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L’emergenza e ‘le’ emergenze secondo un recente climate case

L’emergenza e ‘le’ emergenze secondo un recente climate case

di Andrea Giordano, Avvocatura dello Stato

https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/945-emergenza-climatica-e-obblighi-positivi-dello-stato-l-ellisse-della-c-e-d-u-e-le-geometrie-multilivello

Ringraziamo l’avv. Andrea Giordano, nostro relatore nel webinar “I diritti fondamentali nell’epoca dell’emergenza” del 30.4.2020 organizzato insieme al Coa di Roma e il Gruppo 24 ore, per aver citato noi e gli altri illustri relatori nel suo prezioso articolo.

Trasformazione delle banche popolari in società per azioni: la parola alla CGUE

Avv. Filomena Agnese Chionna

La CGUE sarà chiamata a decidere circa la compatibilità della disciplina dell’Unione Europea con la normativa nazionale, così come delineata dalla legge 33/2015, la quale viene censurata, nella parte in cui impone una soglia di attivo, al di sopra della quale la banca popolare è obbligata a trasformarsi in società per azioni, fissando tale limite in 8 miliardi.

Tale criterio risulterebbe ingiustificato, oltre che privo di base giuridica.

La normativa prevede tre opzioni alternative, nel caso di superamento della soglia, ossia: la trasformazione in società per azioni della banca popolare, la riduzione del suo attivo al di sotto della predetta soglia di 8 miliardi di euro, o la sua liquidazione.

Si discute se sia compatibile la normativa nazionale la quale consente all’ente, in caso di trasformazione della banca popolare in s.p.a., di differire o limitare, anche per un tempo indeterminato, il rimborso delle azioni del socio recedente.

Ne discende che sorgono dei dubbi, attorno alla disciplina che limita l’esercizio dell’attività bancaria in forma cooperativa entro un determinato limite di attivo, obbligando l’ente a trasformarsi in società per azioni in caso di superamento del predetto limite.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 99 del 2018, ha affermato che l’individuazione di tale soglia rientra nelle libere potestà decisionali del Legislatore nazionale, il quale ha posto l’obiettivo del raggiungimento di un corretto equilibrio tra forma giuridica e dimensione di una banca popolare, da un lato, e rispetto delle regole prudenziali di matrice europea nell’esercizio della connessa attività bancaria, dall’altro lato.

La corte costituzionale con sentenza 99/2018, non avanzava specifiche censure sulla disposizione in esame.

Il diritto al rimborso delle azioni al socio, a fronte della trasformazione, può indurre a limitare e non, differire il recesso, dato che il socio recedente non subisce alcuna perdita definitiva del valore delle proprie azioni di cui sia limitato il rimborso.

 Restava esclusa anche l’incompatibilità con l’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU, in conclusione, non sussistevano i presupposti per un rinvio pregiudiziale alla CGUE sulla validità della normativa europea.

Da ultimo ci si è chiesti se possa essere considerato aiuto di stato, la previsione delle limitazioni al rimborso della quota del socio in caso di recesso, per evitare la possibile liquidazione della banca trasformata.

Sarà utile seguirne gli sviluppi.

L’onere di immediata impugnazione ex art. 120, comma 2-bis, C.p.a. al vaglio della Corte di Giustizia dell’Unione Europea

Avv. Adriano Scardaccione

 

ABSTRACT

Spetta alla Corte di giustizia dell’Unione Europea valutare se la disciplina europea in materia di diritto di difesa, di giusto processo e di effettività sostanziale della tutela (artt. 6 e 13 della CEDU, art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e art. 1 Dir. 89/665/CEE, 1 e 2 della Direttiva) osti ad una normativa nazionale, quale l’art. 120, comma 2 bis, c.p.a, che, da un lato, impone all’operatore che partecipa ad una procedura di gara di impugnare l’ammissione/mancata esclusione di un altro soggetto, entro il termine di 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento con cui viene disposta l’ammissione/esclusione dei partecipanti e, dall’altro, preclude all’operatore economico di far valere, a conclusione del procedimento, anche con ricorso incidentale, l’illegittimità degli atti di ammissione degli altri operatori, in particolare dell’aggiudicatario o del ricorrente principale, senza aver precedentemente impugnato l’atto di ammissione nel termine suindicato.

TESTO

Sono stati analizzati, in un precedente articolo, gli elementi essenziali del rito super-accellerato introdotto dall’art. 120 C.p.a. comma 2 bis del Codice degli Appalti e si è accennato al vivace dibattito interpretativo sulla sua corretta esegesi e sulla sua effettiva portata, formatosi nella dottrina e nella giurisprudenza nazionale, così come i profili di criticità nel rapporto con il diritto primario e derivato dell’Unione Europea.

Tale contrasto interpretativo è stato rimesso dal TAR Piemonte, con l’ordinanza n. 88/2018, innanzi alla Corte di giustizia dell’Unione Europea, la quale verrà chiamata a pronunciarsi sulla conformità della disciplina di cui all’art. 120, comma 2-bis, C.p.a., rispetto sull’interpretazione di alcune norme del diritto primario dell’Unione (vale a dire gli artt. 6 e 13 della CEDU e 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione), che, per brevità non si riportano, nonché su alcune disposizioni della Direttiva 89/665/CEE del Consiglio, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori (d’ora in poi “la Direttiva”); in particolare:

considerando che le direttive comunitarie in materia di appalti pubblici, … non contengono disposizioni specifiche che permettano di garantirne l’effettiva applicazione;

considerando che i meccanismi attualmente esistenti, sia sul piano nazionale sia sul piano comunitario, per garantire tale applicazione non sempre permettono di garantire il rispetto delle disposizioni comunitarie, in particolare in una fase in cui le violazioni possono ancora essere corrette;

considerando che l’apertura degli appalti pubblici alla concorrenza comunitaria rende necessario un aumento notevole delle garanzie di trasparenza e di non discriminazione e che occorre, affinché essa sia seguita da effetti concreti, che esistano mezzi di ricorso efficaci e rapidi in caso di violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici o delle norme nazionali che recepiscano tale diritto;

considerando che, se le imprese non avviano la procedura di ricorso, ne deriva l’impossibilità di ovviare a determinate infrazioni a meno di istituire un meccanismo specifico

La medesima Direttiva, all’art. 1, parr. 1 e 3, stabilisce quanto segue:

“… Gli Stati membri adottano i provvedimenti necessari per garantire che, per quanto riguarda gli appalti disciplinati dalla direttiva 2014/24/UE o dalla direttiva 2014/23/UE, le decisioni prese dalle amministrazioni aggiudicatrici possano essere oggetto di un ricorso efficace e, in particolare, quanto più rapido possibile, secondo le condizioni previste negli articoli da 2 a 2 septies della presente direttiva, sulla base del fatto che tali decisioni hanno violato il diritto dell’Unione in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici o le norme nazionali di recepimento.

Gli Stati membri provvedono a rendere accessibili le procedure di ricorso, secondo modalità che gli Stati membri possono determinare, a chiunque abbia o abbia avuto interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione”.

L’art. 2 della Direttiva, al par. 1, lett. a), prevede che:

Gli Stati membri provvedono affinché i provvedimenti presi in merito alle procedure di ricorso di cui all’articolo 1 prevedano i poteri che consentono di:

  1. a) prendere con la massima sollecitudine e con procedura d’urgenza provvedimenti cautelari intesi a riparare la violazione denunciata o ad impedire che altri danni siano causati agli interessi coinvolti, compresi i provvedimenti intesi a sospendere o a far sospendere la procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico o l’esecuzione di qualsiasi decisione presa dall’amministrazione aggiudicatrice”.

Per ciò che attiene, invero, alla normativa nazionale, oltre al Codice del Processo Amministrativo, con la disciplina prevista dall’art. 120, rileva anche il Codice dei Contratti Pubblici, che all’art. 29, comma 1, il quale prevede che, in ossequio al principio dell’Amministrazione Trasparente, “Al fine di consentire l’eventuale proposizione del ricorso ai sensi dell’articolo 120, comma 2-bis, del codice del processo amministrativo, sono altresì pubblicati, nei successivi due giorni dalla data di adozione dei relativi atti, il provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni all’esito della verifica della documentazione attestante l’assenza dei motivi di esclusione di cui all’articolo 80, nonché la sussistenza dei requisiti economico-finanziari e tecnico-professionali. Entro il medesimo termine di due giorni è dato avviso ai candidati e ai concorrenti, con le modalità di cui all’articolo 5-bis del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, recante il Codice dell’amministrazione digitale o strumento analogo negli altri Stati membri, di detto provvedimento, indicando l’ufficio o il collegamento informatico ad accesso riservato dove sono disponibili i relativi atti. Il termine per l’impugnativa di cui al citato articolo 120, comma 2-bis, decorre dal momento in cui gli atti di cui al secondo periodo sono resi in concreto disponibili,corredati di motivazione”.

Orbene, la previsione di un nuovo rito super-accelerato che impone l’impugnazione immediata delle ammissioni e delle esclusioni risulta problematico in alcune ipotesi.

In primo luogo quando venga censurata l’ammissione/mancata esclusione di una ditta che, all’esito della gara, non risulti aggiudicataria ovvero nell’ipotesi in cui la stessa ricorrente, sempre all’esito della gara, risulti in una posizione tale da non avere interesse a contestare l’aggiudicazione; in tali casi si imporrebbe al partecipante alla procedura un onere “inutile”.

Inoltre nella differente – e opposta – ipotesi in cui nessuna delle ditte partecipanti alla gara faccia valere, nei termini di legge, vizi relativi all’illegittima ammissione dell’aggiudicataria, nel qual caso sarebbe preclusa la possibilità di far valere tali vizi in sede di impugnazione dell’aggiudicazione, la quale potrebbe, quindi, essere conseguita da un operatore economico privo dei requisiti di partecipazione.

Ne consegue che, il regime processuale in esame comporti un aggravio economico e processuale per il partecipante alla gara, il quale ha l’onere di proporre una doppia impugnazione, seppure nell’ambito dello stesso giudizio (mediante l’istituto dei motivi aggiunti), qualora il provvedimento di aggiudicazione della gara, sia sopraggiunto quando il giudizio ex art 120, comma 6-bis, non sia ancora definito.

Tale disposizione, inoltre, impone all’operatore economico di impugnare le ammissioni di tutti i concorrenti alla gara, senza sapere ancora né chi sarà l’aggiudicatario, né se lui stesso si collocherà in graduatoria in posizione utile per ottenere e/o contestare l’aggiudicazione dell’appalto, dunque prescindendo dalla concreta lesione che sarebbe causata da un eventuale provvedimento di aggiudicazione a favore dell’impresa avversaria.

In sostanza, la norma introduca una giurisdizione di tipo “oggettivo”, prevedendo una sorta di presunzione legale di lesione, non direttamente correlata alla lesione effettiva e concreta di un bene della vita, secondo la dimensione sostanzialistica dell’interesse legittimo posta alla base della giurisdizione di tipo soggettivo propria del nostro ordinamento.

La disciplina sul rito super-accellerato censurata, introducendo una tipologia di contenzioso che si qualifica per essere un giudizio di diritto oggettivo, si pone in contrasto con il principio europeo di effettività della tutela, il quale postula che l’operatore economico al quale dev’essere assicurato un sistema di giustizia effettivo abbia e conservi un interesse all’aggiudicazione dell’appalto.

Tale principio sarebbe violato anche in quanto il partecipante alla gara subirebbe un danno dalla norma in esame, non solo in ragione degli esborsi economici collegati alla proposizione di plurimi ricorsi avverso l’ammissione di tutti i concorrenti, ma anche per la compromissione della propria posizione agli occhi della Stazione appaltante e per le conseguenze negative sul rating dell’impresa ai sensi dell’art. 83 del Codice dei contratti, che individua quale parametro negativo di giudizio anche l’incidenza dei contenziosi attivati dall’operatore economico nelle gare d’appalto.

Sotto altro profilo, la normativa interna sembra violare il principio europeo di proporzionalità, in quanto comporta, da un lato, il rischio di proliferazione dei contenziosi nella fase di “qualificazione” e la conseguente paralisi della procedura di gara; dall’altro e al contrario, il rischio di inibizione delle iniziative processuali a causa degli esborsi necessari alla difesa processuale.

Infine, il rischio più grave è quello che l’operare del nuovo meccanismo preclusivo renda inattaccabili aggiudicazioni a soggetti privi dei requisiti di partecipazione, con conseguente violazione dell’esigenza alla quale sottendono tutti i principi in materia, ossia assicurare che le commesse pubbliche siano affidate al soggetto maggiormente idoneo.

Così riassunti i tratti essenziali dell’istituto di cui si discute, può ora affrontarsi il tema del rapporto dello stesso con i principi e le norme del diritto dell’Unione individuate quali parametri di riferimento dal giudice del rinvio, rapporto che, come si dimostrerà, è di piena compatibilità.

I principi generali in materia di tutela giurisdizionale di cui agli artt. 6 e 13 della CEDU e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione sono più specificamente declinati, quanto alla materia degli appalti, dalla Direttiva 89/665/CEE.

E’ utile richiamare in primo luogo il Considerando secondo cui: “… i meccanismi attualmente esistenti, sia sul piano nazionale sia sul piano comunitario, per garantire tale applicazione [della disciplina sostanziale in materia di appalti pubblici, n.d.r.] non sempre permettono di garantire il rispetto delle disposizioni comunitarie, in particolare in una fase in cui le violazioni possono ancora essere corrette”.

Dunque, nell’individuare le finalità della disciplina processuale dettata dalla Direttiva, il legislatore comunitario ha dato particolare rilievo alla necessità di prevedere procedure di ricorso idonee a garantire il rispetto delle disposizioni comunitarie “in una fase in cui le violazioni possono ancora essere corrette”.

Non pare, quindi, potersi dubitare che nel riportato Considerando il legislatore comunitario abbia espresso un evidente favore per la previsione di meccanismi processuali atti a garantire una tutela anticipata delle posizioni soggettive, vale a dire in una fase della gara nella quale sia ancora possibile porre rimedio a eventuali violazioni del diritto dell’Unione potenzialmente idonee a compromettere il corretto svolgimento della stessa.

Come sopra evidenziato tale è precisamente la ratio del rito di cui discutiamo, finalizzato a risolvere le questioni preliminari relative ai requisiti di qualificazione dei partecipanti alla gara prima di passare all’esame delle offerte, al fine di evitare che tali questioni vengano sollevare quando la procedura è giunta a conclusione e possano portare all’integrale annullamento della stessa, con conseguente spreco di tempo, risorse umane ed economiche ed eventuale perdita di finanziamenti.

La meritevolezza di un tale interesse è peraltro stata espressamente affermata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Nel pronunciarsi sulla questione relativa al momento a partire dal quale un ricorso deve essere accessibile e sulla congruità della previsione di termini di ricorso «ragionevoli» a pena di decadenza, la CGUE ha evidenziato che «la completa realizzazione dell’obiettivo perseguito dalla direttiva 89/665 sarebbe compromessa se ai candidati ed offerenti fosse consentito far valere in qualsiasi momento del procedimento di aggiudicazione infrazioni alle regole di aggiudicazione, obbligando quindi l’amministrazione aggiudicatrice a ricominciare l’intero procedimento al fine di correggere tali infrazioni».

Si è dunque precisato che gli Stati membri hanno la facoltà di subordinare la procedibilità del ricorso contro gli atti di gara al rispetto di termini decadenziali purché questi siano “ragionevoli”. La fissazione di termini di ricorso ragionevoli a pena di decadenza risponde, «in linea di principio, all’esigenza di effettività derivante dalla direttiva 89/665, in quanto costituisce l’applicazione del fondamentale principio della certezza del diritto (v., per analogia, trattandosi del principio di effettività del diritto comunitario, sentenze 10 luglio 1997, causa C-261/95, Palmisani, punto 28, e 16 maggio 2000, causa C-78/98, Preston e a., punto 33)» (cfr. CGUE, 12 dicembre 2002, Universale-Bau e a, in C-470/99, punto 76).

Dunque, la previsione di termini di decadenza per l’impugnazione degli atti disciplinati dall’art. 120, comma 2-bis, può considerarsi funzionale a consentire la correzione anticipata di errori che, qualora non emergessero tempestivamente, potrebbero portare all’annullamento dell’aggiudicazione e, quindi, alla necessaria ripetizione di tutto il procedimento, con conseguente violazione dell’ “esigenza di effettività derivante dalla violazione della direttiva 89/665”.

Può, dunque, affermarsi che il meccanismo processuale disciplinato dalle norme in esame si pone nel solco di una linea tendenziale tracciata dallo stesso legislatore comunitario.

Di tale linea costituisce espressione anche la disposizione di cui all’art. 1, par. 3, della Direttiva, secondo cui “Gli Stati membri provvedono a rendere accessibili le procedure di ricorso, … a chiunque abbia o abbia avuto interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione”.

Secondo il legislatore europeo, quindi, il “rischio” di subire una lesione a causa della violazione di una norma dell’Unione è elemento idoneo a radicare la legittimazione ad accedere alle procedure di ricorso; in altri termini, il carattere lesivo del provvedimento, ai fini della sua impugnabilità, deve essere apprezzato non solo in termini di immediatezza e attualità, ma anche di potenzialità.

Spetta ora alla Corte di Giustizia dell’Unzione Europea verificare la conformità della disciplina del rito super-accellerato ai principi e le norme del Diritto dell’Unione sopra richiamati.

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Avvalimento: possibilità di sostituzione dell’impresa ausiliaria che abbia perso i requisiti

UEAvvalimento: possibilità di sostituzione dell’impresa ausiliaria che abbia perso i requisiti

A cura dell’avv. Filomena Agnese Chionna 

Di recente, si è posta la questione inerente alla sopravvenuta perdita dei requisiti dell’impresa ausiliaria, e di conseguenza, la mancata previsione della sostituibilità della stessa, si pone in termini di un possibile contrasto, con la disciplina comunitaria, che parrebbe invece consentire la possibilità di sostituire l’impresa oggetto di avvalimento.

La normativa nazionale italiana, dell’art. 63 della Direttiva 2014/24/UE e l’art. 49 del d.lgs. n. 163/2006, ammette, che il concorrente possa avvalersi dei requisiti e attestazioni di altra impresa c.d. ausiliaria, per contro, non prevede, che in caso di perdita o riduzione dei requisiti di partecipazione, in capo all’impresa ausiliaria indicata, essa possa essere sostituita con altra impresa.

La disciplina comunitaria, pone il rilievo la prova che l’impresa di cui il concorrente si avvale, abbia i requisiti di capacità economica,  finanziaria e tecnica e stabilisce altresì, nel caso in cui il soggetto indicato “non soddisfa un pertinente criterio di selezione o per il quale sussistono motivi obbligatori di esclusione”, che l’amministrazione aggiudicatrice imponga all’operatore economico, ossia al soggetto che concorre alla gara, di sostituire tale soggetto.

Per tale motivo il Consiglio di Stato rimette alla Corte di giustizia, l’analisi, della questione in ordine, alla possibile sostituzione dell’impresa ausiliaria che abbia perso i requisiti.

La Corte giust. UE, sez I, con la sentenza, 7 aprile 2016, C-324/14,  ha ribadito: “La normativa europea in materia di avvalimento, negli appalti pubblici, deve essere interpretata nel senso che: in primo luogo è riconosciuto il diritto di qualunque operatore economico di fare affidamento, per un determinato appalto, sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura dei suoi legami con questi ultimi, purché sia dimostrato all’amministrazione aggiudicatrice che il candidato o l’offerente disporrà effettivamente delle risorse di tali soggetti che sono necessarie per eseguire detto appalto; in secondo luogo, non è escluso che l’esercizio di tale diritto possa essere limitato, in circostanze particolari, tenuto conto dell’oggetto dell’appalto in questione e delle finalità dello stesso. È quanto avviene, in particolare, quando le capacità di cui dispone un soggetto terzo, e che sono necessarie all’esecuzione di detto appalto, non siano trasmissibili al candidato o all’offerente, di modo che quest’ultimo può avvalersi di dette capacità solo se il soggetto terzo partecipa direttamente e personalmente all’esecuzione di tale appalto.

In tema di avvalimento, l’art. 48, paragrafi 2 e 3, della direttiva 2004/18 deve essere interpretato nel senso che, tenuto conto dell’oggetto di un determinato appalto e delle finalità dello stesso, l’amministrazione aggiudicatrice può, in circostanze particolari, ai fini della corretta esecuzione dell’appalto, indicare espressamente nel bando di gara o nel capitolato d’oneri regole precise secondo cui un operatore economico può fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, purché tali regole siano connesse e proporzionate all’oggetto e alle finalità di detto appalto.

I principi di parità di trattamento e di non discriminazione degli operatori economici, enunciati all’art. 2 della direttiva 2004/18, devono essere interpretati nel senso che, in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, ostano a che un’amministrazione aggiudicatrice, dopo l’apertura delle offerte presentate nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di appalto pubblico, accetti la richiesta di un operatore economico, che abbia presentato un’offerta per l’intero appalto in questione, di prendere in considerazione la sua offerta ai fini dell’assegnazione solo di determinate parti di tale appalto.

I medesimi principi di parità di trattamento e di non discriminazione, devono essere interpretati nel senso che richiedono l’annullamento e la ripetizione di un’asta elettronica alla quale un operatore economico che aveva presentato un’offerta ammissibile non sia stato invitato, e ciò anche se non può essere accertato che la partecipazione dell’operatore escluso avrebbe modificato l’esito dell’asta”.

Ne deriva che l’offerente stesso è in ogni caso tenuto a dimostrare di disporre effettivamente dei mezzi di tali soggetti che non gli appartengono in proprio e che sono necessari per l’esecuzione di un determinato appalto.

Di conseguenza, la possibile eccezione, attiene all’ipotesi sin cui l’esercizio di tale diritto può essere limitato in circostanze particolari, in cui non è da escludere a priori che l’amministrazione aggiudicatrice, ai fini della corretta esecuzione dell’appalto di cui trattasi, possa indicare espressamente, nel bando di gara o nel capitolato d’oneri, regole di dettaglio,  le quali devono essere connesse e proporzionate all’oggetto e alle finalità di detto appalto

Facendo applicazione dei principi generali, è escluso che a fronte dell’offerta presentata da un operatore economico per l’intero appalto, la stazione appaltante possa prendere in considerazione la stessa offerta ai fini dell’assegnazione solo di determinate parti di tale appalto. Viene quindi ribadito altresì il principio di immodificabilità dell’offerta.

Ciò imporrebbe l’annullamento e la ripetizione di un’asta elettronica alla quale un operatore economico che aveva presentato un’offerta ammissibile non sia stato invitato, sul versante processuale, in relazione all’obbligo di esaminare tutti i ricorsi, incidentale e principale, si ribadisce il consolidato orientamento secondo cui l’esame prioritario è del ricorso incidentale escludente.

Convenzione Europea del diritti dell’uomo e diritto civile

Convenzione Europea del diritti dell’uomo e diritto civile

Avv. Salvatore Magra

L’esame dei punti di intersezione fra CEDU e diritto civile presuppone una digressione sulla configurabilità di una categoria di diritto privato, che possa considerarsi di respiro più ampio, rispetto alla territorialità dei singoli Stati. Al riguardo, l’elaborazione dottrinale ha progressivamente ammesso la presenza della categoria del “diritto privato europeo”, a partire da un più o meno implicito riparto di competenze tra legislazione statale e legislazione extrastatale, soprattutto ai fini di un’armonizzazione, volta tuttavia a mantenere la peculiarità delle disposizioni reciprocamente integrate. La categoria prescinde dal requisito della statualità, in quanto ha una dimensione sovranazionale, in cui è assente il connotato della territorialità (si rifletta sul fatto che alcuni interpreti hanno proposto di impiegare l’antico diritto romano come paradigma per la costruzione del diritto privato europeo). Tale recupero dell’ius commune può rendere opaco l’interesse per le dinamiche internazionali del mercato, che spesso utilizzano strumenti “ad alta tecnologia”, in una dimensione globalizzante e/o globalizzata. E’ pur vero che spesso i paradigmi del passato sono più meditati e meno automatizzati, rispetto al “fiume in piena” odierno, ma anche il diritto romano sconta un riferimento alla materialità, spinto alle estreme conseguenze, nel senso che nel medesimo non potevano essere considerate le realtà “virtuali”, che caratterizzano l’epoca odierna (può riflettersi sulle fattispecie contrattuali telematiche) e non sempre l’adattamento delle categorie romanistiche può avvenire con profitto, per un’adeguata codificazioni di realtà, appartenenti a un’altra epoca tecnologica, a meno che l’ingegneria giuridico-internazionalista raggiunga livelli di eccellenza. L’elaborazione e l’effettiva presenza di un diritto privato europeo pone l’esigenza di sintetizzare le peculiarità dei Paesi di common law e di civil law.

La CEDU, attraverso una lettura non in superficie dei valori immanenti alla stessa, anche superando gli elementi, desumibili dalla lettera delle disposizioni, appare uno strumento orientato nel senso della creazione di una dimensione internazionale del diritto privato civile[1]. La realizzazione del Trattato di Lisbona del 13 Dicembre 2007, che rafforza il principio democratico e la protezione dei diritti fondamentali, va considerata una tappa fondamentale, in rapporto alla corretta interpretazione ella CEDU, nel senso che lo stesso Trattato funge da paradigma di “interpretazione autentica” della CEDU, così come va adeguatamente presa in considerazione la Carta Fondamentale dei diritti dell’Unione Europea, che viene menzionata nel Trattato.

Esiste un patrimonio di princìpi immanenti nella dimensione umana, quali quelli afferenti alla protezione della personalità, che vanno condivisi non solo in una dimensione statuale e territoriale, ma anche in un assetto globalizzante e globalizzato.

Le disposizioni della CEDU derivano da un Trattato internazionale e, attraverso l’art. 117 Cost., così come modificato dalla Riforma del Titolo V della Costituzione (legge costituzionale n. 3-2001), diventano vincolanti per lo Stato e le Regioni, in rapporto all’esigenza di rispetto, da parte dei medesimi enti, dell’obbligo di rispettare i trattati internazionali, così come disposto dal medesimo art. 117. Secondo il Consiglio di Stato, sentenza n. 1220 Sezione IV e TAR Lazio, Sezione II bis n.11984-2010, alle norme CEDU si applica un regime identico a quello delle norme comunitarie, in rapporto all’espresso riferimento alle medesime contenuto nel Trattato di Lisbona[2]. La tesi, peraltro è stata criticata, argomentando nel senso che i vincoli derivanti dalla CEDU valgono come vincoli internazionali.

In ogni caso, attraverso l’art. 117, occorrerà tener conto delle disposizioni della CEDU, in relazione alla protezione della personalità, attraverso l’interpretazione della giurisprudenza della Corte di Strasburgo.

VITA PRIVATA E FAMILIARE

Vanno considerati con attenzione gli artt. 8 e 14 della CEDU, i quali si propongono di proteggere la vita privata e familiare, con il contestuale divieto di discriminazioni irragionevoli.[3]

In una decisione del 1° Aprile del 2010 la Corte di Strasburgo ha adottato una lettura ampia della nozione di “vita privata”, fra cui deve includersi la libertà di scelta in rapporto alle modalità di procreazione (la questione si è posta in rapporto alla c.d. fecondazione eterologa). E’ stato condivisibilmente affermato che la sentenza in esame, ancorché formulata in riferimento al divieto di fecondazione eterologa presente nella legislazione austriaca, ha rilievo anche per l’ordinamento italiano, in quanto la legge 40 del 2004 vieta la fecondazione eterologa (art. 4 comma 3°).E’ stato, peraltro, rilevato che la fecondazione eterologa nell’ordinamento italiano è vietata in qualunque sua manifestazione, quando, invece, nell’ordinamento austriaco erano vietate solo alcune tipologie di tale fecondazione, con la conseguenza che la Corte di Strasburgo ha intercettato un possibile trattamento discriminatorio, in rapporto all’assenza di un giustificato motivo, a base dell’individuazione di quali tipologie di fecondazione eterologa . l’argomento si è dimostrato non decisivo, in quanto la Corte di Strasburgo (Costa et Pavan c. Italie, II sezione, arrêt 28 agosto 2012) all’unanimità ha condannato il nostro Paese per violazione dell’art. 8 CEDU, il quale include anche la tutela della libertà di scelta dei componenti della coppia, in rapporto al se divenire o non divenire genitori. La Corte di Strasburgo intercetta una lacuna nell’ordinamento italiano, in quanto in esso è consentita l’interruzione della gravidanza (legge 194 del 1978) ed è esclusa la diagnosi preimpianto, con l’eccezione delle coppie, che abbiano accesso alla procreazione medicalmente assistita), con la presenza di un conseguente trattamento discriminatorio sul diritto all’autodeterminazione della vita familiare. Viene, pertanto, individuata un’incoerenza fra la legge 194, riguardante l’interruzione della gravidanza e la legge del 2004, anche se è stato obiettato che fra le due ipotesi esiste una sostanziale diversità.  E’ stato osservato che si arriverebbe a ipotesi in cui coppie che per situazioni ambientali o per età siano in un’ipotesi di gravidanza a rischio, le quali potrebbero scegliere l’interruzione della gravidanza o intravvedere un’alternativa nella diagnosi pre-impianto, con ulteriore possibilità di sottoporsi a procreazione medicalmente assistita.

Con l’ordinanza 150-2012 la Corte costituzionale ha restituito gli atti ai Giudici a quibus, i quali avevano sottoposto la questione di legittima costituzionale, in rapporto al divieto di fecondazione eterologa, contenuto nella legge n. 40 del 2004.   Con l’ordinanza 29-2013 la I Sezione civile del Tribunale di Milano ha rimesso alla Corte costituzionale la problematica, sottolineando come occorra valutare la sopravvenuta giurisprudenza della Corte di Strasburgo e come occorra riflettere anche sugli argomenti della Grande Chambre, che hanno portato la Corte di Strasburgo a rendere meno incisiva la Decisione della Prima Sezione il 1° Aprile 2010. Di conseguenza, si è di nuovo prospettata la possibilità di una violazione della CEDU.

In termini generali, si può affermare come in tempi recenti la Corte di Strasburgo abbia interpretato in modo ampio la protezione delle posizioni soggettive dei singoli, in materia matrimoniale. Al riguardo, viene in considerazione l’art. 12 della Convenzione, secondo cui “A partire dall’età minima per contrarre matrimonio, l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto”. In taluni arresti la Corte di Strasburgo (Decisione 24-6-2010) ha ritenuto che la diversità biologica del “compagno” non è una condizione imprescindibile per contrarre matrimonio, prendendo in considerazione, peraltro, l’esigenza di tener conto della peculiarità delle unioni nazionali. Pertanto, si ritiene che i diritti delle coppie omosessuali vadano tutelati, anche in rapporto all’art. 9 della Carta di Nizza, secondo cui “Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”.

Merita rilevanza anche la Decisione della Corte di Strasburgo, in riferimento alla necessità di attuare qualsivoglia assenza di discriminazione, anche in rapporto al già citato art. 14 CEDU, fra cognome paterno e cognome materno, in quanto la prevalenza attribuita al primo sul secondo appare discriminatoria, nei confronti del ruolo della donna-madre all’interno della famiglia, con la conseguenza che, in sostanza, si perviene a trattare in modo differenziato due situazioni identiche (questo è il nucleo generale, ricavabile dalla sentenza 7 Gennaio 2014, in cui la Corte ha sostenuto che “nella presente causa la Corte ha concluso per la violazione … a causa dell’impossibilità per i ricorrenti al momento della nascita della comune figlia, di farla iscrivere nei Registri dello Stato Civile con, come cognome, quello di sua madre”. La Corte di Strasburgo intercetta un “cedimento” dell’ordinamento italiano, in rapporto all’impossibilità di pervenire a un’iscrizione dei figli con il cognome materno. Peraltro, si è rilevato che in questa maniera possono sorgere delle difficoltà, nel momento in cui una coppia abbia più figli. Si mette, pertanto, in discussione un modello tipicamente patriarcale, che sembra permeare di sé la realtà italiana.

DIRITTI UMANI, LIBERTA’ ECONOMICA E CEDU

Quanto alla disciplina della concorrenza e del mercato esistono due differenti concezioni, con cui si può accostare all’interpretazione del sistema della CEDU : secondo una prima idea, il mercato non è più inteso forza spontanea ma come motore di sviluppo da regolare entro le strutture dello Stato di diritto, attraverso un incisivo intervento pubblico in economia dello Stato stesso, con un sostanziale abbandono del paradigma della “mano invisibile” di Adam Smith e dei neoclassici. Secondo altra idea, il mercato produce da sé le regole per un’efficace allocazione delle risorse e si autodisciplina (lex mercatoria). In ogni caso, la concorrenza sembra un valore precipuo, da preservare (anche se occorre evitare di cadere nell’eccesso di creare una sorta di monopolio dell’eccesso di protezione della concorrenza da preservare). Pertanto, è attraverso un’attuazione di tali paradigmi, o una sapiente integrazione degli stessi che occorre interpretare le modalità, attraverso cui le libertà economiche attecchiscono all’interno della CEDU e del paradigma interpretativo della Corte di Strasburgo. Occorre individuare il nesso fra la libertà economica e i diritti individuali e collettivi e bisogna cercar di comprendere se il coordinamento fra tali posizioni soggettive sia di eguale tenore nella Costituzione italiana e nelle fonti di diritto internazionale e comunitario, anche perché sono diverse le epoche in cui si colloca la redazione di tali Documenti. Proprio per tale diversità di epoca nella realizzazione dei vari Documenti, non è del tutto peregrino affermare che, pur all’interno di una matrice di condivisione dei valori comuni, possa esservi qualche divaricazione nella concreta estrinsecazione delle posizioni soggettive. Il punto di condivisione è rappresentato dai diritti umani, ma l’ideologia politica, sottesa a questa espressione, può esser oggetto di letture diversificate. La teoria dei diritti umani è il nucleo di base delle democrazie e, sotto certi aspetti, della “statualità” e, pertanto, la medesima teoria può assumere un significato diverso, all’interno della dialettica della CEDU e di altri documenti di provenienza internazionale. I diritti umani rappresentano una componente, che consente di delimitare l’ambito di azione del potere, ma questa delimitazione può estrinsecarsi in modi diversi, secondo che venga in considerazione l’Autorità statale e l’ordinamento internazionale, anche attraverso un processo di sintesi fra “locale” e “universale”. Peraltro, questa componente negativa rappresenta solo una lettura parziale del fenomeno, nel senso che una giusta considerazione del nucleo essenziale dei diritti umani può consentire di individuare anche una funzione di propulsione dei valori della democrazia. Anche sotto questo profilo, si assiste a una divaricazione, quantomeno potenziale, fra la modalità, attraverso cui è possibile percepire tale dimensione “in positivo” dei diritti umani e la realtà internazionale. E’ palese come l’espressione diritti umani ricomprenda sia le posizioni soggettive, maggiormente afferenti alla realtà economica, sia le posizioni soggettive aventi una componente maggiormente “personalista”. In una cornice di questo tipo, i diritti umani diventano una sorta di sostrato, attraverso cui prende corpo la coscienza collettiva e tale coscienza si atteggia diversamente, secondo che si assuma una prospettiva orientata alla statualità e alla territorialità dello Stato, o secondo che ci si orienti all’interno di una dimensione internazionale, qual è quella afferente all’esigenza di interpretare le disposizioni della CEDU. Ove la categoria dei diritti umani si orienti in ambito internazionale, va considerato che il modo di percepire tale entità giuridico-politica deve assumere una considerazione diversa, rispetto al modo come la nozione si atteggia in ambito nazionale, attraverso il superamento di una visione provinciale. La globalizzazione incorpora le società politiche in trasformazione, in un’ottica di superamento della categoria dello “Stato”. L’attuale tendenza all’universalità implica, forse, un “recupero” della dimensione del giuridico in senso stretto, rispetto  a ciò che è principalmente politico e storico-sociale. La realtà extrastatuale costituisce un laboratorio di rilievo per l’emersione di nuovi profili dell’essenza ontologica e della valorizzazione dei diritti umani.

La componente “globalizzante” non deve portare con sé una “massificazione” dell’individuo, in quanto già si è affermato che proprio la categoria dei diritti umani, sia quelli afferenti alla realtà economica, sia quelli, afferenti alla realtà esistenziale, non deve portare a una riflessione sull’individuo in termini astratti, in quanto è l’individuo concreto, che deve emergere. Forse, è proprio il timore di tale massificazione, che crea in certi casi dei dubbi critici, nei confronti della globalizzazione. Pertanto, nella riflessione sulla categoria dei diritti umani, è necessario passare da una visione tendenzialmente “astratta” della persona a una visione centrata sulla persona “in carne e ossa”. L’affermazione dello Stato di diritto tende a misurarsi con un individuo astratto, ma successivamente si è avvertita sempre più l’esigenza di orientare l’attenzione verso l’individuo concreto. Si ritiene che occorra tener adeguato conto di questi spunti di riflessione, al fine di ricostruire in modo adeguato la dialettica fra libertà economica e altri diritti di libertà non solo all’interno della CEDU, ma anche per quanto attiene ai rapporti fra CEDU e Costituzione italiana. Questo approccio alla fondamentale problematica implica delle ripercussioni di ordine generale, anche nell’individuazione dei rapporti fra CEDU e diritto civile. La ristrutturazione dei rapporti fra l’individuo e la collettività sembra debba costituire la base, anche ai fini di eventuali antinomie fra CEDU e diritto interno. In un contesto, nel quale, per certi profili, si assiste al ridimensionamento del ruolo dello Stato come entità efficiente, anche in rapporto alla circostanza che non sempre l’intervento dello Stato in economia implica un miglioramento dell’allocazione delle risorse, rispetto all’adozione di una politica di matrice liberista. Il c.d. “fallimento dello Stato” rappresenta un tassello, per comprendere meglio il processo “globalizzante”.

Nella CEDU appare esplicita solo una disciplina delle principali libertà “non economiche”, ma la protezione delle libertà economiche è desumibile dall’art. 33 CEDU, secondo cui “Nessuna delle disposizioni della presente Convenzione può essere interpretata in modo da limitare o pregiudicare i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali che possano essere riconosciuti in base alle leggi di ogni Parte contraente o in base a ogni altro accordo al quale essa partecipi”. La salvaguardia dei diritti dell’uomo già riconosciuti (questa è la rubrica, che preannuncia l’art. 33 della CEDU adesso citato) implica necessariamente l’esigenza di incorporare all’interno della CEDU stessa la protezione delle libertà economiche. Va poi rilevato che la CEDU va interpretata in coerenza con il Trattato di Lisbona e con la Carta dei Diritti in esso inserita, in cui manca una distinzione fra diritti sociali e libertà (ivi comprese quelle economiche) con la conseguenza che deve desumersi l’assenza di limiti tassativi, rispetto all’individuazione degli strumenti di protezione di tali diritti[4]. Emerge il tentativo di attribuire priorità a una protezione dei diritti fondamentali, attraverso una valorizzazione dell’aspetto positivo degli stessi, nel tentativo di delimitare in modo chiaro la disciplina delle regole di convivenza civile nel contesto globalizzato, autonomizzando tale protezione, rispetto a “filtri” ideologici.

Quali sono le conseguenze di questa impostazione in rapporto all’autonomia privata? Può ritenersi che alla medesima vada riconosciuta un ampio raggio d’azione, nell’ottica già delineata del tentativo di sintetizzare realtà normative differenti, tenendo conto delle peculiarità dei singoli ordinamenti. La categoria del contratto andrà “sprovincializzata” e la tutela risarcitoria dell’individuo andrà adeguatamente valorizzata, con la contestuale esigenza di evitare le duplicazioni del danno. Tali princìpi sono estensibili anche al settore “extracontrattuale”. Al riguardo, occorre tener presente che, in ambito internazionale tendenzialmente non esiste distinzione fra diritti soggettivi e interessi legittimi e anche di questo profilo occorrerà tenere adeguato conto.

IL DIRITTO DI PROPRIETA’ NELLA CEDU

Un approccio ermeneutico ai rapporti fra diritto civile e CEDU deve necessariamente considerare la disciplina del diritto di proprietà. La Cedu sembra patrimonializzare la natura del diritto di proprietà[5], nel senso che tende a identificare il diritto con il bene, sui cui insiste il medesimo diritto, piuttosto che con la gamma di facoltà, sottesa al diritto stesso. Sotto tale aspetto, sembra emergere uno “spostamento d’asse”, rispetto alla disciplina di diritto interno del diritto di proprietà, nel senso che il Legislatore internazionale è abbastanza chiaro nel non concentrare l’attenzione sul contenuto inerente alla sfera giuridica del titolare del diritto ed è come se fosse attuato un “rinvio” alla disciplina di diritto interno, riguardo a una specificazione dei contenuti del diritto. Emerge, pertanto, una concezione apparentemente materialistica della posizione soggettiva in esame, più focalizzata sull’oggetto, piuttosto che sul titolare della posizione in parola. Peraltro, la tipologia di formulazione si spiega in rapporto al tentativo di non attuare un’invasività in un settore, che, tradizionalmente, è di pertinenza dell’autorità statale. E’ vero che siamo in un’epoca etichettata come “globalizzazione” e che la categoria del “globale”, nelle intenzioni degli artefici di questo percorso planetario, deve prevalere sul “particolare”, ma occorre anche tener conto della circostanza che un’aggregazione delle varie comunità può aversi con profitto solo ove si riscontri il rispetto e il pieno riconoscimento della rilevanza del percorso e dello sviluppo dell’identità culturale di ciascuna civiltà, in quanto, ove si concepisse la globalizzazione come percorso omologante, la medesima sarebbe irrealizzabile.

L’approccio del Legislatore della Convenzione è difficoltoso, in quanto la disciplina del diritto in parola viene inserita all’interno del Protocollo Addizionale alla Convenzione In ogni caso, emerge un tentativo di effettuare un “salvataggio” dell’impostazione normativa del diritto di  proprietà, scelta dai Legislatori dei singoli Stati. L’inserimento nel Protocollo Addizionale e non direttamente nella Convenzione della disciplina del diritto di proprietà ellitticamente suggerisce all’interprete una certa prudenza, da parte del Legislatore Europeo in rapporto alla scelta dell’impostazione della disciplina di questo istituto. Forse, questo discende anche da una certa ritrosia da parte degli Stati, in rapporto all’adesione, nella maggior parte degli Stati direttamente interessati, di un modello capitalistico, che implica una forte assunzione del ruolo dello Stato come soggetto attivo della legislazione del diritto di proprietà, “motore” del capitalismo. Proprio questo fa comprendere la ragione, per la quale si è alla presenza di una disciplina quasi “mascherata” del diritto di proprietà, in quanto la medesima posizione soggettiva non viene espressamente menzionata nel testo dell’art. 1 del Protocollo Addizionale. Il senso della disposizione è esito di una matrice, esito del compromesso fra concezioni divergenti, secondo uno schema affine a quello dell’elaborazione delle disposizioni costituzionali di diritto interno, quando tentano di sintetizzare in una proposizione normativa non esaustiva delle concezioni ideologico-esistenziali anche diametralmente opposte.

Dato che il presente scritto si propone di sondare i rapporti fra diritto civile nella sua globalità e CEDU, può affermarsi che il criterio seguito dal Legislatore della CEDU, riguardo all’impostazione della disciplina del diritto di proprietà, sia estensibile alla disciplina dei diritti reali, diversi dalla proprietà, nel senso che l’affinità fra questo istituto e i diritti reali minori, “plasmati” avendo come modello e paradigma proprio il diritto di proprietà. Pertanto, la CEDU per questa tematica andrà interpretata nel senso che viene lascato agli Stati la possibilità di lasciare una propria “impronta digitale” alla disciplina dei singoli istituti, in modo da evitare il deleterio processo omologante, come sopra precisato. Ove la limitazione del suddetto processo fosse riservata solo al diritto di proprietà, il percorso di aggregazione descritto rimarrebbe monco.

Va, peraltro, tenuto conto anche dello sviluppo di un indirizzo, che potrebbe sembrare antitetico, sotto certi profili, con l’assetto adesso tracciato. Progressivamente, la Corte di Strasburgo si è proposta di attribuire sempre minor rilievo agli Stati nazionali nell’individuazione dell’esatta portata del diritto di proprietà, nel senso del tentativo di attuare un’inversione di tendenza, rispetto alla possibilità di rivendicazione, da parte delle compagini statali, in ordine all’esatta individuazione della portata dell’istituto. Si tratta di un esito ermeneutico, che costituisce la prosecuzione logica della tendenza alla “globalizzazione”, in cui si tenta di formulare un “discorso normativo unitario”, in rapporto a eventuali diversificazioni fra le concezioni, attinenti ai vari Stati, ma le tendenze alla conservazione dell’identità culturale dei vari Stati membri non possono essere messe da parte e vanno tenute in adeguato conto. In questo contesto, si innesta il concetto di “margine di apprezzamento”, elaborato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.

Tale concetto si riferisce alla possibilità che, sul piano della legislazione statale, siano introdotte delle deroghe, rispetto alla disciplina, che emerga dalla CEDU, in rapporto a determinati istituti. La base è che, ove uno Stato adotti una misura che possa apparire stridente con quanto emerge da un’adeguata interpretazione della normativa, contemplata nella CEDU, tale misura “derogatoria” debba essere adeguatamente ponderata e limitata. Si tratta, forse, dell’esplicazione di un principio di ragionevolezza, nel senso che occorre armonizzare l’esigenza di una sostanziale uniformità di disciplina degli Stati aderenti ed eventuali diversità, da rapportare alle concezioni, afferenti alla peculiarità dei singoli Stati membri. La necessità di delimitare adeguatamente i confini di tale “margine di apprezzamento” è strumentale non solo per percepire con esattezza la concezione del diritto di proprietà, immanente alla CEDU, ma anche per comprendere il rapporto fra CEDU e diritto civile tout court, con l’avvertenza che, specialmente in un’epoca “globalizzante”, il diritto civile non è totalmente “altro”, rispetto agli altri “rami” della scienza giuridica. La contrapposizione fra rapporti di omogeneità culturale e diversità fra ordinamenti civili degli Stati aderenti e firmatari si presenta come un’antitesi da armonizzare (si pensi alle differenti radici culturali dei Paesi di common law e di civil law).

L’art. 1 del Protocollo sul diritto di proprietà (2° c.) contiene un progetto di disciplina della possibile espropriazione del bene per pubblico interesse, mentre viene conferito alle leggi nazionali il potere di disciplina del diritto di proprietà, per fini di interesse generale. Si ritiene che il singolo Stato sia in grado di valutare al meglio l’impostazione del diritto di proprietà per fini, che trascendano la sfera giuridica dei singoli privati. Emerge una visione del diritto civile, non più appiattita sulla sfera giuridica che singoli soggetti dell’ordinamento, concepiti in chiave “atomistica”, e il contestuale tentativo di un allargamento degli orizzonti, per la realizzazione di finalità di più ampio respiro. Vi è una palese consonanza fra la funzione di “utilità sociale” del diritto di proprietà, riconosciuta dalla nostra Costituzione.

Emerge una consonanza di disciplina, tra Costituzione italiana (art. 42 Cost.) e CEDU quanto alla possibilità di prevedere un’espropriazione del bene, in rapporto alla funzione sociale della proprietà. La giurisprudenza costituzionale italiana, in un primo momento, ha aderito alla tesi che l’indennità per il diritto di proprietà non dovesse necessariamente coincidere con il valore venale del bene espropriato. La Corte costituzionale già con la sentenza n. 61-1957 ha sostenuto che il termine “indennizzo”, di cui all’art. 42 Cost., non vada interpretato in senso letterale, con la conseguenza che può adottarsi anche un ammontare dell’indennizzo inferiore al valore venale del bene oggetto di espropriazione. La Corte EDU ha interpretato l’art. 1 del Protocollo Addizionale, nel senso che la previsione dell’indennizzo dell’espropriazione deve corrispondere al valore venale del bene, con conseguente affermazione di un indirizzo antitetico, rispetto a quello, affermato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale italiana, che anche in tempi più recenti, rispetto alla sentenza degli anni ’50 sopra citata ha sostenuto che l’indennità di espropriazione deve costituire un serio ristoro per il titolare del diritto, anche se la regola dell’integrità della riparazione, secondo la Consulta, non ha rilevanza costituzionale (cfr. sentenze 5/1980, 223-1983, 148-1999). L’indirizzo della giurisprudenza della Corte Europea può far riflettere su un tentativo di attribuire rilievo alla rilevanza delle posizioni soggettive di diritto civile cristallizzate, come il diritto di proprietà, rispetto alla posizione “autoritativa” dello Stato, con la formulazione da parte della Corte Europea di una giurisprudenza, maggiormente all’avanguardia, rispetto a quanto è emerso dai contenuti delle pronunzie della Consulta, la quale ha talora inteso riferirsi all’adozione di un criterio storico-sistematico, come razionalizzazione a posteriori per giustificare l’idea che l’indennità di espropriazione dovesse e potesse essere di consistenza inferiore al valore venale del bene espropriato. La stessa Consulta ha invertito la propria tendenza nel 2007, assumendo un orientamento con il quale ha recepito la giurisprudenza della Corte Europea di Strasburgo, sostenendo che l’interpretazione, che questa effettui delle disposizioni della CEDU, vada letta come una “norma interposta” rispetto all’art. 117 Cost. Nonostante tale avvicinamento, permane una divaricazione fra la concezione propria della giurisprudenza della Corte di Strasburgo e quella della Consulta italiana. Più precisamente, la Corte costituzionale, con le sentenze n. 348 e 349 del 2007, anche in conseguenza delle sollecitazioni, provenienti dalla giurisprudenza della Corte Europea, la Consulta italiana, dichiarando illegittimi i criteri per la determinazione dell’indennità di esproprio dei suoli edificabili e del risarcimento per occupazione acquisitiva illegittima, stabiliti dall’articolo 5-bis del decreto legge 1I luglio 1992, n. 333, convertito in legge 8 agosto 1992, n. 359. Le pronunzie citate contengono un importante riferimento alla rilevanza nell’ordinamento interno delle norme della CEDU, attraverso il richiamo, contenuto nell’art. 117 Cost., in cui è esplicitato l’obbligo del rispetto degli obblighi internazionali. Questa premessa ha costituito l’antecedente logico, da cui è scaturito il nuovo orientamento della Corte costituzionale, nel senso che alla medesima è stata sottoposta dal Giudice a quo la questione se il criterio di calcolo, fondato sula media fra il valore venale del bene e il reddito dominicale rivalutato possa reputarsi compatibile proprio con l’art. 1 del primo Protocollo CEDU. Da questo primo assetto della questione, è derivato l’esame, da parte della Corte costituzionale dei contenuti della giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo, la quale ha un ruolo determinante nell’esatta individuazione dei contenuti delle disposizioni della CEDU e dei relativi Protocolli. Un consolidato orientamento della giurisprudenza della Corte Europea ha reputato non compatibile con l’art. 1 Prot. CEDU il preesistente orientamento della Consulta, in base al quale l’indennità di esproprio, pur dovendo costituire un serio ristoro, non deve essere rapportato al valore di mercato del bene. La Consulta ha, pertanto, riconosciuto la necessità di adoperare come parametro, per la determinazione dell’indennità di esproprio, il valore venale (o di mercato) del bene espropriato, ma sembra permanere una diversità, rispetto all’avviso dei Giudici di Strasburgo, nel senso che non è necessario che vi sia una coincidenza fra indennità e valore di mercato. Pertanto, occorre effettuare una valutazione economica non astratta, ma che tenga conto delle caratteristiche specifiche del bene, oggetto di espropriazione. Viene fatta salva la possibilità di introdurre regimi differenziati di determinazione dell’indennità in parola, a condizione che si rispetti un parametro di ragionevolezza, in relazione alla diversa gradazione e modulazione, in cui emerga in concreto il fine di utilità sociale, che giustifica il provvedimento ablatorio.

La Corte costituzionale ha tentato di consolidare l’”allineamento” con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo anche con la successiva sentenza 349-2007, con la quale la stessa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 bis, comma 7 bis del DI. 333-1992, il quale prevedeva, per l’occupazione acquisitiva, un risarcimento pari all’indennità di esproprio, senza la riduzione del 40%, e con un aumento del 10%. Pure in tale ipotesi, per il tramite dell’art. 117 Cost., nella parte in cui prevede l’esigenza di rispetto degli obblighi internazionali, si è affermata l’incompatibilità della disciplina sopra citata con la disciplina dell’art 1 Protocollo CEDU, a proposito del diritto di proprietà.



[1] Cfr. MAZZAMUTO, Il contratto di diritto europeo, 2012, Giappichelli , passim

[2]Cfr.  L’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea (post Lisbona), il quale prevede che : “L’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nei trattati. I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”.

[3]  Art. 8 CEDU ARTICOLO 8

Diritto al rispetto della vita privata e familiare

1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza.

2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla

pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.

ARTICOLO 14

Divieto di discriminazione

Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza,  il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione.

[4] Cfr. Vettori, “I princìpi comuni del diritto europeo dalla CEDU al Trattato di Lisbona”, passim, in  http://www.europeanrights.eu/public/commenti/VETTORI.pdf

[5] Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni.

Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.

Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende.

Corte di Giustizia 13 maggio 2014 (causa C 131/12)

Corte di Giustizia 13 maggio 2014 (causa C 131/12)

 

IL GESTORE DI UN MOTORE DI RICERCA DEVE ESSERE CONSIDERATO COME IL «RESPONSABILE» DEL TRATTAMENTO DEI DATI PERSONALI, AI SENSI DELL’ARTICOLO 2, LETTERA D), DELLA DIRETTIVA 95/46/CE.

 a cura dell’Avv. Federica Guglielmi

 

1) L’articolo 2, lettere b) e d), della direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa

alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, deve

essere interpretato nel senso che, da un lato, l’attività di un motore di ricerca consistente nel trovare informazioni pubblicate o inserite da terzi su Internet, nell’indicizzarle in modo automatico, nel memorizzarle temporaneamente e, infine, nel metterle a disposizione degli utenti di Internet secondo un determinato ordine di preferenza, deve essere qualificata come «trattamento di dati personali», ai sensi del citato articolo 2, lettera b), qualora tali informazioni contengano dati personali, e che, dall’altro lato, il gestore di detto motore di ricerca deve essere considerato come il «responsabile» del trattamento summenzionato, ai sensi dell’articolo 2, lettera d), di cui sopra.

2) L’articolo 4, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 95/46 deve essere interpretato nel senso che un trattamento di dati

personali viene effettuato nel contesto delle attività di uno stabilimento del responsabile di tale trattamento nel territorio di

uno Stato membro, ai sensi della disposizione suddetta, qualora il gestore di un motore di ricerca apra in uno Stato membro

una succursale o una filiale destinata alla promozione e alla vendita degli spazi pubblicitari proposti da tale motore di ricerca

e l’attività della quale si dirige agli abitanti di detto Stato membro.

3) Gli articoli 12, lettera b), e 14, primo comma, lettera a), della direttiva 95/46 devono essere interpretati nel senso che, al

fine di rispettare i diritti previsti da tali disposizioni, e sempre che le condizioni da queste fissate siano effettivamente

soddisfatte, il gestore di un motore di ricerca è obbligato a sopprimere, dall’elenco di risultati che appare a seguito di una

ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, dei link verso pagine web pubblicate da terzi e contenenti informazioni

relative a questa persona, anche nel caso in cui tale nome o tali informazioni non vengano previamente o simultaneamente

cancellati dalle pagine web di cui trattasi, e ciò eventualmente anche quando la loro pubblicazione su tali pagine web sia di per sé lecita.

4) Gli articoli 12, lettera b), e 14, primo comma, lettera a), della direttiva 95/46 devono essere interpretati nel senso che, nel

valutare i presupposti di applicazione di tali disposizioni, si deve verificare in particolare se l’interessato abbia diritto a che

l’informazione in questione riguardante la sua persona non venga più, allo stato attuale, collegata al suo nome da un elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal suo nome, senza per questo che la constatazione di un

diritto siffatto presupponga che l’inclusione dell’informazione in questione in tale elenco arrechi un pregiudizio a detto

interessato. Dato che l’interessato può, sulla scorta dei suoi diritti fondamentali derivanti dagli articoli 7 e 8 della Carta,

chiedere che l’informazione in questione non venga più messa a disposizione del grande pubblico in virtù della sua inclusione

in un siffatto elenco di risultati, i diritti fondamentali di cui sopra prevalgono, in linea di principio, non soltanto sull’interesse

economico del gestore del motore di ricerca, ma anche sull’interesse di tale pubblico ad accedere all’informazione suddetta in occasione di una ricerca concernente il nome di questa persona. Tuttavia, così non sarebbe qualora risultasse, per ragioni

particolari, come il ruolo ricoperto da tale persona nella vita pubblica, che l’ingerenza nei suoi diritti fondamentali è

giustificata dall’interesse preponderante del pubblico suddetto ad avere accesso, in virtù dell’inclusione summenzionata,

all’informazione di cui trattasi.

 

CAUSA SEJDOVIC c. ITALIA – (Ricorso n° 56581/00)

 

GRANDE CAMERA

 

CAUSA SEJDOVIC c. ITALIA

(Ricorso n° 56581/00)

SENTENZA

                                STRASBURGO

1 ° marzo 2006

Nella causa Sejdovic c. Italia,

La Corte europea dei Diritti dell’uomo, riunita in una Grande Camera composta da :

L. Wildhaber, presidente,

C.L. Rozakis,

J.-P. Costa,

Nicolas Bratza,

B. Zupancic,

L. Loucaides,

C. Bîrsan,

V. Butkevych,

V. Zagrebelsky, A. Mularoni,

S. Pavlovschi,

L. Garlicki,

E. Fura-Sandstrom, R. Jaeger,

E. Myjer,

S.E. Jebens,

D. Jocienè, giudici,

e da T.L. Early, cancelliere aggiunto della Grande Camera,

Dopo averne deliberato in camera di consiglio il 12 ottobre 2005 e 1’8 febbraio 2006, Emette la seguente sentenza, adottata in quest’ultima data:

PROCEDURA

 

  1. All’origine della causa vi è un ricorso (n° 56581/00) diretto contro la Repubblica italiana e di cui un cittadino di quello che era all’epoca la Repubblica federale di Yugoslavia, sig. Ismet Sejdovic (oil ricorrente»), ha adito la Corte il 22 marzo 2000 ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali («la Convenzione»).
  2. Il ricorrente è rappresentato dall’avvocato B. Bartholdy, del foro di Westerstede (Germania). Il governo italiano («il Governo») è rappresentato dal suo agente, I.M. Braguglia, e dal suo coagente, F. Crisafulli.
  3. Il ricorrente sosteneva in particolare di essere stato condannato in contumacia senza avere avuto la possibilità di presentare la sua difesa davanti alle autorità giudiziarie italiane, a dispetto dell’articolo 6 della Convenzione.
  4. Il ricorso è stato assegnato alla prima sezione della Corte (articolo 52 § 1 del regolamento). L’l1 settembre 2003, è stato dichiarato parzialmente ricevibile da una camera della citata sezione, composta da C.L. Rozakis, presidente, P. Lorenzen, G. Bonello, N. Vajié, S. Botoucharova, V. Zagrebelsky, E. Steiner, giudici, nonché da S. Nielsen, che all’epoca era cancelliere aggiunto di sezione.
  5. Il 10 novembre 2004, una camera della stessa sezione, composta da C.L. Rozakis, presidente, P. Lorenzen, G. Bonello, A. Kovler, V. Zagrebelsky, E. Steiner, K. Hajiyev, giudici, e da S. Nielsen, cancelliere di sezione, ha emesso una sentenza nella quale ha concluso all’unanimità che vi era stata violazione dell’articolo 6 della Convenzione. Essa ha anche che affermato che la constatazione di violazione forniva di per sé un’equa soddisfazione sufficiente per il danno morale subito dal ricorrente, che la violazione constatata derivava da un problema strutturale legato al malfunzionamento della legislazione e della prassi interne e che lo Stato convenuto doveva garantire, con adeguate misure, l’attuazione del diritto delle persone giudicate in contumacia di ottenere successivamente che un’autorità giudiziaria, dopo averle ascoltate nel rispetto di quanto richiesto dall’articolo 6 della Convenzione, decidesse di nuovo sul merito dell’accusa diretta di loro.
  6. Il 9 febbraio 2005, il Governo ha domandato il rinvio della causa dinanzi alla Grande Camera ai sensi degli articoli 43 della Convenzione e 73 del Regolamento. II 30 marzo 2005 un collegio della Grande Camera ha accolto questa domanda.
  7. La composizione della Grande Camera è stata fissata conformemente agli articoli 27 §§ 2 e 3 della Convenzione e 24 del regolamento.
  8. Il Governo ha depositato una memoria ma non il ricorrente, il quale ha fatto riferimento alle osservazioni che aveva presentato nella procedura innanzi alla camera. Sono state anche ricevute alcune osservazioni dal governo della Repubblica slovacca, che il presidente aveva autorizzato ad intervenire nella procedura scritta (articoli 36 § 2 della Convenzione e 44 § 2 del regolamento).

9. Il 12 ottobre 2005, si è svolta un’udienza pubblica nel Palazzo dei Diritti dell’Uomo, a Strasburgo (articolo 59 § 3 del regolamento).

 

Sono comparsi :

–     per il Governo F. Crisafulli, magistrato, Ministero degli Affari esteri, coagente;

–       per il ricorrente B. Bartholdy, avvocato, consulente, U. Wiener, avvocato, consulente.

La Corte ha ascoltato le loro dichiarazioni, nonché le risposte da loro fornite alle domande poste dai giudici.

IN FATTO

 

I. LE CIRCOSTANZE DELLA FATTISPECIE

 

  1. Il ricorrente è nato nel 1972 e risiede ad Amburgo (Germania).
  2. L’8 settembre 1992, M.S. fu ferito mortalmente da un colpo di arma da fuoco nel campo nomadi di Roma. Secondo le prime testimonianze raccolte dalla polizia, il ricorrente era l’autore materiale dell’omicidio.
  3. Il 15 ottobre 1992, il giudice delle indagini preliminari di Roma dispose l’applicazione della custodia cautelare in carcere del ricorrente. Tuttavia, questa ordinanza non poté essere eseguita perché il ricorrente era diventato irreperibile. In seguito a questo fatto, le autorità italiane ritennero che si fosse volontariamente sottratto alla giustizia ed il 14 novembre 1992 lo dichiararono latitante. Il ricorrente fu identificato come Cloce (o Kroce) Sejdovic (ou Sajdovic), verosimilmente nato a Titograd il 5 agosto 1972, figlio de Youssouf Sejdovic (ou Sajdovic) e fratello di Zaim (o Zain) Sejdovic (o Sajdovic).
  4. Non essendo riuscite a notificare al ricorrente l’invito a nominare un difensore di fiducia, le autorità italiane nominarono un avvocato d’ufficio che venne informato del rinvio a giudizio del suo cliente e di altre quattro persone nonché della data del dibattimento davanti alla corte d’assise di Roma.
  5. L’avvocato prima menzionato partecipò al dibattimento. Il ricorrente era assente.
  6. Con sentenza del 2 luglio 1996, il cui testo fu depositato in cancelleria il 30 settembre 1996, la corte d’assise di Roma condannò il ricorrente per omicidio e porto illegale di armi ad una pena di ventuno anni e otto mesi di reclusione. Un coimputato del ricorrente fu condannato per gli stessi crimini alla pena di quindici anni ed otto mesi di reclusione, mentre gli altri tre imputati furono prosciolti.
  7. L’avvocato d’ufficio del ricorrente fu informato del deposito in cancelleria della sentenza della corte d’assise. Egli non propose appello. Di conseguenza, la condanna del ricorrente divenne definitiva il 22 gennaio 1997.
  8. Il 22 settembre 1999, il ricorrente fu arrestato ad Amburgo dalla polizia tedesca in esecuzione di un mandato di arresto emesso dalla procura della Repubblica di Roma. Il 30 settembre 1999, il Ministro della Giustizia italiano domandò l’estradizione del ricorrente. Il Ministro precisò che una volta estradato in Italia, l’interessato avrebbe potuto domandare, ai sensi dell’articolo 175 del codice di procedura penale ((dl CPP») la riapertura del termine per proporre appello avverso la sentenza della corte d’assise di Roma.
  9. Su domanda delle autorità tedesche, la procura di Roma precisò che dal fascicolo non risultava che il ricorrente avesse avuto ufficialmente conoscenza delle accuse elevate contro di lui. La procura non era in condizione di dire se il ricorrente avesse contattato il suo avvocato d’ufficio. Ad ogni modo, quest’ultimo aveva assistito al dibattimento e si era attivamente impegnato per la difesa del suo cliente domandando la convocazione di numerosi testimoni. Peraltro, la colpevolezza del ricorrente — che era stato identificato da numerosi testimoni come l’assassino di M.S. — era stata chiaramente stabilita dalla corte d’assise di Roma. Secondo la Procura, il ricorrente si era dato alla fuga subito dopo la morte di M.S. precisamente per evitare di essere arrestato e giudicato. La procura precisò infine che <da persona che deve essere estradata può domandare di proporre appello contro la sentenza. Tuttavia, affinché un tribunale accetti di riesaminare la causa, è indispensabile che venga stabilita l’erroneità della dichiarazione secondo la quale l’accusato era «latitante». Riassumendo, un nuovo processo, anche sotto forma di un processo d’appello (dove si possono presentare nuove prove), non è automatico».
  10. Il 6 dicembre 1999, le autorità tedesche rigettarono la domanda di estradizione del governo italiano in quanto il diritto interno del Paese richiedente non garantiva al ricorrente, con un sufficiente grado di certezza, la possibilità di ottenere la riapertura del suo processo.
  11. Nel frattempo, il 22 novembre 1999, il ricorrente era stato rimesso in libertà. Egli non ha mai sollevato in Italia un incidente d’esecuzione o introdotto una domanda per la restituzione nel termine (vedere qui di seguito «il diritto e la prassi interni pertinenti»).

II. IL DIRITTO E LA PRASSI INTERNI PERTINENTI

 

  1. La validità di una sentenza di condanna può essere contestata sollevando un incidente di esecuzione, come previsto dall’articolo 670 § 1 del CPP, il quale, nelle sue parti pertinenti dispone:

a Quando il giudice dell’esecuzione accerta che il provvedimento manca o non è divenuto esecutivo, valutata anche nel merito l’osservanza delle garanzie previste nel caso di irreperibilità del condannato, (…) sospende l’esecuzione, disponendo, se occorre, la liberazione dell’interessato e la rinnovazione della notificazione non validamente eseguita. In tal caso decorre nuovamente il termine per l’impugnazione. »

  1. L’articolo 175 §§ 2 e 3 del CPP prevede la possibilità di presentare una domanda per la restituzione nel termine. Nella sua formulazione in vigore all’epoca dell’arresto del ricorrente, le parti pertinenti di questa norma recitavano:

a Se è stata pronunciata sentenza contumaciale (…), può essere chiesta la restituzione nel termine per proporre impugnazione (…) dall’imputato che provi di non aver avuto effettiva conoscenza del provvedimento (…) sempre che l’impugnazione non sia stata proposta dal difensore e il fatto non sia dovuto a sua colpa ovvero, quando la sentenza contumaciale è stata notificata (…) al difensore (…), l’imputato non si sia sottratto volontariamente alla conoscenza degli atti del procedimento.

La richiesta per la restituzione nel termine è presentata, a pena di decadenza, entro dieci giorni da quello (…) in cui l’imputato ha avuto effettiva conoscenza dell’atto.»

 

 

  1. Chiamata ad interpretare questa norma, la Corte di cassazione ha dichiarato che il rigetto di una domanda di restituzione nel termine non può essere giustificata con la semplice negligenza o con una mancanza di interesse da parte dell’accusato, ma occorre al contrario un «comportamento intenzionale per sottrarsi alla conoscenza degli atti» (sentenza della prima sezione del 6 marzo 2000, n° 1671, nella causa Colliri ; vedere anche la sentenza della Corte di cassazione n° 5808 del 1999). Più precisamente, se il provvedimento è stato notificato personalmente all’imputato, quest’ultimo deve provare che ignorava l’atto senza che vi sia colpa da parte sua; al contrario, qualora il provvedimento sia stato notificato all’avvocato del contumace, spetta al giudice verificare se l’interessato si sia sottratto volontariamente alla conoscenza degli atti (sentenza della seconda sezione del 29 gennaio 2003, n° 18107, nella causa Bylyshi, dove la Corte di cassazione ha annullato un’ordinanza nella quale la corte d’appello di Genova aveva affermato che una negligenza poteva essere spiegata unicamente dalla volontà di non ricevere alcuna comunicazione, trattando così come intenzionale un comportamento colpevole senza indicare elementi a sostegno della sua tesi).
  2. 24.    Nella sua sentenza n° 48738 del 25 novembre 2004 (causa Soldati), la Corte di cassazione (prima sezione) ha precisato che la restituzione nel termine può essere concessa a due condizioni: che l’imputato non abbia avuto conoscenza del procedimento e che non si sia sottratto volontariamente alla conoscenza degli atti. La prima condizione deve essere provata dal condannato, mentre la prova della seconda è a carico del ((rappresentate della procura o del giudice ». Pertanto, la mancanza di prova per quanto riguarda questa seconda condizione può solo portare beneficio all’imputato. La Corte di cassazione ha anche affermato che prima di dichiarare «latitante » un imputato, le autorità devono non soltanto cercarlo in maniera adeguata alle circostanze della fattispecie, ma devono anche stabilire che si è sottratto intenzionalmente all’esecuzione di un ordine del giudice, quale è una misura privativa della libertà (sentenza della prima sezione del 23 febbraio 2005, n° 6987, nella causa Flordelis e Pagnanelli).
  3. Il 22 aprile 2005, il Parlamento ha approvato la legge n° 60 del 2005, che ha convertito in legge il decreto-legge n° 17 del 21 febbraio 2005. La leggeri 60 del 2005 è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n° 94 del 23 aprile 2005. Essa è entrata in vigore il giorno successivo.
  4. La legge n° 60 del 2005 ha modificato l’articolo 175 del CPP. Il nuovo paragrafo 2 di questa norma è così formulato:

« Se è stata pronunciata sentenza contumaciale (…), l’imputato è restituito, a sua richiesta, nel termine per propone impugnazione od opposizione, salvo che lo stesso abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento e abbia volontariamente rinunciato a comparire ovvero a proporre impugnazione od opposizione. A tale fine l’autorità giudiziaria compie ogni necessaria verifica. »

 

 

  1. La leggeri 60 del 2005 ha inoltre introdotto all’articolo 175 del CPP un paragrafo 2 bis, così formulato:

« La richiesta indicata al comma 2 è presentata, a pena di decadenza, nel termine di trenta giorni da quello in cui l’imputato ha avuto effettiva conoscenza del provvedimento. In caso di estradizione dall’estero, il termine per la presentazione della richiesta decorre dalla consegna del condannato [alle autorità italiane] (…). »

III. RACCOMANDAZIONE (2000)2 DEL COMITATO DEI MINISTRI

  1. Nella sua raccomandazione R(2000)2 « sul riesame o la riapertura di alcune cause a livello nazionale a seguito di sentenze della Corte europea dei Diritti dell’Uomo», il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha incoraggiato «le Parti contraenti ad esaminare i rispettivi ordinamenti giuridici nazionali al fine d’assicurarsi che esistano possibilità appropriate di riesaminare un caso, ivi compresa la riapertura del procedimento, nei casi in cui la Corte abbia accertato una violazione della Convenzione, in particolare quando: (i) la parte lesa continua a subire delle conseguenze negative molto gravi a causa della decisione nazionale, conseguenze che non possono essere riparate dall’equo indennizzo e che possono essere modificate solo attraverso il riesame o la riapertura, e (ii) dalla sentenza della Corte risulta che a) la decisione nazionale impugnata è contraria alla Convenzione nel merito, o b) la violazione riscontrata dipende da errori o mancanze procedurali di una gravità tale da lasciare seri dubbi sull’esito del procedimento nazionale in questione.

IN DIRITTO

I. SULL’ECCEZIONE PRELIMINARE DEL GOVERNO

  1. Il Governo eccepisce innanzitutto il mancato esaurimento delle vie di ricorso intenre, in quanto il ricorrente non ha fatto uso dei ricorsi previsti dagli articoli 175 e 670 del CPP.

A. Decisione della camera

  1. Nella sua decisione sulla ricevibilità dell’11 settembre 2003, la camera ha rigettato l’eccezione di mancato esaurimento del ricorso previsto dall’articolo 175 del CPP formulata dal Governo in quanto, viste le particolari circostanze della causa, una domanda di restituzione nel termine avrebbe avuto poche possibilità di essere accolta. Peraltro, l’uso di questo ricorso da parte del ricorrente incontrava ostacoli oggettivi.

B. Argomenti delle parti

1. Il Governo

  1. Il Governo osserva che nel diritto italiano, una persona condannata in absentia, ha a disposizione due vie di ricorso per far correggere questa situazione. In primo luogo essa può sollevare, ai sensi dell’articolo 670 del CPP, un «incidente di esecuzione » per contestare l’esistenza o la validità del provvedimento. Questo ricorso non è sottoposto ad alcun termine, esso tuttavia presuppone una irregolarità procedurale tale da poter minare la validità del provvedimento. Fra queste irregolarità, un posto particolare è occupato dalla violazione delle norme relative alle notificazioni e, più precisamente, dal mancato rispetto delle garanzie concesse agli imputati dichiarati irreperibili. Se l’incidente di esecuzione è dichiarato ammissibile, il giudice deve sospendere l’esecuzione della pena; se è accolto, viene riaperto il termine per impugnare il provvedimento. Il ricorrente avrebbe potuto avvalersi di questo ricorso se avesse provato che la polizia era stata negligente nelle sue ricerche o che non erano state rispettate le garanzie applicabili agli imputati irreperibili .
  2. Il Governo nota per giunta che nel caso in cui l’incidente di esecuzione venga rigettato, il giudice deve esaminare la domanda di restituzione nel termine che il condannato in contumacia ha facoltà di presentare, separatamente o congiuntamente. Se questa domanda viene accolta, il termine per l’appello è riaperto ed il contumace ha la possibilità di presentare – personalmente o tramite il suo avvocato – gli elementi utili alla sua difesa dinanzi all’autorità giudiziaria competente a giudicare qualsiasi questione di fatto e di diritto. A differenza dell’incidente di esecuzione, la domanda di restituzione nel termine non presuppone alcuna irregolarità formale o materiale nella procedura, e in particolare nelle ricerche e nelle notifiche.
  3. II Governo ritiene che il ricorso previsto dall’articolo 175 del CPP, così com’era in vigore all’epoca dei fatti, era efficace ed accessibile in quanto si trattava di un ricorso previsto in maniera specifica per il caso in cui un imputato sosteneva di non aver avuto conoscenza della sua condanna. E’ vero che la domanda di restituzione nel termine doveva essere presentata entro dieci giorni. Tuttavia, questo termine, che non è proprio soltanto della legislazione italiana, era sufficiente a permettere ai giustiziabili di esercitare il loro diritto alla difesa, in quanto iniziava a decorrere dal momento in cui l’interessato aveva avuto una «effettiva conoscenza dell’atto» (sentenza della Corte di cassazione del 3 luglio 1990 Rizzo). Inoltre, esso non riguardava la presentazione dell’atto di appello stesso, ma semplicemente l’introduzione della domanda di restituzione nel termine, molto meno complessa.
  4. Anche se il fatto di non essere un cittadino italiano, così come i problemi linguistici e culturali, possono rendere più difficile il compimento di un atto procedurale entro il termine prescritto, non si può per questo esigere che le legislazioni nazionali rendano flessibili tutti i loro termini al fine di adattarli alla varietà infinita delle situazioni concrete dei giustiziabili.
    1. Peraltro il Governo ricorda che, secondo la giurisprudenza della Corte, non è possibile presumere che l’accusato abbia voluto sottrarsi alla giustizia in presenza di evidenti manchevolezze nelle ricerche condotte per ritrovarlo. Inoltre, l’accusato deve avere la possibilità di confutare qualsiasi presunzione di questo tipo senza eccessivi ostacoli e senza dover sopportare un onere della prova esorbitante. Ora, il sistema previsto dall’articolo 175 del CPP rispondeva a queste esigenze.
    2. Emerge da un’analisi grammaticale del paragrafo 2 di questa norma (come era in vigore prima della riforma del 2005), confermata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione prodotta dal Governo innanzi alla Corte (precedenti paragrafi 23 e 24), che la sola prova che doveva essere fornita da colui che presentava domanda di restituzione nel termine era quella di non aver avuto una effettiva conoscenza del provvedimento di condanna. Si trattava di una prova molto facile da fornire in quanto, nella maggior parte di casi, essa derivava dalla modalità stessa con la quale erano state eseguite le notificazioni. Al richiedente era sufficiente presentare – senza essere obbligato a provarle – le ragioni che gli avevano impedito di essere informato della sentenza in tempo utile per propone appello. La sua eventuale conoscenza degli altri atti procedurali, così come il fatto che queste ragioni potessero derivare da una mancanza di diligenza da parte sua, non implicavano il rigetto della domanda. In effetti, la riapertura del termine per l’appello poteva essere concessa anche in caso di ignoranza colpevole della sentenza. L’ignoranza colpevole impediva la restituzione nel termine soltanto nell’ipotesi – non pertinente nella presente fattispecie – in cui l’avvocato del condannato avesse presentato appello.
    3. Di fronte a quanto sostenuto dal condannato, spetta alla procura della Repubblica fornire (e ai giudici valutare) la prova che il ricorrente fosse latitante e che quindi si era sottratto consapevolmente e volontariamente alla notificazione degli atti. In altri termini, se voleva ottenere il rigetto della domanda di restituzione nel termine, la procura doveva dimostrare che, se la sentenza era stata notificata all’avvocato dell’imputato, l’ignoranza di quest’ultimo non era semplicemente dovuta a negligenza, ma era volontaria. Per provare il dolo dell’accusato, la procura non poteva basarsi su semplici presunzioni.

2.        Il ricorrente

  1. Il ricorrente si oppone alla tesi del Governo. Egli sostiene che non aveva nessuna possibilità di ottenere la riapertura della sua causa e che non è stato informato dell’esistenza di un ricorso interno. Peraltro, egli ignorava di essere considerato

latitante» e che a suo carico vi fosse un procedimento penale pendente.

  1. Il ricorrente osserva che non ha mai avuto conoscenza della sentenza emessa dalla corte d’assise di Roma. In effetti, questa sentenza non gli è mai stata notificata, visto che al momento del suo arresto in Germania, nei suoi confronti è stato emesso soltanto un mandato di arresto internazionale che indicava che era stato condannato ad una pena di ventuno anni e otto mesi di reclusione. Del resto, sarebbe impossibile per lui provare che non era a conoscenza dei fatti e del procedimento diretto contro di lui.

C. Valutazione della Corte

  1. La Corte osserva che l’eccezione di mancato esaurimento formulata dal Governo comporta due aspetti. Questa eccezione si fonda sul fatto che il ricorrente ha omesso di usare i ricorsi previsti rispettivamente dagli articoli 670 e 175 del CPP.
    1. Per quanto il Governo invochi la prima di queste nonne, la Corte ricorda che ai sensi dell’articolo 55 del suo regolamento, se la Parte contraente convenuta intende sollevare una eccezione di irricevibilità, essa deve farlo nelle osservazioni scritte o orali sulla ricevibilità del ricorso da lei presentate (K. e T. c. Finlandia [GC], n° 25702/94, § 145, CEDH 2001-VII, e N C. c. Italia [GC], ri 24952/94, § 44, CEDH 2002-X). Ora, nelle sue osservazioni scritte sulla ricevibilità, il Governo non ha sostenuto che il ricorrente avrebbe potuto avvalersi del ricorso previsto dall’articolo 670 del CPP. Peraltro, la Corte non può individuare nessuna circostanza eccezionale che possa esonerare il Governo dall’obbligo di sollevare la sua eccezione preliminare prima dell’adozione della decisione della camera sulla ricevibilità del ricorso dell’11 settembre 2003

(Prokopovich c. Russia, ri 58255/00, § 29, 18 novembre 2004).

  1. Di conseguenza, a questo stadio della procedura, è precluso al Governo formulare una eccezione preliminare fondata sul mancato esaurimento del ricorso interno previsto dall’articolo 670 del CPP (vedere, mutatis mutandis, Bracci c. Italia, n° 36822/02, §§ 35-37, 13 ottobre 2005). Ne consegue che, per quanto essa si fondi sull’omissione di sollevare un incidente di esecuzione, l’eccezione preliminare del Governo deve essere rigettata.
  2. Quanto al ricorso previsto dall’articolo 175 del CPP, la Corte ricorda che la regola dell’esaurimento delle vie di ricorso interne tende ad offrire agli Stati contraenti l’occasione di prevenire o di riparare le violazioni sostenute contro di loro prima che queste allegazioni le vengano sottoposte (vedere, fra molte altre, Selmouni c. Francia [GC], n° 25803/94, § 74, CEDH 1999-V, e Remli c. Francia, 23 aprile 1996, Recueil des arréts et décisions 1996-II, p. 571, § 33). Questa regola si fonda sull’ipotesi, oggetto dell’articolo 13 della Convenzione – e con il quale essa presenta strette affinità -, che l’ordinamento interno offra un ricorso effettivo per la violazione allegata (Kudla c. Polonia [GC], n° 30210/96, § 152, CEDH 2000-XI). In questo modo, essa costituisce un aspetto importante del principio secondo il quale il meccanismo di salvaguardia instaurato dalla Convenzione riveste un carattere sussidiario rispetto ai sistemi nazionali di garanzia dei diritti dell’uomo (Akdivar e altri c. Turchia, sentenza del 16 settembre 1996, Recueil 1996-IV, p. 1210, § 65).
    1. Nell’ambito del dispositivo di protezione dei diritti dell’uomo, la regola dell’esaurimento delle vie di ricorso interne deve essere applicata con una certa flessibilità e senza eccessivo formalismo. AI tempo stesso essa obbliga, per principio, a sollevare davanti alle giurisdizioni nazionali competenti, almeno in sostanza, nelle forme e nei termini stabiliti dal diritto interno, le contestazioni che si intendono poi formulare a livello internazionale (vedere, fra molte altre, Azinas c. Cipro [GC], n° 56679/00, § 38, CEDH 2004-III, e Fressoz e Roire c. Francia [GC], n° 29183/95, § 37, CEDH 1999-I).
    2. Tuttavia, l’obbligo derivante dall’articolo 35 si limita a quello di fare un uso normale dei ricorsi verosimilmente efficaci, sufficienti e accessibili (Soffi e altri c. Italia (dec.), n° 37235/97, CEDH 2003-VIII). In particolare, la Convenzione prescrive solo l’esaurimento dei ricorsi relativi alle violazioni incriminate, che siano al tempo stesso disponibili e adeguati. Essi devono esistere con un sufficiente grado di certezza non soltanto in teoria ma anche in pratica, senza di ciò mancano loro l’effettività e l’accessibilità richieste (Dalia c. Francia, sentenza del 19 febbraio 1998, Recueil 1998-I, pp. 87-88, § 38). Inoltre, secondo i «principi di diritto intemazionale generalmente riconosciuti», alcune circostanze particolari possono dispensare il ricorrente dall’obbligo di esaurire le vie di ricorso interne che gli si offrono (Ahoy c. Turchia, sentenza del 18 dicembre 1996, Recueil 1996-VI, p. 2276, § 52). Tuttavia, il semplice fatto di nutrire dei dubbi circa le prospettive di successo di un dato ricorso che non è di tutta evidenza votato all’insuccesso non costituisce una valida ragione per giustificare la mancata utilizzazione dei ricorsi interni (Sardinas Albo c. Italia (dec.), n° 56271/00, CEDH 2004-I ; Brusco c. Italia (dec.), n°69789/01, CEDH 2001-IX).
      1. Infine, l’articolo 35 § 1 della Convenzione prevede una ripartizione dell’onere della prova. Spetta al Governo che eccepisce il mancato esaurimento convincere la Corte che il ricorso era effettivo e disponibile sia in teoria che in pratica all’epoca dei fatti, ossia che era accessibile, che poteva offrire al ricorrente una riparazione alle sue doglianze e presentava ragionevoli prospettive di successo (Akdivar e altri, prima citato, p. 1211, § 68).
      2. Nella fattispecie, la Corte osserva che, se una domanda per la restituzione nel termine introdotta ai sensi dell’articolo 175 del CPP è accolta, il termine viene riaperto, cosa che conferisce al condannato in contumacia in primo grado la possibilità di sostenere i suoi mezzi di appello alla luce della motivazione della sentenza emessa a suo carico e di presentare, nel processo d’appello, gli elementi di fatto e di diritto che ritiene necessari per la sua difesa. Tuttavia, nelle circostanze particolari della causa, dove la sentenza pronunciata in contumacia era stata notificata all’avvocato d’ufficio, la domanda in questione poteva essere presa in considerazione solo a due condizioni: che il condannato provasse che non aveva avuto una effettiva conoscenza del provvedimento e che non si era rifiutato volontariamente di prendere conoscenza degli atti della procedura.
      3. Se la prima di queste condizioni avrebbe potuto essere provata dal ricorrente semplicemente in base al fatto che la sentenza di condanna non gli è stata notificata personalmente prima della data in cui questa è diventata definitiva, non è così per la seconda. In effetti, il ricorrente era diventato irreperibile subito dopo l’assassinio di M.S. commesso in presenza di testimoni che l’accusavano, fatto che avrebbe potuto indurre le autorità giudiziarie italiane a ritenere che si fosse sottratto volontariamente alla giustizia.
      4. Dinanzi alla Corte, il Governo si è sforzato di dimostrare, sulla base di un’analisi grammaticale del testo dell’articolo 175 § 2 del CPP così come era in vigore all’epoca dell’arresto del ricorrente, che la prova della seconda condizione non era a carico del condannato. Secondo il Governo, al contrario, è la procura che doveva fornire, eventualmente, degli elementi che potevano indurre a pensare che l’accusato si fosse consapevolmente rifiutato di prendere conoscenza delle accuse e della sentenza. Tuttavia, questa interpretazione sembra smentita dalla nota della procura della Repubblica di Roma, dove veniva precisato che «affinché un tribunale accetti di riesaminare la causa, è indispensabile che sia certo dell’erroneità della dichiarazione secondo la quale l’imputato era latitante » (precedente paragrafo 18).
      5. E’ vero che davanti alla Grande Camera il Governo ha prodotto una giurisprudenza interna che conferma la sua interpretazione. Tuttavia, è opportuno notare che solo la sentenza della prima sezione della Corte di cassazione nella causa Soldati precisa in maniera esplicita la ripartizione dell’onere della prova in una situazione simile a quella del ricorrente. Ora, questa sentenza, che non cita nessun precedente su questo punto, è stata emessa solo il 25 novembre 2004, ossia più di cinque anni dopo l’arresto del ricorrente in Germania (precedenti paragrafi 17 e 24). Potrebbero così sorgere dei

        57. Il ricorrente si lamenta     per essere stato condannato in contumacia senza avere

        dubbi circa la norma che sarebbe stata applicata nel momento in cui si riteneva che il ricorrente facesse uso del ricorso previsto dall’articolo 175 del CPP.

 

  1. La Corte ritiene che l’incertezza sulla ripartizione dell’onere della prova per quanto riguarda la seconda condizione è un elemento da prendere in considerazione per valutare l’efficacia del ricorso invocato dal Governo. Nella presente causa, la Corte non è convinta che, per l’incertezza sulla ripartizione dell’onere della prova prima menzionata, il ricorrente non avrebbe incontrato serie difficoltà a fornire, su richiesta del giudice o di fronte alle contestazioni della procura, delle spiegazioni convincenti circa le ragioni che l’avevano spinto, poco tempo dopo l’assassinio di M.S., a lasciare il suo domicilio senza comunicare indirizzi e a recarsi in Germania.
  2. Ne consegue che, nelle particolari circostanze della fattispecie, una domanda di restituzione nel termine avrebbe potuto avere poche possibilità di riuscita.
  3. La Corte ritiene opportuno esaminare anche se la via di ricorso controversa era, in pratica, accessibile per il ricorrente. A tal proposito, essa nota che quest’ultimo è stato arrestato in Germania il 22 settembre 1999, ossia poco più di sette anni dopo l’assassinio di M.S. (precedenti paragrafi 11 e 17). Essa ritiene ragionevole credere che, durante la sua detenzione a fini estradizionali, il ricorrente sia stato informato delle ragioni della sua privazione della libertà e soprattutto dell’esistenza di una condanna emessa a suo carico in Italia. Peraltro, il 22 marzo 2000, sei mesi dopo il suo arresto, il ricorrente ha introdotto, tramite il suo avvocato, un ricorso a Strasburgo con il quale lamenta di essere stato condannato in contumacia. Il suo legale ha prodotto innanzi alla Corte alcuni estratti della sentenza della Corte d’assise di Roma del 2 luglio 1996.
  4. Ne consegue che si sarebbe potuto ritenere che, poco dopo il suo arresto in Germania, il ricorrente avesse <mna conoscenza effettiva della sentenza», e che a partire da questo momento disponesse, ai sensi del terzo paragrafo dell’articolo 175 del CPP, di dieci giorni soltanto per introdurre la sua domanda di restituzione nel termine. Niente nel fascicolo lascia pensare che fosse stato informato della possibilità di riaprire il termine per impugnare la sua condanna, che era ufficialmente definitiva, e del breve termine per tentare un ricorso su questo punto. Inoltre, la Corte non può trascurare le difficoltà che una persona detenuta in un paese straniero avrebbe verosimilmente incontrato per mettersi rapidamente in contatto con un avvocato esperto nel diritto italiano al fine di informarsi sulle pratiche giuridiche da compiere per ottenere la riapertura del suo processo e allo stesso tempo fornire al suo legale elementi di fatto precisi e istruzioni dettagliate.
  5. In definitiva, la Corte ritiene che nel presente caso il ricorso indicato dal Governo era votato all’insuccesso e che il suo utilizzo da parte del ricorrente trovava ostacoli oggettivi. Essa conclude quindi nell’esistenza di circostanze particolari tali da dispensare il ricorrente dall’obbligo di esaurire il ricorso previsto dall’articolo 175 § 2 del CPP.
  6. Ne consegue che il secondo aspetto dell’eccezione preliminare del Governo orientato sull’omissione di introdurre una domanda di restituzione nel termine, deve essere così rigettato.

II. SULLA PRESUNTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 6 DELLA CONVENZIONE

57. Il ricorrente si lamenta per essere stato condannato in contumacia senza avere avuto la possibilità di presentare la propria difesa dinanzi alle giurisdizioni italiane. Egli invoca l’articolo 6 della Convenzione che, nelle sue parti pertinenti, recita :

« 1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, (…), da un tribunale (…)

il quale sia chiamato a pronunciarsi (…) sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. (…)

  1. Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata.
    1. In particolare, ogni accusato ha diritto di:

a)    essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico ;

b)   disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa ;

c)    difendersi personalmente o avere l’assistenza di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi

per retribuire un difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d’ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia ;

d)   esaminare o far esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico;

e)    farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata in udienza. »

A. Sentenza della camera

 

58. La camera ha concluso che vi è stata violazione dell’articolo 6 della Convenzione. Essa ha ritenuto che il ricorrente, che non era mai stato ufficialmente informato dell’azione penale avviata nei suoi confronti, non poteva essere considerato come un imputato che ha rinunciato in maniera non equivoca al proprio diritto di comparire in udienza. Inoltre, il diritto interno non gli offriva, con un sufficiente grado di certezza, la possibilità di ottenere un nuovo processo in sua presenza. Tale possibilità era subordinata alle prove che potevano essere fornite dalla procura o dal condannato relativamente alle circostanze della dichiarazione di latitanza, e non soddisfaceva i requisiti dell’articolo 6 della Convenzione.

B. Argomenti delle parti

1. Il Governo

 

  1. Il Governo ricorda che la Corte ha concluso che vi è stata violazione dell’articolo 6 della Convenzione nelle cause in cui l’assenza di un imputato al dibattimento era disciplinata dal vecchio codice di procedura penale (Colozza c. Italia, sentenza del 12 febbraio 1985, serie A n° 89, T. c. Italia, sentenza del 12 ottobre 1992, serie A n° 245-C, e F.C.B. c. Italia, sentenza del 28 agosto 1991, serie A n° 208-B). Le nuove norme processuali introdotte da allora e le circostanze particolari del caso del sig. Sejdovic distinguerebbero, secondo il Governo, la presente causa da quelle sopra citate. In effetti, in queste ultime vi erano degli elementi che facevano dubitare che i ricorrenti si fossero volontariamente sottratti alla giustizia o che avessero avuto la possibilità di partecipare al processo, o che facevano ritenere che le autorità erano state negligenti nella ricerca degli imputati.
  2. Nel vecchio sistema, un imputato irreperibile era assimilato a un fuggitivo, e, in presenza di una notifica regolare nella forma, era esclusa ogni possibilità di restituzione nel termine. Con il regime introdotto dal nuovo codice, le autorità devono invece procedere a ricerche approfondite dell’imputato, reiterate in ogni fase del procedimento, ed è possibile ottenere la restituzione nel termine per propone impugnazione anche quando la notifica non è viziata da alcuna irregolarità.
  3. Nella fattispecie, gli atti processuali sono stati notificati all’avvocato del ricorrente poiché quest’ultimo era stato dichiarato latitante. Prima di giungere a una tale dichiarazione, le autorità avevano cercato l’interessato nel campo nomadi in cui si presumeva fosse residente.
  4. Secondo il Governo, le circostanze particolari della causa dimostrano che il ricorrente si è volontariamente sottratto alla giustizia. Vari elementi militano in tal senso : il ricorrente si trovava in una situazione delicata e aveva un interesse evidente a non assistere all’udienza ; egli non ha fornito alcuna giustificazione plausibile per spiegare perché, subito dopo un omicidio di cui alcuni testimoni oculari gli hanno attribuito la responsabilità, si era precipitosamente allontanato dalla sua residenza abituale senza lasciare indirizzo o una minima traccia; prima di essere fermato dalla polizia tedesca, egli non si è mai manifestato e non ha mai chiesto un nuovo processo.
  5. Dalla sentenza Medenica c. Svizzera (n° 20491/92, CEDH 2001-VI) risultava che l’intenzione di sottrarsi alla giustizia neutralizza, sul piano della Convenzione, il diritto del condannato in contumacia a un nuovo processo. Al riguardo, il Governo sottolinea che la Corte ha confermato l’opinione delle autorità elvetiche secondo cui il processo in contumacia era legittimo e la sua riapertura non era necessaria in quanto il sig. Medenica si trovava per sua colpa nell’impossibilità di comparire e non aveva fornito nessuna giustificazione valida per motivare la propria assenza. Inoltre, la presunzione secondo cui un imputato si è sottratto alla giustizia non è irrefragabile. In effetti, il condannato può sempre fornire spiegazioni, affermando di non aver mai avuto conoscenza dell’azione penale e, di conseguenza, di non aver mai avuto intenzione di fuggire, oppure invocando un legittimo impedimento. Sarebbe dunque la procura, se del caso, a dover cercare di dimostrare il contrario, e le autorità giudiziarie a dover valutare la pertinenza delle spiegazioni fornite dall’interessato.
  6. E vero che, a differenza dei ricorrente, il sig. Medenica era ufficialmente al corrente dell’esistenza dell’azione penale e della data del dibattimento. La camera ne ha dedotto che non si poteva attribuire al ricorrente la volontà di sottrarsi alla giustizia. La conclusione della camera si baserebbe sulle cause T. e F.C.B. c. Italia, in cui la Corte si era rifiutata di attribuire una qualsiasi importanza alla conoscenza indiretta che i ricorrenti avevano avuto o potuto avere dell’azione penale avviata nei loro confronti e della data dell’udienza. Se l’eccesso di formalismo e la severità che avrebbe dimostrato la Corte in queste due cause si possono comprendere alla luce della legislazione vigente in Italia all’epoca dei fatti, oggi essi non possono essere accettati.
  7. Certo, non si può far derivare da una notifica puramente formale (come quella effettuata nella fattispecie, in cui gli atti sono stati consegnati all’avvocato nominato d’ufficio) una presunzione legittima irrefragabile di conoscenza dell’azione penale. Tuttavia, una presunzione di non conoscenza dell’azione penale è altrettanto ingiustificata. Essa equivarrebbe a negare che un imputato possa avere conoscenza dell’azione penale quando sussiste la prova della sua colpevolezza e della sua fuga (come nell’ipotesi in cui un criminale fugga dalla polizia che lo insegue immediatamente dopo il delitto, o quando un imputato dichiari per iscritto la propria colpevolezza, il suo disprezzo per le vittime e la sua intenzione di rimanere irreperibile). Secondo il Governo, la semplice assenza di notifica al condannato non basterebbe, da sola, a dimostrare la buona fede di un ricorrente; ci vorrebbero anche altri elementi che dimostrino l’esistenza di una negligenza da parte delle autorità.
  8. Pertanto, sarebbe opportuno optare per una scelta più equilibrata : usare il buon senso e adottare – almeno provvisoriamente – l’ipotesi della fuga quando essa è giustificata alla luce delle circostanze particolari della causa, viste secondo la logica e l’esperienza comune, e cercare di suffragarla con elementi concreti. In particolare, non è contrario alla presunzione di innocenza supporre la fuga quando una persona si rende irreperibile immediatamente dopo la commissione di un reato di cui essa è accusata. Una tale supposizione è rafforzata se la persona viene poi riconosciuta colpevole sulla base delle prove prodotte al dibattimento e non fornisce alcuna spiegazione pertinente sui motivi che l’hanno spinta a lasciare il proprio domicilio. Questo sarebbe avvenuto precisamente nel caso del ricorrente, in cui la Corte d’assise di Roma avrebbe accuratamente stabilito i fatti basandosi sulle deposizioni di vari testimoni oculari.
  9. Se si ritenesse che, in assenza di informazioni ufficiali sulle accuse e sulla data dell’udienza, il condannato ha «in qualsiasi circostanza » un diritto «incondizionato» a un secondo giudizio, si priverebbe lo Stato della possibilità di fornire la prova di un fatto : la conoscenza dell’esistenza dell’azione penale. Ciò sarebbe contrario alla funzione di qualsiasi procedura giudiziaria – quella di cercare la verità – e si tradurrebbe in un diniego di giustizia o in un supplemento di angoscia per le vittime. Per di più, si verificherebbero delle conseguenze paradossali : gli imputati più rapidi e abili a sparire sarebbero privilegiati rispetto a quelli che si lasciano sorprendere da una prima notifica. Se le cose stessero in questo modo, l’imputato sarebbe il solo arbitro della validità del proprio processo, e i colpevoli sarebbero posti in una situazione più favorevole rispetto a quella degli innocenti. Inoltre, quei soggetti che hanno voluto consapevolmente sottrarsi alla giustizia potrebbero avvalersi di un diritto «che la logica e il sentimento della giustizia fanno fatica a riconoscere loro » : intralciare il ruolo dei tribunali e tormentare ulteriormente le vittime e i testimoni.
  10. Inoltre, non si dovrebbe dimenticare che, nelle cause Poitrimol a Francia (sentenza del 23 novembre 1993, serie A n. 277-A) e Lala e Pelladoah c. Olanda (sentenze del 22 settembre 1994, serie A n. 297-A e 297-B), la Corte ha aggiunto al diritto di comparire il dovere corrispondente. In tal modo, essa ha ammesso che le assenze ingiustificate potevano essere sconsigliate e ha ritenuto che era lecito per gli Stati impone all’imputato l’onere di giustificare la sua assenza, e giudicare poi il valore di tali spiegazioni. È vero che nelle cause suddette la Corte aveva concluso che le sanzioni imposte agli imputati (impossibilità di farsi difendere da un avvocato) erano sproporzionate ; essa, tuttavia, ha implicitamente ammesso che l’articolo 6 non sarebbe stato violato se i diritti degli imputati assenti fossero stati limitati rispettando un giusto equilibrio.
  11. Nella giurisprudenza sopra citata, la Corte ha anche posto nuovamente l’accento sulla difesa da parte di un avvocato. In particolare, essa ha concluso che tra l’importanza «fondamentale» della comparizione dell’imputato e l’importanza «cruciale» della sua difesa, quest’ultima esigenza deve prevalere. La presenza attiva di un difensore basterebbe dunque a ristabilire l’equilibrio tra la reazione legittima dello Stato di fronte alla non comparizione ingiustificata di un imputato e il rispetto dei diritti sanciti dall’articolo 6 della Convenzione.
  12. Nella fattispecie, dinanzi alla corte d’assise di Roma il ricorrente è stato rappresentato da un avvocato nominato d’ufficio, che ha assicurato una difesa effettiva e adeguata chiedendo la convocazione di vari testimoni. Tale avvocato difendeva anche altre persone imputate nell’ambito dello stesso procedimento, di cui alcune furono assolte.
  13. In ogni caso, il Governo ritiene che il diritto italiano offrisse al ricorrente una possibilità reale di ottenere un nuovo processo in sua presenza. A tale riguardo, bisognerebbe distinguere due situazioni. Se le notifiche non sono state effettuate rispettando i requisiti formali, il procedimento è inficiato di nullità assoluta, il che, ai sensi degli articoli 179 e 670 del CPP, impedisce alla decisione di diventare esecutiva.
  14. Al contrario, quando, come nella fattispecie, la citazione a comparire è stata notificata conformemente al diritto nazionale, si applica l’articolo 175 del CPP. Il Governo ribadisce, a questo proposito, le osservazioni fatte nell’ambito della propria eccezione preliminare (paragrafi 32-37 supra) e sottolinea che il ricorrente appartiene a una popolazione la cui cultura è, per tradizione, nomade, il che potrebbe contribuire a spiegare la sua assenza dal proprio domicilio.
  15. Secondo il Governo, il meccanismo previsto dall’articolo 175 del CPP e le norme in materia di onere della prova che ne derivano non violano in alcun modo il principio generale secondo il quale è chi accusa a dover fornire la prova a carico e non l’imputato a dover fornire quella a discarico. In effetti, nella causa John Murray c. Regno Unito (sentenza dell’8 febbraio 1996, Raccolta 1996-I), la Corte ha ritenuto che era legittimo esigere delle spiegazioni da parte di un imputato e trarre conclusioni dal suo silenzio quando le circostanze richiedevano con ogni evidenza tali spiegazioni. Se ciò è ammesso per quanto riguarda il fondamento di un’accusa, deve a maggior ragione essere così quando si tratta di stabilire un fatto (l’ignoranza colpevole) accessorio e che rientra nel campo della procedura.

2. Il ricorrente

  1. Il ricorrente afferma che il suo diritto ad un processo equo è stato violato poiché egli non è stato informato delle accuse formulate a suo carico. Egli sostiene che la difesa assicurata dall’avvocato nominato d’ufficio non può essere considerata efficace e adeguata se si considera che, tra gli imputati che quest’ultimo rappresentava, quelli che erano presenti sono stati assolti e quelli che erano assenti sono stati condannati. Inoltre, il ricorrente non sapeva di essere rappresentato da quell’avvocato. Pertanto, non aveva alcun motivo per contattare quest’ultimo o le autorità italiane. Se avesse saputo di essere imputato, avrebbe potuto nominare un difensore di fiducia con piena cognizione di causa.
  2. Il ricorrente sostiene che le autorità italiane sono partite dall’idea che egli era colpevole perché era assente. Tuttavia, poiché il procedimento nei suoi confronti non è stato conforme alla Convenzione, vi sarebbe stata violazione della presunzione di innocenza. Inoltre, non si può concludere che egli ha tentato di sottrarsi alla giustizia quando non è stato inizialmente sentito. Una simile conclusione da parte delle autorità italiane sarebbe tanto più irragionevole se si considera che, al momento del suo arresto, egli era legittimamente residente in Germania con la sua famiglia, e il suo domicilio era regolarmente registrato presso la polizia. In ogni caso, il Governo non può provare che egli è fuggito per sottrarsi all’azione penale avviata nei suoi confronti.
  3. Il ricorrente sostiene infine che la sua identificazione da parte delle autorità italiane è stata imprecisa e dubbia, e che il suo fascicolo non conteneva né la sua foto, né le sue impronte digitali.

C. Terzo interveniente

  1. Il Governo della Repubblica slovacca osserva che, nella causa Medenica c. Svizzera, la Corte ha concluso che non vi è stata violazione dell’articolo 6 della Convenzione poiché il ricorrente non era stato in grado di giustificare la propria assenza e nulla permetteva di concludere che quest’ultima fosse dovuta a cause indipendenti dalla sua volontà. Pertanto, rifiutargli il diritto a un nuovo processo non era una reazione sproporzionata.
  2. Se si dovesse ritenere che in assenza di notifica ufficiale il diritto a un nuovo processo è automatico, coloro che sono stati informati dell’azione penale beneficerebbero di garanzie meno estese rispetto alle persone resesi irreperibili subito dopo aver commesso il reato. In effetti, la Corte autorizzerebbe solo nel primo caso le autorità nazionali a porsi il problema di stabilire se il condannato ha effettivamente rinunciato alle garanzie di un processo equo. Nel secondo caso, sarebbe vietato esaminare, basandosi sui fatti, i motivi per cui l’imputato era irreperibile. Un imputato non informato sarebbe sempre trattato come una persona irreperibile per cause indipendenti dalla sua volontà, ma non come una persona che si sia sottratta al procedimento dopo essere venuta a conoscenza di quest’ultimo.
  3. Secondo il Governo slovacco, si pone il problema di stabilire se ciò sia conforme alla giurisprudenza Colozza, in cui la Corte aveva sottolineato che vietare qualsiasi procedimento in contumacia rischiava di paralizzare l’esercizio dell’azione penale provocando, ad esempio, l’alterazione delle prove, la prescrizione del reato o un diniego di giustizia. Per di più, la distinzione sopra descritta comporterebbe un trattamento uguale di situazioni diverse e un trattamento diverso di situazioni analoghe, senza che ciò abbia una giustificazione oggettiva o razionale. Le sue conseguenze, pertanto, sono inique. Al riguardo, il governo slovacco osserva che il sig. Medenica avrebbe beneficiato di più diritti se si fosse reso irreperibile dopo il reato. Inoltre, bisogna tenere conto del fatto che varie persone colte in flagranza di reato riescono a fuggire.
  4. Secondo il parere del governo slovacco, le autorità dovrebbero sempre avere il diritto di esaminare alla luce delle circostanze particolari di ciascuna causa le ragioni dell’impossibilità di trovare l’imputato, e il diritto di ritenere che quest’ultimo ha rinunciato alle garanzie dell’articolo 6 o si è sottratto alla giustizia. In questo caso, dovrebbe essere legittimo per la legislazione nazionale rifiutare un nuovo processo, nel rispetto degli interessi superiori della collettività e nella realizzazione dell’obiettivo dell’azione penale. Il compito della Corte sarebbe allora quello di assicurarsi che le conclusioni delle autorità nazionali non siano né arbitrarie né fondate su premesse manifestamente errate.

 

D. Valutazione delta Corte

1. Principi generali in materia di processo in contumacia

a) Diritto di partecipare all’udienza e diritto a un nuovo processo

  1. Sebbene non menzionata espressamente nel paragrafo 1 dell’articolo 6, la facoltà per l’« imputato » di partecipare all’udienza deriva dall’oggetto e dallo scopo dell’articolo nel suo insieme. Del resto, i commi c), d) ed e) del paragrafo 3 riconoscono a « ogni imputato » il diritto di « difendersi personalmente o, di « esaminare o far esaminare i testimoni » e di « farsi assistere gratuitamente da un interprete, se non comprende o non parla la lingua usata in udienza », il che non è concepibile senza la sua presenza (Colozza già cit., p. 14, § 27 ; T. c. Italia già cit., p. 41, § 26 ; F.C.B. c. Italia già cit., p. 21, § 33 ; v. anche Belziuk e. Polonia, sentenza del 25 marzo 1998, Raccolta 1998-II, p. 570, § 37).
  2. Se un procedimento che si svolge in assenza dell’imputato non è di per sé incompatibile con l’articolo 6 della Convenzione, rimane tuttavia il fatto che vi è diniego di giustizia quando una persona condannata in absentia non può ottenere in seguito che una giurisdizione deliberi nuovamente, dopo averlo sentito, sul fondamento dell’accusa, in fatto e in diritto, quando non è accertato che egli ha rinunciato al proprio diritto di comparire e di difendersi (Colozza già cit., p. 15, § 29 ; Einhorn c. Francia (dec.), n° 71555/01, § 33, CEDH 2001-XI; Krombach c. Francia, n° 29731/96, § 85, CEDH 2001-II ; Somogyi c. Italia, n° 67972/01, § 66, CEDH 2004-IV), o che aveva l’intenzione di sottrarsi alla giustizia (Medenica già cit., § 55).
  3. La Convenzione lascia agli Stati contraenti une grande libertà nella scelta dei mezzi idonei a permettere ai rispettivi sistemi giudiziari di rispondere ai requisiti dell’articolo 6. È la Corte a dover stabilire se il risultato perseguito dalla Convenzione sia stato raggiunto. In particolare, è necessario che i mezzi processuali offerti dal diritto e dalla prassi interni si rivelino effettivi se l’imputato non ha né rinunciato a comparire e a difendersi, né ha avuto l’intenzione di sottrarsi alla giustizia (Somogyi già cit., § 67).
  4. Inoltre, la Corte ha ritenuto che l’obbligo di garantire all’imputato il diritto di essere presente in sala di udienza – sia nel corso del primo procedimento nei suoi confronti, sia nel corso di un nuovo processo – è uno degli elementi essenziali dell’articolo 6 (Stoichkov c. Bulgaria, ri 9808/02, § 56, 24 marzo 2005). Pertanto, il rifiuto di riaprire un procedimento che si è svolto in contumacia in assenza di qualsiasi indicazione che l’imputato aveva rinunciato al suo diritto di comparire è stato considerato come un «flagrante diniego di giustizia », il che corrisponde alla nozione di procedimento «manifestamente contrario alle disposizioni dell’articolo 6 o ai principi in esso enunciati » (Stoichkov già cit., §§ 54-58).
  5. La Corte ha anche ritenuto che la restituzione nel termine per proporre impugnazione contro la condanna contumaciale, con la facoltà, per l’imputato, di essere presente all’udienza di secondo grado e di chiedere la produzione di nuove prove, si traduceva nella possibilità di una nuova decisione sul fondamento dell’accusa in fatto e in diritto, il che permetteva di concludere che, nell’insieme, il procedimento era stato equo (Jones c. Regno Unito (dec.), n° 30900/02, 9 settembre 2003).

b) Rinuncia al diritto di comparire

  1. Né il testo né lo spirito dell’articolo 6 della Convenzione impediscono a una persona di rinunciare spontaneamente alle garanzie di un processo equo in maniera espressa o tacita (Kwiatkowska c. Italia (dec.), n° 52868/99, 30 novembre 2000). Tuttavia, per essere presa in considerazione sotto il profilo della Convenzione, la rinuncia al diritto di partecipare all’udienza deve essere stabilita in modo non equivoco ed essere accompagnata da un minimo di garanzie corrispondenti alla sua gravità (Poitrimol c. Francia, sentenza del 23 novembre 1993, serie A n° 277-A, pp. 13-14, § 31). Inoltre, essa non deve cozzare contro alcun interesse pubblico importante (Hàkansson e Sturesson c. Svezia, sentenza del 21 febbraio 1990, serie A n° 171-A, p. 20, § 66).
  2. La Corte ha ritenuto che, quando non si trattava di un imputato che ha ricevuto una notifica ad personam, la rinuncia a comparire e a difendersi non poteva essere dedotta dalla semplice qualità di «latitante », fondata su una presunzione sprovvista di una sufficiente base fattuale (Colozza già cit., pp. 14-15, § 28). Essa ha avuto anche occasione di sottolineare che prima che si possa considerare che un imputato ha implicitamente rinunciato, con il proprio comportamento, a un diritto importante sotto il profilo dell’articolo 6 de la Convenzione, è necessario stabilire che egli avrebbe potuto ragionevolmente prevedere le conseguenze del comportamento in questione (Jones, decisione sopra cit.).

88. Inoltre, è necessario che non sia l’imputato a dover dimostrare che non intendeva sottrarsi alla giustizia, o che la sua assenza era dovuta a un caso di forza maggiore (Colozza già cit., p. 16, § 30). Allo stesso tempo, le autorità nazionali possono legittimamente valutare se le giustificazioni fornite dall’imputato per motivare la sua assenza siano valide o se gli elementi versati agli atti permettano di concludere che la sua assenza era indipendente dalla sua volontà (Medenica già cit., § 57).

c) Diritto dell’imputato di essere informato delle accuse mosse nei suoi confronti

89. Ai sensi del comma a) del terzo paragrafo dell’articolo 6 de la Convention, ogni imputato ha il diritto di «essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa fonnulata a suo carico ». Tale disposizione mostra la necessità di provvedere con un’attenzione estrema a notificare l’« accusa» all’interessato. L’atto d’accusa svolge un ruolo determinante nel procedimento penale : a decorrere dalla sua notifica, la persona indagata è ufficialmente informata della base giuridica e fattuale delle accuse formulate a suo carico (Kamasinski c. Austria, sentenza del 19 dicembre 1989, serie A n° 168, pp. 36-37, § 79).

90. La portata di questa disposizione deve essere valutata in particolare alla luce del diritto più generale ad un processo equo sancito dal paragrafo 1 dell’articolo 6 della Convenzione. In materia penale, un’informazione precisa e completa sulle accuse che gravano su un imputato, e dunque sulla qualificazione giuridica che la giurisdizione potrebbe adottare nei suoi confronti, è una condizione essenziale dell’equità del procedimento (Pélissier e Sassi c. Francia [GC], n° 25444/94, § 52, CEDH 1999-II).

d) Rappresentanza da parte di un avvocato degli imputati giudicati in contumacia

91. Sebbene non sia assoluto, il diritto di ogni imputato di essere effettivamente difeso da un avvocato, se necessario nominato d’ufficio, fa parte degli elementi fondamentali del processo equo (Poitrimol già cit., p. 14, § 34). Un imputato non perde il beneficio di tale diritto solo per essere assente al dibattimento (Mariani c. Francia, n° 43640/98, § 40, 31 marzo 2005). È infatti di fondamentale importanza per l’equità del sistema penale che l’imputato sia adeguatamente difeso sia in primo grado che in appello (Lala già cit., p. 13, § 33, e Pelladoah già cit., pp. 34-35, § 40).

92. Nello stesso tempo, la comparizione di un imputato riveste un’importanza fondamentale sia a causa del diritto di quest’ultimo di essere sentito, sia per la necessità di controllare l’esattezza delle affermazioni e di confrontarle con le dichiarazioni della vittima, di cui è opportuno difendere gli interessi, e dei testimoni. Pertanto, il legislatore deve poter scoraggiare le astensioni ingiustificate, a condizione che le sanzioni non si rivelino sproporzionate nelle circostanze della causa e che l’imputato non sia privato del diritto all’assistenza di un difensore (Krombach già cit., §§ 84, 89 e 90, Van Geyseghem c. Belgio [GC], ri 26103/95, § 34, CEDH 1999-I, e Poitrimol già cit., p. 15, § 35).

93. Spetta alle giurisdizioni il compito di assicurare l’equità di un processo e, di conseguenza, di vigilare affinché un avvocato che, evidentemente, vi assiste per difendere il suo cliente in assenza di quest’ultimo, abbia l’occasione di farlo (Van Geyseghem già cit., § 33, Lala già cit., p. 14, § 34, e Pelladoah già cit., p. 35, § 41).

  1. Se riconosce a ogni imputato il diritto di «difendersi personalmente o avere l’assistenza di un difensore (…) », l’articolo 6 § 3 c) non precisa le condizioni per l’esercizio di tale diritto. Esso lascia dunque agli Stati contraenti la scelta dei mezzi idonei a pennettere ai rispettivi sistemi giudiziari di garantirlo ; il compito della Corte consiste nel cercare di stabilire se la via che essi hanno scelto sia coerente con le esigenze di un processo equo (Quaranta c. Svizzera, sentenza del 24 maggio 1991, serie Ari 205, p. 16, § 30). A tale riguardo, non bisogna dimenticare che la Convenzione ha lo scopo di «tutelare dei diritti non teorici o illusori, ma concreti ed effettivi », e che la nomina di un avvocato non basta, da sola, ad assicurare l’effettività dell’assistenza che quest’ultimo può fornire all’imputato (Imbrioscia c. Svizzera, sentenza del 24 novembre 1993, serie Ari 275, p. 13, § 38, e Artico c. Italia, sentenza del 13 maggio 1980, serie A n° 37, p. 16, § 33).
  2. Non si può tuttavia imputare ad uno Stato la responsabilità di tutte le lacune dell’avvocato nominato d’ufficio o scelto dall’imputato. Dall’indipendenza del foro rispetto allo Stato deriva che il modo in cui viene condotta la difesa è essenzialmente di competenza dell’imputato e del suo avvocato, nominato a titolo di gratuito patrocinio o retribuito dal suo cliente (Cuscani c. Regno Unito, n° 32771/96, § 39, 24 settembre 2002). L’articolo 6 § 3 c) obbliga le autorità nazionali competenti a intervenire solo se la lacuna dell’avvocato d’ufficio sembra manifesta o se le stesse ne vengono sufficientemente informate in qualsiasi altro modo (Daud c. Portogallo, sentenza del 21 aprile 1998, Raccolta 1998-II, pp. 749-750, § 38).

2. Applicazione dei principi sopra esposti alla presente causa

  1. La Corte osserva che, nella fattispecie, il 15 ottobre 1992, il giudice per le indagini preliminari di Roma ha disposto la misura della custodia cautelare nei confronti del ricorrente. Poiché si era reso irreperibile, quest’ultimo fu dichiarato latitante (paragrafo 12 supra). Fu nominato un avvocato d’ufficio per rappresentare il ricorrente, e gli atti processuali, ivi compresa la sentenza di condanna, furono notificati a tale avvocato. Il Governo non contesta che il ricorrente è stato giudicato in contumacia e che prima del suo arresto non aveva ricevuto alcuna informazione ufficiale relativa alle accuse o alla data del processo a suo carico.
  2. Basandosi sulla giurisprudenza elaborata nella causa Medenica c. Svizzera, il Governo sostiene invece che il ricorrente ha perso il suo diritto ad un nuovo processo poiché ha tentato di sottrarsi alla giustizia. In effetti, egli sarebbe venuto a sapere o avrebbe pensato di essere ricercato dalla polizia e si sarebbe dato alla fuga.
  3. La Corte osserva anzitutto che la presente causa si distingue dalla causa Medenica poiché in quest’ultima il ricorrente era stato informato in tempo utile dell’azione penale avviata nei suoi confronti e della data del processo a suo carico (sentenza già cit., § 59). Egli disponeva inoltre dell’assistenza di un avvocato di fiducia con cui era in contatto. Infine, la Corte ha ritenuto che l’assenza dell’interessato era colposa e, come il Tribunale federale svizzero, essa ha osservato che il sig. Medenica aveva indotto il giudice americano in errore con le sue dichiarazioni equivoche, o addirittura volutamente inesatte, allo scopo di provocare una decisione che lo rendesse incapace di presentarsi al processo (sentenza già cit., § 58). La sua situazione era dunque molto diversa da quella del ricorrente della presente causa. Nelle circostanze particolari della causa si pone il problema di stabilire se, non avendo ricevuto una notifica ufficiale, si potesse considerare che il sig. Sejdovic aveva avuto una conoscenza dell’azione penale e del processo sufficiente per poter decidere di rinunciare al proprio diritto di comparire o di sottrarsi alla giustizia.
    1. In precedenti cause di condanna contumaciale la Corte ha ritenuto che informare qualcuno dell’azione penale intentata nei suoi confronti costituisce un atto giuridico di un’importanza tale da dover rispondere a delle condizioni di forma di merito atte a garantire l’esercizio effettivo dei diritti dell’imputato, e che una conoscenza vaga e non ufficiale non pub bastare (T. c. Italia già cit., p. 42, § 28, e Somogyi già cit., § 75). La Corte non può tuttavia escludere che alcuni fatti accertati possono dimostrare inequivocabilmente che l’imputato è al corrente di un procedimento penale a suo carico e conosce la natura e la causa dell’accusa, e che non ha intenzione di prendere parte al processo o intende sottrarsi all’azione penale. Ciò potrebbe avvenire, ad esempio, quando un imputato dichiara pubblicamente o per iscritto di non voler dare seguito agli interpelli di cui è venuto a conoscenza da fonti diverse dalle autorità o quando riesce a sottrarsi ad un tentativo di arresto (v., in particolare, Iavarazzo c. Italia (dec.), n° 50489/99, 4 dicembre 2001), o ancora quando vengono sottoposti all’attenzione delle autorità dei documenti che dimostrano inequivocabilmente che egli è a conoscenza del procedimento pendente nei suoi confronti e delle imputazioni a suo carico.

100. Agli occhi della Corte, queste circostanze non sussistono nella fattispecie. La tesi del Governo non si basa su alcun elemento oggettivo diverso dall’assenza dell’imputato dal suo luogo di residenza abituale, vista alla luce delle prove a carico; essa presuppone che il ricorrente fosse implicato nell’omicidio dei sig. S. o che fosse responsabile di tale reato. La Corte non può dunque sostenere questa tesi, che va anche contro la presunzione di innocenza. L’accertamento legale della colpevolezza del ricorrente costituiva lo scopo di un processo penale che, all’epoca della dichiarazione di latitanza, era allo stadio delle indagini preliminari.

101. In tali condizioni, la Corte ritiene che non sia stato dimostrato che il ricorrente aveva una conoscenza sufficiente dell’azione penale e delle accuse a suo carico. Essa non può dunque concludere che egli ha tentato di sottrarsi alla giustizia o che ha rinunciato in maniera non equivoca al suo diritto di comparire in udienza. Resta da verificare se il diritto interno gli offriva, con un sufficiente grado di certezza, una possibilità di ottenere un nuovo processo in sua presenza.

102. Al riguardo, il Governo cita in primo luogo il ricorso previsto all’articolo 670 del CPP. La Corte ricorda anzitutto che essa ha concluso che al Governo era precluso formulare un’eccezione preliminare di mancato esaurimento delle vie di ricorso basata su tale disposizione (paragrafo 42 supra). Tuttavia, tale conclusione non impedisce alla Corte di prendere in considerazione il ricorso citato dal Governo nel momento in cui essa analizza il fondamento del motivo (v., mutatis mutandis, N.C. c. Italia, già cit., §§ 42-47 e 53-58). Essa osserva che nel diritto italiano un incidente di esecuzione può essere accolto solo se è stato accertato che si è verificata nel procedimento una irregolarità che può viziare la validità del giudizio, in particolare nella fase delle notifiche all’imputato irreperibile (paragrafi 31 e 71 supra). Il Governo stesso ha ammesso che, nella presente causa, la citazione a comparire era stata notificata conformemente al diritto nazionale (paragrafo 72 supra). Un eventuale ricorso del ricorrente basato sull’articolo 670 del CPP non aveva dunque alcuna possibilità di successo.

103. Nella misura in cui il Governo si basa sulla possibilità, per il ricorrente, di presentare una domanda di restituzione nel termine, la Corte non può che ribadire le osservazioni già esposte nell’ambito dell’eccezione preliminare (paragrafi 47-56 supra). Essa ricorda che un ricorso basato sull’articolo 175 §§ 2 e 3 del CPP, come era in vigore all’epoca dell’arresto e della detenzione ai fini estradizionali del ricorrente, era destinato a fallire, e che il suo utilizzo da parte dell’interessato si scontrava con alcuni ostacoli oggettivi. In particolare, il ricorrente avrebbe avuto gravi difficoltà a soddisfare una delle due condizioni legali che stanno alla base della concessione della restituzione nel termine, ossia dimostrare che non si era volontariamente rifiutato di prendere conoscenza degli atti processuali e che non aveva tentato di sottrarsi alla giustizia. Inoltre, la Corte ha constatato che poteva esservi un’incertezza per quanto riguarda la ripartizione dell’onere della prova di questa condizione preliminare (paragrafi 49-51 supra). Sussistono pertanto dei dubbi sul rispetto del diritto del ricorrente a non essere obbligato a dimostrare che non intendeva sottrarsi alla giustizia. Il ricorrente avrebbe potuto non essere in grado di fornire, su richiesta del giudice o di fronte alle contestazioni della procura, delle spiegazioni convincenti circa i motivi che l’avevano spinto, poco tempo dopo l’omicidio del sig. S., ad allontanarsi dal proprio domicilio senza lasciare un indirizzo e a recarsi in Germania. Inoltre il ricorrente, che si potrebbe ritenere aver avuto una « conoscenza effettiva della decisione» poco dopo il suo arresto in Germania, disponeva solo di dieci giorni per presentare la domanda di restituzione nel termine. Nessun elemento del fascicolo fa pensare che egli fosse stato informato della possibilità di ottenere la restituzione nel termine per proporre impugnazione avverso la sua condanna e del breve lasso di tempo concesso per avvalersi di un tale ricorso. Tali circostanze, a cui si sommano le difficoltà che una persona detenuta in un Paese straniero avrebbe incontrato per contattare rapidamente un avvocato esperto in diritto italiano e per fornirgli elementi di fatto precisi e istruzioni dettagliate, costituivano degli ostacoli oggettivi all’utilizzo, da parte del ricorrente, del ricorso previsto dall’articolo 175 § 2 del CPP (paragrafi 53-55 supra).

  1. Di conseguenza il ricorso previsto dall’articolo 175 del CPP non garantiva al ricorrente, con un grado sufficiente di certezza, la possibilità di essere presente e di difendersi nell’ambito di un nuovo processo. Nessuno ha sostenuto dinanzi alla Corte che il ricorrente disponeva di altri mezzi per ottenere la restituzione nel termine per proporre impugnazione o un nuovo processo.

 

3. Conclusione

  1. Alla luce di quanto sopra esposto, la Corte ritiene che al ricorrente – che è stato giudicato il contumacia e di cui non è stato dimostrato che aveva cercato di sottrarsi alla giustizia o che aveva rinunciato in modo non equivoco al diritto di comparire – non è stata offerta la possibilità di ottenere che una giurisdizione deliberi nuovamente, dopo averlo sentito nel rispetto dei diritti della difesa, sul fondamento delle accuse formulate nei suoi confronti.
    1. Pertanto, vi è stata nella fattispecie violazione dell’articolo 6 della Convenzione.
  2. Tale conclusione dispensa la Corte dall’esaminare le affermazioni del ricorrente secondo cui la difesa assicurata dal suo avvocato sarebbe stata lacunosa e la sua identificazione da parte delle autorità italiane sarebbe stata imprecisa e dubbia.

III. SUGLI ARTICOLI 46 E 41 DELLA CONVENZIONE

A. Sull’articolo 46 della Convenzione

108. Ai sensi di tale disposizione :

« 1. Le Alti Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti.

2. La sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l’esecuzione. »

 

1. Sentenza della camera

109. La camera ha ritenuto che la violazione constatata risultava da un problema strutturale legato al malfunzionamento della legislazione e della prassi interne dovuto all’assenza di un meccanismo effettivo volto all’attuazione del diritto delle persone condannate in contumacia — e che non sono state né informate in maniera effettiva dell’azione penale avviata nei loro confronti, né hanno rinunciato in modo non equivoco al proprio diritto di comparire — di ottenere in seguito che una giurisdizione deliberi nuovamente, dopo averle sentite nel rispetto dei requisiti dell’articolo 6 della Convenzione, sul fondamento dell’accusa formulata nei loro confronti. Di conseguenza, essa ha affermato che lo Stato convenuto doveva garantire, con misure adeguate, l’attuazione del diritto in questione per il ricorrente e per le persone che si trovano in una situazione analoga a quella del ricorrente.

 

2. Tesi del Governo

110. Il Governo sostiene che, se la Corte rimane convinta dell’esistenza di una violazione, essa dovrebbe concludere che questa è dovuta esclusivamente a motivi legati alla circostanze particolari della presente causa (ossia la situazione personale del ricorrente), senza rimettere in questione tutta la legislazione italiana in materia.

111. In effetti, il sistema italiano sarebbe pienamente conforme ai requisiti della Convenzione, così come precisati dalla Corte, e a tutti i principi elencati nella Risoluzione (75)11 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa «sui criteri da seguire nella procedura di giudizio in assenza dell’imputato ». E previsto che sia fatto il possibile affinché l’imputato possa venire a conoscenza dell’esistenza dell’azione penale, della natura delle accuse e della data e del luogo di esecuzione degli atti fondamentali della procedura. Inoltre, il condannato in contumacia ha ampiamente la possibilità — più che in altri Stati europei — di interporre un appello oltre i termini se dimostra di non ave avuto conoscenza del provvedimento. L’unica eccezione a questa regola che sia pertinente nella fattispecie si ha quando è accertato che i condannati dichiarati irreperibili o latitanti si sono volontariamente sottratti alla giustizia.

112. Inoltre, anche a voler supporre che il sistema italiano vigente all’epoca dei fatti fosse incompatibile con le esigenze della Convenzione, ogni eventuale lacuna sarebbe stata corretta dalla riforma introdotta dalla legge n° 60 del 2005.

113. Nel caso in cui la Corte rilevi una lacuna strutturale del sistema giuridico interno, il Governo ricorda che l’obbligo di accordare un nuovo processo al condannato in absentia potrebbe comportare l’impossibilità di presentare nuovamente, al nuovo dibattimento, tutte le prove raccolte in occasione del primo processo (e in particolare le testimonianze). In questa ipotesi, le autorità nazionali si troverebbero di fronte ad un’alternativa. Esse potrebbero ricorrere agli elementi e alle dichiarazioni raccolti nel primo procedimento (ma ciò rischierebbe di violare il diritto dell’imputato di non essere condannato sulla base delle affermazioni fatte da persone che egli non ha mai avuto l’occasione di interrogare), o assolvere l’imputato nonostante esistano elementi sufficienti per convincere intimamente il giudice della sua colpevolezza (il che costituirebbe una potenziale inosservanza dell’obbligo positivo di tutelare altri diritti sanciti dalla Convenzione).

  1. Sarebbe dunque opportuno che la Corte precisi come deve svolgersi il secondo processo : è sufficiente interrogare l’imputato ? E necessario ripetere integralmente la procedura di giudizio ? O sono auspicabili soluzioni intermedie attenuate ? La Corte fornirebbe in tal modo allo Stato convenuto delle indicazioni chiare e dettagliate sul modo di garantire la conformità alla Convenzione della sua legislazione o della sua prassi.
  2. Il Governo precisa che non si oppone, in linea di principio, al fatto che la Corte dia delle indicazioni abbastanza precise sulle misure di carattere generale da adottare. Tuttavia, la nuova prassi seguita dalla Corte rischia di annientare il principio della libertà degli Stati nella scelta delle misure di esecuzione delle sentenze. Essa sarebbe inoltre in contrasto con lo spirito della Convenzione e mancherebbe di una base giuridica chiara.
  3. Le sentenze della Corte hanno un carattere fondamentalmente declaratorio. Solo l’articolo 41 della Convenzione derogherebbe a questa norma, abilitando la Corte a pronunciare vere e proprie « condanne » contro gli Stati contraenti. L’articolo 46, invece, non contiene alcuna disposizione di questo tipo ma si limita a stabilire che la sentenza definitiva della Corte viene trasmessa al Comitato dei Ministri affinché quest’ultimo vigili sulla sua esecuzione. Pertanto, il Comitato dei Ministri resta l’unico organo del Consiglio d’Europa competente per affermare se una misura di carattere generale è necessaria, adeguata e sufficiente.
  4. Secondo il parere del Governo, tale ripartizione delle competenze è confermata dall’articolo 16 del Protocollo n° 14 che, modificando l’articolo 46 della Convenzione, introduce due nuovi ricorsi : il ricorso per interpretazione e il ricorso per inosservanza. Secondo il rapporto esplicativo, il primo avrebbe lo scopo « di permettere alla Corte di dare una interpretazione di una sentenza e non di pronunciarsi sulle misure adottate da un’Alta Parte contraente per conformarsi alla sentenza ». Quanto al secondo, viene specificato che qualora la Corte constati una violazione, essa deve rinviare la causa al Comitato dei Ministri « affinché esso esamini le misure da adottare ». Infine, nella Risoluzione Res(2004)3, il Comitato dei Ministri ha invitato la Corte a individuare nelle sue sentenze gli eventuali problemi strutturali latenti, ma non a indicare anche le soluzioni adeguate. La ripartizione delle competenze tra il Comitato dei Ministri e la Corte, come prevista dagli autori della Convenzione, non sarebbe dunque stata modificata.
  5. In ogni caso, se la prassi che consiste nell’indicare delle misure di carattere generale dovesse continuare, sarebbe necessario istituzionalizzarla almeno nel regolamento della Corte o nelle domande che la Corte pone alle parti, allo scopo di permettere a queste ultime di presentare delle osservazioni sulla questione della natura « strutturale » della violazione.

 

3. Valutazione della Corte

  1. La Corte ricorda che, ai sensi dell’articolo 46 della Convenzione, le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive pronunciate dalla Corte nelle controversie nelle quali esse sono parti, e il Comitato dei Ministri è incaricato di vigilare sull’esecuzione di tali sentenze. Ne consegue in particolare che, quando la Corte constata una violazione, lo Stato convenuto ha l’obbligo giuridico non solo di versare

agli interessati le somme accordate a titolo dell’equa soddisfazione prevista dall’articolo 41, ma anche di scegliere, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, le misure generali e/o, se del caso, individuali da integrare nel proprio ordinamento giuridico interno allo scopo di porre un termine alla violazione constatata dalla Corte e di eliminarne, per quanto possibile, le conseguenze. Lo Stato convenuto rimane libero, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, di scegliere i mezzi per adempiere al proprio obbligo giuridico rispetto all’articolo 46 della Convenzione, nella misura in cui tali mezzi sono compatibili con le conclusioni contenute nella sentenza della Corte (v., mutatis mutandis, Scozzari e Giunta c. Italia [GC], ri 39221/98 e 41963/98, § 249, CEDH 2000-VIII).

  1. Nella causa Broniowski c. Polonia, la Corte ha ritenuto che, quando essa constata una violazione derivante da una situazione di carattere strutturale riguardante un gran numero di persone, delle misure generali a livello nazionale possono essere necessarie nell’ambito dell’esecuzione delle proprie sentenze (Broniowski c. Polonia, n° 31443/96, §§ 188-194, CEDH 2004-V). Questo approccio giuridico adottato dalla Corte per trattare i problemi sistematici o strutturali che emergono nell’ordinamento giuridico nazionale, è indicato con l’espressione «procedura di sentenza pilota ». Quest’ultima si propone anzitutto di aiutare gli Stati contraenti ad adempiere al molo che appartiene agli stessi nel sistema della Convenzione risolvendo questo tipo di problemi a livello nazionale, in modo che essi riconoscano anche in questo modo alle persone interessate i diritti e le libertà definiti nella Convenzione, come dispone l’articolo 1, offrendo loro una riparazione più rapida, e alleggerendo nello stesso tempo il carico della Corte che, altrimenti, dovrebbe esaminare moltissimi ricorsi simili nella sostanza (Broniowski c. Polonia (composizione amichevole), ri 31443/96, §§ 34-35, 28 settembre 2005).
  2. La Corte osserva che, nella presente causa, l’ostacolo ingiustificato al diritto del ricorrente di ottenere che una giurisdizione deliberi nuovamente sul fondamento dell’accusa sembra risultare dal testo delle disposizioni del CPP relative alle condizioni per presentare una domanda di restituzione nel termine, così come erano in vigore al momento dei fatti. Ciò potrebbe far pensare che esistesse nell’ordinamento giuridico italiano una lacuna, in conseguenza della quale i condannati in contumacia che non erano stati informati in modo effettivo dell’azione penale potevano essere privati di un nuovo processo.
  3. 122.   Tuttavia, non si può ignorare che, dopo che il processo del ricorrente si era concluso, sono state introdotte in Italia delle riforme legislative. In particolare, la legge n° 60 del 2005 ha modificato l’articolo 175 del CPP. Ai sensi delle nuove disposizioni, il termine per impugnare un provvedimento contumaciale viene riaperto su richiesta del condannato. L’unica eccezione a tale norme si ha nel caso in cui l’imputato ha avuto una « conoscenza effettiva » della procedura avviata a suo carico o del provvedimento, e ha volontariamente rinunciato a comparire o a impugnare il provvedimento. Inoltre, il termine per presentare una domanda di restituzione nel termine per persone che si trovano in una situazione simile a quella del ricorrente è stato portato da dieci a trenta giorni ed inizia a decorrere dal momento in cui l’imputato viene consegnato alle autorità italiane (paragrafi 26-27 supra).
  4. E vero che queste nuove disposizioni non si applicano al ricorrente o ad ogni altra persona che si trova in una situazione analoga e che ha avuto una conoscenza effettiva della propria condanna o è stata consegnata alle autorità italiane più di trenta giorni prima della data di entrata in vigore della leggeri 60 del 2005. La Corte ritiene che sarebbe prematuro, in questo stadio, e in assenza di giurisprudenza interna che faccia applicazione delle disposizioni della leggeri 60 del 2005, esaminare la questione di stabilire se le riforme sopra menzionate hanno raggiunto lo scopo perseguito dalla Convenzione.
  5. La Corte non ritiene dunque necessario indicare delle misure generali a livello nazionale che si impongano nell’ambito dell’esecuzione della presente sentenza.
  6. D’altra parte, la Corte ricorda che, nelle cause contro la Turchia riguardanti l’indipendenza e l’imparzialità delle corti di sicurezza dello Stato, essa ha indicato in sentenze camerali che in linea di principio la riparazione più adeguata consisterebbe nel far giudicare nuovamente il ricorrente su richiesta dello stesso e in tempo utile (v., tra le altre, Gencel c. Turchia, n° 53431/99, § 27, 23 ottobre 2003, e Tahir Duran c. Turchia, n° 40997/98, § 23, 29 gennaio 2004). E opportuno notare anche che una posizione simile è stata adottata in cause contro l’Italia in cui la constatazione di violazione dei requisiti di equità affermati dall’articolo 6 derivava da una violazione del diritto di partecipare al processo (Somogyi già cit., § 86, e R.R. c. Italia, n° 42191/02, § 76, 9 giugno 2005) o del diritto di interrogare i testimoni a carico (Bracci già cit., § 75). La Grande Camera ha fatto proprio l’approccio generale adottato nella giurisprudenza sopra citata (Ocalan c. Turchia, n° 46221/99, § 210, 12 maggio 2005).
  7. La Corte ritiene di conseguenza che quando un privato, come nella fattispecie, è stato condannato all’esito di un procedimento viziato da violazioni dell’articolo 6 della Convenzione, un nuovo processo o una riapertura del procedimento su richiesta dell’interessato rimane in linea di principio un mezzo adeguato per riparare la violazione constatata (v. i principi enunciati nella raccomandazione R(2000)2 del Comitato dei Ministri, paragrafo 28 supra). Tuttavia, le misure di riparazione specifiche da adottare, all’occorrenza, da parte di uno Stato convenuto per adempiere agli obblighi ad esso incombenti in applicazione della Convenzione dipendono necessariamente dalle circostanze particolari della causa e devono essere definite alla luce della sentenza della Corte nella causa in questione, tenendo debitamente conto della giurisprudenza della Corte sopra citata (Ocalan, loc. cit.).
  8. In particolare, non spetta alla Corte indicare le modalità e la forma di un nuovo eventuale processo. Lo Stato convenuto resta libero di scegliere i mezzi per adempiere al proprio obbligo di mettere il ricorrente, quanto più possibile, in una situazione equivalente a quella in cui si troverebbe se non avesse subito una inosservanza dei requisiti della Convenzione (Piersack c. Belgio (vecchio articolo 50), sentenza del 26 ottobre 1984, serie Ari 85, p. 16, § 12), purché tali mezzi siano compatibili con le conclusioni contenute nella sentenza della Corte e con i diritti della difesa (Lyons e altri c. Regno Unito (dec.), n° 15227/03, CEDH 2003-IX).

 

B. Sull’articolo 41 della Convenzione

 

  1. Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione,

« Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa. »

1. Danno

  1. Il ricorrente osserva di essere stato detenuto ai fini estradizionali in Germania dal 22 settembre al 22 novembre 1999, ossia per 62 giorni. Se le autorità italiane avessero cercato di raggiungerlo in Germania all’indirizzo in cui era regolarmente registrato, tale privazione della libertà non avrebbe avuto luogo. Il ricorrente sostiene che il danno e i disagi provocati da quest’ultima dovrebbero essere rimborsati nella misura di 100 euro (EUR) al giorno; egli richiede dunque la somma totale di 6.200 EUR.
  2. Il Governo osserva che il ricorrente non ha dimostrato l’esistenza di un legame tra la violazione della Convenzione e il danno che egli adduce. Per quanto riguarda il danno morale, la constatazione di una violazione fornirebbe di per sé un’equa soddisfazione sufficiente.
  3. La Corte ricorda che essa concede delle somme a titolo di equa soddisfazione prevista dall’articolo 41 quando la perdita o i danni reclamati sono stati causati dalla violazione constatata, e che invece lo Stato non è tenuto a versare del denaro per i danni ad esso non imputabili (Perote Pellon c. Spagna, n° 45238/99, § 57, 25 luglio 2002, e Bracci già cit., § 71).
  4. Nella fattispecie, la Corte ha constatato una violazione dell’articolo 6 della Convenzione nella misura in cui il ricorrente, condannato in contumacia, non ha potuto ottenere la riapertura del processo a suo carico. Essa non ha rilevato lacune nelle ricerche dell’imputato e non può concludere che la detenzione di quest’ultimo ai fini estradizionali debba essere posta a carico delle autorità italiane. Del resto, il ricorrente non ha indicato gli elementi che avrebbero potuto portare queste ultime a pensare che egli si trovava in Germania.
  5. Pertanto, la Corte non considera che sia opportuno accordare un compenso al ricorrente a titolo di danno materiale. In effetti, non è stato accertato alcun legame di causalità tra la violazione constatata e la detenzione contestata dall’interessato.
  6. Quanto al danno morale, la Corte ritiene che, nelle circostanze della presente causa, la constatazione di violazione costituisce di per sé un’equa soddisfazione sufficiente (Brozicek c. Italie, sentenza del 19 dicembre 1989, serie A n° 167, p. 20, § 48 ; F.C.B. c. Italia già cit., p. 22, § 38 ; T. c. Italia già cit., p. 43, § 32).

 

2. Spese

  1. Il ricorrente chiede il rimborso delle spese sostenute per la procedura di estradizione in Germania, che ammontano a 4.827,11 EUR. Le spese relative al procedimento dinanzi alla Corte ammonterebbero à 7.747,94 EUR. In particolare, 3.500,16 EUR (di cui 3.033,88 EUR per onorari e 466,28 EUR per traduzioni) sarebbero stati spesi per il procedimento dinanzi alla camera, mentre il procedimento successivo dinanzi alla Grande Camera, ivi compresa la partecipazione dei suoi avvocati all’udienza del 12 ottobre 2005, sarebbe costato 4.247,78 EUR.

136.11 Governo non ravvisa alcun legame di causalità tra la violazione della Convenzione e le spese sostenute in Germania. Quanto alle spese sostenute per il procedimento a Strasburgo, il Governo si affida al giudizio della Corte, pur sottolineando la semplicità della causa del ricorrente. Esso considera anche che l’importo richiesto per il procedimento dinanzi alla Grande Camera è eccessivo, tenuto conto del modesto lavoro di difesa che questa fase ha richiesto alla parte convenuta, la quale non ha prodotto alcuna memoria.

137. La Corte osserva che il ricorrente, prima di rivolgersi agli organi della Convenzione, ha dovuto affrontare una procedura di estradizione in Germania nell’ambito della quale è stata evocata la questione dell’impossibilità della riapertura del processo. La Corte ammette di conseguenza che l’interessato ha sostenuto delle spese per procedure che erano legate alla violazione della Convenzione. Essa ritiene tuttavia eccessive le spese reclamate per il procedimento dinanzi alle giurisdizioni tedesche (v.,mutatis mutandis, Sakkopoulos c. Grecia, n° 61828/00, § 59, 15 gennaio 2004, e Cianetti c. Italia, n° 55634/00, § 56, 22 aprile 2004). Tenuto conto degli elementi in suo possesso e della sua prassi in materia, essa ritiene ragionevole accordare al ricorrente a questo titolo la somma di 2.500 EUR.

  1. La Corte ritiene anche eccessivo l’importo richiesto per le spese inerenti il procedimento dinanzi ad essa (7.747,94 EUR) e decide di accordare a questo titolo la somma di 5.500 EUR. Al riguardo, è opportuno ricordare che l’avvocato del ricorrente non ha depositato una memoria scritta dinanzi alla Grande Camera (paragrafo 8 supra). L’importo totale dovuto al ricorrente per le spese ammonta pertanto a 8.000 EUR.

 

3. Interessi moratori

  1. La Corte ritiene opportuno basare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL’UNANIMITÀ,

 

 1. Rigetta l’eccezione preliminare del Governo ;

 

2. Dichiara che vi è stata violazione dell’articolo 6 della Convenzione ;

 

3. Dichiara che la constatazione di violazione fornisce di per sé un’equa soddisfazione sufficiente per il danno morale subito dal ricorrente ;

 

4. Dichiara

a)       che lo Stato convenuto deve versare al ricorrente, entro tre mesi, la somma di 8.000 EUR (ottomila euro) per le spese, più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta ;

b)       che a decorrere dallo scadere di detto termine e fino al versamento tali somme dovranno essere maggiorate di un interesse semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante tale periodo, aumentato di tre punti percentuali ;

 

5. Rigetta la domanda di equa soddisfazione per il resto.

 

Fatto in francese e in inglese, e poi pronunciato in pubblica udienza al Palazzo dei Diritti dell’Uomo, a Strasburgo, il 1 ° marzo 2006.

T.L. Early                                                                   Luzius Wildhaber

Cancelliere aggiunto                                                  Presidente

 

Alla presente sentenza è allegata, conformemente agli articoli 45 § 2 della Convenzione e 74 § 2 del regolamento, l’esposizione dell’opinione concordante del

 

Q.ih- @a.

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Per traduzione conforme Gli esperti linguistici

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giudice Mularoni.

 

L.W. T.L.E.

OPINIONE CONCORDANTE DEL GIUDICE MULARONI

Pur condividendo il parere della maggioranza, secondo cui vi è stata violazione dell’articolo 6 della Convenzione, desidero sottolineare quanto segue.

  1. Per quanto riguarda l’eccezione preliminare del Governo basata sul mancato esaurimento della via di ricorso interna prevista dall’articolo 175 del CPP, considerate le espressioni un po’ diverse utilizzate nei paragrafi 52, 55, 103 e 104 della sentenza, desidero precisare che non sono convinta che tale via di ricorso fosse destinata a fallire. Ho concluso, con la maggioranza, per l’esistenza di circostanze particolari di natura tale da dispensare il ricorrente dall’obbligo di esperire tale via di ricorso, e dunque per il rigetto di questo elemento dell’eccezione preliminare del Governo. Pur ammettendo che sussisteva un’incertezza sulle possibilità di successo di questa via di ricorso, sono tuttavia giunta a questa conclusione a causa degli ostacoli oggettivi citati al paragrafo 54 della sentenza. In assenza di tali ostacoli oggettivi avrei concluso — conformemente alla nostra giurisprudenza secondo cui il semplice fatto di avere dei dubbi sulle prospettive di successo di un ricorso che non è con ogni evidenza destinato a fallire non costituisce un motivo valido per giustificare il mancato utilizzo di vie di ricorso interne (Akdivar e altri c. Turchia, sentenza del 16 settembre 1996, Raccolta 1996-IV, p. 1212, § 71 ; Brusco c. Italia (dec.), n° 69789/01, CEDH 2001-IX) — che il ricorrente non aveva esaurito le vie di ricorso interne.
  2. Per quanto riguarda i paragrafi 101 — 104 della sentenza, devo confessare che ho delle difficoltà à seguire un ragionamento che equivale ad esaminare due volte le stesse eccezioni preliminari sollevate dal Governo, la prima volta sul piano dell’ammissibilità e la seconda sul merito, il che comporta la possibilità di concludere per la restituzione nel termine per quanto riguarda il primo aspetto e per la non violazione della Convenzione per quanto riguarda il secondo. Ritengo che sarebbe bastato esaminare i due aspetti sul piano dell’ammissibilità, senza ritornarvi in sede di esame sul merito.

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO – CAUSA TORREGGIANI E ALTRI c. ITALIA

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

SECONDA SEZIONE

CAUSA TORREGGIANI E ALTRI c. ITALIA

(Ricorsi nn. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10)

SENTENZA

STRASBURGO

8 gennaio 2013

Questa sentenza diverrà definitiva alle condizioni definite nell’articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.

 

 

Nella causa Torreggiani e altri c. Italia,

La Corte europea dei diritti dell’uomo (seconda sezione), riunita in una camera composta da

Danutė Jočienė, presidente,
         Guido Raimondi,
         Peer Lorenzen,
         Dragoljub Popović,
         Işıl Karakaş,
         Paulo Pinto de Albuquerque,
         Helen Keller, giudici,
e da Stanley Naismith, cancelliere di sezione,

Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 4 dicembre 2012,

Rende la seguente sentenza, adottata in tale data:

PROCEDURA

1.  All’origine della causa vi sono sette ricorsi (nn. 57875/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10) proposti contro la Repubblica italiana con i quali sette persone («i ricorrenti») (i cui dati figurano sulla lista allegata alla presente sentenza), hanno adito la Corte in virtù dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»).

2.  I ricorrenti sono stati rappresentati dagli avvocati indicati nella lista allegata. Il governo italiano («il Governo») è stato rappresentato dal suo agente, E. Spatafora, e dal suo co-agente, P. Accardo.

3.  In particolare i ricorrenti lamentano le condizioni nelle quali erano stati detenuti rispettivamente negli istituti penitenziari di Busto Arsizio e di Piacenza.

4.  Il 2 novembre 2010 e il 5 gennaio 2011 i ricorsi sono stati comunicati al Governo. Come consentito dall’articolo 29 § 1 della Convenzione, è stato inoltre deciso che la camera si sarebbe pronunciata contestualmente sulla ricevibilità e sul merito della causa.

5.  Il 5 giugno 2012 la camera ha informato le parti che riteneva opportuno applicare la procedura della «sentenza pilota» in virtù dell’articolo 46 § 1 della Convenzione.

6.  Sia il Governo che i ricorrenti hanno depositato osservazioni scritte sull’opportunità di applicare la procedura in questione.

IN FATTO

I.  LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE

7.  Al momento dell’introduzione dei loro ricorsi, i ricorrenti erano ristretti negli istituti penitenziari di Busto Arsizio e di Piacenza dove scontavano la pena della reclusione.

A.  Le condizioni di detenzione denunciate dai ricorrenti

1.   I ricorrenti detenuti nel carcere di Busto Arsizio (ricorsi nn. 43517/09, 46882/09 e 55400/09)

8.  Il sig. Torreggiani (ricorso n. 43517/09) fu detenuto nel carcere di Busto Arsizio dal 13 novembre 2006 al 7 maggio 2011, il sig. Bamba (ricorso n. 46882/09) dal 20 marzo 2008 al 23 giugno 2011 e il sig. Biondi (ricorso n. 55400/09) dal 29 giugno 2009 al 21 giugno 2011. Ciascuno di loro occupava una cella di 9 m² con altre due persone e disponeva quindi di uno spazio personale di 3 m². Nei loro ricorsi i ricorrenti sostenevano inoltre che l’accesso alla doccia nel carcere di Busto Arsizio era limitato a causa della penuria di acqua calda nell’istituto penitenziario.

2.   I ricorrenti detenuti nel carcere di Piacenza (ricorsi nn. 57875/09, 35315/10, 37818/10 e 61535/09)

9.   Il sig. Sela (ricorso n. 57875/09) fu detenuto a Piacenza dal 14 febbraio 2009 al 19 aprile 2010, il sig. El Haili (ricorso n. 35315/10) dal 15 febbraio 2008 all’8 luglio 2010 e il sig. Hajjoubi (ricorso n. 37818/10) dal 19 ottobre 2009 al 30 marzo 2011. Il sig. Ghisoni (ricorso n. 61535/09), incarcerato il 13 settembre 2007, è tuttora detenuto in questo istituto.

10.  I quattro ricorrenti affermano di aver occupato delle celle di 9 m² con altri due detenuti. Denunciano anche che nell’istituto penitenziario mancava l’acqua calda, il che per svariati mesi avrebbe impedito loro di far regolarmente uso della doccia, e che nelle celle non vi era luce sufficiente a causa delle barre metalliche apposte alle finestre.

11.  Secondo il Governo, le celle occupate a Piacenza dai ricorrenti hanno una superficie di 11 m².

B.  Le ordinanze del tribunale di sorveglianza di Reggio Emilia

12.  Il 10 aprile 2010, il sig. Ghisoni (n. 61535/09) e altre due persone detenute nel carcere di Piacenza si rivolsero al magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia, sostenendo che le loro condizioni detentive erano mediocri a causa del sovraffollamento nel carcere di Piacenza e denunciando una violazione del principio della parità di condizioni fra i detenuti, garantito dall’articolo 3 della legge n. 354 del 1975 sull’ordinamento penitenziario.

13.  Con ordinanze del 16, 20 e 24 agosto 2010, il magistrato di sorveglianza accoglieva i reclami del ricorrente e dei suoi co-detenuti osservando che gli interessati occupavano delle celle che erano state concepite per un solo detenuto e che, a causa della situazione di sovraffollamento nel carcere di Piacenza, ciascuna cella accoglieva quindi tre persone. Il magistrato constatò che la quasi totalità delle celle dell’istituto penitenziario aveva una superficie di 9 m² e che nel corso dell’anno 2010, l’istituto aveva ospitato tra le 411 e le 415 persone, mentre era previsto che potesse accogliere 178 detenuti, per una capienza tollerabile di 376 persone.

14.  Facendo riferimento alla sentenza Sulejmanovic c. Italia (n. 22635/03, 16 luglio 2009) e ai principi giurisprudenziali riguardanti la compatibilità tra le condizioni di detenzione e il rispetto dei diritti garantiti dall’articolo 3 della Convenzione, il magistrato di sorveglianza concluse che i reclamanti erano esposti a trattamenti inumani per il fatto che dovevano condividere con altri due detenuti delle celle esigue ed erano oggetto di una discriminazione rispetto ad altri detenuti che condividevano lo stesso tipo di cella con una sola persona.

15.  Il magistrato trasmise così i reclami del ricorrente e degli altri detenuti alla direzione del carcere di Piacenza, al Ministero della Giustizia e all’amministrazione penitenziaria competente affinché ciascuno potesse adottare con urgenza le misure adeguate nell’ambito delle proprie rispettive competenze.

16.  Nel febbraio 2011 il sig. Ghisoni fu trasferito in una cella concepita per ospitare due persone.

II.  IL DIRITTO E LA PRASSI INTERNI PERTINENTI

A.  La legge sull’ordinamento penitenziario

17.  L’articolo 6 della legge n. 354 del 26 luglio 1975 («La legge sull’ordinamento penitenziario»), recita:

«I locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati devono essere di ampiezza sufficiente, illuminati con luce naturale e artificiale in modo da permettere il lavoro e la lettura; aerati, riscaldati ove le condizioni climatiche lo esigono, e dotati di servizi igienici riservati, decenti e di tipo razionale. I detti locali devono essere tenuti in buono stato di conservazione e di pulizia. I locali destinati al pernottamento consistono in camere dotate di uno o più posti.

Particolare cura è impiegata nella scelta di quei soggetti che sono collocati in camere a più posti.

Agli imputati deve essere garantito il pernottamento in camere ad un posto a meno che la situazione particolare dell’istituto non lo consenta.

Ciascun detenuto (…) dispone di adeguato corredo per il proprio letto.»

18.  Ai sensi dell’articolo 35 della legge n. 354 del 1975, i detenuti possono rivolgere istanze o reclami orali o scritti, anche in busta chiusa, al magistrato di sorveglianza, al direttore dell’istituto penitenziario, nonché agli ispettori, al direttore generale per gli istituti di prevenzione e pena e al Ministro della Giustizia, alle autorità giudiziarie e sanitarie in visita all’istituto, al presidente della Giunta regionale e al Capo dello Stato.

19.  Secondo l’articolo 69 di questa stessa legge, il magistrato di sorveglianza è competente per controllare l’organizzazione degli istituti di prevenzione e pena e per prospettare al Ministro della Giustizia le esigenze dei vari servizi, con particolare riguardo alla attuazione del trattamento rieducativo delle persone detenute (comma 1). Esercita altresì la vigilanza diretta ad assicurare che l’esecuzione della custodia degli imputati sia attuata in conformità delle leggi e dei regolamenti (comma 2). Peraltro ha il potere di impartire disposizioni dirette ad eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati e degli internati (comma 5). Il giudice decide sul reclamo con ordinanza impugnabile soltanto per cassazione.

B.  Giurisprudenza interna relativa alla possibilità per i detenuti di chiedere un risarcimento in caso di cattive condizioni di detenzione

20.  Con ordinanza n. 17 del 9 giugno 2011, il magistrato di sorveglianza di Lecce accolse il reclamo di A.S., un detenuto che lamentava le sue condizioni detentive, inumane, a causa dell’elevato sovraffollamento nel carcere di Lecce. L’interessato aveva anche chiesto un indennizzo per il danno morale subito.

Il giudice constatò che il ricorrente aveva condiviso con altre due persone una cella mal riscaldata e priva di acqua calda, che misurava 11,5 m² compreso il servizio igienico. Inoltre il letto occupato da A.S. era ad appena 50 cm dal soffitto. Il ricorrente era obbligato a trascorrere diciannove ore e mezza al giorno sul suo letto a causa della mancanza di uno spazio destinato alle attività sociali all’esterno della cella.

Con la sua ordinanza, il magistrato di sorveglianza ritenne che le condizioni di detenzione dell’interessato fossero contrarie alla dignità umana e che comportassero violazioni sia della legge italiana sull’ordinamento penitenziario che delle norme fissate dal CPT del Consiglio d’Europa e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Inoltre, per la prima volta in Italia, si decise che l’amministrazione penitenziaria doveva accordare al detenuto l’importo complessivo di 220 EUR per il danno «esistenziale» derivante dalla detenzione.

21.  Il 30 settembre 2011 il Ministero della Giustizia propose ricorso per cassazione avverso l’ordinanza del magistrato di sorveglianza, sollevando in particolare l’incompetenza di questo giudice in materia di indennizzo dei detenuti. Con sentenza del 5 giugno 2012, la Corte di cassazione dichiarò il ricorso dell’amministrazione inammissibile perché tardivo, dal momento che era stato introdotto oltre il termine di 10 giorni previsto dalle disposizioni legali pertinenti. Di conseguenza l’ordinanza del magistrato di sorveglianza passò in giudicato.

22.  Questa giurisprudenza del magistrato di sorveglianza di Lecce, che riconosce ai detenuti un indennizzo per il danno esistenziale derivante dalle condizioni detentive, è rimasta isolata in Italia. Altri magistrati di sorveglianza hanno in effetti considerato che non rientrasse nelle loro prerogative condannare l’amministrazione a risarcire i detenuti per il danno subito durante la detenzione (si vedano, in tal senso, ad esempio, le ordinanze dei magistrati di sorveglianza di Udine e di Vercelli rispettivamente del 24 dicembre 2011 e del 18 aprile 2012).

III.  MISURE ADOTTATE DALLO STATO PER RIMEDIARE AL PROBLEMA DEL SOVRAFFOLLAMENTO NELLE CARCERI

23.  Nel 2010 vi erano 67.961 persone detenute nelle 206 carceri italiane, per una capienza massima prevista di 45.000 persone. Il tasso nazionale di sovraffollamento era del 151%.

24.  Con decreto del 13 gennaio 2010, il Presidente del Consiglio dei Ministri dichiarò lo stato di emergenza nazionale per la durata di un anno a causa del sovraffollamento degli istituti penitenziari italiani.

25.  Con ordinanza n. 3861 del 19 marzo 2010, intitolata «Disposizioni urgenti di protezione civile dirette a fronteggiare la situazione di emergenza conseguente all’eccessivo affollamento degli istituti penitenziari presenti sul territorio nazionale», il Presidente del Consiglio dei Ministri nominò un Commissario delegato al Ministero della Giustizia incaricato di elaborare un piano di intervento per le carceri («Piano carceri»).

26.  Il 29 giugno 2010 un Comitato costituito dal Ministro della Giustizia, dal Ministro delle Infrastrutture e dal Capo del dipartimento della Protezione civile approvò il piano di intervento presentato dal Commissario delegato. Tale piano prevedeva prima di tutto la costruzione di 11 nuovi istituti penitenziari e di 20 padiglioni all’interno di strutture già esistenti, fatto che implicava la creazione di 9.150 posti in più e l’assunzione di 2.000 nuovi agenti di polizia penitenziaria. I lavori dovevano essere portati a termine entro il 31 dicembre 2012

27.  Inoltre, con la legge n. 199 del 26 novembre 2010 furono adottate delle disposizioni straordinarie in materia di esecuzione delle pene. Tale legge prevedeva in particolare che la pena detentiva non superiore a dodici mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena, poteva essere eseguita presso l’abitazione del condannato o altro luogo di accoglienza, pubblico o privato, salvo nei casi di delitti particolarmente gravi

Questa legge resterà in vigore il tempo necessario per mettere in atto il piano di intervento per le carceri ma comunque non oltre il 31 dicembre 2013.

28.  Lo stato di emergenza nazionale, inizialmente dichiarato fino al 31 dicembre 2010, è stato prorogato due volte. Attualmente è in vigore fino al 31 dicembre 2012.

29.  Alla data del 13 aprile 2012, le carceri italiane accoglievano 66.585 detenuti, ossia un tasso di sovraffollamento del 148%.

Il 42 % dei detenuti sono in attesa di essere giudicati e sono sottoposti a custodia cautelare.

IV.  TESTI INTERNAZIONALI PERTINENTI

30.  Le parti pertinenti dei rapporti generali del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti («CPT») sono così formulate:

Secondo rapporto generale (CPT/Inf (92) 3):

« 46.  Il sovraffollamento è una questione di diretta attinenza al mandato del CPT. Tutti i servizi e le attività in un carcere sono influenzati negativamente se occorre farsi carico di un numero di detenuti maggiore rispetto a quello per il quale l’istituto è stato progettato; la qualità complessiva della vita in un istituto si abbassa, anche in maniera significativa. Inoltre, il livello di sovraffollamento in un carcere, o in una parte particolare di esso potrebbe essere tale da essere esso stesso inumano o degradante da un punto di vista fisico

47.  Un programma soddisfacente di attività (lavoro, istruzione, sport, etc.) è di cruciale importanza per il benessere dei detenuti. Questo è valido per tutti gli istituti, sia per i condannati che per gli imputati. Il CPT ha notato che le attività in molte case circondariali sono estremamente limitate. L’organizzazione di regimi di attività in questi istituti – che hanno un turnover abbastanza rapido di reclusi – non è una questione semplice. Ovviamente, non possono esserci programmi di trattamento personalizzati quali quelli a cui si può aspirare in un istituto per detenuti definitivi. Comunque, i detenuti non possono essere lasciati semplicemente a languire per settimane, a volte mesi, chiusi nelle loro celle, e questo indipendentemente da quanto siano buone o meno le condizioni materiali all’interno delle celle. Il CPT ritiene che bisognerebbe mirare ad assicurare ai detenuti in attesa di giudizio la possibilità di trascorrere una parte ragionevole del giorno (8 ore o più) fuori dalle loro celle, occupati in attività significative di varia natura. Naturalmente, i regimi negli istituti per detenuti la cui sentenza è definitiva dovrebbero essere ancora più favorevoli.

48.  Menzione a parte merita l’esercizio all’aria aperta. La richiesta che venga concessa ai detenuti almeno un’ora di esercizio all’aria aperta ogni giorno è diffusamente accettata quale tutela fondamentale (preferibilmente dovrebbe far parte di un programma più ampio di attività). Il CPT desidera sottolineare che tutti i detenuti senza eccezioni (inclusi quelli sottoposti a isolamento disciplinare) dovrebbero avere la possibilità di fare esercizio all’aria aperta quotidianamente. È inoltre assiomatico che gli spazi per l’esercizio all’aria aperta dovrebbero essere ragionevolmente ampi e, quando possibile, offrire riparo in caso di maltempo

49.  Un facile accesso a strutture adeguate di bagni ed il mantenimento di buoni standard di igiene sono componenti essenziali di un ambiente umano

Riguardo ciò, il CPT deve dichiarare che non è accettabile la pratica radicata in alcuni paesi in base alla quale i detenuti  utilizzano per i propri bisogni fisiologici  buglioli che tengono nelle loro celle (che vengono in seguito “vuotati” in orari stabiliti). O uno spazio per il gabinetto è collocato nella cella (preferibilmente in un annesso sanitario) o devono  esistere dei mezzi per garantire ai detenuti che ne abbiano bisogno di essere fatti uscire dalle loro celle senza alcun ritardo immotivato a qualsiasi ora (inclusa la notte).

Inoltre, i detenuti devono avere accesso adeguato a spazi dove poter fare il bagno o la doccia. È inoltre auspicabile che l’acqua corrente sia resa disponibile all’interno delle celle

50.  Il CPT aggiunge di essere particolarmente allarmato quando trova nello stesso istituto una combinazione di sovraffollamento, regime povero di attività e inadeguato accesso al gabinetto/spazi per lavarsi. L’effetto cumulativo di queste condizioni può risultare estremamente nocivo per i detenuti. »

Settimo rapporto generale (CPT/Inf (97) 10)

« 13.  Come il CPT ha puntualizzato nel suo 2° Rapporto Generale, il sovraffollamento carcerario è una questione di diretta pertinenza al mandato del Comitato (cfr. CPT/Inf (92) 3, paragrafo 46).

Un carcere sovraffollato implica spazio ristretto e non igienico; una costante mancanza di privacy (anche durante lo svolgimento di funzioni basilari come l’uso del gabinetto), ridotte attività fuori-cella, dovute alla richiesta di aumento del personale e dello spazio disponibili; servizi di assistenza sanitaria sovraccarichi; tensione crescente e quindi più violenza tra i detenuti e il personale. La lista è lungi dall’essere esaustiva

Il CPT ha dovuto concludere in più di un’occasione che gli effetti nocivi del sovraffollamento hanno portato a condizioni di detenzione inumane e degradanti.»

 

31.  Il 30 settembre 1999 il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa adottò la Raccomandazione Rec(99)22 riguardante il sovraffollamento delle carceri e l’inflazione carceraria. Tale raccomandazione stabilisce in particolare quanto segue:

«  Il Comitato dei Ministri, in virtù dell’articolo 15.b dello Statuto del Consiglio d’Europa,

Considerando che il sovraffollamento delle carceri e la crescita della popolazione carceraria costituiscono una sfida importante per le amministrazioni penitenziarie e per l’intero sistema della giustizia penale sia in termini di diritti umani che di gestione efficace degli istituti penitenziari;

Considerando che la gestione efficace della popolazione carceraria è subordinata ad alcune circostanze come la situazione complessiva della criminalità, le priorità in materia di lotta alla criminalità, la gamma di sanzioni previste dai testi legislativi, la gravità delle pene pronunciate, la frequenza del ricorso a sanzioni e misure applicate nella comunità, l’uso della custodia cautelare, l’efficienza e l’efficacia degli organi della giustizia penale e, in particolare, l’atteggiamento del pubblico nei confronti della criminalità e della sua repressione; (…)

Raccomanda ai governi degli Stati membri:

– di prendere tutte le misure appropriate in sede di revisione della loro legislazione e della loro prassi relative al sovraffollamento delle carceri e all’inflazione carceraria al fine di applicare i principi enunciati nell’Allegato alla presente Raccomandazione;

Allegato alla Raccomandazione n. R (99) 22

I.  Principi di base

1.  La privazione della libertà dovrebbe essere considerata come una sanzione o una misura di ultima istanza e dovrebbe pertanto essere prevista soltanto quando la gravità del reato renderebbe qualsiasi altra sanzione o misura manifestamente inadeguata.

2.  L’ampliamento del parco penitenziario dovrebbe essere piuttosto una misura eccezionale in quanto, in generale, non è adatta ad offrire una soluzione duratura al problema del sovraffollamento. I paesi la cui capacità carceraria potrebbe essere nel complesso sufficiente ma non adeguata ai bisogni locali, dovrebbero sforzarsi di giungere ad una ripartizione più razionale di tale capacità.

3.  È opportuno prevedere un insieme appropriato di sanzioni e di misure applicate nella comunità, eventualmente graduate in termini di gravità; è necessario motivare i procuratori e i giudici a farvi ricorso nel modo più ampio possibile.

4.  Gli Stati membri dovrebbero esaminare l’opportunità di depenalizzare alcuni tipi di delitti o di riqualificarli in modo da evitare che essi richiedano l’applicazione di pene privative della libertà.

5.  Al fine di concepire un’azione coerente contro il sovraffollamento delle carceri e l’inflazione carceraria, dovrebbe essere condotta un’analisi dettagliata dei principali fattori che contribuiscono a questi fenomeni. Un’analisi di questo tipo dovrebbe riguardare, in particolare, le categorie di reati che possono comportare lunghe pene detentive, le priorità in materia di lotta alla criminalità, e gli atteggiamenti e le preoccupazioni del pubblico nonché le prassi esistenti in materia di comminazione delle pene.

(…)

III.  Misure da applicare prima del processo penale

Evitare l’azione penale – Ridurre il ricorso alla custodia cautelare

10.  Alcune misure appropriate dovrebbero essere adottate in vista dell’applicazione integrale dei principi enunciati nella Raccomandazione n. (87) 18 riguardo la semplificazione della giustizia penale, fatto che implica, in particolare, che gli Stati membri, pur tenendo conto dei loro principi costituzionali o delle loro tradizioni giuridiche, applichino il principio dell’opportunità dell’azione penale (o misure aventi lo stesso obiettivo) e ricorrano a procedure semplificate e a transazioni come alternative alle azioni penali nei casi appropriati, al fine di evitare un procedimento penale completo.

11.  L’applicazione della custodia cautelare e la sua durata dovrebbero essere ridotte al minimo compatibile con gli interesse della giustizia. Gli Stati membri dovrebbero, al riguardo, assicurarsi che la loro legislazione e la loro prassi siano conformi alle disposizioni pertinenti della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo ed alla giurisprudenza dei suoi organi di controllo e lasciarsi guidare dai principi enunciati nella Raccomandazione n. R (80) 11 in materia di custodia cautelare per quanto riguarda, in particolare, i motivi che consentono l’applicazione della custodia cautelare.

12.  È opportuno fare un uso più ampio possibile delle alternative alla custodia cautelare quali ad esempio l’obbligo, per l’indagato, di risiedere ad un indirizzo specificato, il divieto di lasciare o di raggiungere un luogo senza autorizzazione, la scarcerazione su cauzione, o il controllo e il sostegno di un organismo specificato dall’autorità giudiziaria. A tale proposito è opportuno valutare attentamente la possibilità di controllare tramite sistemi di sorveglianza elettronici l’obbligo di dimorare nel luogo precisato.

13.  Per sostenere il ricorso efficace e umano alla custodia cautelare, è necessario impegnare le risorse economiche e umane necessarie e, eventualmente, mettere a punto i mezzi procedurali e tecnici di gestione appropriati.

(…)

V.  Misure da applicare dopo il processo penale

L’applicazione delle sanzioni e delle misure applicate nella comunità – L’esecuzione delle pene privative della libertà

22.  Per fare in modo che le sanzioni e le misure applicate nella comunità siano delle alternative credibili alle pene detentive di breve durata, è opportuno assicurare una loro efficiente applicazione, in particolare:

–  realizzando l’infrastruttura richiesta per l’esecuzione e il controllo di queste sanzioni comunitarie, in particolare al fine di dare assicurazioni ai giudici e ai procuratori sulla loro efficacia;

–  mettendo a punto e applicando tecniche affidabili di previsione e di valutazione dei rischi nonché strategie di supervisione, al fine di identificare il rischio di recidiva del delinquente e garantire la protezione e la sicurezza del pubblico.

23.  Sarebbe opportuno promuovere lo sviluppo di misure volte a ridurre la durata effettiva della pena eseguita, preferendo le misure individuali, quali la liberazione condizionale, alle misure collettive per la gestione del sovraffollamento carcerario (indulti collettivi, amnistie).

24.  La liberazione condizionale dovrebbe essere considerata come una delle misure più efficaci e più costruttive che, non soltanto riduce la durata della detenzione, ma contribuisce anche in modo significativo al reinserimento pianificato del delinquente nella comunità.

25.  Per promuovere ed estendere il ricorso alla liberazione condizionale, occorrerebbe creare nella comunità migliori condizioni di sostegno e di assistenza al delinquente nonché di controllo di quest’ultimo, in particolare per indurre le istanze giudiziarie o amministrative competenti a considerare questa misura come una opzione valida e responsabile.

26.   I programmi di trattamento efficaci nel corso della detenzione così come il controllo e il trattamento dopo la liberazione dovrebbero essere concepiti ed applicati in modo da facilitare il reinserimento dei delinquenti, ridurre la recidiva, garantire la sicurezza e la protezione del pubblico e motivare i giudici e i procuratori a considerare le misure volte a ridurre la durata effettiva della pena da scontare nonché le sanzioni e le misure applicate nella comunità, come opzioni costruttive e responsabili.»

32.  La seconda parte della raccomandazione Rec(2006)2 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulle Regole penitenziarie europee (adottata l’11 gennaio 2006, nel corso della 952a riunione dei Delegati dei Ministri) è dedicata alle condizioni di detenzione. Nei suoi passaggi pertinenti al caso di specie essa è così formulata:

« 18.1  I locali di detenzione e, in particolare, quelli destinati ad accogliere i detenuti durante la notte, devono soddisfare le esigenze di rispetto della dignità umana e, per quanto possibile, della vita privata, e rispondere alle condizioni minime richieste in materia di sanità e di igiene, tenuto conto delle condizioni climatiche, in particolare per quanto riguarda la superficie, la cubatura d’aria, l’illuminazione, il riscaldamento e l’aerazione.

18.2  Nei locali in cui i detenuti devono vivere, lavorare o riunirsi:

a.  le finestre devono essere sufficientemente ampie affinché i detenuti possano leggere e lavorare alla luce naturale in condizioni normali e per permettere l’apporto di aria fresca, a meno che esista un sistema di climatizzazione appropriato

b.  la luce artificiale deve essere conforme alle norme tecniche riconosciute in materia; e

c.  un sistema d’allarme deve permettere ai detenuti di contattare immediatamente il personale.

18.3  La legislazione nazionale deve definire le condizioni minime richieste relative ai punti elencati ai paragrafi 1 e 2.

18.4  Il diritto interno deve prevedere dei meccanismi che garantiscano il rispetto di queste condizioni minime, anche in caso di sovraffollamento carcerario.

18.5  Ogni detenuto, di regola, deve poter disporre durante la notte di una cella individuale, tranne quando si consideri preferibile per lui che condivida la cella con altri detenuti.

18.6  Una cella deve essere condivisa unicamente se è predisposta per l’uso collettivo e deve essere occupata da detenuti riconosciuti atti a convivere.

18.7  Se possibile, i detenuti devono poter scegliere prima di essere costretti a condividere una cella per dormire.

18.8  Nel decidere di alloggiare detenuti in particolari istituti o in particolari sezioni di un carcere bisogna tener conto delle necessità di separare

a.  i detenuti imputati dai detenuti condannati;

b.  i detenuti maschi dalle detenute femmine; e

c.  i detenuti giovani adulti dai detenuti più anziani.

18.9  Si può derogare alle disposizioni del paragrafo 8 in materia di separazione dei detenuti per permettere loro di partecipare assieme a delle attività organizzate. Tuttavia i gruppi citati dovranno sempre essere separati durante la notte a meno che gli stessi interessati non consentano a coabitare e che le autorità penitenziarie ritengano che questa misura si iscriva nell’interesse di tutti i detenuti interessati

18.10  Le condizioni di alloggio dei detenuti devono soddisfare le misure di sicurezza meno restrittive possibili e proporzionali al rischio che gli interessati evadano, si feriscano o feriscano altre persone.»

IN DIRITTO

I.  SULLA RIUNIONE DEI RICORSI

33.  Tenuto conto dell’analogia dei ricorsi per quanto riguarda le doglianze dei ricorrenti e il problema che pongono nel merito, la Corte ritiene necessario riunirli e decide di esaminarli congiuntamente in un’unica sentenza.

II.  SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 3 DELLA CONVENZIONE

34.  Invocando l’articolo 3 della Convenzione, i ricorrenti sostengono che le loro rispettive condizioni detentive negli istituti penitenziari di Busto Arsizio e di Piacenza costituiscono trattamenti inumani e degradanti. L’articolo 3 della Convenzione è così redatto:

«Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.»

35.  Il Governo si oppone a questa tesi.

A.  Sulla ricevibilità

1.  L’eccezione relativa al difetto della qualità di vittima

36.  Il Governo osserva che tutti i ricorrenti tranne il sig. Ghisoni sono stati scarcerati o trasferiti in altre celle dopo la presentazione dei loro ricorsi. A suo avviso, quei ricorrenti non possono più sostenere di essere vittime della violazione della Convenzione da loro denunciata e i loro ricorsi dovrebbero essere rigettati.

37.  I ricorrenti interessati si oppongono a questa osservazione.

38.  La Corte rammenta che una decisione o una misura favorevole al ricorrente è sufficiente, in linea di principio, a privarlo della qualità di «vittima» solo quando le autorità nazionali abbiano riconosciuto, esplicitamente o sostanzialmente, la violazione della Convenzione e vi abbiano posto rimedio (si vedano, ad esempio, Eckle c. Germania, 15 luglio 1982, § 69, serie A n. 51; Amuur c. Francia, 25 giugno 1996, § 36, Recueil des arrêts et décisions 1996-III; Dalban c. Romania [GC], n. 28114/95, § 44, CEDU 1999-VI; e Jensen c. Danimarca (dec.), n. 48470/99, CEDU 2001-X).

39.  I ricorrenti lamentano davanti alla Corte di essere stati detenuti nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza per periodi particolarmente lunghi in condizioni contrarie alla Convenzione. Ora, è vero che, dopo la presentazione dei rispettivi ricorsi, gli interessati sono stati scarcerati o trasferiti in altri istituti penitenziari. Tuttavia, non si può ritenere che, con ciò, le autorità interne abbiano riconosciuto le violazioni denunciate dai ricorrenti e poi riparato il danno che essi avrebbero potuto subire a causa delle situazioni descritte nei loro ricorsi.

40.  La Corte conclude che tutti i ricorrenti possono ancora sostenere di essere «vittime» di una violazione dei loro diritti sanciti dall’articolo 3 della Convenzione.

2.  L’eccezione di mancato esaurimento delle vie di ricorso interne

41.  Il Governo eccepisce il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne. A suo dire, qualsiasi persona detenuta o internata nelle carceri italiane può rivolgere al magistrato di sorveglianza un reclamo in virtù degli articoli 35 e 69 della legge n. 354 del 1975. Questa via di ricorso sarebbe accessibile ed effettiva e consentirebbe di ottenere decisioni vincolanti e suscettibili di riparare eventuali violazioni dei diritti dei detenuti. Secondo il Governo, il procedimento davanti al magistrato di sorveglianza costituisce un rimedio pienamente giudiziario, all’esito del quale l’autorità adita può prescrivere all’amministrazione penitenziaria misure obbligatorie volte a migliorare le condizioni detentive della persona interessata.

42.  Ora, il Governo osserva che soltanto il sig. Ghisoni, ricorrente della causa n. 61535/09, si è avvalso di questa possibilità presentando un reclamo davanti al magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia e ottenendo un’ordinanza favorevole. Secondo il Governo, ciò costituisce la prova dell’accessibilità e dell’effettività della via di ricorso in questione. Ne conseguirebbe che i ricorrenti che non si sono avvalsi di detto rimedio non hanno esaurito le vie di ricorso interne.

43.  Quanto alla mancata esecuzione da parte dell’amministrazione penitenziaria di detta ordinanza del magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia, il Governo afferma che il sig. Ghisoni ha omesso di chiedere alle «autorità giudiziarie interne» la messa in esecuzione di tale decisione. Di conseguenza, esso ritiene che anche il ricorso del sig. Ghisoni debba essere dichiarato irricevibile per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne.

44.  I ricorrenti sostengono che il sistema italiano non offre alcuna via di ricorso suscettibile di porre rimedio al sovraffollamento delle carceri italiane e di portare a un miglioramento delle condizioni detentive.

45.  In particolare, essi denunciano la non effettività del procedimento dinanzi al magistrato di sorveglianza. Osservano innanzitutto che il ricorso in questione non costituisce un rimedio giudiziario, bensì un ricorso di tipo amministrativo, giacché le decisioni del magistrato di sorveglianza non sono affatto vincolanti per le direzioni degli istituti penitenziari. Peraltro, essi sostengono che molti detenuti hanno cercato di migliorare le loro cattive condizioni carcerarie attraverso reclami rivolti al magistrato di sorveglianza, senza tuttavia ottenere alcun risultato. Di conseguenza, essi si ritengono dispensati dall’obbligo di esaurire tale rimedio.

46.  Quanto al sig. Ghisoni, egli sostiene di avere esaurito le vie di ricorso interne presentando al magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia un reclamo sulla base degli articoli 35 e 69 della legge sull’ordinamento penitenziario. La sua esperienza sarebbe la prova della non effettività della via di ricorso indicata dal Governo.

A suo dire, l’ordinanza emessa dal magistrato di sorveglianza il 20 agosto 2010, che riconosceva che le condizioni detentive nel carcere di Piacenza erano inumane e ordinava alle autorità amministrative competenti di porre in essere tutte le misure necessarie per porvi rimedio con urgenza, è rimasta lettera morta per diversi mesi. Egli non vede quale altro passo avrebbe potuto fare per ottenere un’esecuzione rapida dell’ordinanza.

47.  La Corte rammenta che la regola dell’esaurimento delle vie di ricorso interne mira a offrire agli Stati contraenti l’occasione per prevenire o riparare le violazioni denunciate nei loro confronti prima che tali denunce siano portate alla sua attenzione (si vedano, tra molte altre, Remli c. Francia, 23 aprile 1996, § 33, Recueil 1996-II, e Selmouni c. Francia [GC], n. 25803/94, § 74, CEDU 1999-V). La regola si fonda sull’ipotesi, oggetto dell’articolo 13 della Convenzione – e con il quale essa presenta strette affinità -, che l’ordinamento interno offra un ricorso effettivo quanto alla violazione dedotta (Kudła c. Polonia [GC], n. 30210/96, § 152, CEDU 2000-XI).

48.  Tuttavia, l’obbligo derivante dall’articolo 35 si limita a quello di fare un uso normale dei ricorsi verosimilmente effettivi, sufficienti ed accessibili (tra altre, Vernillo c. Francia, 20 febbraio 1991, § 27, serie A n. 198). In particolare, la Convenzione prescrive l’esaurimento dei soli ricorsi che siano al tempo stesso relativi alle violazioni denunciate, disponibili e adeguati. Essi devono esistere con un sufficiente grado di certezza non solo nella teoria ma anche nella pratica, altrimenti mancano dell’effettività e dell’accessibilità volute (Dalia c. Francia, 19 febbraio 1998, § 38, Recueil 1998-I). Inoltre, secondo i «principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti», alcune circostanze particolari possono dispensare il ricorrente dall’obbligo di esaurire le vie di ricorso interne che gli si offrono. Allo stesso modo, la regola non si applica quando sia provata l’esistenza di una prassi amministrativa che consiste nella ripetizione di atti vietati dalla Convenzione e dalla tolleranza ufficiale dello Stato, tale da rendere vano o non effettivo qualsiasi procedimento (Aksoy c. Turchia, sentenza del 18 dicembre 1996, Recueil 1996-VI, § 52).

49.  Infine, l’articolo 35 § 1 della Convenzione prevede una ripartizione dell’onere della prova. Per quanto riguarda il Governo, quando eccepisce il mancato esaurimento, esso deve convincere la Corte che il ricorso era effettivo e disponibile sia in teoria che in pratica all’epoca dei fatti, vale a dire che era accessibile, era in grado di offrire al ricorrente la riparazione delle doglianze e presentava ragionevoli prospettive di successo (Akdivar e altri c. Turchia, 16 settembre 1996, § 68, Recueil 1996‑IV; e Sejdovic c. Italia [GC], n. 56581/00, § 46, CEDU 2006-II).

50.  In particolare, la Corte ha già avuto modo di indicare che, nella valutazione dell’effettività dei rimedi riguardanti denunce di cattive condizioni detentive, la questione fondamentale è stabilire se la persona interessata possa ottenere dai giudici interni una riparazione diretta ed appropriata, e non semplicemente una tutela indiretta dei diritti sanciti dall’articolo 3 della Convenzione (si veda, tra l’altro, Mandić e Jović c. Slovenia, nn. 5774/10 e 5985/10, § 107, 20 ottobre 2011). Così, un’azione esclusivamente risarcitoria non può essere considerata sufficiente per quanto riguarda le denunce di condizioni d’internamento o di detenzione asseritamente contrarie all’articolo 3, dal momento che non ha un effetto «preventivo» nel senso che non può impedire il protrarsi della violazione dedotta o  consentire ai detenuti di ottenere un miglioramento delle loro condizioni materiali di detenzione (Cenbauer c. Croazia (dec.), n. 73786/01, 5 febbraio 2004; Norbert Sikorski c. Polonia, n. 17599/05, § 116, 22 ottobre 2009; Mandić e Jović c. Slovenia, sopra citata § 116; Parascineti c. Romania, n. 32060/05, § 38, 13 marzo 2012).

In questo senso, perché un sistema di tutela dei diritti dei detenuti sanciti dall’articolo 3 della Convenzione sia effettivo, i rimedi preventivi e compensativi devono coesistere in modo complementare (Ananyev e altri c. Russia, nn. 42525/07 e 60800/08, § 98, 10 gennaio 2012).

51.  Nel caso di specie, la Corte deve stabilire se il reclamo davanti al magistrato di sorveglianza italiano costituisca una via di ricorso rispondente ai criteri da essa stabiliti nella sua giurisprudenza. Innanzitutto, essa rileva che le parti non concordano sulla natura del rimedio in questione: il Governo afferma la natura pienamente giurisdizionale del procedimento davanti al magistrato di sorveglianza, mentre i ricorrenti ritengono che, vista la sua natura meramente amministrativa, non si tratti di un rimedio da esaurire. Ora, secondo la Corte, la questione non è determinante avendo essa già rilevato che, in alcune circostanze, le vie di ricorso di natura amministrativa possono rivelarsi efficaci – e costituire quindi rimedi da esaurire – in caso di doglianze riguardanti l’applicazione della normativa relativa al regime carcerario (Norbert Sikorski c. Polonia, sopra citata, § 111).

52.  Ciò premesso, rimane da risolvere la questione dell’effettività, nella pratica, della via di ricorso indicata nel caso di specie dal governo convenuto. Al riguardo, la Corte constata che, nonostante quest’ultimo affermi che le decisioni emesse dai magistrati di sorveglianza nell’ambito del procedimento previsto dalla legge sull’ordinamento penitenziario sono vincolanti per le autorità amministrative competenti, l’ordinanza del magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia del 20 agosto 2010, favorevole al sig. Ghisoni e ai suoi co-detenuti e che comportava l’adozione d’urgenza di misure adeguate, è rimasta a lungo non eseguita. Dal fascicolo emerge che il ricorrente fu trasferito in una cella per due persone, quindi con uno spazio a sua disposizione compatibile con le norme europee, solo nel febbraio 2011. Al riguardo, il Governo si è limitato a sostenere che gli interessati avrebbero dovuto chiedere la pronta esecuzione di detta ordinanza alle «autorità giudiziarie interne», senza peraltro precisare quali.

53.  Per la Corte, è difficile conciliare quest’ultima affermazione del Governo con l’asserita effettività della procedura di reclamo dinanzi al magistrato di sorveglianza. Essa osserva che, anche ammesso che esista una via di ricorso riguardante l’esecuzione delle ordinanze dei magistrati di sorveglianza, il che non è stato affatto dimostrato dal Governo, non si può pretendere che un detenuto che ha ottenuto una decisione favorevole proponga ripetutamente ricorsi al fine di ottenere il riconoscimento dei suoi diritti fondamentali a livello dell’amministrazione penitenziaria.

54.  Del resto, la Corte ha già osservato che il malfunzionamento dei rimedi «preventivi» in situazioni di sovraffollamento carcerario dipende ampiamente dalla natura strutturale del fenomeno (Ananyev e altri c. Russia, sopra citata, § 111). Ora, dai fascicoli dei presenti ricorsi, nonché dai rapporti sulla situazione del sistema penitenziario italiano, non rimessa in discussione dal Governo davanti alla Corte, emerge che gli istituti penitenziari di Busto Arsizio e di Piacenza sono abbondantemente sovraffollati, così come un gran numero di carceri italiane, al punto che il sovraffollamento carcerario in Italia ha assunto le dimensioni di un fenomeno strutturale e non riguarda esclusivamente il caso particolare dei ricorrenti (si vedano, in particolare, Mamedova c. Russia, n. 7064/05, § 56, 1° giugno 2006; Norbert Sikorski c. Polonia, sopra citata, § 121). Pertanto, è facile immaginare che le autorità penitenziarie italiane non siano in grado di eseguire le decisioni dei magistrati di sorveglianza e di garantire ai detenuti condizioni detentive conformi alla Convenzione.

55.  Alla luce di queste circostanze, la Corte ritiene che non sia stato dimostrato che la via di ricorso indicata dal Governo, tenuto conto in particolare della situazione attuale del sistema penitenziario, sia effettiva nella pratica, vale a dire che possa impedire il protrarsi della violazione denunciata e assicurare ai ricorrenti un miglioramento delle loro condizioni materiali di detenzione. Questi non erano quindi tenuti ad esaurirla prima di adire la Corte.

56.  Pertanto, la Corte ritiene che sia opportuno rigettare anche l’eccezione di mancato esaurimento sollevata dal Governo. Essa constata che i ricorsi non sono manifestamente infondati ai sensi dell’articolo 35 § 3 a) della Convenzione. Rilevando peraltro che essi non incorrono in altri motivi d’irricevibilità, li dichiara ricevibili.

B.  Sul merito

1.  Argomenti delle parti

57.  I ricorrenti lamentano la mancanza di spazio vitale nelle rispettive celle. Avendo tutti diviso celle di 9 m2 con altre due persone, essi avrebbero avuto a disposizione uno spazio personale di 3 m2. Tale spazio, di per sé insufficiente, era peraltro ulteriormente ridotto dalla presenza di mobilio nelle celle.

58.  Inoltre, i ricorrenti denunciano l’esistenza di gravi problemi di distribuzione di acqua calda negli istituti penitenziari di Busto Arsizio e di Piacenza. A loro dire, per molto tempo la mancanza di acqua calda ha limitato a tre volte a settimana l’accesso alla doccia. Infine, i ricorrenti detenuti a Piacenza lamentano l’apposizione alle finestre delle celle di pesanti sbarre metalliche che impediscono all’aria e alla luce del giorno di entrare nei locali.

59.  Il Governo si oppone agli argomenti dei ricorrenti, sostenendo genericamente che le condizioni detentive denunciate dagli interessati non raggiungono in nessun caso la soglia minima di gravità richiesta dall’articolo 3 della Convenzione.

60.  Quanto all’istituto penitenziario di Busto Arsizio, stando al Governo la situazione è sotto il controllo delle autorità; infatti, il sovraffollamento in quell’istituto non ha raggiunto una soglia preoccupante. Il Governo fa sapere che, alla data dell’8 febbraio 2011, l’istituto, progettato per ospitare 297 persone, accoglieva 439 detenuti. Il Governo ammette che nelle celle è stato aggiunto un terzo letto a causa della situazione di sovraffollamento nell’istituto. Tuttavia, il fatto di dividere una cella di 9 m2 con altre due persone non costituirebbe un trattamento inumano o degradante. Peraltro, il Governo si limita a sostenere che il problema denunciato dai ricorrenti della mancanza di acqua calda nell’istituto è al momento risolto grazie all’installazione di un nuovo sistema di distribuzione idrica.

61.  Per quanto concerne le condizioni detentive nel carcere di Piacenza, il Governo sostiene che la capienza massima dell’istituto è di 346 persone. Ora, a suo avviso, esso ospitava 412 persone l’11 marzo 2011. Il Governo ne conclude che il sovraffollamento in quell’istituto, benché reale, non raggiunge dimensioni preoccupanti.

62.  Secondo il Governo, le celle del carcere di Piacenza hanno una superficie di 11 m2, contrariamente alle affermazioni dei ricorrenti, e in genere sono occupate da due persone. Tuttavia, esso ammette che in alcune celle del carcere è stato posto un terzo detenuto per periodi limitati e per far fronte alla crescita della popolazione carceraria.

63.  Stando al Governo, i ricorrenti non hanno né provato di avere avuto a disposizione uno spazio personale inferiore a 3 m2, né precisato la durata del loro mantenimento nelle condizioni denunciate davanti alla Corte. Pertanto, le loro doglianze non sarebbero sufficientemente provate.

64.  Quanto agli altri trattamenti denunciati dai ricorrenti, il Governo afferma che il problema della scarsità di acqua calda nel carcere di Piacenza era legato ad un malfunzionamento della stazione di pompaggio ed è stato risolto dalle autorità e che, quindi, adesso è possibile accedere alla doccia tutti i giorni. Infine, il Governo sostiene che i detenuti nel carcere di Piacenza passano quattro ore al giorno fuori delle loro celle e dedicano due ore in più alle attività sociali.

2.  Principi stabiliti nella giurisprudenza della Corte

65.  La Corte rileva che di solito le misure privative della libertà comportano per il detenuto alcuni inconvenienti. Tuttavia, essa rammenta che la carcerazione non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato. In questo contesto, l’articolo 3 pone a carico delle autorità un obbligo positivo che consiste nell’assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad uno stato di sconforto né ad una prova d’intensità che ecceda l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati adeguatamente (Kudła c. Polonia [GC], n. 30210/96, § 94, CEDU 2000-XI; Norbert Sikorski c. Polonia, sopra citata § 131).

66.  Quanto alle condizioni detentive, la Corte prende in considerazione gli effetti cumulativi di queste nonché le specifiche affermazioni del ricorrente (Dougoz c. Grecia, n. 40907/98, CEDU 2001-II). In particolare, il tempo durante il quale un individuo è stato detenuto nelle condizioni denunciate costituisce un fattore importante da considerare (Alver c. Estonia, n. 64812/01, 8 novembre 2005).

67.  Quando il sovraffollamento carcerario raggiunge un certo livello, la mancanza di spazio in un istituto penitenziario può costituire l’elemento centrale da prendere in considerazione nella valutazione della conformità di una data situazione all’articolo 3 (si veda, in questo senso, Karalevičius c. Lituania, n. 53254/99, 7 aprile 2005).68.  Così, quando si è dovuta occupare di casi di sovraffollamento grave, la Corte ha giudicato che tale elemento, da solo, basta a concludere per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione. Di norma, sebbene lo spazio ritenuto auspicabile dal CPT per le celle collettive sia di 4 m2, si tratta di casi emblematici in cui lo spazio personale concesso ad un ricorrente era inferiore a 3 m2 (Kantyrev c. Russia, n. 37213/02, §§ 50-51, 21 giugno 2007; Andreï Frolov c. Russia, n. 205/02, §§ 47-49, 29 marzo 2007; Kadikis c. Lettonia, n. 62393/00, § 55, 4 maggio 2006; Sulejmanovic c. Italia, n. 22635/03, § 43, 16 luglio 2009).69.  Invece, in cause in cui il sovraffollamento non era così serio da sollevare da solo un problema sotto il profilo dell’articolo 3, la Corte ha notato che, nell’esame del rispetto di tale disposizione, andavano presi in considerazione altri aspetti delle condizioni detentive. Tra questi elementi figurano la possibilità di utilizzare i servizi igienici in modo riservato, l’aerazione disponibile, l’accesso alla luce e all’aria naturali, la qualità del riscaldamento e il rispetto delle esigenze sanitarie di base (si vedano anche gli elementi risultanti dalle regole penitenziarie europee adottate dal Comitato dei Ministri, citate nel paragrafo 32 supra). Così, persino in cause in cui ciascun detenuto disponeva di uno spazio variabile dai 3 ai 4 m2, la Corte ha concluso per la violazione dell’articolo 3 quando la mancanza di spazio era accompagnata da una mancanza di ventilazione e di luce (Moisseiev c. Russia, n. 62936/00, 9 ottobre 2008; si vedano anche Vlassov c. Russia, n. 78146/01, § 84, 12 giugno 2008; Babouchkine c. Russia, n. 67253/01, § 44, 18 ottobre 2007); da un accesso limitato alla passeggiata all’aria aperta (István Gábor Kovács c. Ungheria, n. 15707/10, § 26, 17 gennaio 2012) o da una mancanza totale d’intimità nelle celle (si vedano, mutatis mutandis, Belevitskiy c. Russia, n. 72967/01, §§ 73-79, 1° marzo 2007; Khudoyorov c. Russia, n. 6847/02, §§ 106-107, CEDU 2005-X (estratti); e Novoselov c. Russia, n. 66460/01, §§ 32 e 40-43, 2 giugno 2005).

3.  Applicazione dei principi summenzionati alle presenti cause

70.  La Corte osserva innanzitutto che il Governo non ha contestato che i sigg. Torreggiani, Biondi e Bamba abbiano occupato durante tutta la loro detenzione nel carcere di Busto Arsizio celle di 9 m2, ciascuno con altre due persone.

71.  Le versioni delle parti divergono invece quanto alle dimensioni delle celle occupate dai ricorrenti detenuti nel carcere di Piacenza e al numero di occupanti delle stesse. Ciascuno dei cinque ricorrenti interessati afferma di dividere celle di 9 m2 con altre due persone, mentre il Governo sostiene che le celle in questione misurano 11 m2 e sono di regola occupate da due persone. La Corte nota peraltro che il Governo non ha fornito alcun documento in merito ai ricorrenti interessati né ha presentato informazioni riguardanti le dimensioni reali delle celle da loro occupate. Secondo il Governo, spetta ai ricorrenti provare la realtà delle loro affermazioni riguardanti lo spazio personale a loro disposizione e la durata del trattamento denunciato davanti alla Corte.

72.  La Corte, sensibile alla particolare vulnerabilità delle persone che si trovano sotto il controllo esclusivo degli agenti dello Stato, quali le persone detenute, ribadisce che la procedura prevista dalla Convenzione non si presta sempre ad un’applicazione rigorosa del principio affirmanti incumbit probatio (l’onere della prova spetta a colui che afferma) in quanto, inevitabilmente, il governo convenuto è talvolta l’unico ad avere accesso alle informazioni che possono confermare o infirmare le affermazioni del ricorrente (Khoudoyorov c. Russia, n. 6847/02, § 113, CEDU 2005-X (estratti); e Benediktov c. Russia, n. 106/02, § 34, 10 maggio 2007; Brânduşe c. Romania, n. 6586/03, § 48, 7 aprile 2009; Ananyev e altri c. Russia, sopra citata, § 123). Ne consegue che il semplice fatto che la versione del Governo contraddica quella fornita dal ricorrente non può, in mancanza di un qualsiasi documento o spiegazione pertinenti da parte del Governo, indurre la Corte a rigettare le affermazioni dell’interessato come non provate (Ogică c. Romania, n. 24708/03, § 43, 27 maggio 2010).

73.  Pertanto, poiché il Governo non ha presentato alla Corte informazioni pertinenti idonee a giustificare le sue affermazioni, la Corte esaminerà la questione delle condizioni detentive dei ricorrenti sulla base delle affermazioni degli interessati e alla luce di tutte quante le informazioni in suo possesso.

74.  Al riguardo, essa nota che le versioni dei ricorrenti detenuti a Piacenza sono unanimi quanto alle dimensioni delle loro celle. Inoltre, la circostanza che la maggior parte dei locali di detenzione di quell’istituto misuri 9 m2 è confermata dalle ordinanze del magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia (paragrafo 11 supra). Quanto al numero di persone ospitate nelle celle, il Governo non ha presentato alcun documento pertinente estratto dai registri del carcere, nonostante sia l’unico ad avere accesso a questo tipo d’informazioni, pur riconoscendo che la situazione di sovraffollamento nel carcere di Piacenza ha reso necessario il collocamento di una terza persona in alcune celle dell’istituto.

75.  In mancanza di documenti che dimostrino il contrario e tenuto conto della situazione di sovraffollamento generalizzato nel carcere di Piacenza, la Corte non ha alcun motivo di dubitare delle affermazioni dei sigg. Sela, Ghisoni, Hajjoubi e Haili, secondo le quali essi hanno diviso le celle con altre due persone, disponendo così, proprio come i sigg. Torreggiani, Bamba e Biondi (si veda il paragrafo 70 supra), di uno spazio vitale individuale di 3 m2. Essa osserva che tale spazio era peraltro ulteriormente ridotto dalla presenza di mobilio nelle celle.

76.  Alla luce di quanto precede, la Corte ritiene che i ricorrenti non abbiano beneficiato di uno spazio vitale conforme ai criteri da essa ritenuti accettabili con la sua giurisprudenza. Essa desidera rammentare ancora una volta in questo contesto che la norma in materia di spazio abitabile nelle celle collettive raccomandata dal CPT è di quattro metri quadrati (Ananyev e altri, sopra citata, §§ 144 e 145).

77.  La Corte osserva poi che la grave mancanza di spazio sperimentata dai sette ricorrenti per periodi variabili dai quattordici ai cinquantaquattro mesi (paragrafi 6 e 7 supra), costitutiva di per sé di un trattamento contrario alla Convenzione, sembra essere stata ulteriormente aggravata da altri trattamenti denunciati dagli interessati. La mancanza di acqua calda nei due istituti per lunghi periodi, ammessa dal Governo, nonché l’illuminazione e la ventilazione insufficienti nelle celle del carcere di Piacenza, sulle quali il Governo non si è espresso, non hanno mancato di causare nei ricorrenti un’ulteriore sofferenza, benché non costituiscano di per sé un trattamento inumano e degradante.

78.  Anche se la Corte ammette che nel caso di specie niente suggerisce che vi sia stata intenzione di umiliare o di degradare i ricorrenti, l’assenza di un tale scopo non può escludere una constatazione di violazione dell’articolo 3 (si veda, tra altre, Peers c. Grecia, n. 28524/95, § 74, CEDU 2001‑III). La Corte ritiene che le condizioni detentive in questione, tenuto conto anche della durata della carcerazione dei ricorrenti, abbiano sottoposto gli interessati ad una prova d’intensità superiore all’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione.

79.  Pertanto, vi è stata violazione dell’articolo 3 della Convenzione.

III.  SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 46 DELLA CONVENZIONE

80.  Ai sensi dell’articolo 46 della Convenzione:

«1. Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti.

2. La sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne controlla l’esecuzione.»

A.  Argomenti delle parti

81.  Il Governo non si oppone all’applicazione della procedura della sentenza pilota prevista dall’articolo 46 della Convenzione, pur facendo osservare che le autorità italiane hanno posto in essere una serie di misure importanti volte a risolvere il problema del sovraffollamento carcerario. Esso esorta la Corte a prendere in considerazione gli sforzi fatti dallo Stato italiano.

82.  I ricorrenti denunciano l’esistenza in Italia di un problema strutturale e si dichiarano favorevoli all’applicazione della procedura in questione. Soltanto il sig. Torreggiani (ricorso n.43517/09) si è opposto all’applicazione della procedura della sentenza pilota, in quanto non accetta che il suo caso riceva un trattamento analogo a quello di altri ricorrenti.

B.  Valutazione della Corte

1.  Principi generali pertinenti

83.  La Corte rammenta che, come interpretato alla luce dell’articolo 1 della Convenzione, l’articolo 46 crea per lo Stato convenuto l’obbligo giuridico di porre in atto, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, le misure generali e/o individuali che si rendano necessarie per salvaguardare il diritto del ricorrente di cui la Corte ha constatato la violazione. Misure di questo tipo devono essere adottate anche nei confronti di altre persone nella stessa situazione dell’interessato; si presume, infatti, che lo Stato ponga fine ai problemi all’origine delle constatazioni operate dalla Corte (Scozzari e Giunta c. Italia [GC], nn. 39221/98 e 41963/98, § 249, CEDU 2000‑VIII; S. e Marper c. Regno Unito [GC], nn. 30562/04 e 30566/04, § 134, 4 dicembre 2008).

84.  Al fine di facilitare l’effettiva attuazione delle sue sentenze secondo il principio di cui sopra, la Corte può adottare una procedura di sentenza pilota che le consenta di mettere in luce chiaramente, nella sua sentenza, l’esistenza di problemi strutturali all’origine delle violazioni e di indicare le misure o azioni particolari che lo Stato convenuto dovrà adottare per porvi rimedio (Hutten-Czapska c. Polonia [GC], n. 35014/97, §§ 231-239 e il suo dispositivo, CEDU 2006‑VIII, e Broniowski c. Polonia [GC], n. 31443/96, §§ 189-194 e il suo dispositivo, CEDU 2004‑V). Quando adotta una simile prassi, la Corte tiene tuttavia in debito conto le rispettive attribuzioni degli organi della Convenzione: in virtù dell’articolo 46 § 2 della Convenzione, spetta al Comitato dei Ministri valutare l’attuazione delle misure individuali o generali adottate in esecuzione della sentenza della Corte (si veda, mutatis mutandis, Broniowski c. Polonia (composizione amichevole) [GC], n. 31443/96, § 42, CEDU 2005‑IX).

85.  Un altro fine importante perseguito dalla procedura della sentenza pilota è quello di indurre lo Stato convenuto a trovare, a livello nazionale, una soluzione alle numerose cause individuali originate dallo stesso problema strutturale, dando così effetto al principio di sussidiarietà che è alla base del sistema della Convenzione (Bourdov c. Russia (n. 2), n. 33509/04, § 127, CEDU 2009). Infatti, la Corte non assolve necessariamente al meglio il suo compito, che consiste, secondo l’articolo 19 della Convenzione, nell’«assicurare il rispetto degli impegni risultanti per le Alte Parti contraenti dalla (…) Convenzione e dai suoi Protocolli», ripetendo le stesse conclusioni in un gran numero di cause (ibidem).

86.  La procedura della sentenza pilota ha lo scopo di facilitare la risoluzione più rapida ed effettiva di un malfunzionamento sistemico che colpisce la tutela del diritto convenzionale in questione nell’ordinamento giuridico interno (Wolkenberg e altri c. Polonia (dec.), n. 50003/99, § 34, CEDU 2007 (estratti)). L’azione dello Stato convenuto deve tendere principalmente alla risoluzione di tali malfunzionamenti e all’attuazione, se necessario, di ricorsi interni effettivi che consentano di denunciare le violazioni commesse. Tuttavia, essa può anche comprendere l’adozione di soluzioni ad hoc quali composizioni amichevoli con i ricorrenti o offerte unilaterali d’indennizzo, in conformità con le esigenze della Convenzione (Bourdov (n. 2), sopra citata, § 127).

2.  Applicazione nel caso di specie dei principi summenzionati

a)   Sull’esistenza di una situazione incompatibile con la Convenzione che richieda l’applicazione della procedura della sentenza pilota nel caso di specie

87.  La Corte ha appena constatato che il sovraffollamento carcerario in Italia non riguarda esclusivamente i casi dei ricorrenti (paragrafo 54 supra). Essa rileva, in particolare, che il carattere strutturale e sistemico del sovraffollamento carcerario in Italia emerge chiaramente dai dati statistici indicati in precedenza nonché dai termini della dichiarazione dello stato di emergenza nazionale proclamata dal presidente del Consiglio dei ministri italiano nel 2010 (paragrafi 23-29 supra).

88.  Questi dati nel loro complesso rivelano che la violazione del diritto dei ricorrenti di beneficiare di condizioni detentive adeguate non è la conseguenza di episodi isolati, ma trae origine da un problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano, che ha interessato e può interessare ancora in futuro numerose persone (si veda, mutatis mutandis, Broniowski c. Polonia, sopra citata, § 189). Secondo la Corte, la situazione constatata nel caso di specie è, pertanto, costitutiva di una prassi incompatibile con la Convenzione (Bottazzi c. Italia [GC], n. 34884/97, § 22, CEDU 1999‑V; Bourdov (n. 2), sopra citata, § 135).

89.  Del resto, il carattere strutturale del problema individuato nelle presenti cause è confermato dal fatto che diverse centinaia di ricorsi proposti contro l’Italia al fine di sollevare un problema di compatibilità con l’articolo 3 della Convenzione delle inadeguate condizioni detentive legate al sovraffollamento carcerario in diversi istituti penitenziari italiani sono attualmente pendenti dinanzi ad essa. Il numero di questo tipo di ricorsi è in continuo aumento.

90.  Conformemente ai criteri stabiliti nella sua giurisprudenza, la Corte decide di applicare la procedura della sentenza pilota al caso di specie, tenuto conto del crescente numero di persone potenzialmente interessate in Italia e delle sentenze di violazione alle quali i ricorsi in questione potrebbero dare luogo (Maria Atanasiu e altri c. Romania, nn. 30767/05 e 33800/06, §§ 217-218, 12 ottobre 2010). Essa sottolinea anche il bisogno urgente di offrire alle persone interessate una riparazione appropriata su scala nazionale (Bourdov (n. 2), sopra citata, §§ 129-130).

b)  Misure di carattere generale

91.  La Corte rammenta che le sue sentenze hanno carattere essenzialmente declaratorio e che, in linea di principio, spetta allo Stato convenuto scegliere, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, i mezzi per assolvere il suo obbligo giuridico riguardo all’articolo 46 della Convenzione (Scozzari e Giunta, sopra citata, § 249).

92.  Essa osserva che, recentemente, lo Stato italiano ha adottato misure che possono contribuire a ridurre il fenomeno del sovraffollamento negli istituti penitenziari e le sue conseguenze. Essa si compiace per i passi compiuti dalle autorità nazionali e non può far altro che incoraggiare lo Stato italiano a proseguire gli sforzi.

Tuttavia, è inevitabile constatare che, nonostante gli sforzi tanto legislativi quanto logistici intrapresi dall’Italia nel 2010, il tasso nazionale di sovraffollamento continuava ad essere molto elevato nell’aprile 2012 (essendo passato dal 151% nel 2010 al 148% nel 2012). La Corte osserva che questo bilancio moderato è tanto più preoccupante in quanto il piano d’intervento d’urgenza elaborato dalle autorità nazionali ha una durata limitata nel tempo, dal momento che la fine dei lavori di costruzione di nuovi istituti penitenziari è prevista per la fine dell’anno 2012 e le disposizioni in materia di esecuzione della pena, che hanno carattere straordinario, sono applicabili solo fino a fine 2013 (paragrafo 27 supra).

93.  La Corte è consapevole della necessità di sforzi conseguenti e sostenuti sul lungo periodo per risolvere il problema strutturale del sovraffollamento carcerario. Tuttavia, essa rammenta che, stante l’inviolabilità del diritto tutelato dall’articolo 3 della Convenzione, lo Stato è tenuto ad organizzare il suo sistema penitenziario in modo tale che la dignità dei detenuti sia rispettata (Mamedova c. Russia, n. 7064/05, § 63, 1° giugno 2006).

94.  In particolare, quando lo Stato non è in grado di garantire a ciascun detenuto condizioni detentive conformi all’articolo 3 della Convenzione, la Corte lo esorta ad agire in modo da ridurre il numero di persone incarcerate, in particolare attraverso una maggiore applicazione di misure punitive non privative della libertà (Norbert Sikorski, sopra citata, § 158) e una riduzione al minimo del ricorso alla custodia cautelare in carcere (tra l’altro, Ananyev e altri, sopra citata, § 197).

A quest’ultimo riguardo, la Corte è colpita dal fatto che il 40% circa dei detenuti nelle carceri italiane siano persone sottoposte a custodia cautelare in attesa di giudizio (paragrafo 29 supra).

95.  Non spetta alla Corte suggerire agli Stati delle disposizioni riguardanti le loro politiche penali e l’organizzazione del loro sistema penitenziario. Tali processi sollevano un certo numero di questioni complesse di ordine giuridico e pratico che, in linea di principio, vanno oltre la funzione giudiziaria della Corte. Tuttavia, essa desidera rammentare in questo contesto le raccomandazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa che invitano gli Stati ad esortare i procuratori e i giudici a ricorrere il più possibile alle misure alternative alla detenzione e a riorientare la loro politica penale verso il minimo ricorso alla carcerazione allo scopo, tra l’altro, di risolvere il problema della crescita della popolazione carceraria (si vedano, in particolare, le raccomandazioni del Comitato dei Ministri Rec(99)22 e Rec(2006)13).

96.  Quanto alla o alle vie di ricorso interne da adottare per far fronte al problema sistemico riconosciuto nella presente causa, la Corte rammenta che, in materia di condizioni detentive, i rimedi «preventivi» e quelli di natura «compensativa» devono coesistere in modo complementare. Così, quando un ricorrente sia detenuto in condizioni contrarie all’articolo 3 della Convenzione, la migliore riparazione possibile è la rapida cessazione della violazione del diritto a non subire trattamenti inumani e degradanti. Inoltre, chiunque abbia subito una detenzione lesiva della propria dignità deve potere ottenere una riparazione per la violazione subita (Benediktov c. Russia, sopra citata, § 29; e Ananyev e altri, sopra citata, §§ 97-98 e 210-240).

97.  La Corte osserva di avere constatato che il solo ricorso indicato dal governo convenuto nelle presenti cause che possa migliorare le condizioni detentive denunciate, vale a dire il reclamo rivolto al magistrato di sorveglianza in virtù degli articoli 35 e 69 della legge sull’ordinamento penitenziario, è un ricorso accessibile, ma non effettivo nella pratica, dato che non consente di porre fine rapidamente alla carcerazione in condizioni contrarie all’articolo 3 della Convenzione (paragrafo 55 supra). D’altra parte, il Governo non ha dimostrato l’esistenza di un ricorso in grado di consentire alle persone incarcerate in condizioni lesive della loro dignità di ottenere una qualsiasi forma di riparazione per la violazione subita. Al riguardo, essa osserva che la recente giurisprudenza che attribuisce al magistrato di sorveglianza il potere di condannare l’amministrazione a pagare un indennizzo pecuniario è lungi dal costituire una prassi consolidata e costante delle autorità nazionali (paragrafi 20-22 supra).

98.  La Corte non deve suggerire quale sarebbe il modo migliore di instaurare le vie di ricorso interne necessarie (Hutten-Czapska, sopra citata, § 239). Lo Stato può modificare i ricorsi esistenti o crearne di nuovi in modo tale che le violazioni dei diritti tratti dalla Convenzione possano essere riparate in maniera realmente effettiva (Xenides-Arestis c. Turchia, n. 46347/99, § 40, 22 dicembre 2005). Ad esso spetta anche garantire, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, che il ricorso o i ricorsi di recente attuazione rispettino, nella teoria come nella pratica, le esigenze della Convenzione.

99.  La Corte ne conclude che le autorità nazionali devono creare senza indugio un ricorso o una combinazione di ricorsi che abbiano effetti preventivi e compensativi e garantiscano realmente una riparazione effettiva delle violazioni della Convenzione risultanti dal sovraffollamento carcerario in Italia. Tale o tali ricorsi dovranno essere conformi ai principi della Convenzione, come richiamati in particolare nella presente sentenza (si vedano, tra l’altro, i paragrafi 50 e 95 supra), ed essere posti in essere nel termine di un anno dalla data in cui questa sarà divenuta definitiva (si veda, a titolo di confronto, Xenides-Arestis, sopra citata, § 40, e il punto 5 del dispositivo).

c)  Procedura da seguire nelle cause simili

100.  La Corte rammenta di potersi pronunciare, nella sentenza pilota, sulla procedura da seguire nell’esame di tutte le cause simili (si vedano, mutatis mutandis, Broniowski, sopra citata, § 198; e Xenides-Arestis, sopra citata, § 50).

101.  Al riguardo, la Corte decide che, in attesa dell’adozione da parte delle autorità interne delle misure necessarie sul piano nazionale, l’esame dei ricorsi non comunicati aventi come unico oggetto il sovraffollamento carcerario in Italia sarà rinviato per il periodo di un anno a decorrere dalla data in cui la presente sentenza sarà divenuta definitiva. La Corte si riserva la facoltà, in qualsiasi momento, di dichiarare irricevibile una causa di questo tipo o di cancellarla dal ruolo in seguito ad un accordo amichevole tra le parti o ad una composizione della controversia con altri mezzi, conformemente agli articoli 37 e 39 della Convenzione. Per quanto riguarda invece i ricorsi già comunicati al governo convenuto, la Corte potrà proseguire il loro esame per la via della procedura normale

IV.  SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE

102.  Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione,

«Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.»

A.  Danno

103.  I ricorrenti richiedono le seguenti somme per il danno morale che avrebbero subito.

Il sig. Torreggiani chiede 10.600 EUR per una detenzione di 54 mesi in cattive condizioni; il sig. Bamba, detenuto per 39 mesi, si rimette al giudizio della Corte; il sig. Biondi chiede 15.000 EUR per una detenzione di 24 mesi; i sigg. Sela, El Haili e Hajjoubi chiedono 15.000 EUR ciascuno per la detenzione rispettivamente di 14, 39 e 16 mesi; il sig. Ghisoni chiede un risarcimento di 30.000 EUR per un periodo di 17 mesi.

104.  Il Governo si oppone a queste richieste.

105.  La Corte ritiene che i ricorrenti abbiano subito un danno morale certo e che, per fissare gli importi dei risarcimenti da accordare a questo titolo agli interessati, sia opportuno tener conto del tempo che essi hanno trascorso in cattive condizioni detentive. Decidendo in via equitativa, come vuole l’articolo 41 della Convenzione, essa ritiene opportuno accordare ai sigg. Torreggiani, Biondi e El Haili le somme da essi richieste a titolo di danno morale. Decide peraltro di assegnare 23.500 EUR al sig. Bamba, 11.000 EUR al sig. Sela, 12.000 EUR al sig. Hajjoubi e 12.500 EUR al sig. Ghisoni allo stesso titolo.

B.  Spese

106.  I ricorrenti chiedono anche il rimborso delle spese corrispondenti alla procedura innanzi alla Corte. Soltanto i sigg. Sela, El Haili, Hajjoubi e Ghisoni hanno fornito documenti giustificativi a sostegno delle loro pretese. Essi chiedono rispettivamente 16.474 EUR, 5.491 EUR, 5.491 EUR e 6.867 EUR.

107.  Il Governo si oppone a queste richieste.

108.  Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente può ottenere il rimborso delle spese sostenute solo nella misura in cui ne siano accertate la realtà e la necessità, e il loro importo sia ragionevole. Nel caso di specie e tenuto conto dei documenti in suo possesso e della sua giurisprudenza, la Corte ritiene ragionevole accordare ai sigg. Sela, El Haili, Hajjoubi e Ghisoni la somma di 1.500 EUR ciascuno per le spere relative alla procedura svoltasi innanzi ad essa. Al contrario, la Corte decide di rigettare le richieste degli altri ricorrenti che erano stati autorizzati a presentarsi personalmente innanzi ad essa e che non hanno prodotto documenti giustificativi a sostegno delle loro pretese.

C.  Interessi moratori

109.  La Corte ritiene opportuno basare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL’UNANIMITA’

1.  Decide di riunire i ricorsi;

 

2.  Dichiara i ricorsi ricevibili;

 

3.  Dichiara che vi è stata violazione dell’articolo 3 della Convenzione;

 

4.  Dichiara che lo Stato convenuto dovrà, entro un anno a decorrere dalla data in cui la presente sentenza sarà divenuta definitiva in virtù dell’articolo 44 § 2 della Convenzione, istituire un ricorso o un insieme di ricorsi interni effettivi idonei ad offrire una riparazione adeguata e sufficiente in caso di sovraffollamento carcerario, e ciò conformemente ai principi della Convenzione come stabiliti nella giurisprudenza della Corte;

 

5.  Dichiara che, in attesa che vengano adottate le misure di cui sopra, la Corte differirà, per la durata di un anno a decorrere dalla data in cui la presente sentenza sarà divenuta definitiva, la procedura in tutte le cause non ancora comunicate aventi unicamente ad oggetto il sovraffollamento carcerario in Italia riservandosi la facoltà, in qualsiasi momento, di dichiarare irricevibile una causa di questo tipo o di cancellarla dal ruolo a seguito di composizione amichevole tra le parti o di definizione della lite con altri mezzi, conformemente agli articoli 37 e 39 della Convenzione;

 

6.  Dichiara

a)   che lo Stato convenuto deve versare ai ricorrenti, entro tre mesi a decorrere dal giorno in cui la sentenza sarà divenuta definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, le seguenti somme:

i)  10.600 EUR (diecimilaseicento euro) al sig. Torreggiani; 23.500 EUR (ventitremilacinquecento euro) al sig. Bamba; 15.000 EUR (quindicimila euro) al sig. Biondi; 11.000 EUR (undicimila euro) al sig. Sela; 15.000 EUR (quindicimila euro) al sig. El Haili; 12.000 EUR (dodicimila euro) a Hajjoubi; 12.500 EUR (dodicimilacinquecento euro) al sig. Ghisoni, più l’importo eventualmente dovuto a titolo d’imposta, per il danno morale;

ii)  1.500 EUR (millecinquecento euro) ciascuno ai sigg. Sela, El Haili, Hajjoubi e Ghisoni, più l’importo eventualmente dovuto a titolo d’imposta, per le spese;

b)   che, a decorrere dalla scadenza di detto termine e fino al versamento, tali importi dovranno essere maggiorati di un interesse semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante quel periodo, aumentato di tre punti percentuali;

7.  Rigetta la domanda di equa soddisfazione per il resto.

Fatta in francese, poi comunicata per iscritto l’8 gennaio 2013, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.

Stanley Naismith                                                                     Danutė Jočienė
Cancelliere                                                                              Presidente

 

Alla presente sentenza è allegata, conformemente agli articoli 45 § 2 della Convenzione e 74 § 2 del regolamento, l’esposizione dell’opinione separata del giudice Jočienė.

D.J.
S.H.N.

 

 

LISTA DELLE CAUSE

 

 

 

 

Numero di ricorso

 

Data d’introduzione

 

Nome e cognome del ricorrente, data di nascita e cittadinanza

 

 

Nome e cognome del rappresentante

 

1.

43517/09

06/08/2009

Fermo-Mino TORREGGIANI

09/05/1948

Italiana

Il ricorrente è stato   autorizzato a rappresentarsi personalmente dinanzi alla Corte.

 

2.

 

46882/09

12/08/2009

Bazoumana BAMBA

18/12/1972

Ivoriana

Il ricorrente è stato   autorizzato a rappresentarsi personalmente dinanzi alla Corte.

 

3.

 

55400/09

19/09/2009

Raoul Riccardo BIONDI

22/12/1967

Italiana

Il ricorrente è stato   autorizzato a rappresentarsi personalmente dinanzi alla Corte.

 

4.

 

57875/09

20/10/2009

Afrim SELA

02/02/1979

Albanese

Avv. Flavia   Urciuoli

 

5.

 

61535/09

29/10/2009

Tarcisio GHISONI

26/09/1952

Italiana

Avv.    Patrizia Rodi

 

6.

 

35315/10

10/06/2010

Mohamed EL HAILI

01/01/1977

Marocchina

Avv.    Giuseppe Rossodivita

 

7.

 

37818/10

01/07/2010

Radouane HAJJOUBI

01/01/1975

Marocchina

Avv.    Giuseppe Rossodivita

 
OPINIONE CONCORDANTE DEL GIUDICE JOČIENĖ

Nella causa Sulejmanovic c. Italia (n. 22635/03, sentenza del 16 luglio 2009), ho votato contro la violazione dell’articolo 3 della Convenzione per le ragioni esposte nell’opinione dissenziente del giudice Zagrebelsky, alla quale ho aderito.

Dalla data di pubblicazione della sentenza Sulejmanovic, la Corte ha ricevuto un flusso via via crescente di ricorsi riguardanti il sovraffollamento nelle carceri italiane. Le autorità italiane hanno esse stesse chiaramente ammesso a livello nazionale (§ 24 della sentenza) questo problema strutturale delle carceri italiane ed hanno previsto misure concrete ed effettive nel 2010 per rimediare al problema del sovraffollamento carcerario (§§ 23 – 29 della sentenza). Peraltro, è stato anche dichiarato e prorogato due volte lo stato di emergenza nazionale (§ 28 della sentenza). Gli impegni politici dello Stato italiano sono molto importanti per elaborare un piano di azione e per risolvere finalmente il problema del sovraffollamento negli istituti penitenziari italiani.

In secondo luogo, il magistrato di sorveglianza ha anche riconosciuto molto chiaramente il problema della situazione delle carceri – il giudice ha concluso che i ricorrenti erano esposti a trattamenti inumani per il fatto di dover condividere celle esigue con altri due detenuti, ed erano oggetto di una discriminazione rispetto ad altri detenuti che condividevano lo stesso tipo di cella con una sola persona; è chiaro che, in realtà, lo spazio vitale abitabile nelle celle collettive raccomandato dal CPT non è stato rispettato nel caso dei ricorrenti (§ 14, §§ 74 e 76 della sentenza).

Sono queste le due principali ragioni che mi hanno indotto a modificare la mia opinione e a votare con la maggioranza in questa causa in cui la Corte conclude per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione e indica le misure generali che le autorità italiane devono adottare per risolvere il problema strutturale del sovraffollamento delle carceri italiane.

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Avv. Barbara Carrara

ORDINI PROFESSIONALI E ORGANISMO DI DIRITTO PUBBLICO – CORTE DI GIUSTIZIA (Quinta Sezione, del 12 settembre 2013, CAUSA C-526/11)

 

ORDINI PROFESSIONALI E ORGANISMO DI DIRITTO PUBBLICO.

Le condizioni necessarie affinché un Ordine professionale sia qualificabile come Organismo di diritto pubblico.

***

SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA (Quinta Sezione, del 12 settembre 2013, CAUSA C-526/11).

Nota a sentenza a cura di Palma Vivenzio

Massima

Non è organismo di diritto pubblico per difetto del requisito richiesto ai sensi  dell’art. 1, § 9, secondo comma, della Direttiva 2004/18, l’Ordine professionale finanziato in modo maggioritario dai contributi versati dai suoi membri, il cui importo è fissato e riscosso in base alla legge dallo stesso organismo.

Irrilevante a tal fine che la decisione con cui l’Ordine fissa l’importo degli stessi contributi debba essere oggetto di approvazione da parte dell’autorità di controllo, quando l’attività di quest’ultima si traduca in un mero controllo di legittimità tale da non consentire all’autorità pubblica di influenzare le decisioni dell’organismo in questione in materia di appalti pubblici.

 

Sintesi del caso

L’Oberlandesgericht Düsseldorf (Germania) sollevava questione pregiudiziale ex’articolo 267 TFUE, con decisione del 5 ottobre 2011, nell’ambito di una controversia tra una società commerciale e l’Ärztekammer Wesfalen-Lippe (Ordine professionale dei medici della Vestfalia-Lippe).

L’Ordine aveva avviato una gara d’appalto per la stampa e la spedizione del proprio bollettino, nonché per la pubblicazione di annunci pubblicitari e la vendita di abbonamenti, con un bando di gara pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea il 5 novembre 2010.

L’ offerta della WWF Druck + Medien GmbH veniva fine accolta. La IVD, seconda in graduatoria, contestava tale aggiudicazione dinanzi alla Vergabekammer, organo amministrativo competente a conoscere dei ricorsi in materia di appalti pubblici, sostenendo che la parte aggiudicataria non aveva presentato alcune referenze richieste dall’Ärztekammer. Il ricorso veniva respinto, per infondatezza della pretesa.

Il Tribunale Regionale Superiore di Düsseldorf, investito dell’appello contro la sentenza del giudice amministrativo di primo grado,  esaminava d’ufficio il problema della qualità di amministrazione aggiudicatrice dell’Ärztekammer, questione dalla quale dipendeva la ricevibilità del ricorso proposto dalla IVD.

L’Ordine presenta i requisiti stabiliti all’articolo 1, paragrafo 9, secondo comma, lettere a) e b), della Direttiva 2004/18, ai fini della qualifica di organismo di diritto pubblico, in quanto svolge funzioni di interesse generale non aventi carattere commerciale o industriale e fosse dotato di personalità giuridica

Il giudice del rinvio si interrogava sulla sussistenza del requisito di cui all’articolo 1, paragrafo 9, secondo comma, lettera c).

I giudici lussemburghesi concludevano per la non sussumibilità di un organismo come l’Ärztekammer nella nozione di organismo di diritto pubblico, per mancanza del requisito da ultimo citato, considerata la rilevante autonomia ad esso attribuita dalla legge tedesca nel determinare la natura, la portata e le modalità di esercizio delle attività che esso intraprende nello svolgimento delle sue funzioni, nel fissare le risorse finanziarie necessarie a tale scopo e l’importo dei contributi da richiedere ai suoi membri.

Irrilevante a tal fine che la decisione con cui l’organismo fissa l’importo dei contributi dei membri debba essere oggetto di approvazione da parte dell’autorità di controllo, quando l’attività di controllo non sia svolta in modo da consentire all’autorità pubblica di influenzare le decisioni dell’organismo in questione.

Quaestio Juris.

Ci si chiede se soddisfi il requisito di cui L’art. 1, § 9, secondo comma, della Direttiva 2004/18  un Ordine professionale,  obbligato a finanziarsi nelle modalità stabilite da una disposizione di legge e assoggettato, per quanto riguarda l’entità dei contributi che i propri membri devono versare, all’approvazione di un’autorità di controllo, ovvero se debba ritenersi che disponendo concretamente di autonomia organizzativa e finanziaria, esso non si trova in una situazione di stretta dipendenza dall’autorità pubblica.

 

Nota esplicativa

 

L’art. 1, § 9, secondo comma, della Direttiva 2004/18, prevede che un ente costituisce organismo di diritto pubblico quando siano soddisfatte tre condizioni cumulative, ossia che esso sia stato istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale (lettera a)), che sia dotato di personalità giuridica (lettera b)) e che la sua attività sia finanziata in modo maggioritario dall’autorità pubblica, oppure che la sua gestione sia soggetta al controllo di quest’ultima, oppure ancora che più della metà dei membri del suo organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sia designata dall’autorità pubblica (lettera c)).

In riferimento alla normativa tedesca, si fa presente che essa:

a) assegna all’Ärztekammer, tra l’altro, il compito di operare in vista del mantenimento di un livello elevato della professione, di difendere gli interessi professionali dei suoi membri, di vigilare sui buoni rapporti tra gli stessi, di istituire a favore dei suoi membri e delle loro famiglie degli organi di assistenza, e ancora di informare il pubblico sulle proprie attività e sui temi legati alla professione (articolo 6, paragrafo 1, punti da 6 a 8, 10 e 12);

b) attribuisce la qualità di membro di tale Ordine a tutti i medici che esercitano la professione nel Land Renania settentrionale-Vestfalia, o che vi risiedono in modo permanente (articolo 2);

c) riconosce, in linea di principio, il diritto di voto in seno all’assemblea dell’Ordine a tutti i membri dello stesso (articolo 12, paragrafo 1);

d) riconosce all’Ärztekammer, ai fini dello svolgimento delle funzioni ad essa assegnate, il diritto di riscuotere contributi dai propri membri (articolo 6, paragrafo 4, prima frase);

e) prevede che l’importo dei contributi sia fissato con regolamento emanato dall’assemblea dell’Ordine (articolo 23, paragrafo 1);

f) subordina tale regolamento all’approvazione di un’autorità di controllo (articolo 23, paragrafo 2), approvazione diretta unicamente a garantire una gestione finanziaria equilibrata dell’Ordine stesso;

g) prevede che l’autorità di controllo eserciti, a posteriori, un controllo generale di legittimità sul modo in cui l’Ärztekammer svolge le proprie funzioni (articolo 28, paragrafo 1).

Si evidenzia che nessun dubbio sussisteva (e sussiste) in riferimento alla presenza dei requisiti della personalità giuridica e alla natura dell’attività di interesse generale a carattere non industriale o commerciale.

In riferimento alla lettera c) e al requisito dell’influenza pubblica dominante, si ponevano dubbi interpretativi.

Si ribadisce che, secondo la disposizione oggetto di disamina, l’influenza pubblica dominante sussiste qualora e l’ attività sia finanziata in modo maggioritario dall’autorità pubblica, oppure che la gestione sia soggetta al controllo di quest’ultima, o nel caso in cui più della metà dei membri del suo organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sia designata dall’autorità pubblica.

Vengono dunque enunciati tre criteri alternativi in presenza dei quali sia consentito dedurre una stretta dipendenza dall’autorità pubblica e che questa abbia il potere di influenzare le decisioni dell’organismo in questione in materia di appalti pubblici.

I giudici della CdG sottolineano che i criteri di cui sopra vanno letti alla luce di un’interpretazione funzionale, che deve tener conto della ratio posta alla base delle direttive in tema di appalti pubblici. Tale ratio coincide con l’esigenza di evitare che si determini la possibilità che considerazioni diverse da quelle economiche guidino le decisioni degli organismi e, in particolare, il rischio che gli offerenti o i candidati nazionali siano preferiti, creando ostacoli alla libera circolazione dei servizi e delle merci.

E’ dunque necessario procedere ad una interpretazione indipendente dalle modalità formali dell’atteggiarsi del controllo, nel senso che deve sussistere in concreto una stretta dipendenza dall’autorità pubblica.

La Corte chiarisce che, nel caso specifico,  il fatto che il regolamento che fissa tale importo debba essere approvato da un’autorità pubblica di controllo non determina un condizionamento (e un’influenza dominante pubblica), in quanto tale autorità si limita ad accertare l’esistenza di una gestione finanziaria equilibrata dell’organismo in questione, cioè che quest’ultimo si assicuri, attraverso i contributi dei suoi membri e le sue altre risorse, entrate sufficienti a coprire l’insieme delle spese per il suo funzionamento secondo le modalità da esso stesso stabilite.

L’autonomia dell’Ordine è poi rafforzata dalla circostanza che il regolamento di funzionamento è inoltre adottato da un’assemblea costituita dagli stessi soggetti chiamati a versare i contributi.

D’altro canto,riferendosi alla “qualità” del controllo che l’autorità pubblica deve esercitare affinché l’ente possa qualificarsi organismo di diritto pubblico, la Corte chiarisce in linea di principio che un controllo a posteriori della gestione da parte dell’autorità pubblica non soddisfa il criterio di cui alla Direttiva, in quanto non permette all’autorità pubblica di influenzare le decisioni dell’organismo in questione in materia di appalti pubblici”. Si tratterebbe cioè di un controllo cd. non “penetrante” che non risponde al requisito di cui all’art. 1 § 9, comma II, lett. c), un “controllo generale di legittimità effettuato a posteriori da parte di un’autorità di controllo, e, a fortiori, di un intervento di tale autorità sotto forma di approvazione della decisione con cui tale organismo fissa l’importo dei contributi che assicurano la parte essenziale del suo finanziamento, intervento che si limita ad accertare l’equilibrata gestione finanziaria del suddetto organismo.”

 

Normativa applicabile

 

Art. 1, § 9, secondo comma, della Direttiva  n. 18/2004.

 

Dottrina

L’ambito in cui l’influenza del diritto europeo sul diritto nazionale è maggiore è senz’altro quello contrattuale. Se è vero che è dall’emanazione della Legge di contabilità dello Stato (r.d. n. 2440/1923) che il legislatore nazionale ha imposto alle amministrazioni il rispetto di procedure vincolate per la scelta del contraente, è con il diritto comunitario che tali procedure hanno visto notevolmente espandere il proprio campo di applicazione:sono peraltro anche radicalmente mutate le finalità istituzionalmente perseguite con l’imposizione dell’obbligo di osservarle. Sotto il primo profilo, fondamentale è stata l’introduzione dell’organismo di diritto pubblico, ripresa dal legislatore nazionale nelle singole leggi di recepimento e, da ultimo nel Codice dei contratti pubblici. Notevole l’influenza del diritto comunitario in Ordine alle finalità sottese al ricorso alle procedure di evidenza pubblica, non più a presidio della corretta formazione della volontà contrattuale del soggetto pubblico, quanto a salvaguardia della concorrenza e delle libertà ad essa strumentali.

La qualificazione di un soggetto come organismo di diritto pubblico (e ad altri effetti di impresa pubblica), determina l’assoggettabilità di quel soggetto alla disciplina europea che impone rispetto di procedure pubbliche per l’individuazione dell’appaltatore. Oggi, la nozione di organismo di diritto pubblico coniata dal diritto europeo, risulta recepita dal diritto italiano all’art. 3 comma 26 del Decreto Legislativo 163 2006.

Prima di arrivare alla nozione, è opportuno evidenziare le implicazioni applicative derivanti dalla qualificazione di un certo soggetto come organismo di diritto pubblico.

La prima implicazione è un implicazioni di tipo sostanziale, in quanto l’ente qualificato come organismo di diritto pubblico, è tenuto all’osservanza delle procedure pubblicistiche di selezione dell’appaltatore.

A questa prima implicazione ne consegue un’altra di tipo processuale, in quanto l’art. 133 lettera E numero 1 del CPA (che ha recepito testualmente il vecchio art. 6 della Legge 205 del 2000), prevede la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle controversie nelle quali è in discussione uno degli atti delle procedure di affidamento di lavori, servizi e forniture.

Una terza implicazione sostanziale attiene al tema dell’ostensibilità degli atti in quanto l’art. 23 della Legge 241, nel delimitare l’ambito soggettivo di operatività in tema di accesso, comporta che questa disciplina vincoli anche l’organismo di diritto pubblico, in virtù del rilievo della nozione europea di pubblica amministrazione e limitatamente tuttavia all’attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario.

Secondo una certa dottrina, ci sarebbe una quarta implicazione, attinente al diritto penale, derivante dalla qualificazione in termini di organismo di diritto pubblico. L’art. 357 del c.p., nel delimitare l’ambito soggettivo di operatività delle norme incriminatrici fa riferimento al pubblico ufficiale abilitato a formare o a manifestare la volontà della pubblica amministrazione, sicché la qualificazione della struttura organizzativa nella quale il soggetto persona fisica opera sarebbe decisiva perché quel soggetto persona fisica, possa essere considerato pubblico ufficiale.

Si è detto cioè che nel perimetrare l’ambito di operatività della nozione di pubblica amministrazione anche ai sensi del 357 c.p., debba farsi riferimento alla nozione di PA, come coniata non soltanto alla stregua dei canoni propri dell’ordinamento nazionale, ma anche tenuto conto delle nuove nozioni di pubblica amministrazione come elaborate dal diritto europeo.

Questa posizione interpretativa ha incontrato un’obiezione e un limite, da parte di chi ha ritenuto che l’attitudine ad ampliare l’azione di pubblica amministrazione di cui al 357 c.p., e conseguentemente la nozione di pubblico ufficiale, potrebbe implicare una compromissione del principio di riserva di legge nazionale, come da taluni desunto dall’art. 25 comma 2°. Questa obiezione, in realtà, potrebbe ritenersi superabile si considera che ormai, la nozione di organismo di diritto pubblico (nata nel diritto europeo con la famosa Direttiva 440 del 89 e poi con la Direttiva 18 del 2004), è una nozione da tempo recepita nel diritto nazionale, ex ‘art. 3 comma 26 del Decreto Legislativo 163 del 2006, nonché prima di già dalla Legge 109 del 94.

D’altro canto si sottolinea che la nozione di organismo di diritto pubblico rileva sostanzialmente ed esclusivamente in riferimento ad un unico segmento di attività disciplinata dal diritto europeo e poi nazionale di recepimento, che coincide con l’attività di evidenza pubblica. Al di fuori di quel segmento di attività, sarebbe del tutto irrilevante la qualificazione di quel soggetto come organismo di diritto pubblico.

 

Ciò posto, è opportuno considerare che la nozione attuale di organismo di diritto pubblico nasce nel diritto comunitario degli appalti pubblici, per effetto della Direttiva “Lavori Pubblici“, n.440/1989.

Alla luce della disciplina previgente del cd sistema “chiuso“, vale a dire nominativo, l’osservanza di procedure pubblicistiche per l’affidamento di appalti sopra soglia europea era imposta a soggetti nominativamente identificati dalle stesse direttive europee e cioè lo Stato, gli Enti Territoriali e una serie di altri soggetti pubblici individuati tassativamente.

Nel 1989, il Legislatore europeo, al fine evitare una troppo agevole elusione della disciplina comunitaria (in passato era sufficiente che il soggetto nominativamente indicato dalla Direttiva, istituisse una società e facesse gestire alla stessa l’affidamento dell’appalto perché si potesse ottenere l’effetto di sottrazione alla disciplina comunitaria in tema di appalti) dispone che a dover osservare le procedure pubblicistiche regolamentate dal diritto comunitario debbano essere non più soltanto gli enti pubblici nominativamente indicati dalle direttive, ma tutti i soggetti che, operanti all’interno degli Stati Membri, siano riconducibili alla nozione di organismo di diritto pubblico. Nello specifico trattasi di qualsiasi organismo, (sistema elastico) che presenti tre elementi strutturali, vale a dire che sia dotato di personalità giuridica, che sia sottoposto all’influenza dominante di un’amministrazione, dello Stato, di un ente pubblico territoriale o di un’altro organismo di diritto pubblico, che sia istituito per soddisfare specificatamente bisogni di interesse generale a carattere non commerciale o non industriale.

Un chiarimento merita la portata di ciascun elemento richiesto dalla normativa di cui trattasi.

In riferimento al significato da attribuire all’espressione “ bisogno di interesse generale a carattere non industriale o non commerciale”, la Giurisprudenza e la Dottrina appaiono oggi pacificamente orientate nel ritenere che il summenzionato requisito teleologico si componga in realtà di due sub-requisiti tra loro cumulativi. Ciò comporta che nel verificare la sussistenza del requisito teleologico è necessario condurre una doppia verifica: la verifica riguardante la natura generale del bisogno dell’interesse che il soggetto istituzionalmente soddisfa e se quel bisogno di interesse generale risulti essere un bisogno carattere non commerciale o non industriale.

 

In riferimento al requisito della personalità giuridica, il problema interpretativo sembra ormai definitivamente superato. Ci si chiedeva se la forma privatistica assunta dal soggetto, fosse da ostacolo al riconoscimento della natura giuridica di organismo di diritto pubblico. Tuttavia si fa rilevare che assumere che la veste societaria sia incompatibile con il riconoscimento della natura di organismo di diritto pubblico, sarebbe in netto contrasto innanzitutto con l’approccio precipuamente sostanziale del diritto comunitario (oggi europeo) e con quella indifferenza comunitaria al tema delle forme nell’elaborazione della nozione di pubblica amministrazione. In effetti la ratio insita nella nozione sostanziale di organismo di diritto pubblico mirerebbe proprio a “snidare”, la pubblicità reale che sussiste per certi enti pure aventi vesti privatistiche

L’altra questione di grande attualità in materia è la definizione del requisito della sottoposizione all’influenza pubblica dominante, atteggiabile questa secondo tre modalità alternativamente considerate: il finanziamento (anche indiretto) maggioritario statale, .il controllo sulla gestione da parte dell’ente pubblico, la designazione della metà dei membri del consiglio di amministrazione, di direzione o di vigilanza da parte dell’ente pubblico..

Per comprendere le soluzioni date in Giurisprudenza a questo problema, occorre chiarire la ragione fondamentale per la quale il diritto comunitario ha sentito l’esigenza di introdurre la figura de quo, che è quella di garantire il rispetto della concorrenza intracomunitaria (soprattutto nel caso in cui l’affidamento di un appalto sia effettuato da soggetti a rischio di condizionamento politico da parte di un ente pubblico di riferimento). Tenendo conto di questa ratio, occorre interpretare la definizione normativa di organismo di diritto pubblico, a partire dal requisito del finanziamento. Muovendo da questa impostazione, la Giurisprudenza comunitaria ha sostenuto che il finanziamento pubblico maggioritario sussista nel caso in cui un ente pubblico fornisca al soggetto della cui qualificazione in termini di organismo di diritto pubblico si discute, una sovvenzione economica cui non corrisponda però, in modo sinallagmatico una controprestazione (caso University of Cambridge 2000).

In secondo luogo occorre chiarire cosa debba intendersi per controllo, nello specifico se debba farsi riferimento al controllo amministrativo ( il controllo sulla legittimità dell’atto adottato da soggetto o sul merito) oppure al controllo di tipo strutturale (cioè il controllo conseguente alla titolarità di una partecipazione azionaria). La giurisprudenza si è assestata su quest’ultima posizione.

 

La Corte di Giustizia, Sez. V, 12 settembre 2013 nella causa C-526/11 in Ordine alle condizioni che devono sussistere affinché un Ordine professionale sia qualificabile come organismo di diritto pubblico ai sensi dell’art. 1, § 9, II comma, lett. c) della Direttiva 2004/18/CE, ha da ultimo precisato che non possa rientrare nella nozione di organismo di diritto pubblico l’Ordine professionale finanziato in modo maggioritario dai contributi versati dai suoi membri e che irrilevante a tal fine sarebbe il fatto che la decisione con cui l’organismo fissa l’importo degli stessi contributi debba essere oggetto di approvazione da parte dell’autorità di controllo, quando l’attività di controllo non consenta all’autorità pubblica di influenzare le decisioni dell’organismo in questione.

E’ fuori ogni dubbio che la sentenza de quo riapra i giochi in materia di Ordini professionali di categoria anche italiani, per quanto riguarda il riconoscimento della natura di organismo di diritto pubblico in capo ad essi e il loro conseguente assoggettamento alla disciplina degli appalti pubblici. Infatti la situazione in ambito nazionale sembra somigliare molto a quella tedesca.

Si fa presente tuttavia che l’Autorità per la vigilanza sui contratti, con deliberazione n. 4 del 6 febbraio 2013, aveva affermato che gli Ordini professionali sono organismi di diritto pubblico, rientranti nella vasta gamma degli enti pubblici non territoriali. In particolare, l’Ordine professionale è una istituzione di autogoverno di una professione riconosciuta dalla legge, avente il fine di garantire la qualità delle attività svolte dai professionisti; ad essa lo Stato affida il compito di tenere aggiornato l’albo e il codice deontologico, tutelando la professionalità della categoria. Trattasi di  enti pubblici autonomi, che per legge soggiacciono alla vigilanza del Ministero della Giustizia.

E’ fuori dubbio che la sentenza getti un’ombra sulle conclusioni cui era giunta l’Autorità sopra citata.

Posta l’irrilevanza infatti in ambito europeo della qualifica pubblicistica o privatistica dell’ente, nonché considerata la natura impositiva del contributo associativo (secondo la legge, ma non a carico dello Stato) , anche gli ordini professionali italiani potrebbero ritenersi non soddisfacenti né il criterio relativo al finanziamento maggioritario da parte dell’autorità pubblica, in quando tali organismi sono finanziati in modo maggioritario dai contributi versati dai loro membri, né quello relativo al controllo pubblico della gestione.

A tal proposito va segnalata una sentenza della Corte di cassazione (n. 21226 del 14/10/2011), che esclude l’obbligo di controllo gestionale degli ordini da parte della Corte dei conti. L’unica vigilanza dunque è quella dei ministeri vigilanti ed è di tipo ordinamentale. Quanto ai componenti dell’organo di amministrazione, anche in questo caso si tratta di soggetti eletti dalla base e non scelti dall’autorità pubblica.

Le voci in dottrina sono tuttavia piuttosto caute e a fronte di un orientamento rigoroso, c’è chi ritiene che la questione in realtà rimanga aperta, in considerazione dell’oggettiva difficoltà di enunciare principi con valenza universale, per cui occorrerebbe privilegiare un’attenta e approfondita disamina da eseguirsi caso per caso.

 

Bibliografia

F. Caringella, Manuale di diritto amministrativo, Profili sostanziali e processuali, Ed. DIKE GIURIDICA, 2012.

R. Garofoli- G. Ferrari, Manuale di diritto amministrativo, Nel diritto Editore, 2013.

Autorità per la vigilanza sui contratti, deliberazione n. 4 del 6 febbraio 2013.

 

SENTENZA DELLA CORTE (Quinta Sezione), CAUSA C-526/11.

12 settembre 2013

«Appalti pubblici – Direttiva 2004/18/CE – Articolo 1, paragrafo 9, secondo comma, lettera c) – Nozione di “organismo di diritto pubblico” – Condizione relativa al finanziamento dell’attività, al controllo della gestione, o al controllo sull’attività da parte dello Stato, di enti pubblici territoriali o di altri organismi di diritto pubblico – Ordine professionale dei medici – Finanziamento previsto dalla legge attraverso contributi versati dai membri di tale Ordine – Importo dei contributi fissato dall’assemblea dello stesso Ordine – Autonomia dell’Ordine in merito alla determinazione della portata e delle modalità di esercizio delle sue funzioni istituzionali»

Nella causa C‑526/11,

avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dall’Oberlandesgericht Düsseldorf (Germania), con decisione del 5 ottobre 2011, pervenuta in cancelleria il 18 ottobre 2011, nel procedimento

IVD GmbH & Co. KG

contro

Ärztekammer Westfalen-Lippe,

con l’intervento di:

WWF Druck + Medien GmbH,

LA CORTE (Quinta Sezione),

composta da T. von Danwitz, presidente di sezione, A. Rosas, E. Juhász, D. Šváby (relatore) e C. Vajda, giudici,

avvocato generale: P. Mengozzi

cancelliere: A. Impellizzeri, amministratore

vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza dell’8 novembre 2012,

considerate le osservazioni presentate:

 

–        per la IVD GmbH & Co. KG, da J. Eggers, Rechtsanwalt;

–        per l’Ärztekammer Westfalen-Lippe, da S. Gesterkamp e T. Schneider‑Lasogga, Rechtsanwälte;

–        per il governo ceco, da M. Smolek e T. Müller, in qualità di agenti;

–        per la Commissione europea, da M. Noll-Ehlers, A. Tokár e C. Zadra, in qualità di agenti,

sentite le conclusioni dell’avvocato generale all’udienza del 30 gennaio 2013,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

1        La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 1, paragrafo 9, secondo comma, lettera c), della Direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi (GU L 134, pag. 114).

2        Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la IVD GmbH & Co. KG (in prosieguo: la «IVD») e l’Ärztekammer Wesfalen-Lippe (Ordine professionale dei medici della Vestfalia-Lippe; in prosieguo: l’«Ärztekammer»), relativa alla decisione di quest’ultima di aggiudicare un appalto, a seguito di gara, ad un’altra impresa.

Contesto normativo

Il diritto dell’Unione

 

3        Ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 9, secondo e terzo comma, della Direttiva 2004/18:

 

«Per “organismo di diritto pubblico” s’intende qualsiasi organismo:

a)      istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale,

b)      dotato di personalità giuridica, e

c)      la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico.

 

Gli elenchi, non limitativi, degli organismi e delle categorie di organismi di diritto pubblico che soddisfano i criteri di cui al secondo comma, lettere a), b), e c), figurano nell’allegato III (…)».

 

4        Per quanto riguarda la Repubblica federale di Germania, il detto allegato menziona le associazioni professionali e, in particolare, gli ordini dei medici, fra gli enti istituiti dallo Stato, dai Länder o da enti locali (parte III, 1.1, secondo trattino).

 

Il diritto tedesco

 

5        Ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, punti da 1 a 5, della legge del Land Renania settentrionale‑Vestfalia sulle professioni sanitarie (Heilberufsgesetz des Landes Nordrhein-Westfalen; in prosieguo: l’«HeilBerG NRW»), l’Ärztekammer ha in particolare la funzione di:

 

«1.      supportare il servizio sanitario e veterinario pubblico nell’esercizio delle loro funzioni, in particolare presentare proposte relative a tutte le questioni concernenti le professioni sanitarie e la medicina;

 

2.      formulare pareri su richiesta dell’autorità di controllo, elaborare perizie e nominare esperti su richiesta delle autorità competenti;

 

3.      garantire un servizio medico e dentistico di emergenza al di fuori degli orari di ambulatorio, garantirne la pubblicità e definirne le modalità organizzative;

 

4.      garantire e promuovere l’aggiornamento professionale continuo dei membri dell’Ordine al fine di contribuire ad assicurare che le conoscenze, competenze e abilità dei membri dell’Ordine necessarie per l’esercizio della professione siano conformi, per tutta la durata dell’attività professionale, allo stato attuale della scienza e della pratica, dettare norme per l’aggiornamento ai sensi della presente legge, nonché certificare le qualifiche specialistiche; (…)

 

5.      garantire e promuovere la qualità delle prestazioni nel settore sanitario e veterinario, in particolare attraverso certificazioni, di concerto con le parti interessate».

 

6        Dalla decisione di rinvio e dal fascicolo a disposizione della Corte risulta che la stessa legge:

 

–        assegna all’Ärztekammer, tra l’altro, anche il compito di operare in vista del mantenimento di un livello elevato della professione, di difendere gli interessi professionali dei suoi membri, di vigilare sui buoni rapporti tra gli stessi, di istituire a favore dei suoi membri e delle loro famiglie degli organi di assistenza, e ancora di informare il pubblico sulle proprie attività e sui temi legati alla professione (articolo 6, paragrafo 1, punti da 6 a 8, 10 e 12);

 

–        attribuisce la qualità di membro di tale Ordine a tutti i medici che esercitano la professione nel Land Renania settentrionale-Vestfalia, o che vi risiedono in modo permanente (articolo 2);

 

–        riconosce, in linea di principio, il diritto di voto in seno all’assemblea dell’Ordine a tutti i membri dello stesso (articolo 12, paragrafo 1);

 

–        riconosce all’Ärztekammer, ai fini dello svolgimento delle funzioni ad essa assegnate, il diritto di riscuotere contributi dai propri membri (articolo 6, paragrafo 4, prima frase);

 

–        prevede che l’importo dei contributi sia fissato con regolamento emanato dall’assemblea dell’Ordine (articolo 23, paragrafo 1);

 

–        subordina tale regolamento all’approvazione di un’autorità di controllo (articolo 23, paragrafo 2), approvazione diretta unicamente a garantire una gestione finanziaria equilibrata dell’Ordine stesso;

 

–        prevede che l’autorità di controllo eserciti, a posteriori, un controllo generale di legittimità sul modo in cui l’Ärztekammer svolge le proprie funzioni (articolo 28, paragrafo 1).

 

Procedimento principale e questione pregiudiziale

 

7        L’Ärztekammer ha avviato una gara d’appalto per la stampa e la spedizione del proprio bollettino, nonché per la pubblicazione di annunci pubblicitari e la vendita di abbonamenti, con un bando di gara pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea il 5 novembre 2010. Dopo l’esclusione di altri due offerenti, la scelta è stata effettuata tra la IVD e la WWF Druck + Medien GmbH, la cui offerta è stata alla fine accolta.

 

8        La IVD ha contestato tale aggiudicazione nell’ambito di un reclamo e, successivamente, di un ricorso dinanzi alla Vergabekammer, organo amministrativo competente a conoscere dei ricorsi in materia di appalti pubblici, sostenendo che la parte aggiudicataria non aveva presentato alcune referenze richieste dall’Ärztekammer. Il ricorso è stato respinto da tale organo, in quanto la pretesa della ricorrente è stata dichiarata infondata.

 

9        Investito di un ricorso contro la decisione del suddetto organo, l’Oberlandesgericht Düsseldorf (tribunale regionale superiore di Düsseldorf) ha deciso di esaminare d’ufficio il problema della qualità di amministrazione aggiudicatrice dell’Ärztekammer, questione dalla quale dipende la ricevibilità del ricorso proposto dalla IVD.

 

10      Secondo il giudice del rinvio, le funzioni di cui tale Ordine è investito dall’articolo 6, paragrafo 1, punti da 1 a 5 dell’HeilBerG NRW sono funzioni di interesse generale non aventi carattere commerciale o industriale. Inoltre, dal fascicolo a disposizione della Corte risulta che il suddetto Ordine è dotato di personalità giuridica. Pertanto, esso soddisferebbe i criteri di cui all’articolo 1, paragrafo 9, secondo comma, lettere a) e b), della Direttiva 2004/18.

 

11      Tale giudice invece si chiede se il diritto, di cui l’Ärztekammer dispone, di riscuotere contributi dai propri membri, costituisca un finanziamento statale indiretto rispondente alla prima condizione di cui all’articolo 1, paragrafo 9, secondo comma, lettera c), di tale Direttiva.

 

12      Secondo il giudice del rinvio, dalle sentenze del 13 dicembre 2007, Bayerischer Rundfunk e a. (C‑337/06, Racc. pag. I‑11173), e dell’11 giugno 2009, Hans & Christophorus Oymanns (C‑300/07, Racc. pag. I‑4779), emerge che un simile finanziamento statale indiretto sussiste quando lo Stato stabilisca esso stesso la base e l’importo dei contributi, oppure eserciti un’influenza talmente rilevante, attraverso l’emanazione di disposizioni che descrivono dettagliatamente le prestazioni che la persona giuridica in questione deve fornire e disciplinano la fissazione dell’importo dei contributi, che a tale persona giuridica residua solo un limitato margine di discrezionalità nella fissazione di tale importo.

 

13      Ebbene, tale giudice rileva che la legislazione pertinente non stabilisce l’importo dei contributi riscossi dall’Ärztekammer e non determina la portata e le modalità di esercizio delle funzioni affidate a quest’ultima al punto da consentire solo entro limiti ristretti la fissazione dell’importo dei contributi da parte della stessa. Al contrario, godendo di un ampio margine di discrezionalità nell’esercizio delle sue funzioni, tale Ordine beneficia di un margine di discrezionalità analogo per quanto riguarda la determinazione del proprio fabbisogno finanziario e, quindi, la fissazione dell’importo dei contributi dovuti dai suoi membri. Tale giudice rileva peraltro che, sebbene esista un sistema di approvazione del regolamento che fissa tale importo da parte dell’autorità di controllo, tale approvazione è diretta unicamente a garantire una gestione finanziaria equilibrata dell’Ordine.

 

14      Alla luce dei suddetti elementi specifici, il giudice del rinvio ritiene che l’Ärztekammer non presenti i caratteri individuati dalla Corte nelle sentenze citate al punto 12 della presente sentenza, e si chiede se questi siano sempre necessari affinché sia soddisfatta la condizione relativa all’esistenza di un finanziamento pubblico.

 

15      In tale contesto, l’Oberlandesgericht Düsseldorf ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale:

 

«Se un organismo (…) (nel presente caso, un Ordine professionale) (…) sia “finanziat[o] in modo maggioritario dallo Stato” oppure la sua “gestione sia soggetta al controllo” dello Stato [, ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 9, secondo comma, lettera c), della Direttiva 2004/18/CE], qualora:

 

–        sia concessa per legge all’organismo la facoltà di riscuotere i contributi dai suoi membri, ma la legge non abbia stabilito né l’importo dei contributi, né l’entità delle prestazioni da finanziare tramite il contributo,

 

–        la tariffa necessiti, però, dell’approvazione statale».

 

Sulla questione pregiudiziale

 

16      Con la sua questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 1, paragrafo 9, secondo comma, lettera c), della Direttiva 2004/18 debba essere interpretato nel senso che un organismo, come un Ordine professionale di diritto pubblico, soddisfi o il criterio relativo al finanziamento maggioritario da parte dell’autorità pubblica, in quanto tale organismo è finanziato in modo maggioritario dai contributi versati dai suoi membri, il cui importo è fissato e riscosso in base alla legislazione pertinente dallo stesso organismo, nell’ipotesi in cui tale legislazione non stabilisca la portata e le forme delle attività che tale organismo deve svolgere nell’ambito dell’esercizio delle sue funzioni istituzionali che tali contributi sono destinati a finanziare, oppure il criterio relativo al controllo della gestione da parte dell’autorità pubblica, in quanto la decisione con cui lo stesso organismo fissa l’importo dei suddetti contributi deve essere approvata da un’autorità di controllo.

 

17      Va rilevato innanzitutto, alla stregua di quanto fatto dal giudice del rinvio, che l’Ärztekammer è menzionata nell’allegato III della Direttiva 2004/18, nel quale sono indicati, per ciascuno Stato membro, gli organismi di diritto pubblico e le categorie di organismi di diritto pubblico di cui al suddetto articolo 1, paragrafo 9, secondo comma. Infatti, nella parte III di tale allegato, relativa alla Repubblica federale di Germania, la categoria 1.1, che comprende gli «enti (…) di diritto pubblico, costituiti dallo Stato, dai Länder o da enti locali», menziona al secondo trattino, relativo alla sottocategoria «associazioni di professioni liberali», in particolare gli «ordini [dei] medici».

 

18      Tuttavia, come ricordato dall’avvocato generale ai paragrafi 20 e 21 delle sue conclusioni, la menzione di un dato organismo in tale allegato rappresenta soltanto l’attuazione della norma sostanziale enunciata all’articolo 1, paragrafo 9, secondo comma, della Direttiva 2004/18, senza che da tale menzione derivi una presunzione assoluta del fatto che detto organismo costituisce un «organismo di diritto pubblico» ai sensi di tale disposizione. Pertanto, spetta al giudice dell’Unione, investito di una domanda motivata formulata in proposito da parte di un giudice nazionale, accertare la coerenza interna di tale Direttiva, verificando se la menzione di un organismo nel suddetto allegato rappresenti una corretta applicazione di tale norma sostanziale (v., in tal senso, sentenza Hans & Christophorus Oymanns, cit., punti 42, 43 e 45).

 

19      A questo proposito, conformemente all’articolo 1, paragrafo 9, secondo comma, della Direttiva 2004/18, un ente costituisce un «organismo di diritto pubblico» ai sensi di tale disposizione, ed è soggetto, in quanto tale, alle disposizioni di tale Direttiva, quando siano soddisfatte tre condizioni cumulative, cioè che tale ente sia stato istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale [lettera a)], che esso sia dotato di personalità giuridica [lettera b)], e che la sua attività sia finanziata in modo maggioritario dall’autorità pubblica, oppure che la sua gestione sia soggetta al controllo di quest’ultima, oppure ancora che più della metà dei membri del suo organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sia designata dall’autorità pubblica [lettera c)].

 

20      I tre criteri alternativi enunciati all’articolo 1, paragrafo 9, secondo comma, lettera c), della suddetta Direttiva consistono tutti in una stretta dipendenza dall’autorità pubblica. Infatti, una simile dipendenza è tale da consentire a quest’ultima di influenzare le decisioni dell’organismo in questione in materia di appalti pubblici, il che determina la possibilità che considerazioni diverse da quelle economiche guidino tali decisioni, e in particolare il rischio che gli offerenti o i candidati nazionali siano preferiti, il che potrebbe creare quegli ostacoli alla libera circolazione dei servizi e delle merci, che l’applicazione delle direttive relative agli appalti pubblici intende precisamente evitare (v., in relazione alle disposizioni analoghe precedenti alla Direttiva 2004/18, sentenza del 1° febbraio 2001, Commissione/Francia, C‑237/99, Racc. pag. I‑939, punti 39, 41, 42, 44 e 48, e giurisprudenza ivi citata).

 

21      Alla luce di tali obiettivi, ciascuno di tali criteri deve essere oggetto di un’interpretazione funzionale (v., in relazione alle disposizioni analoghe precedenti alla Direttiva 2004/18, le citate sentenze Commissione/Francia, punto 43 e giurisprudenza ivi citata, nonché Bayerischer Rundfunk e a., punto 40), cioè indipendente dalle modalità formali della sua attuazione (v., per analogia, sentenza del 10 novembre 1998, BFI Holding, C‑360/96, Racc. pag. I‑6821, punti 62 e 63), e deve essere inteso nel senso che esso deve creare una stretta dipendenza dall’autorità pubblica.

 

22      Per quanto riguarda, innanzitutto, il primo criterio enunciato all’articolo 1, paragrafo 9, secondo comma, lettera c), della Direttiva 2004/18, relativo al finanziamento maggioritario da parte dell’autorità pubblica, la nozione di finanziamento indica un trasferimento di risorse finanziarie effettuato senza specifico corrispettivo, al fine di sostenere le attività dell’ente in questione (v., in relazione alle disposizioni analoghe precedenti alla Direttiva 2004/18, sentenza del 3 ottobre 2000, University of Cambridge, C‑380/98, Racc. pag. I‑8035, punto 21).

 

23      Dal momento che tale nozione deve essere oggetto di un’interpretazione funzionale, la Corte ha affermato che il criterio relativo al finanziamento maggioritario da parte dell’autorità pubblica include le modalità di finanziamento indirette.

 

24      Un finanziamento del genere può essere effettuato attraverso un contributo previsto e imposto dalla legge con riferimento al suo presupposto e al suo importo, che non costituisce corrispettivo del godimento effettivo dei servizi forniti dall’organismo in questione da parte dei soggetti passivi, e le cui modalità di riscossione derivano dai pubblici poteri (v., in tal senso, sentenza Bayerischer Rundfunk e a., cit., punti 41, 42, 44, 45, e da 47 a 49).

 

25      Il fatto che, da un punto di vista formale, un organismo fissi autonomamente l’importo dei contributi che assicurano il suo finanziamento maggioritario, non esclude l’esistenza di un finanziamento indiretto che soddisfa il suddetto criterio. È questo il caso di organismi come le casse pubbliche di previdenza sociale, quando sono finanziate attraverso contributi versati da o per i loro iscritti, senza corrispettivo specifico, quando l’iscrizione alle stesse casse e il versamento di tali contributi sono resi obbligatori per legge, quando l’importo di questi ultimi, sebbene formalmente fissato dalle casse stesse, è da un lato legalmente imposto, in quanto la legge stabilisce le prestazioni fornite dalle suddette casse così come i relativi costi, e vieta alle stesse di esercitare le loro funzioni a fini di lucro, e dall’altro deve essere approvato dall’autorità di controllo, e quando la riscossione avviene in modo coattivo, sulla base di norme di diritto pubblico (v., in tal senso, sentenza Hans & Christophorus Oymanns, cit., punti da 53 a 56).

 

26      Va rilevato, tuttavia, come la situazione di un organismo come l’Ärztekammer non può essere assimilata a quella descritta al punto precedente della presente sentenza.

 

27      Infatti, sebbene le funzioni di tale organismo siano elencate nell’HeilBerG NRW, dalla decisione di rinvio risulta invece che la situazione di tale organismo è caratterizzata dalla rilevante autonomia ad esso attribuita dalla suddetta legge nel determinare la natura, la portata e le modalità di esercizio delle attività che esso intraprende nello svolgimento delle sue funzioni, e dunque nel fissare le risorse finanziarie necessarie a tale scopo e, di conseguenza, l’importo dei contributi da richiedere ai suoi membri. Il fatto che il regolamento che fissa tale importo debba essere approvato da un’autorità pubblica di controllo non è determinante, in quanto tale autorità si limita ad accertare l’esistenza di una gestione finanziaria equilibrata dell’organismo in questione, cioè che quest’ultimo si assicuri, attraverso i contributi dei suoi membri e le sue altre risorse, entrate sufficienti a coprire l’insieme delle spese per il suo funzionamento secondo le modalità da esso stesso stabilite.

 

28      Peraltro, come rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi 65 e 66 delle sue conclusioni, tale autonomia rispetto all’autorità pubblica è ulteriormente rafforzata nel caso di specie dal fatto che il suddetto regolamento è adottato da un’assemblea costituita dagli stessi soggetti chiamati a versare i contributi.

 

29      Per quanto riguarda poi il secondo criterio enunciato all’articolo 1, paragrafo 9, secondo comma, lettera c), della Direttiva 2004/18, relativo al controllo della gestione da parte dell’autorità pubblica, va ricordato che, in linea di principio, un controllo a posteriori non soddisfa tale criterio, in quanto un simile controllo non permette all’autorità pubblica di influenzare le decisioni dell’organismo in questione in materia di appalti pubblici (v., in tal senso, sentenza del 27 febbraio 2003, Adolf Truley, C‑373/00, Racc. pag. I‑1931, punto 70). Questo è dunque, in linea di principio, il caso di un controllo generale di legittimità effettuato a posteriori da parte di un’autorità di controllo, e, a fortiori, di un intervento di tale autorità sotto forma di approvazione della decisione con cui tale organismo fissa l’importo dei contributi che assicurano la parte essenziale del suo finanziamento, intervento che si limita ad accertare l’equilibrata gestione finanziaria del suddetto organismo.

 

30      Risulta pertanto che un organismo come l’Ärztekammer, sebbene la legge stabilisca le sue funzioni nonché il modo in cui deve essere organizzato il suo finanziamento maggioritario da un lato, e preveda che la decisione con cui esso fissa l’importo dei contributi dovuti dai suoi membri deve essere approvata da un’autorità di controllo dall’altro, dispone concretamente di un’autonomia organizzativa e finanziaria che non consente di affermare che esso si trova in una situazione di stretta dipendenza dall’autorità pubblica. Pertanto, le modalità di finanziamento di un tale organismo non costituiscono un finanziamento maggioritario da parte dell’autorità pubblica e non permettono un controllo sulla gestione di tale organismo da parte di questa.

 

31      Tenuto conto dell’insieme delle considerazioni che precedono, si deve rispondere alla questione sottoposta dichiarando che l’articolo 1, paragrafo 9, secondo comma, lettera c), della Direttiva 2004/18 deve essere interpretato nel senso che un organismo, come un Ordine professionale di diritto pubblico, non soddisfa né il criterio relativo al finanziamento maggioritario da parte dell’autorità pubblica, quando tale organismo è finanziato in modo maggioritario dai contributi versati dai suoi membri, il cui importo è fissato e riscosso in base alla legge dallo stesso organismo, nel caso in cui tale legislazione non stabilisca la portata e le forme delle attività che tale organismo deve svolgere nell’ambito dell’esercizio delle sue funzioni istituzionali che tali contributi sono destinati a finanziare, né il criterio relativo al controllo della gestione da parte dell’autorità pubblica, per il solo fatto che la decisione con cui lo stesso organismo fissa l’importo dei suddetti contributi deve essere approvata da un’autorità di controllo.

 

Sulle spese

 

32      Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.

 

Per questi motivi, la Corte (Quinta Sezione) dichiara:

 

L’articolo 1, paragrafo 9, secondo comma, lettera c), della Direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, deve essere interpretato nel senso che un organismo, come un Ordine professionale di diritto pubblico, non soddisfa né il criterio relativo al finanziamento maggioritario da parte dell’autorità pubblica, quando tale organismo è finanziato in modo maggioritario dai contributi versati dai suoi membri, il cui importo è fissato e riscosso in base alla legge dallo stesso organismo, nel caso in cui tale legislazione non stabilisca la portata e le forme delle attività che tale organismo deve svolgere nell’ambito dell’esercizio delle sue funzioni istituzionali che tali contributi sono destinati a finanziare, né il criterio relativo al controllo della gestione da parte dell’autorità pubblica, per il solo fatto che la decisione con cui lo stesso organismo fissa l’importo dei suddetti contributi deve essere approvata da un’autorità di controllo.

 

Firme