lo studio dell’avvocato RUSSO SERGIO, che la
rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANTONIO BASSO, giusta
delega in atti;
– THE MEAT SHOP S.R.L., in persona del legale rappresentante pro
tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUTEZIA 8, presso lo
studio dell’avvocato ROSI FRANCESCO, rappresentata e difesa
dall’avvocato ROBERTI E’RCOLE VINCENZO, giusta delega in atti;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 141/2009 della CORTE D’APPELLO di CAMPOBASSO,
depositata il 21/03/2009, r.g.n. 625/07;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/06/2011 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE BRONZINI;
udito l’Avvocato SERGIO RUSSO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
FUCCI Costantino, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

FATTO
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
C.N., F.M. e D.N.A. esponevano al giudice del lavoro di essere stati assunti dall’AIA agricola italiana alimentare
spa per la quale avevano lavorato sino al 10.5.2002; che alcuni colleghi di lavoro avevano formato la The meat
shop srl che aveva a sua volta stipulato con l’Aia un contratto di affitto di ramo d’azienda costituito dallo
spaccio di generi alimentari cui i ricorrenti erano adibiti, che l’Aia aveva preteso di non riammetterli in servizio
perchè sarebbe intervenuta la detta cessione di ramo d’azienda e il Presidente della The meat shop aveva loro
chiesto di firmare il nuovo contratto di lavoro per ammetterli nella nuova azienda. Successivamente era stata
contestata da quest’ultima azienda un’assenza ingiustificata di 6 gg. e comminato il licenziamento.
Lamentavano l’inesistenza di una cessione di azienda, chiedevano la reintegrazione nel posto di lavoro
precedentemente occupato o in ogni caso il diritto alla riassunzione in quella costituitasi successivamente.
Il giudice di primo grado, il Tribunale di Larino, con sentenza del 1.4.2006 annullava il licenziamento intimato
dalla The meat shop ed ordinava alla detta società la riassunzione o in mancanza il pagamento dell’indennità
indicata in sentenza, rigettando le altre domande.
Sull’appello dei lavoratori la Corte di appello di Campobasso rigettava l’appello.
La Corte territoriale osservava che si era in effetti verificata una successione di ramo d’azienda in quanto la
nuova azienda aveva affittato un negozio adibito alla vendita di generi alimentari, sito in una porzione di
immobile di proprietà della società AIA e dotato di licenza ad hoc e di mobilio anch’esso ceduto in locazione.
Nel contratto era stato stabilito un affitto mensile pari a 3.100,00 Euro. Si trattava, alla luce dell’art. 2112 c.c.,
come modificato dal decreto legislativo n. 18/2001 applicabile ratione temporis, di un’autentica cessione di
ramo d’azienda in quanto emergeva dall’istruttoria espletata l’esistenza di una realtà produttiva autonoma e
funzionalmente esistente anche prima della cessione e non creata solo a tal fine. Nel caso in esame era stata
affittato un negozio di alimentari che vendeva al dettaglio prodotti a marchio AIA, con tanto di arredi ed
autorizzazioni amministrative. Alcune circostanze fatte valere dalla difesa dei lavoratori come il vincolo a
vendere prodotti Aia, a tenere i segni distintivi della stessa, il pagamento da parte della stessa del canone di
locazione della sede ove è posto il nuovo negozio non erano elementi di rilievo tale da poter modificare la causa
del contratto. Non erano emerse circostanze per ritenere che si trattasse di un negozio in frode alla legge,
posto che non è emerso che la The Meat shop srl fosse una società fittizia o un prestanome della AIA,
considerato che aveva investito capitali propri nell’iniziativa con l’assunzione di un rischio imprenditoriale
autentico.
Ricorrono i lavoratori con sei motivi, resistono sia la società Aia che la The meat shop con controricorso. I
ricorrenti hanno prodotto memoria difensiva.
DIRITTO
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si allega la violazione di legge (art. 2112 c.c.), nonchè l’omessa ed insufficienza
motivazione della sentenza impugnata. Nella fattispecie era mancante l’elemento dell’autonomia funzionale del
ramo d’azienda ceduto. Sussisteva una obiettiva ed incontestabile inseparabilità dell’attività svolta dalla The
meat shop dal più ampio complesso aziendale. Si trattava di un punto vendita strettamente connesso alla
produzione all’ingrosso Aia.
Il motivo appare infondato nel merito, a parte la palese inadeguatezza dei quesiti proposti non apparendo
genuini quesiti di diritto.
Sul punto va ricordato l’orientamento di questa Corte, che in realtà non sembra messo in discussione da
entrambe le parti e che offre una lettura rigorosa dell’art. 2112 c.c., interpretato alla luce della lettera e della
ratio della direttiva in materia, nonchè della giurisprudenza della Corte di giustizia: “In materia di trasferimento
d’azienda, la direttiva CE 77/187, come ripresa nel contenuto dalla direttiva CE 98/50 e, infine, razionalizzata
nel testo mediante sostituzione con la direttiva CE 2001/23 (all’origine della rinnovata versione dell’art. 2112
c.c.), nell’ambito del fenomeno della circolazione aziendale, persegue lo scopo di garantire ai lavoratori –
assicurando la continuità dell’inerenza del rapporto di lavoro all’azienda, o alla parte di essa, trasferita ed
esistente al momento del trasferimento – la conservazione dei diritti in caso di mutamento dell’imprenditore. Ne
consegue che per “ramo d’azienda”, come tale suscettibile di autonomo trasferimento riconducibile alla
disciplina dettata per la cessione di azienda, deve intendersi ogni entità economica organizzata in maniera
stabile la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità e (come affermato anche dalla Corte di
Giustizia, sentenza 24 gennaio 2002, C-51/00 Temco) consenta l’esercizio di una attività economica finalizzata
al perseguimento di uno specifico obbiettivo, il cui accertamento presuppone la valutazione complessiva di una
pluralità di elementi, tra loro in rapporto di interdipendenza in relazione al tipo di impresa, consistenti
nell’eventuale trasferimento di elementi materiali o immateriali e del loro valore, nell’avvenuta riassunzione in
fatto della maggior parte del personale da parte della nuova impresa, dell’eventuale trasferimento della
clientela, nonchè del grado di analogia tra le attività esercitate prima o dopo la cessione, in ciò differenziandosi
dalla cessione del contratto ex art. 1406 c.c., che attiene alla vicenda circolatoria del solo contratto,
comportando la sola sostituzione di uno dei soggetti contraenti e necessitando, per la sua efficacia, del
consenso del lavoratore ceduto (Cass. n. 6452/2009; cfr. anche 19740/2008; Cass. n. 2489/2008). Alla luce di
questi criteri di ordine generale la motivazione della sentenza impugnata appare coerente con l’indirizzo di
questa Corte, congrua e logicamente ineccepibile. Si è infatti accertato che l’operazione di cessione (in affitto)
ha riguardato un settore particolare e nettamente individuabile della più generale attività produttiva svolta
dalla AIA, quello concernente un esercizio di vendita di generi alimentari ubicato in una porzione di immobile di proprietà della società affittante. Unitamente al negozio risultano affittati o ceduti in uso anche gli impianti, le
attrezzature e gli arredi e sono stati reimpiegati i lavoratori che vi operavano in precedenza. Insieme al locale
emerge essere stata concessa in uso anche la relativa licenza amministrativa. Si tratta quindi in piena evidenza
di un’ attività funzionalmente autonoma e chiaramente distinguibile da quella nel complesso svolta dalla AIA,
obiettivamente enuclearle sia prima che dopo la cessione che non ha comportato alcuna A trasformazione o
mutamento radicale nel complesso organizzativo incentrato sul negozio di cui si è parlato. Sussiste in base a
tali elementi un’autonomia funzionale preesistente del ramo ceduto al passaggio del personale ex art. 2112
c.c., sicchè non può dirsi raggiunta la prova che l’obiettivo perseguito fosse solo quello di “staccare” i lavoratori
dalla AIA ed imputarli al nuovo soggetto produttivo.
Si deve conclusivamente osservare sul punto che risulta pattuito un canone di locazione mensile di 3.100,00
Euro comprensivi del consumi e che pertanto sussiste un oggettivo rischio imprenditoriale a carico della The
meat shop che, sotto questo profilo, non può essere considerata una entità puramente fittizia come si sostiene
nel ricorso introduttivo. La Corte di appello ha già ampiamente esaminato gli elementi addotti da parte
ricorrente per dimostrare la mancanza di autonomia funzionale del ramo ceduto (in affitto), come l’impegno a
vendere prodotti AIA (il che comunque per la sentenza impugnata è circostanza in parte smentita
dall’istruttoria espletata), l’esibizione del marchio AIA o il pagamento da parte di quest’ultima del canone di
locazione della nuova sede del negozio giudicandoli clausole conformi agli interessi delle parti, ma non tali da
incidere sulla causa del contratto. La motivazione appare congrua e logicamente coerente in quanto, come si è
detto, l’autonomia funzionale dell’attività nel complesso ceduta non è smentita da tali elementi e precede il
contratto di affitto tra le due società; inoltre non emerge che la nuova società non abbia sopportato un rischio
economico autentico e con capitali propri nell’operazione posto il canone mensile, di una certa entità, pattuito
tra le parti. Gli ultimi accordi ricordati appaiono nel comune interesse favorendo entrambe le società nel loro
rispettivo ambito produttivo che viene nel complesso valorizzato.
Con il secondo motivo si deduce la violazione degli artt. 1344 e 1343 c.c.: si tratterebbe di un contratto in
frode alla legge, la cui finalità sarebbe solo quella di abbassare la soglia dimensionale per la AIA in modo da
poter eludere la disciplina garantistica di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18.
Anche in questo caso i quesiti formulati non presentano una genuina questione di diritto ed appaiono quindi
inammissibili: in ogni caso, come detto, non sussistono elementi per ritenere che l’operazione di cessione in
affitto della rivendita prima citata sia stata finalizzata a mascherare una intermediazione illecita di manodopera
e/o una fornitura di prestazione di manodopera per le ragioni prima ricordate. Non vi sono, come detto,
elementi per ritenere che la The meat shop fosse un mero prestanome e che non sopportasse rischi
imprenditoriali, dovendo pagare un canone, pagare il personale, pagare i prodotti AIA, rivenderli etc. etc. Che
si trattasse di personale indesiderato destinato al licenziamento non emerge da alcun elemento obiettivo,
anche solo richiamato in ricorso.
Con il terzo motivo si allega che l’AIA ha provveduto ad un licenziamento verbale; la mancanza di
comunicazione del recesso al lavoratore determina la nullità del licenziamento.
La doglianza è mal impostata: non vi è stato infatti alcun licenziamento ma i rapporti di lavoro sono stati
trasferiti ex art. 2112 c.c., in capo alla nuova società. Eventuali atti posti in essere dalla AIA dopo la cessione
del ramo d’azienda non sono giuridicamente rilevanti, come già correttamente osservato nella sentenza
impugnata.
Con il quarto motivo si deduce l’inefficacia del licenziamento intimato oralmente dalla The meath shop con
conseguente obbligo per la detta società del pagamento di tutte le retribuzioni dal giorno del licenziamento a
quello del recesso.
Anche il presente motivo è mal impostato: emerge ex actis che è stato comminato ai ricorrenti, dopo il
trasferimento del loro contratto, un licenziamento per assenze ingiustificate. Il detto licenziamento è stato già
dichiarato illegittimo in primo grado con ordine di riassunzione o, in difetto, con il pagamento dell’indennità
stabilita in sentenza. Pertanto non vi è stato alcun licenziamento orale, ma un recesso preceduto da
contestazione disciplinare già dichiarato illegittimo dal giudice di prime cure.
Con il quinto motivo si allega la violazione dei principi di buona fede e correttezza: il responsabile Aia risulta
aver rilasciato false dichiarazioni ai fini dell’indennità di disoccupazione in cui si parla di dimissioni.
Il motivo appare inconferente ed irrilevante ai fini della presente decisione. Le eventuali, non veridiche,
dichiarazioni rese dall’AIA nel modello DS22 non comprovano la malafede in generale nella conduzione
dell’operazione di cui si è parlato, ma rilevano in ipotesi ad altri fini. Dal punto di vista ” lavoristico”
l’operazione di affitto della rivendita di generi alimentari di cui si parlato, con attrezzature, autorizzazioni
amministrative etc., appare inquadrabile ex art. 2112 c.c. come una cessione di ramo d’azienda attesa
l’autonomia funzionale, organizzativa e produttiva del complesso ceduto per le ragioni prima ricordate.
Con il sesto motivo si lamenta la violazione della L. n. 1369 del 1960, sull’intermediazione di manodopera, con
violazione, anche, della legge sulla somministrazione di manodopera.
Sul punto si è già detto: non sussistono i presupposti per ritenere nel caso di specie la violazione del divieto di
intermediazione di manodopera al di fuori dei casi consentiti per legge. La fattispecie va ricostruita come un
trasferimento di ramo d’azienda. Emerge nella vicenda un genuino rischio imprenditoriale in caso alla neo-

costituita The meat shop srl.
Si deve conclusivamente rigettare il ricorso con condanna dei ricorrenti in solido al pagamento delle spese del
presente grado del giudizio nei confronti della Agricola Italiana Alimentare spa che liquida in Euro per esborsi e
in Euro 3.000,00, per onorari difensivi oltre IVA, CPA e spese generali. Vanno compensate le spese nei riguardi
della Meat shop srl in ragione della specifica condotta difensiva della società e del contenuto delle rivendicazioni
fatte valere in questo giudizio di legittimità dai ricorrenti.
P.Q.M.
P.Q.M.
La Corte: rigetta il ricorso con condanna dei ricorrenti in solido al pagamento delle spese del presente grado del
giudizio nei confronti della Agricola Italiana Alimentare spa che liquida in Euro per esborsi e in Euro 3.000,00, per onorari difensivi oltre IVA, CPA e spese generali. Vanno compensate le spese nei riguardi della Meat shop
srl.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 28 giugno 2011.
Depositato in Cancelleria il 14 novembre 2011

Archivio selezionato: Note
Nota a:
Cassazione civile , 14/11/2011, n. 23808, sez. Lavoro

Il lavoratore viene ceduto assieme al ramo di azienda: è irrilevante la sua volontà

Quotidiano del 19 Novembre 2011
In caso di cessione di ramo d’azienda la posizione del lavoratore si risolve in una ipotesi di successione legale
del contratto di lavoro subordinato non abbisognevole del consenso del contraente ceduto.
Il fatto. Alcuni lavoratori in servizio presso un’Azienda agricola di rilevanza nazionale adivano il Tribunale del
lavoro per denunciare il loro illegittimo distacco dalla predetta azienda con contestuale riammissione in servizio
alle dipendenze di altra società, nel frattempo autonomamente costituitasi tra precedenti colleghi di lavoro e
divenuta, poi, partner commerciale della predetta Azienda Agricola in virtù di un contratto di affitto di ramo di
azienda.
Le lavoratrici in discorso rivendicavano l’inesistenza di una regolare cessione di azienda tra l’ex-datore di lavoro
e quello attuale e, quindi, pretendevano la reintegrazione nel posto di lavoro precedentemente occupato
oppure la riassunzione presso la società affittuaria di azienda dove peraltro avevano subito un licenziamento
disciplinare per assenze ingiustificate.
Il Tribunale adito annullava il licenziamento disciplinare comminato dalla società-affittuaria di azienda,
delibando la condanna alternativa della reintegrazione di esse lavoratrici-ricorrenti nel posto di lavoro oppure
nel pagamento dell’indennità risarcitoria per nullità del licenziamento.
Sul gravame proposto dalle medesime lavoratrici, ricorrenti in primo grado, la Corte di Appello respingeva
l’impugnazione e confermava la prima statuizione giudiziale.
Al di là del nomen juris conferito al contratto, spetta all’autonomia negoziale delle parti determinare il
contenuto del loro rapporto giuridico patrimoniale; spetta al giudice il potere di qualificare normativamente il
contratto concluso. La Cassazione, ritualmente interessata dalla controversa vicenda su ricorso promosso
sempre dalle lavoratrici, esordisce nella sentenza in commento plaudendo l’operato della Corte territoriale sulla
corretta qualificazione giuridica del rapporto negoziale in concreto posto in essere dall’azienda agricola di
rilevanza nazionale e la neo-costituita società mercantile (operante nel settore della distribuzione al dettaglio di
generi alimentari), riferendolo allo schema tipico del contratto di cessione in affitto di ramo di azienda.
Nel corso dell’istruttoria condotta in appello e diretta a ricostruire il fatto storico sostanziale circa il titolo
negoziale dedotto in giudizio, risultava pacifico come la predetta neo-società avesse rilevato il ramo di azienda
ceduto in affitto, consistente nella gestione di una rivendita di generi alimentari riportanti il marchio della
azienda-agricola cedente.
Negozio conforme allo schema astratto e non fittizio con finalità elusive. Pertanto, i giudici del gravame
ritenevano non trattarsi di un negozio posto in essere in frode alla legge, al fine di modificare il contesto
dimensionale dell’azienda agricola per eludere la tutela reale a garanzia dei lavoratori di cui all’art.18 dello
Statuto dei Lavoratori.
La ratio della norma ex art. 2112 c.c. risponde ad una logica comunitaria. Il Consesso nomofilattico ritiene che
l’interpretazione della norma ex art. 2112 c.c. esige una rigorosa lettura anche alla luce delle innovazioni
apportate da successive fonti comunitarie (cfr. da ultimo CE 2001/23), pertanto nell’ambito del fenomeno
circolatorio dell’azienda (intesa come complesso di beni sia “materiali” che “immateriali” e mezzi a disposizione
dell’imprenditore per l’esercizio dell’impresa) la norma in commento tende ad assicurare la continuità
dell’inerenza del rapporto di lavoro all’azienda stessa oppure a quella parte di essa oggetto di cessione in
affitto, preservando ogni diritto e “status” professionale rientrante nel contratto di lavoro ed a prescindere dal
mutamento dell’imprenditore-datore di lavoro.
Differenza tra cessione in affitto di ramo di azienda e cessione del contratto: rilevanza della volontà del
lavoratore ceduto. Il ramo di azienda la cui cessione in affitto rileva ai fini del trasferimento di tutti i rapporti di
lavoro subordinato in essere, si risolve in ogni entità economica stabilmente organizzata preordinata
all’esercizio dell’impresa (ossia di un’attività economica diretta alla produzione e/o allo scambio di beni e
servizi) che in occasione del trasferimento conservi la sua identità ovvero presupponga una preesistente realtà
produttiva autonoma e funzionalmente esistente, difettando invece, allorchè tale realtà produttiva sia stata
creata ad hoc in occasione del trasferimento.
La figura negoziale anzidetta, differisce dalla fattispecie di cessione del contratto ex-art.1406 c.c. ove la
vicenda circolatoria riguarda il solo contratto, risolvendosi quindi, nella sostituzione di uno dei soggetti
contraenti e necessitando per la sua efficacia del consenso del contraente ceduto ossia nella specie trattandosi
di rapporto di lavoro, del lavoratore subordinato ceduto (cfr. Cass. nn.6452/2009; 19740/2008; 2489/2008).
Tornando, alla cessione di ramo di azienda, si fa rilevare come di essa, è stata accolta una nozione estensiva
(cfr. D.Lgs. 2 febbraio 2001 nr.18 attuativo della direttiva 98/50/CE che come detto ha riformulato la disposizione ex-art.2112 c.c.) la quale ricomprende ogni ipotesi di trasferimento anche di una singola attività di
impresa, sempre che sia riscontrabile un complesso di beni o di rapporti interessati al fenomeno traslativo.
In tale accezione allargata il trasferimento di azienda potrebbe avere ad oggetto anche i soli lavoratori, i quali
per essere stati addetti ad un medesimo ramo dell’impresa ed in virtù delle nozioni e delle esperienze acquisite
siano capaci di svolgere le proprie funzioni presso il nuovo datore di lavoro anche prescindendo dall’ulteriore
supporto dei beni immobili, dei macchinari, degli attrezzi da lavoro e/o di altri beni, di talchè è indubbio che
tale schema negoziale con riferimento alla posizione del lavoratore si risolve in una ipotesi di successione legale
del contratto di lavoro subordinato non abbisognevole del consenso del contraente ceduto ex-art.1406 c.c

Cassazione 7 febbraio 2014, n. 2815 – Matrimonio – Diritti e doveri dei coniugi

Cassazione 7 febbraio 2014, n. 2815 – Matrimonio – Diritti e doveri dei coniugi

A cura del Dott. Ettore William Di Mauro

1.     Il Fatto.

Il Giudice di Pace di Terni rigettava l’opposizione all’esecuzione e agli atti esecutivi intentata da uno dei coniugi nei confronti dell’altro per il rimborso del 50% delle spese mediche e scolastiche relative a figli minori. Il giudice di merito, rigettando l’opposizione, confermava il titolo esecutivo di €427,58. Il provvedimento è stato ritenuto eseguibile in quanto astrattamente liquido, poiché era determinato nell’ammontare attraverso ricevute, scontrini e fatture, inviate precedentemente al coniuge.

È stato proposto ricorso in cassazione per tre motivi.

Il primo censura il provvedimento del Giudice di Pace di Terni per aver giudicato secondo equità in materia processuale, affrontando la liquidità del credito di rimborso delle spese straordinarie, quale condizione per l’esecuzione. Il secondo motivo censura la sentenza impugnata per aver considerato liquide le somme, al 50% in astratto, riguardanti le spese straordinarie dei figli minori. Con il terzo motivo si contesta di aver ricompreso tra le predette somme anche spese effettuate in epoca precedente al procedimento di separazione che ha sancito la ripartizione delle spese di mantenimento dei figli minori.

Al di là di motivazioni squisitamente processuali, il primo motivo di ricorso è stato respinto poiché dagli atti di causa risultava che le somme contestate erano state chiaramente e minuziosamente descritte, oltre che tutta la documentazione era stata inviata al coniuge prima dell’invio dell’atto di precetto.

Dunque, il giudice di merito, ha correttamente ritenuto il credito come astrattamente liquido. La motivazione addotta non fa riferimento alcuno a ragioni di equità.

Pertanto il primo motivo è stato respinto.

Il secondo è stato accolto. La questione attiene alla formazione del titolo esecutivo di cui viene enunciata la violazione degli artt. 474 e 479 c.p.c.

In effetti, l’ordinanza emessa dal Presidente del Tribunale, ai sensi dell’art. 708 c.p.c., che riguarda provvedimenti urgenti e temporanei di contenuto economico nell’interesse dei coniugi e della prole, ha natura esecutiva ex art. 189 disp. att. c.p.c. solo per le obbligazioni già definite nell’ammontare, non anche per quelle spese che debbano essere affrontate in prosieguo. Conformemente a tale posizione, la Suprema Corte ha rilevato come nel caso in cui il coniuge onerato alla contribuzione delle spese straordinarie, sia pure pro quota, non adempia, occorre adire nuovamente il giudice affinché accerti l’effettiva sussistenza delle condizioni di fatto che determinano l’insorgenza stessa dell’obbligo e del suo esatto ammontare (C. 782/1999; C. 1758/2008; C. 4543/2011).

Il terzo motivo di ricorso, relativamente alle spese anteriori al provvedimento, è stato assorbito nel secondo.

La Suprema Corte ha, quindi, cassa con rinvio al Giudice di Pace di Terni la citata sentenza invitandolo ad attenersi al principio enunciato nel rimodulare le spese oggetto di contestazione.

2.     Commento

Alla luce di quanto descritto, sembra alquanto strano porre a fondamento delle proprie richieste questa sentenza che non sembra prendere in considerazione, se non solo sfiorandolo, il problema della ripartizione delle spese di mantenimento e soprattutto la natura delle stesse.

Come è stato costantemente affermato dalla giurisprudenza (C., 21273/2013; C. 6197/2005, solo per citarne alcune), il dovere di mantenere i figli minorenni trova il proprio fondamento nel fatto stesso della procreazione e non nel legame sentimentale sussistente tra i coniugi. Ciò significa che, in caso di crisi familiare, tale obbligo permane e, anzi, viene rafforzato, in quanto la prole ha il diritto di mantenere un tenore di vita analogo, per quanto possibile, a quello goduto in precedenza e le esigenze, in tal senso, devono tenere conto della vita del minore sotto ogni possibile aspetto riguardante lo sviluppo della propria personalità. Tali esigenze, quindi, sono estensibili dall’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, fino all’assistenza morale e sociale (C., 3974/2002; C., 6197/2005), avendo un contenuto molto ampio.

Tuttavia, il tenore di vita precedentemente goduto, non costituisce un criterio assoluto, ma va seguíto nei limiti di quanto sia consentito dal reddito dei genitori, considerando che la separazione fisica della coppia conduce di regola ad un aumento di spesa per ciascuno dei genitori in conseguenza della cessazione dell’organizzazione domestica.

Gli artt. 337bis ss. c.c., così come recentemente inseriti dal D. Lgs., 28 dicembre 2013, n. 154, prevedono che, conformemente alla giurisprudenza pre-riforma, sia nel caso di affidamento condiviso che nel caso di affidamento esclusivo, ormai ipotesi eccezionale, il giudice determina la misura e il modo con cui ciascuno dei genitori deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione prendendo atto degli accordi intervenuti tra i genitori, se non contrari all’interesse dei figli.

Seppure la legge n. 54 del 2006 prescriva quale regime preferibile quello del mantenimento diretto, la maggioranza dei casi, se non la quasi totalità, dispone a carico del genitore non affidatario o non collocatario, l’obbligo di corrispondere un assegno mensile a titolo di contribuzione al mantenimento della prole, oltre a fissare una percentuale (100%; 50%; 70%, ecc…) a suo carico delle entità delle spese straordinarie (es. Trib. Roma, ord. ex art. 708 c.p.c. del 7 dicembre 2012).

Nonostante il principio sia quello di garantire alla prole un tenore di vita analogo a quello goduto prima della separazione, in proporzione alla consistenza patrimoniale di entrambi i genitori, tenendo conto anche dell’apporto del lavoro casalingo di uno dei due, il problema più consistente rimane la disciplina delle spese di mantenimento dei figli.

Il legislatore, forse al fine di garantire la ricerca di una soluzione quanto più possibile vicina alle esigenze della vita familiare nel concreto, non detta alcuna disposizione al riguardo, rimettendo al giudice il difficile compito di elencare e distinguere precisamente le spese attinenti al soddisfacimento dei bisogni della prole, dividendole tra “spese straordinarie” e “spese ordinarie”.

3.     Le spese straordinarie e ordinarie.

Al fine di un criterio di differenziazione tra una categoria ed un’altra, il costante orientamento dei giudici, chiarisce come nelle “spese ordinarie” vi rientrano tutte quelle destinate a soddisfare i bisogni quotidiani del minore, mentre in quelle “straordinarie” vi rientrano tutte le spese necessarie a far fronte ad eventi imprevedibili o eccezionali non rientranti nelle normali consuetudini di vita dei figli minori o comunque non quantificabili e determinabili in anticipo o di non lieve entità rispetto alla situazione economica dei genitori (C. 7672/1999; C. 6201/2009, C., 23411/2009). Questo comporta che, una loro inclusione in via forfettaria nell’ammontare dell’assegno, posto a carico di uno dei coniugi, può rilevarsi in contrasto con il principio di proporzionalità e con quello dell’adeguatezza del mantenimento previsti dalla legge, nonché recare grave nocumento alla prole, che potrebbe essere privata, non consentendolo le possibilità economiche del solo genitore beneficiario dell’assegno “cumulativo”, di cure necessarie o di altri indispensabili apporti.

Pertanto deve ritenersi che una eventuale soluzione di stabilire in via forfettaria ed aprioristica ciò che è imponderabile e imprevedibile, oltre ad apparire in contrasto con il principio logico secondo cui soltanto ciò che è determinabile può essere preventivamente quantificato, introduce, nell’individuazione del contributo in favore della prole, una sorta di alea incompatibile con i principi che regolano la materia (C., 9372/2013).

Prima di procedere ad una classificazione occorre evidenziare una ulteriore differenziazione in merito alle spese di mantenimento dei figli minori. Infatti le “spese straordinarie” e le “scelte di maggiore interesse”, che devono essere assunte di comune accordo, non sempre coincidono. Non sempre una spesa straordinaria è conseguenza di una “decisione di maggiore interesse”, più frequente è invece che una “scelta straordinaria”, riguardante qualsiasi profilo della vita del minore, comporti una “spesa straordinaria” (C. 4459/1999; C., 26570/2007; C., 2189/2009).

In tali casi non è configurabile a carico del coniuge affidatario un obbligo di informazione di concertazione preventiva con l’altro, in ordine alla determinazione delle spese straordinarie costituente decisione “di maggior interesse” per il figlio, sussistendo, pertanto, a carico del coniuge non affidatario un obbligo di rimborso qualora non abbia tempestivamente addotto validi motivi di dissenso (C. 19607/2011. conf. da C. 2182/2009)[1].

Dopo queste brevi considerazioni preliminari, sembra opportuno evidenziare gli attuali indirizzi giurisprudenziali che individuino le diverse tipologie di spesa.

Nelle “spese ordinarie” vi rientrano, anche se parametrate nell’arco di un anno e non di carattere quotidiano, quelle per l’acquisto di libri scolastici, per il materiale di cancelleria, per l’abbigliamento per lo svolgimento di attività fisica a scuola, per la mensa e per la quota di iscrizione alle gite scolastiche. Tutto ciò in quanto la frequenza scolastica da parte del minore non è qualcosa di eccezionale e imprevedibile ma, al contrario, di obbligatorio e fondamentale. Anche le spese scolastiche con annesso semi-convitto sono state considerate una spesa ordinaria in relazione al normale standard di vita seguito dal minore fino al momento della crisi familiare (Trib., Bari 6 ottobre 2010).

Sono ritenute, invece, “straordinarie”, tutte le spese necessarie a far fronte ad eventi imprevedibili o addirittura eccezionali, ad esigenze non rientranti nelle normali consuetudini di vita dei figli o comunque non ricorrenti, non quantificabili e determinabili in anticipo, ovvero di apprezzabile importo rispetto al tenore di vita della famiglia e alle capacità economiche dei genitori (ad es. interventi chirurgici o fisioterapia; spese per occhiali da vista, lezioni private, patente di guida, acquisto di un motorino, i viaggi di studio all’estero, ripetizioni scolastiche e gli sport) (C., 19607/2011).

Tuttavia, alla luce di quanto descritto, appare evidente come ci siano diverse difficoltà a dettare un elenco esaustivo, dettagliato e valevole per ogni controversia, dovendosi risolvere il quesito caso per caso.

Scarica testo sentenza Cass. 7 febbraio 2014, n. 2815

 



[1] Contra C. 10174/2012. La sentenza ha specificato che, in caso di affidamento congiunto, si presuppone un’attiva collaborazione dei genitori nell’elaborazione e nella realizzazione di un progetto educativo comune, imponendo pertanto, nell’accertamento della paternità delle singole decisioni, quanto meno quelle più importanti, la verifica che le stesse siano state assunte sulla base di effettive consultazioni tra i genitori, e quindi con il consapevole contributo di ciascuno di essi. Ne discende che la parte la quale richieda il rimborso delle spese sostenute per il minore, al fine dell’accoglimento della domanda, ha l’onere di fornire la prova di aver provveduto a consultare preventivamente l’ex coniuge, al fine di ottenere il consenso all’atto.

 

Cassazione, sentenza n. 7217 del 2014 – Recesso contratto locazione

L’impresa conduttrice può recedere dal contratto di locazione se registra la riduzione del fatturato su un preciso ramo d’azienda, anche se complessivamente c’è un aumento di volume d’affari delle altre attività. L’azienda locataria, dunque, non deve pagare al locatore né i restanti canoni né la penale. Cassazione, sentenza 7217 depositata il 27 marzo 2014.

La Suprema Corte di Cassazione ha praticamente affermato il seguente principio: “Ove il conduttore svolga la propria attività in diversi rami di azienda per i quali utilizzi distinti immobili, i gravi motivi di cui all’art. 27, ult.co.1. n. 392/78 debbono essere accertati in relazione all’attività svolta nei locali per cui viene effettuato il recesso, senza possibilità di negare rilevanza alle difficoltà riscontrate per tale attività in considerazione dei risultati positivi registrati in altri rami aziendali“. In un’ottica di bilanciamento fra l’interesse del locatore alla prosecuzione del rapporto sino alla sua naturale scadenza, e l’interesse del conduttore a non essere vincolato quando l’attività per cui è locato l’immobile divenga anti-economica, si riconducono e limitano “i gravi motivi di recesso” alla sola attività svolta nell’immobile locato, a nulla rilevando i risultati positivi registrati in altri rami di azienda. L’orientamento affermato in questa sentenza rileva ai fini di sostenere la ricorrenza dei gravi motivi di recesso, sempre sussistendone i fatti involontari, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto di locazione esclusivamente riconducibili al contratto di locazione afferente il ramo di azienda.

C’è un interessante articolo sul tema su http://www.diritto24.ilsole24ore.com

Scarica qui il testo integrale della sentenza 7217 2014

Avv. Federica Federici

Al vaglio delle Sezioni Unite la questione della rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia del contratto concluso dal falsus procurator

Al vaglio delle Sezioni Unite la questione della rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia del contratto concluso dal falsus procurator.

 a cura dell’Avv. Roberto Chiatto

Recentemente, con l’ordinanza 14688 del 27/6/2014, è stata  sollecitata l’assegnazione alle Sezioni Unite della questione della rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia del contratto stipulato dal falsus procurator, dominata finora dalla tradizionale tesi dell’eccezione in senso stretto affidata allo pseudo-rappresentato.

 

1-     Premessa.

Per comprendere i termini del dibattito, occorre una breve premessa.

Le patologie che possono affliggere l’istituto della rappresentanza (artt. 1387 e ss., c.c.) si risolvono nell’abuso e nel difetto del potere rappresentativo.

Si verifica l’abuso del potere di rappresentanza nei casi in cui il rappresentante agisce in conflitto di interessi con il rappresentato, quando trascura o lede l’interesse di quest’ultimo e, infine, quando si discosta dalle istruzioni ricevute. La concreta possibilità di un abuso del potere rappresentativo presuppone che tale potere non solo esista in capo al rappresentante, ma che sia altresì stato legittimamente conferito con procura dal rappresentato. La peculiarità dunque di questo vizio si fonda su un cattivo uso del potere, un  utilizzo scorretto e sconveniente. Gli atti giuridici e i negozi, come i contratti, posti in essere dal rappresentante, nonostante non curino adeguatamente l’interesse del rappresentato, anzi possono pregiudicarlo, sono tuttavia pienamente validi ed efficaci verso quest’ultimo, il quale avrà diritto ad un risarcimento del danno per inadempimento dell’incarico da parte del rappresentante. Soltanto quando, oltre al pregiudizio, si configuri anche un conflitto di interessi conosciuto o riconoscibile dal terzo (art. 1394 c.c.), il contratto sarà suscettibile di essere invalidato tramite l’azione di annullamento. Stessa sorte per il c.d. contratto con se stesso, species del genus conflitto di interessi.

Diverso dall’abuso è il difetto di rappresentanza, che si caratterizza o per la totale assenza di potere rappresentativo in capo al rappresentante, o, a fronte di un potere legittimamente conferito, per il superamento dei limiti fissati dalla procura (deve precisarsi che spesso la rappresentanza convive con una rapporto gestorio sottostante, nelle forme del mandato. Pertanto, se il rappresentante eccedesse i contenuti del rapporto di gestione restando tuttavia all’interno dei limiti della procura, si verificherebbe solo un abuso). In queste ipotesi, emerge la figura del falsus procurator, i cui negozi giuridici sono di regola inefficaci nei confronti del falso rappresentato, del terzo, e dello stesso falso rappresentante.

In breve sintesi, si possono ipotizzare tre diverse situazioni a cui si ricollegano tre diversi effetti:

a-     se il rappresentante abusa del potere rappresentativo, l’atto è valido e efficace, salvo l’obbligo risarcitorio verso il rappresentato;

b-    se il rappresentante agisce il difetto di rappresentanza, l’atto è inefficace;

c-     se il rappresentante agisce in conflitto di interessi, l’atto è invalido (annullabile).

2-     I termini del dibattito.

Premesso tutto ciò, le incertezze riguardano i profili sostanziali e processuali degli atti compiuti e dei contratti stipulati dal falsus procurator, cioè da un soggetto che difetta di ogni potere rappresentativo o agisce, bensì in presenza di un potere rappresentativo ma oltre i limiti della procura ricevuta.

 

2.1 – Il problema sostanziale.

Sul versante sostanziale, quello inerente alla natura giuridica del contratto de quo, la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie propendono da tempo per l’inefficacia. Si sostiene che il contratto in questione sia perfetto, in quando completo di tutti gli elementi costitutivi di cui all’art 1325 c.c., e valido, non presentando alcuna irregolarità o contrarietà a previsioni di legge. Tuttavia si presenta come inefficace, id est temporaneamente improduttivo dei propri effetti giuridici. Inefficace in primis verso il (falso) rappresentato, dal momento che questi non ha conferito alcun potere di rappresentanza e pertanto il negozio è del tutto estraneo alla sua sfera giuridica. Inefficace poi verso lo stesso (falso) rappresentante: infatti, trattandosi di rappresentanza diretta, il falsus procurator ha operato la spendita del nome (c.d. contemplatio domini) del rappresentato e giammai potrebbe subire nella propria sfera giuridica gli effetti dei negozi da lui posti in essere; non è parte sostanziale del contratto e nemmeno sarebbe ipotizzabile e ammissibile una sua sostituzione in luogo del rappresentato per una sorta di sanzione a suo carico, limitandosi la sanzione alla responsabilità (precontrattuale) verso il terzo. Infine, il contratto è inefficace anche verso il terzo contraente.

Questa ricostruzione non viene tuttavia condivisa in toto. Infatti, parte della giurisprudenza parla di invalidità, oscillando tra la nullità e l’annullabilità, oppure di negozio incompleto, imperfetto e in via di formazione. In estrema sintesi:

a-     invalidità. Alcuni orientamenti sostengono l’invalidità giuridica, in particolare, la nullità del contratto. La conclusione è tratta dall’assenza, nella previsione normativa, di azioni a tutela del falso rappresentato, come invece avviene espressamente in caso di conflitto di interessi (art. 1394 c.c.) e contratto con se stesso (art. 1395, comma 2, c.c.). A contrario quindi dovrebbe ipotizzarsi la possibilità per chiunque, in particolare giudice e terzo contraente, di agire per far dichiarare la nullità del contratto, ovviamente senza limiti temporali;

b-    contratto in via di formazione. Si considera il contratto sic et simpliciter imperfetto e in itinere, in attesa della ratifica del falso rappresentato per il suo completamento.

Ora, forti dubbi si nutrono in particolare verso la tesi della nullità.

Se il contratto fosse davvero nullo non si comprenderebbe perché l’art 1399, al terzo comma, prevede la possibilità di sciogliere il negozio solo l’accordo in tale senso dei due contraenti. Il richiamo al c.d. mutuo dissenso lascia intendere che il contratto sia pienamente esistente, valido e vincolante per le parti, cosicché nessuna delle due (pseudo rappresentante e terzo) potrebbe liberarsi unilateralmente, tramite un recesso, ma solo nei modi ordinari di scioglimento del contratto. Nell’ottica della nullità, nessun ostacolo sarebbe sorto alla pacifica ammissibilità del recesso unilaterale.

In secondo luogo, in aperta contestazione della nullità interviene l’istituto della ratifica, previsto dal comma 1 dall’art 1399 c.c. Infatti, la ratifica è un negozio unilaterale con cui il falso rappresentato rende efficace nei suoi confronti il contratto stipulato dal falso rappresentante. Si tratta di un atto con cui, in buona sostanza, si accetta l’operato dello pseudo rappresentante, integrando in via sopravvenuta il difetto originario di legittimazione. Ora, se il contratto fosse nullo, come sarebbe possibile recuperare nella propria sfera giuridica effetti di un negozio insuscettibile di produrli in quanto definitivamente invalido ab origine?

Difficilmente la tesi della nullità potrebbe resistere alle critiche su esposte. Non resta quindi che condividere la tesi della inefficacia, considerando in tale ottica la ratifica come una conditio iuris sopravvenuta alla cui verificazione è subordinato il contratto in questione (Cass. 4601/1983; Cass. 410/2000; Cass. 11396/1999; Cass. 3872/2004).

 

2.2 – Il problema processuale.

La questione rimessa alle ss.uu. riguarda la rilevabilità d’ufficio dell’inefficacia del contratto stipulato da falso rappresentante. Già da tempo la giurisprudenza maggioritaria ha negato la rilevabilità d’ufficio ad opera del giudice, come nel caso del contratto nullo, e del terzo (Cass. 14618/2010; Cass. 12144/1999; Cass. 7501/1993), configurando l’inefficacia come una eccezione in senso stretto affidata al solo falso rappresentato. L’orientamento poggia sulla considerazione che la legge tutela il falso rappresentato, consentendo solo a questo di far valere l’inefficacia. E l’onere della prova segue le normali regole di cui all’art 2697 c.c.: se Tizio (falso rappresentante) stipula un contratto con Caio (terzo contraente) in nome di Sempronio (falso rappresentato), qualora Caio agisca per l’esecuzione del contratto verso Sempronio, sarà quest’ultimo a eccepire l’inefficacia del contratto e spetterà a Caio dimostrare invece l’esistenza del potere rappresentativo. Vero è che una qualche tutela è prevista anche per il terzo vincolato al contratto. Ma i rimedi si limitano alla risoluzione consensuale o al diritto di interpello al giudice (la c.d. actio interrogatoria) diretto alla fissazione di un termine molto breve di decadenza per la ratifica del falso rappresentato. Decorso invano il termine, la ratifica si intende negata ex art 1399, comma 4, c.c. e il terzo è svincolato da un contratto, ormai divenuto definitivamente inefficace per il mancato verificarsi della condizione. Nessuno spazio dunque per un rilievo dell’inefficacia.

 

3-     Conclusione.

In attesa dell’eventuale pronuncia delle sezioni unite, sembrano deboli e poco convincenti le argomentazioni volte da un lato a respingere la tesi dell’inefficacia del contratto stipulato dal falsus procurator a favore della nullità (o addirittura della inesistenza) e dall’altro ad ampliare l’eccezione, passando dall’esclusivo potere del falso rappresentato di eccepirla in giudizio ad una eccezione in senso ampio a disposizione anche del terzo contraente.