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Est modus in rebus: la società aperta e il Covid-19

Dott. Michelangelo Di Stefano – Avv. Mara Ferraro

Il dramma globale di questa pandemia sta mettendo in discussione le fondamenta dell’interazione sociale su cui si sono fissati, nella letteratura moderna, i principi scientifici socio comunicativi e, in particolare, la “prossemica” e la “faccia”.
Il primo concetto si deve agli studi di Edward Hall, il precursore degli studi sulla semiologia dello spazio, che ne descrisse i contenuti in uno scritto inossidabile, dal titolo raffinato: “la dimensione nascosta”.
Partendo da questa base scientifica sui segni verbali, Hall avrebbe sviscerato “la prossemica”, in ogni suo dettaglio percettivo, illustrando la base chimica su cui si basa, accanto agli spazi uditici e visivi, anche l’olfatto.
La percezione olfattiva, ad esempio, spiegava “gioca un ruolo eminente nella vita araba: costituisce non solo uno dei meccanismi mediante cui viene stabilita la distanza dall’altro, ma addirittura un fulcro vitale di tutto il sistema di comportamento. Gli arabi respirano sempre in faccia all’interlocutore; e questa abitudine non è soltanto dovuta ad un diverso galateo; ma discende dal fatto che essi apprezzano i buoni odori altrui, e li considerano utili a stabilire un rapporto più coinvolgente […]. L’uomo occidentale ha combinato il tipi di attività e di relazioni consultive e sociali in un unico campo di distanza, e ha aggiunto il personaggio pubblico e la relazione pubblica. Le relazioni e i comportamenti pubblici come vengono praticati da europei e americani sono differenti da quelli di altre parti del mondo […]. Quindi, noi abbiamo quattro categorie principali di tipi di relazione (intima, personale, sociale e pubblica) e le attività e gli spazi corrispondenti. In altre parti del mondo i tipi di relazione tendono a cadere in altri schemi, come per esempio lo schema famiglia-non famiglia, usuale in Spagna, Portogallo e nelle loro ex colonie, o il sistema indiano basato sulla contrapposizione casta-fuori casta”.
Nel rileggere oggi, con il senno del COVID 19, queste affascinanti riflessioni desta sgomento comprendere che, in un certo qual modo, quei concetti di distanza sociale, chissà per quanto tempo, rimarranno carta logora negli scaffali delle biblioteche.
Ma Hall era andato oltre, introducendo quegli altri indicatori di relazione, che trovano esplicazione nel suo “linguaggio silenzioso” fatto di contenuti paraverbali all’interno di una conversazione.
Il punto di partenza nelle relazioni è la “faccia”, cioè quel qualcosa che ci viene concesso e che, vicendevolmente, determina un nostro input di risposta, di adesione, individuando una caratteristica della “solidarietà” o del “potere” rappresentati dalla faccia e, conseguentemente, dal “contatto” (l’intensità del calore umano) espresso attraverso il comportamento osservabile del soggetto.
Si tratta di temi che anche Erving Goffman avrebbe esplicitato con i suoi “giochi di faccia” e nella “fatica” di concedere la faccia; con lui anche Richard Hudson avrebbe descritto la “teoria della faccia”, attraverso cui “otteniamo ( e concediamo) faccia di solidarietà per mezzo del contatto fisico (toccando, accarezzando e così via), e le manifestazioni di intimità nell’ambito della famiglia o tra amanti non sono che un’espressione estrema di approvazione […]. D’altro canto, la prossimità fisica a un’altra persona è anche un’intrusione nel suo territorio personale e una minaccia alla sua faccia di potere. Ciò che si rende necessario è un delicatissimo atto di equilibrio: se siamo troppo vicini risultiamo invadenti; se troppo lontani, freddi […]. Un altro tipo di comportamento non verbale molto importante per il potere-solidarietà ( e per altri sentimenti di rilievo al livello sociale) è tutto quello che facciamo con la faccia (stavolta nel senso letterale nel termine!). Noi forniamo segnali sociali con la bocca (sorridendo, mostrando ripulsa), con gli occhi (contatto di occhi) e con le sopracciglia (corrugandole, mostrando sorpresa). Questi segnali sono di particolare interesse e importanza perché alcuni di essi sembrano essere universali (come Darwin affermò un centinai odi anni fa) […]”.
Sconcertante, allora, assumere la consapevolezza che tutti quegli indicatori di relazione sociocomunicativa presi a modello dalla comunità scientifica internazionale siano, di punto in bianco, scomparsi per via delle distanze e di quelle protezioni alle vie respiratorie che, gioco forza, rubano quel calore: una illustrazione che, ormai, possiamo descrivere solo con una emoticon stampigliata su una mascherina.
Alle riflessioni dei sociolinguisti vanno, adesso, aggiunte quelle dei sociologi che, invano, hanno cercato di indurci alla riflessione sull’erosione del principio di universalità dell’uomo, dovuta al processo di globalizzazione in antitesi a quelle realtà minori, c.d. “glocali” ma che, lo stiamo vedendo in questi giorni, stanno, di fatto, espandendosi a macchia d’olio con un terrificante effetto domino globale.
Rileggere, adesso, il commento di Umberto Eco a quel saggio sulla “società liquida” di Zigmunt Bauman, fa accapponare la pelle e ci induce alla riflessione se, ancora, abbiamo voglia di sentirci società, piuttosto che individuo: “Con la crisi del concetto di comunità –spiega Eco – emerge un individualismo sfrenato, dove nessuno è più compagno di strada ma antagonista di ciascuno, da cui guardarsi. Questo soggettivismo ha minato le basi della modernità, l’ha resa fragile, da cui una situazione in cui, mancando ogni punto di riferimento, tutto si dissolve in una sorta di liquidità. Si perde la certezza del diritto e le uniche soluzioni per l’individuo senza punti di riferimento sono da un lato l’apparire a tutti costi, l’apparire come valore e il consumismo. Però si tratta di un consumismo che non mira al possesso di oggetti di desiderio in cui appagarsi, ma che li rende subito obsoleti, e il singolo passa da un consumo all’altro in una sorta di bulimia senza scopo”.
Il concetto di bulimia, andando al tema centrale di questa pacata riflessione, è quel malvezzo, sempre più in uso nello scenario governativo e nella linguistica politica geo-globale fatto di critiche e di “bastian contrari”, tenendo sempre lontano, dalla focale, il bene della comunità tutta.
Dopo le festività natalizie, ancora accecati dal nostro consumismo, guardavamo in TV la questione “glocale” di Huan, con superficialità, in alcuni casi con scherno e con atteggiamento razzista di distacco.
In quello scenario, dalla nostra classe politica – senza distinzione alcuna di casacca – sono arrivati solo “segnali” di squallide pantomime ove tutto era il contrario di tutto; con l’aggravante che, in quella assordante “torre di Babele”, abbia fatto di contorno anche una irriguardosa e mediocre “comunità scientifica” a braccetto della “politica” di bandiera.
Proclami sul “si tratta di una semplice influenza”, sul bisogno di considerare “l’immunità di gregge” e dei numeri della conta, fino alla delirante e recidiva rassicurazione che “le mascherine non servono a chi non è infetto”: una spettacolarizzazione della comunicazione incosciente e strafottente che, di lì a poco, avrebbe determinato una ecatombe.
L’Italia, con tutti i suoi difetti, ha però assunto delle iniziative, di certo criticabili sul piano giuridico, di tempestività, di esaustività o di ciò che si voglia tra mille e mille polemiche.
Sta di fatto che la popolazione, TUTTA, ha aderito senza disquisire sul fatto che un atto di alta amministrazione potesse, o meno, collidere con le fonti primarie della nostra amata e martoriata Carta, e TUTTI abbiamo aderito all’esigenza uti cives di salvaguardare il futuro dell’umanità.
La cosa che rattrista e induce allo smarrimento è, però, la palpabile considerazione che la classe politica seduta agli scranni del nostro (non del loro) Parlamento non ha alcun rispetto verso l’elettorato attivo che, suo malgrado, la ha fatta accomodare su quelle preziose poltrone, assistendo sistematicamente a una vomitevole accozzaglia di insultatori di turno, scarica barile, e “segni verbali” di bassa lega.
Il distinguo è che, nella scenografia bulimica della politica, la faccia (questa volta senza la mascherina) palesata dagli attori non è mai quella della “solidiarietà”, bensì quella del “potere”, fatta di isterismi, dilettantismi e mancanze, deliranti, di soluzioni di continuità.
Dall’altra parte dello schermo – perché la modalità prossemica ci ha portato adesso, toto mundo, non più e non solo alle dinamiche di interazione virtuale attraverso gli smartphone, ma allo zapping televisivo nella speranza di una parola di conforto – NOI siamo rimasti inermi a cercare il barlume di una buona notizia, di una prospettiva, di un “messaggio”, di un “segno” che ci indicasse la via per uscire da questa assurda situazione, per poi assistere, ancora, allo spettacolo nell’arena degli stolti.
La mancanza di coesione e l’ostentazione dell’egoismo istituzionale a tutto tondo, che si respira anche e, soprattutto, in uno scenario geopolitico comunitario e globale, non fa altro che irrigidire ancor di più le nostre aspettative verso il politichese, trovandoci a rileggere, ancora una volta, dopo la parentesi del terrorismo, quella sapiente riflessione di Karl Popper su “la società aperta e i suoi nemici”.
Un nuovo, ennesimo, “world disorder”, avrebbe ricordatoci Ken Jowitt, che ancora, però, non ci lascia comprendere la reale vastità del disagio sociale: siamo ancora troppo presi dalle nostre comode e lussuose smart home, e la chiusura dentro un recinto virtuale non riesce – ciò nonostante – a farci comprendere che una buona metà della popolazione mondiale vive senza un tetto, non ha acqua corrente e non ha cibo, non ha gambe o braccia portate via da una guerra capitalistica senza Dio e senza bandiere ma, a dispetto di noi, ha fede.
Noi, spesso, a torto li definiamo tribali, perché le loro divinità, forse, non sono aggraziate e pompose come quelle che con superficialità ossequiamo nei nostri templi religiosi quando ci agghindiamo nelle feste comandate; ma, a differenza nostra, quelle comunità che con disprezzo definiamo “da terzo mondo”, hanno la ricchezza della speranza: l’aspettativa di un futuro e del sovrannaturale che li aiuterà, anche se scalzi e con un tetto di canne.
Ma in questo momento di smarrimento, dove anche quei “segni” sacri sembrano disorientati, abbiamo ritrovato, attraverso la forza della multimedialità, quell’icona che il Papa buono ci aveva regalato attraverso “la fontana al centro del villaggio”; ecco, allora, che per mano di un Pastore alla guida di un gregge smarrito, quella piazza deserta, come d’incanto, ritorna pulsante in tutta la sua austera maestosità, ricca di contenuti forti: una scena fatta di ultimi, di emarginati, di educatori e di quanti, in questa guerra senza volto, stanno combattendo in una trincea fatta di amore, compassione e di sacrificio estremo.
Che a Napoli – senza voler fare torto al Nord come al Sud – vi sia un “paniere” nei vicoli dei quartieri con scritto “chi non ha, prenda, chi ha, metta”, non dovrebbe essere una eccezione, ma la regola della nostra comunità civile, se così pretendiamo di continuare a definirla.
Eppure, il “segno” più importante che abbiamo visto e che forse mai metabolizzeremo, è quella fila interminabile di camion verde cachi con dentro i nostri Cari, senza un volto e senza un nome, in partenza per chissà dove e senza il futuro della memoria.
Così come quelle fosse comuni nella capitale della modernità, una grande mela ormai marcia dentro e fuori; una megalopoli non troppo distante da noi, non troppo diversa da quella degli altri nostri fratelli di Huan.
E, allora, accanto a questa mesta e silenziosa cerimonia del “distacco” non può trovare riscontro quella statistica nuda e cruda, snocciolata a suon di numeri (e mai di nomi, salvo che si tratti di “scienziati” di contorno) alla sera, nella conferenza di routine a reti unificate.
E, allo stesso qual modo, non si riesce a comprendere la logica di quel commiato di Stato, uti singuli, nel rispetto di quella stessa morte che non può – e non deve – trovare in sé, proprio malgrado, anche quella metafora della “livella” di Antonio De Curtis.
E’ inqualificabile e intollerabile trovarsi, per caso, a leggere trafiletti riportati in sordina a fondo pagina di emendamenti che, quando si sono riaperte finalmente le porte del nostro (non del loro) Senato, plaudono a una norma emendatrice per le catene gerarchiche che non hanno dotato i loro “figli” al fronte di dispositivi individuali di protezione;
non è etico, non è serio, e non è accettabile, nel rispetto di tutte quelle donne e quegli uomini che hanno ripetuto a memoria, ancora una volta mentre erano intubati nella loro agonia senza affetti e senza una sepoltura, quel dovere di Ippocrate che li aveva portati a scegliere l’altro, piuttosto che se stessi;
non è morale ed è disumano, nel rispetto di tutte quelle donne e uomini che hanno prestato fedeltà alle Istituzioni scolpite in quella Carta e che, a mani nude, continuano a difendere, tenendo fermi i puntelli di quella “casa di tutti” che Giorgio La Pira stenterebbe oggi a riconoscere.
Non è una guerra quella che stiamo combattendo. E non lo è per svariati motivi: in guerra non si arriva al cibo, noi invece facciamo la fila al supermercato, ma l’approvvigionamento non manca e in quelle situazioni dove mancano le risorse economiche, arrivano le opere di carità.
In guerra conosco il nemico e posso concludere il conflitto stilando un trattato di pace, un patto di non belligeranza, sulla base delle reciproche volontà. Qui il nemico non lo conosciamo e non possiamo dialogarci.
Stiamo chiusi in casa sì, ma in guerra (quanto meno in quelle forme di guerra che l’umanità ha sempre combattuto) la casa viene spesso rasa al suolo dalle bombe.
In guerra si ha paura, noi invece siamo dominati dall’angoscia, poiché abbiamo perso tutti i riferimenti ordinari e consueti del vivere, come i bambini che stanno al buio della stanza.
In un colpo solo, questa minuscola catena di RNA, ci ha fatto ritornare ad una dimensione di necessità, propria delle cose della natura. Siamo chiamati dunque a rimanere immobili per conservare la specie, confinati per la pura sopravvivenza biologica.
Natura vs tecnica, l’eterno conflitto, dove il primo termine è immensamente più forte del secondo e lo stiamo comprendendo bene.
Fino a qualche settimana fa, un Prometeo scatenato ci consegnava l’immagine di un mondo, dove l’uomo, nel suo delirio di onnipotenza e nella vana illusione di poter dominare sugli uccelli del cielo e sui pesci del mare, erodeva la terra e la sua stessa umanità.
Una “società liquida” che di liquido ha ben poco. L’uomo nasce estremamente liquido, libero poiché non codificato da istinti.
Nella sua indeterminatezza è in preda a pochi basilari impulsi, come ha ben affermato Martin Heidegger, ha dovuto crearsi degli istinti artificiali, delle risposte rigide al uno stimolo, che sono le regole, gli apparati, e in questa ottica la tecnica – come spinta ad ottenere il massimo risultato col minimo sforzo, trasformando l’ambiente circostante – la fa da padrona.
Col tempo si è passati dallo spirito contemplativo verso il mondo al fine di comprenderne le leggi, tipico della visione greca, all’osservazione scientifica, tesa a manipolare, essendo essa la branca principale della tecnica.
E la tecnica oggi ha superato l’uomo, divenuto funzionario di apparati economici, che gli impongono un grado di efficienza sempre maggiore e dai quali non si può sganciare.
Dunque, non siamo liberi e non siamo “liquidi”. L’umanità non ha mai percorso binari così determinati e schemi di vita così rigidi.
L’incertezza sull’ informazione e la velocità con cui mutano e si relativizzano certi parametri sociali, non sono altro che un effetto voluto del sistema rigidissimo sopra evidenziato.
Una sorta di “disordine” su spinta nichilista, dove tutti i vecchi principi e parametri sembrano saltati, ma non se ne formano di nuovi.
Dobbiamo prendere spunto dal forzato lockdown, dalla frenata ai ritmi brutali di vita, che creavano sviluppo ma non progresso, per dirla come Pasolini, per ristabilire un ordine più umano delle cose, riscoprire quel “gnóti sautón, katametrón (conosci te stesso, realizza il tuo demone, secondo misura, dove la misura è la mortalità) e per compiere un lavoro interiore che male non fa: non si può viver una vita a propria insaputa!
Non siamo in guerra, ma siamo in uno stato di emergenza e una dichiarazione formale di questo tipo avrebbe dovuto imporre, senza dubbio, allo Stato di apprestare tutti i mezzi necessari per affrontare questa emergenza, pur in presenza di un invasore sconosciuto.
Procedere con il passo del viandante è utile solo se si ha una strategia precisa di intervento e si aggiusta il tiro man mano che la situazione di evolve, secondo le sue incognite.
In questo hanno fallito anche i più bravi della classe. Nello stato di emergenza è anche importante abbassare il grado di polemica. Fare opposizione politica, quando il Paese sta affrontando una situazione assolutamente eccezionale, è a dir poco scellerato e squallido.
Occorre dare risposte certe e univoche, fare fronte comune per offrire soluzioni. Ma, parliamo di un’altra Italia e, a quanto pare, di un altro Mondo.
Quando avremo ricominciato a vivere, dovremo trovare il modo di organizzare la vita secondo etica e democrazia e, perché no, porre come termini dell’etica la felicità e la bellezza.
E forse non abbiamo altra scelta, diversamente stiamo solo preparando la nostra rovina.
Il nostro futuro, ci domandiamo adesso, quale sarà: già ci eravamo fatti un’idea rileggendo le proiezioni di Marshall Mc Luhan allorquando, nel 1964, scrivendo “Understanding media”, avrebbe ipotizzato che i media non sarebbero stati solo un messaggio e che, di lì a poco, avrebbero assunto la funzione di “massaggio”, una sorta di “extensions of man” nel caos del “villaggio globale”.
Una ragnatela, quella che qualche decennio dopo Tim Bernees Lee avrebbe architettato virtualmente, che ha avuto il pregio di erodere le barriere e costruire le comunità, uno slogan che i cyber antropologi, come Elizabeth Mc Reid, si sforzano di diffondere nell’electropolis: “ deconstructing the boundaries, constructing communities”.
Ma il nostro futuro, purtroppo, sarebbe stato sagacemente disegnato qualche tempo più avanti da George Orwell, in una “fattoria degli animali” chiassosa e pasticciona, non tanto dissimile dall’arena pubblica della politica di oggi; un passo indietro, fino al 1984, dove quel Big Brother è adesso pronto, a suon di “App” istituzionalizzata, a violentare le nostre libertà e il nostro lavoro, che di “agile” e di “smart” avrà soltanto il controllo predatorio.
Starà a NOI decidere; starà a NOI consentire che la nostra amata ITALIA sia descritta, nel silenzio assordante della politica, come uno spaghetto a forma di cappio.
In questi giorni abbiamo sentito più volte ripetere uno stupido –disdicevole – aforisma di Sir Winston Churchill (quello stesso statista che, troppe volte, ha messo gli italiani alla berlina) che recita: “la Germania dovrebbe essere bombardata regolarmente ogni 50 anni anche senza motivo”.
Ci piace, piuttosto, richiamare le riflessioni di Karl Popper secondo cui: “la lezione che noi dovremmo apprendere da Platone è esattamente l’opposto di quello che egli vorrebbe insegnarci…lo sviluppo stesso di Platone dimostra che la terapia che raccomandava è peggiore del male che tentava di combattere. Arrestare il cambiamento politico non costituisce un rimedio e non può portare la felicità. Noi non possiamo mai più tornare alla presunta ingenuità e bellezza della società chiusa. Il nostro sogno del cielo non può essere realizzato sulla terra”.
Forse solo allora, riuscendo a comprendere che “est modus in rebus”, potremmo essere anche in grado di cancellare l’ “Io” e il “Mio” dalla religione, dalla politica e dall’economia, cosicchè “saremmo presto liberi e porteremmo il cielo in terra”, avrebbe proseguito Mahatma Gandhi.
Il bello della nostra amata Costituzione è questo: la libertà di espressione, la possibilità di poter dissentire e palesare la propria critica, anche attraverso un foglio di carta, che potrà farci vedere “il cielo stellato” sopra di noi e la “legge morale” dentro di noi.
Buona Pasqua.

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Coronavirus: da infodemia a infopandemia

Marino D’Amore

Sociologo della comunicazione e docente Università Niccolò Cusano

Il Coronavirus rappresenta il grande nemico che il mondo sta affrontando in queste ultime settimane. Una questione che si dirime tra misure mediche emergenziali e decisioni amministrative draconiane. Anche l’uso della terminologia appare confuso, dividendosi, soprattutto mediaticamente, per un periodo tra influenza ed epidemia sino all’ufficializzazione mondiale della pandemia. In questo momento di profonda confusione alcuni punti si mostrano nella loro inequivocabile evidenza.

In primo luogo ci troviamo di fronte a un tipico caso di infodemia anzi, mi conceda il termine, di infopandemia: un sovraccarico d’informazioni sul tema prima contrastanti, poi ipertranquillizzanti e infine giustamente allarmanti, stimoli informativi che non chiariscono la questione e soprattutto neutralizzano la legittimità autorevole di ogni fonte: tale contrasto coinvolge e connota le differenti posizioni del mondo scientifico e di quello istituzionale, ma rappresentano anche una divisione interna al primo, dove alcuni medici per settimane hanno smentito altri sulla reale gravità del virus, catalizzando una profonda sfiducia su tutto ciò che viene detto e che prolifera, alimentato e diffuso dalle dinamiche piramidali del web. Senza contare le fake news che in un periodo di allarme sociale e di abbassamento dei filtri razionali di interpretazione trovano terreno fertile.

Le misure prese dal governo e dalle amministrazioni locali vengono raccontate e si mostrano come strumenti di lotta impari e disperata contro il virus, mentre dovrebbero essere definite meglio, soprattutto in ambito mediatico, come mere misure di contenimento dello stesso a causa della sua alta contagiosità, dell’assenza di farmaci dedicati e del fattuale pericolo di collasso delle strutture ospedaliere, come purtroppo si evince in questi giorni. In questo caso anche un eccessivo presenzialismo mediatico dei rappresentati delle istituzioni alimenta l’allarmismo sociale e la psicosi che ne deriva. le parole fanno paura: epidemia, pandemia il richiamo a un epilogo catastrofista è evidente e offusca il loro reale significato. La commistione di questi elementi fa sì che il messaggio, relativamente chiaro, che le istituzioni vorrebbero diffondere, ossia quello di evitare contatti e rimanere a casa, molte volte venga disatteso per invadere i supermercati o i tabaccai nel cuore della notte, con effetti controproducenti come è accaduto dopo gli ultimi messaggi del presidente del consiglio.

Il racconto iconografico dei mass media suggerisce immagini e scenari apocalittici che amplificano il timore e gli effetti dei punti precedenti, ormonati anche dalla serializzazione di un’ ipercomunicazione caratterizzata da continui aggiornamenti che di fatto acuiscono la percezione della gravità della situazione, soprattutto quando aumentano le vittime e i contagiati. La situazione è molto seria e la sua gravità non è calcolabile se non nel breve periodo, tuttavia anche una normalizzazione, non nei contenuti ma nelle sue modalità, della comunicazione giornalistica aiuterebbe a far comprendere meglio la difficile realtà che stiamo vivendo. Una realtà che non viene percepita da tutti con la considerazione che merita, soprattutto per il prezzo alto che si sta pagando in termine di vittime, ad esempio in Lombardia. L’overload informativo agisce per paradigmi di quantità e l’invasività di ogni immagine funziona meglio di qualsiasi altro contenuto, meglio della parola, soprattutto nei social, nell’epoca della convergenza multimediale e della società dell’immagine, provocando o un cieco allarmismo o uno scetticismo lassista, senza una giusta via di mezzo.

Il proliferare delle fake news che anche in questo caso che inficiano il lavoro dei buoni comunicatori e dei divulgatori scientifici: dall’uso delle mascherine sino alla ricerca spasmodica del paziente zero, ormai inutile dato che il virus proviene dalla Cina ma sembra assumere dimensioni autoctone nelle aeree in cui è arrivato, dai rimedi fatti in casa sino alle tisane calde che uccidono il virus. Fattori che hanno aumentato esponenzialmente la destabilizzazione cognitiva, insieme a un individualismo sfrenato che si è palesato in diversi episodi: dal forzo del blocco nella zona rossa per scappare in piena notte fino ai locali pieni di ragazzi che brindano al Coronavirus, passando per la speculazione economica on line sulle mascherine. Una grande, esecrabile irresponsabilità che ha contribuito alla situazione attuale.

Il passaggio dell’Italia da paese contagiato a paese che contagia: situazione che ha causato l’isolamento del nostro stato come paese focolaio con tutte le conseguenze economiche che ne sono derivate e di cui ancora non riusciamo a valutare i contorni. Un isolamento che ha mostrato tutta la sua superficialità: il caso italiano avrebbe dovuto rappresentare un esempio emergenziale da seguire e invece ha fatto abbassare la guardia al resto dell’Europa e del mondo, disegnando poi i contorni della pandemia. Una pandemia combattuta secondo modalità diverse, si pensi all’Inghilterra, che, a prescindere da tutte le valutazioni possibili, negano, quantomeno, una volontà di approccio comune, sinergico, valutato secondo i rispettivi sistemi sanitari.

L’illogicità caotica della comunicazione istituzionale che è passata da una situazione epidemica a una normalizzazione forzata fino all’attuale stato pandemico in un tempo relativamente breve: evenienza che ha effettivamente cozzato con la chiusura di alcuni luoghi di aggregazione, ad esempio le scuole e gli stadi, tenendone aperti altri dove il contatto era ugualmente possibile per arrivare poi, ripeto giustamente, alla “chiusura” dell’intera nazione e della sua socialità. Misure necessarie e inderogabili ora, ma qual è stato il risultato della volubilità comunicativa delle istituzioni? Una continua perdita di credibilità che continua a creare sfiducia e tradisce ogni tentativo di controllo.

La soluzione: soprattutto in questa fase pandemica creare una comunicazione decisa di concerto e condivisa, multidisciplinare composta dal mondo istituzionale e da quello medico, con sociologi e psicologi, che elimini i dubbi, sia chiarificatrice e, al tempo stesso, sia realistica ed efficace nella risoluzione delle criticità che aumentano quotidianamente, anche se in questa fase, che ormai paga un evidente deficit di autorevolezza e di infopandemia, come io la definisco, diventa davvero difficile la sua realizzazione.

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Il delitto di traffico di influenze illecite – da Camillo Cristini, La Legge Anticorruzione – Analisi ragionata delle novità e delle modifiche introdotte dalla Legge 6 novembre 2012, n. 190

 

Per gentile concessione dell’editore www.exeo.it pubblichiamo un abstract del testo del Dott. Camillo Cristini

Camillo Cristini, La Legge Anticorruzione – Analisi ragionata delle novità e delle modifiche introdotte dalla Legge 6 novembre 2012, n. 190 – Exeo edizioni acquistabile su

http://www.exeo.it/ebook/legge_anticorruzione_190_2012_riforma_corruzione_concussione_indebita_induzione_traffico_influenze_illecite_corruzione_tra_privati_autorita_nazionale_anticorruzione_piano_prevenzione_trasparenza_amministrativa_conflitto_interessi_white_list_gc01

 

CAPITOLO III

Il delitto di traffico di influenze illecite

 1. Gli obblighi di incriminazione nascenti da fonti internazionali

 

Con riferimento alla figura di trading in influence, la Convenzione di Merida contro la corruzione del 2003 all’art. 18 lett. a) impone agli Stati parte di incriminare «il fatto di promettere, offrire o concedere ad un pubblico ufficiale o ad ogni altra persona, diret­tamente o indirettamente, un indebito vantaggio affinché detto ufficiale o detta persona abusi della sua influenza reale o supposta, al fine di ottenere da un’amministrazione o da un’autorità pubblica dello Stato Parte un indebito vantaggio per l’istigatore iniziale di tale atto o per ogni altra persona».

Alla successiva lett. b) impone parimenti di in­criminare «il fatto, per un pubblico ufficiale o per ogni altra persona, di sollecitare o di accettare, direttamente o indirettamente, un indebito vantaggio per sé o per un’altra persona al fine di abusare della sua influenza reale o supposta per ottenere un indebito vantaggio da un’amministrazione o da un’autorità pubblica dello Stato Parte».

Analogamente si esprime la Convenzione del Consiglio d’Europa  del 1999 che all’art. 12 impone di incriminare «il fatto di promettere, of­frire o procurare, direttamente o indirettamente, qualsiasi vantaggio indebito, per sé o per terzi, a titolo di rimunerazione a chiunque afferma o conferma di essere in grado di esercitare un’influenza sulla decisione di una persona di cui articoli 2, 4-6 e 9-11 [ossia dei titolari di pubbliche funzioni menzionati nelle norme precedenti], così come il fatto di sollecitare, ricevere o accettarne l’offerta o la promessa a titolo di rimunerazione per siffatta influenza, indipendentemente dal fatto che l’influenza sia o meno effettivamente esercitata oppure che la supposta influenza sortisca l’esito ricercato».

Dall’esame delle norme delle due Convenzioni emerge l’obbligo di sanzionare condotte che si pongono come prodromi­che rispetto a (successivi) accordi corruttivi, in un’ottica di ulteriore anticipa­zione della tutela rispetto a quella realizzata mediante i reati di corruzione.

Si tratta, in par­ticolare, di norme che intendono colpire l’intervento di terzi soggetti che agiscono quali “mediatori” di un futuro accordo corruttivo.

A tal fine le norme impongono, da un lato, di sanzionare sia chi si faccia dare o promettere denaro o altra utilità per esercitare la propria mediazione, sia chi dia o prometta l’utilità in vista di tale illecita prestazione.

Dall’altro, sanzionano sia chi riceva il denaro o la promessa in relazione ad una propria effettiva influenza sul pubblico ufficiale da cor­rompere, sia chi semplicemente affermi di poter esercitare una simile influenza, millantando dunque un credito in realtà inesistente.

 

 

2. Gli elementi costitutivi del nuovo reato di cui all’art. 346 bis

L’art. 346 bis c.p. punisce «chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319 ter, sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio».

La stessa pena si applica, secondo quanto prevede il comma secondo della nuova disposizione, anche «a chi indebitamente dà o promette denaro o altro vantaggio patrimoniale», mentre la pena è, dal comma terzo, aumentata «se il soggetto che indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale riveste la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio».

Infine, rispettivamente in forza del comma quarto e quinto, le previste pene «sono altresì aumentate se i fatti sono commessi in relazione all’esercizio di attività giudiziarie», e sono invece diminuite «se i fatti sono di particolare tenuità».

Il delitto di traffico di influenze illecite (art. 346 bis c.p.) sanziona due distinte condotte:

a) quella di chi, sfruttando le sue relazioni con un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, si fa dare o promettere (anche per altri) denaro o altro vantaggio patrimoniale come contropartita della mediazione illecita;[1]

b) quella di chi, sempre sfruttando le sue relazioni con un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, si fa dare o promettere (anche per altri) denaro o altro vantaggio patrimoniale per remunerare il pubblico funzionario.[2]

Nel primo caso il legislatore ha inteso colpire quelle diffuse forme di malcostume – fino ad ora non punibili – poste in essere da quei soggetti che spesso si muovono nell’entourage di uomini politici o funzionari pubblici.

Nel secondo caso, invece, si è inteso anticipare la soglia di punibilità prevista per il reato di corruzione, sanzionando delle condotte che prima dell’introduzione del nuovo reato ex art. 346 bis sarebbero state considerate come meri atti preparatori (quindi non punibili, nemmeno come tentativo) del delitto di corruzione.

Comune è comunque la finalità di entrambe le ipotesi: proteggere il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione, sanzionando condotte propedeutiche rispetto a successivi accordi corruttivi.

Occorre evidenziare come la norma consideri punibile la condotta di chiunque faccia dare o promettere «indebitamente»,  aggiungendo che il denaro o altro vantaggio patrimoniale devono rappresentare il prezzo di una mediazione «illecita».

Tale formulazione incide in maniera determinante nella struttura della fattispecie incriminatrice: si tratta, infatti, di una clausola di antigiuridicità speciale da cui deriva il fatto che l’illiceità della condotta dovrebbe essere valutata alla luce di norme extrapenali che stabiliscano le condizioni in base alle quali una condotta sia o meno lecita.

Al riguardo va però detto che – a differenza di altri ordinamenti nei quali è riconosciuta la liceità di attività di mediazione e pressione esercitate in forma professionale, specie presso istituzioni politiche o amministrazioni pubbliche (es. lobbies) – nel nostro ordinamento manca una disciplina specifica, con la conseguenza che la nuova fattispecie incriminatrice potrebbe presentare problemi di costituzionalità, non rispettando i necessari principi di determinatezza e tassatività della fattispecie penale.[3]

 

2.1 (Segue) I rapporti con il millantato credito

La differenza principale tra i due reati consiste nella diversa natura dei rapporti che s’instaurano tra l’intermediario e il pubblico agente: mentre nel millantato credito (art. 346 c.p.) questi devono essere vantati[4], nel traffico di influenze illecite (art. 346 bis) i rapporti tra i due soggetti devono essere reali, «esistenti».

Con l’art. 346 c.p. viene tutelato il prestigio e il buon nome della pubblica amministrazione[5], mentre l’art. 346 bis tende a preservarne l’imparzialità ed il buon andamento, difendendone la correttezza e l’autonomia sotto il profilo sostanziale.

Occorre sottolineare che la figura del millantato credito prevista dall’art. 346 c.p. è stata nell’elaborazione giurisprudenziale interpretata non solo nel senso di punire – come previsto dalla norma – i casi di vanto di un credito inesistente, ma anche le ipotesi di amplificazione e magnificazione di un credito esistente, in modo tale da far apparire di essere in grado di influenzare le determinazioni di un pubblico funzionario e conseguentemente di poter favorire il privato nel conseguimento di preferenze e di vantaggi illeciti in cambio di un prezzo per la propria mediazione.[6]

Tali interpretazioni hanno di fatto esteso l’area di incriminazione del millantato credito a condotte ricadenti, in altri ordinamenti, nello schema del traffico di influenze.

L’introduzione del traffico di influenze, pertanto, pone rimedio a tali letture interpretative e riconduce nell’alveo del millantato credito esclusivamente le condotte riguardanti rapporti meramente vantati, rientrando nel nuovo art. 346 bis le condotte che si basano su rapporti effettivamente esistenti.

Ulteriori differenze sono riscontrabili nel fatto che nella nuova norma, a differenza del millantato credito, venga punito anche chi dà o promette il denaro o il vantaggio patrimoniale per i fini di cui al comma 1 (art. 346 bis comma 2 c.p.), adeguando così il nostro ordinamento agli standard richiesti dalle fonti internazionali.

A differenza poi dell’art. 346 c.p. in cui la millanteria viene riferita al rapporto con un pubblico ufficiale ovvero un pubblico impiegato che presti un pubblico servizio, l’art. 346 bis riferisce la mediazione illecita ad un rapporto intercorrente con il pubblico ufficiale o con l’incaricato di un pubblico servizio, non importa se impiegato o meno.

 

 

3. Sanzioni

Il traffico di influenze illecite rappresenta una fattispecie che assicura – come detto – una tutela anticipata dei beni del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione, sanzionando ipotesi propedeutiche rispetto ad un possibile accordo corruttivo.

Il legislatore, tenendo conto dei beni giuridici tutelati e della capacità offensiva delle condotte integranti il traffico di influenze illecite, ha predisposto delle pene più miti rispetto a quelle previste per le fattispecie corruttive: l’art. 346 bis, infatti, prevede la reclusione da uno a tre anni con gli aumenti previsti al comma 3 («se il soggetto che indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale riveste la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio») e al comma 4 («sono altresì aumentate se i fatti sono commessi in relazione all’esercizio di attività giudiziarie»).

Il comma 5, infine, prevede una diminuzione della pena «se i fatti sono di particolare tenuità».

Accanto alla nuova norma continua comunque a sopravvivere l’art. 346 c.p. che prevede per l’ipotesi base di millantato credito la reclusione da uno a cinque anni (oltre alla multa), e per l’ipotesi più grave di cui al secondo comma – applicabile a chi intende trattenere per sé o per il beneficiario l’intera somma, o l’intera utilità, oggetto della dazione o della promessa – addirittura quella della reclusione da due a sei anni (anche qui, oltre ad una multa).

È evidente l’irragionevolezza della scelta compiuta dal legislatore in quanto il traf­fico di influenze illecite – in cui i rapporti sono esistenti e effettivi – è punito meno severamente rispetto al millantato credito, ipotesi in cui, invece, le relazioni sono meramente vantate e non vi è un pericolo concreto di distorsione della pubblica funzione

Anche al fine di evitare simili incongruenze sanzionatorie, vi è chi sostiene che sarebbe stato preferibile rinunciare alla distinzione tra le due figure, introducendo un unico delitto traffico di influenze illecite dotato di un adeguato quadro edittale, anche se più mite di quello previsto per le fattispecie di corruzione.[7]

 

 

4. Profili di diritto intertemporale

Per quanto concerne le problematiche di diritto intertemporale,  l’incriminazione del traffico di influenze illecite rappresenta sicuramente una nuova incriminazione – con gli effetti di cui all’art. 2 comma 1 c.p. – rispetto alla condotta di chi dà o promette l’utilità, condotta non punibile prima dell’introduzione dell’art. 346 bis c.p.

Più complesso, invece, il discorso relativo alle condotte di chi riceve, per sé o per altri, la dazione o la promessa.

Le ipotesi di pura millanteria – nelle quali l’agente non dispone in realtà di alcuna relazione con pubblici funzionari –  continuerebbero ad essere sanzionate sulla base dell’art. 346 c.p.

Rispetto, invece, a chi riceva la promessa o la dazione «av­valendosi di relazioni esistenti» (come previsto dal nuovo art. 346 bis), è facile immaginare l’emergere di soluzioni non univoche sostenute soprattutto da quanti – facendo leva su quella corrente giurisprudenziale che considera millantato anche il credito esistente, ma amplificato – sosterranno la continuità normativa tra i due reati, con conseguente appli­cabilità ai fatti pregressi della disciplina più favorevole rappresentata dall’art. 346 bis.[8]

 

 



[1] La prima parte dell’art. 346 bis c.p. evidenzia punti di contatto con il concorso nel reato di corruzione, ma se ne differenzia in quanto il denaro o altri vantaggi patrimoniali non rappresentano il prezzo da corrispondere al pubblico ufficiale per far sì che lo stesso ometta o ritardi (o abbia omesso o abbia ritardato) un atto dell’ufficio o contrario ai doveri d’ufficio, ma tali utilità vengono destinate unicamente a retribuire l’opera di mediazione.

[2] La seconda ipotesi prevista dall’art. 346 bis c.p. pare presupporre che tali utilità non vengano corrisposte o la loro promessa non venga accetta, posto che, diversamente, si ricadrebbe nell’ipotesi di concorso in corruzione propria.

[3] Tali perplessità sono state espresse dalla Relazione dell’Ufficio Massimario della Cassazione, cit.; si veda in dottrina Balbi G., Alcune osservazioni in tema di riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, cit., pag. 9: «sarebbe peraltro opportuno eliminare l’avverbio indebitamente – indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale” –  incongruamente presente anche nei testi internazionali, quasi inspiegabile quale indice di illiceità speciale, per nulla pleonastico, ma al contrario munito dell’inquietante potenzialità semantica di vanificare qualsiasi efficacia alla disposizione: il mediatore che si facesse retribuire per mettere in contatto – a qualsiasi fine – un terzo con un pubblico agente, in cambio di ciò non riceverebbe denaro “indebito”, ma un corrispettivo dovuto quale compenso per la sua prestazione.»

[4] Per Cass.pen., sez. VI, , 27 gennaio 2000, n. 2645, per la configurazione del reato di millantato credito è indispensabile che il comportamento del soggetto attivo si concreti in una «vanteria», cioè in un’ostentazione della possibilità di influire sul pubblico ufficiale che venga fatto apparire come persona «avvicinabile», cioè «sensibile» a favorire interessi privati in danno degli interessi pubblici di imparzialità, di economicità e di buona andamento degli uffici, cui deve ispirarsi l’azione della pubblica amministrazione.

[5] La lesione si configura con la semplice percezione in capo a terzi della possibilità che l’attività della pubblica amministrazione venga piegata a fini personali, così violando gli elementari principi di legalità amministrativa e di eguaglianza, anche se il millantatore non ha l’effettiva capacità di influire sui pubblici poteri.

[6] Cfr. Cass.pen., sez. VI, 18 maggio 1989, n. 11317 e Cass.pen., sez. VI, 4 febbraio 1991, n. 5071.

[7] Cfr. Dolcini E. e Viganò F., Sulla riforma in cantiere dei delitti di corruzione, cit., p. 241; Contra cfr. Balbi G., Alcune osservazioni in tema di riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, cit., pag. 10: «Concludere, tuttavia, per l’opportunità dell’abrogazione del millantato credito (…) facendolo confluire nella nuova fattispecie, è un’opzione che non mi convince, stante la profonda differenza tra i profili di offensività delle due ipotesi e dunque la problematica perequazione delle stesse.»

[8] Cfr. Dolcini E. e Viganò F., Sulla riforma in cantiere dei delitti di corruzione, cit., p. 242.

 

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Tra gli autori anche gli Avv. Di Leo Domenico e Federici Federica fondatori della Associazione Nuove Frontiere del Diritto.

NE BIS IN IDEM

NE BIS IN IDEM

 a cura dell’Avv. Antonio Giuffrida

L’effetto tipico del giudicato penale, inteso come aspetto sostanziale di pronuncia definitiva (in contrapposizione all’aspetto formale della pronuncia che attiene invece alla sua irrevocabilità), è costituito dalla preclusione della possibilità che nei confronti di un soggetto giudicato possa instaurarsi un procedimento penale per lo stesso fatto, preclusione che viene solitamente indicata col brocardo latino ne bis in idem.

Il ne bis in idem non riceve copertura costituzionale ma la trova invece nelle fonti internazionali di tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e precisamente all’art. 4 § 1 del VII Prot. C.E.D.U. e all’art. 14 § 7 del Patto Internazionale relativo ai diritti civili e politici.

Invero, l’esigenza di impedire che un soggetto sia processato più volte per il medesimo fatto è avvertita in maniera assai pregnante in ambito internazionale e, in particolare, europeo: qui la problematica del ne bis in idem si colloca all’interno del processo volto alla creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia attraverso gli strumenti dell’armonizzazione e del mutuo riconoscimento.

Sul piano della legislazione ordinaria il principio de quo trova riconoscimento all’art. 649 c.p.p. che, sotto la rubrica “Divieto di un secondo giudizio”, enuncia testualmente:

“1. L’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze, salvo quanto disposto dagli articoli 69 comma 2 e 345.

2. Se ciò nonostante viene di nuovo iniziato procedimento penale, il giudice in ogni stato e grado del processo pronuncia sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, enunciandone la causa nel dispositivo.”

La regola in questione opera sul piano processuale ed ha una portata diversa rispetto a quella dell’art. 15 c.p., per cui nessuno può essere punito più volte per uno stesso fatto regolato da più norme penali: prescrizione, quest’ultima, che non varrebbe da sola ad impedire né il moltiplicarsi dei giudizi né la reiterazione delle condanne.

Inoltre occorre rilevare che l’art. 649, nel vietare la ripetizione del giudizio, si limita a precludere una nuova persecuzione penale della persona per il medesimo fatto: ma nulla impedisce al giudice di riconsiderlo ai fini della prova di un diverso reato o in relazione alla posizione di altri imputati.

Il primo presupposto necessario per l’operatività del ne bis in idem è costituito dalla irrevocabilità della decisione: tale caratteristica assiste certamente le sentenze dibattimentali di condanna o di proscioglimento, i decreti penali di condanna, le sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti, quelle pronunciate in esito al giudizio abbreviato e quelle predibattimentali di proscioglimento ex art. 469. Evidente è invece l’impossibilità di applicare l’art. 649 ai decreti e alle ordinanze di archiviazione, la cui adozione non impedisce che nei confronti della stessa persone siano svolte ulteriori indagini e sia formulata l’imputazione, in quanto gli stessi non costituiscono decisioni sull’azione penale; mentre controversa è la questione relativa alle sentenze di non luogo a procedere, stante la prescrizione di cui all’art. 669 c. 9 c.p.p. che in caso di successiva sentenza di condanna ne impone la revoca.

In proposito occorre sottolineare che, con sentenza 34655/2005, le Sezioni Unite della Cassazione si sono pronunciate sul contrasto di giurisprudenza insorto riguardo l’applicabilità dell’art. 649 c.p.p. alle sentenze non ancora passate in giudicato.

La giurisprudenza di legittimità, già sotto l’imperio dell’art. 90 del previgente codice di procedura penale, il cui contenuto è riprodotto dall’art. 649 codice di procedura vigente, rimanendo ferma sul dettato testuale della norma, ha ritenuto imprescindibile il requisito della previa sentenza passata in giudicato per l’applicazione del divieto del ne bis in idem.

L’orientamento minoritario, espresso da Cass. Sez. V, 10/07/95, pur tenendo presente il dato testuale dell’art. 649 c.p.p., esclude che possa tuttavia procedersi più volte nei confronti della stessa persona per il medesimo fatto, dovendosi pertanto applicare l’art. 649 c.p.p. oltre il suo tenore letterale.

Un ulteriore orientamento giurisprudenziale ha individuato nella disciplina codicistica dettata per risolvere i casi di litispendenza risultanti dalla contemporanea instaurazione di più processi per il medesimo fatto, contro la medesima persona, innanzi a giudici diversi. Muovendo dal disposto dell’art. 28, c. 1 lett. b, c.p.p. diverse pronunce, sin dalla vigenza del vecchio codice di rito, hanno statuito che, quando pendono più procedimenti in fasi diverse contro lo stesso imputato e per il medesimo fatto, è competente il giudice del processo che si trova nella fase più avanzata, disponendosi l’unificazione dei procedimenti mediante assorbimento, così applicando il criterio della progressione.

Tale orientamento è stato censurato dalla presente pronuncia della Cassazione, rilevandosi come la disciplina di cui agli artt. 28 segg. c.p.p. è dettata per regolare i casi di contemporanea pendenza di identici procedimenti innanzi a sedi diverse, e non già in fasi o gradi diversi (o giudici) della medesima sede giudiziaria. Neppure è applicabile il c. 2 dell’art. 28 c.p.p., che mira a risolvere i conflitti, soggettivamente o oggettivamente analoghi, che diano luogo a situazioni di contrasto tra giudici tali da determinare una stasi dell’attività processuale.

Nessuna di queste situazioni ricorre nel caso in esame, che vede invece la pendenza contemporanea di identici processi nei confronti degli stessi imputati, in fasi o gradi diversi (Tribunale e Corte di Appello) della medesima sede.

La Corte censura altresì la prassi, insorta in tali casi, di frenare il corso del primo processo di modo che, una volta pervenuto l’altro nella stessa fase e grado, si possa disporne la riunione, atteso che l’art. 3 c.p.p. elenca tassativamente le ipotesi di sospensione del processo, non consentendone applicazione analogica.

In conclusione, la Corte individua la soluzione nel principio di preclusione processuale.

Va ricordato come il giudicato penale si caratterizza per l’indifferenza del contenuto della decisione rispetto al prodursi della sua efficacia. La cosa giudicata penale non ha ad oggetto l’accertamento positivo o negativo del reato; non si identifica con l’efficacia regolamentare della decisione, che è invece tipica del giudicato civile, ex art. 2909 c.c., ancorato all’accertamento contenuto nella sentenza, ma con la sentenza (penale) in sé e per sé, che rileva pertanto come fatto giuridico in senso stretto. Autorevole dottrina (Carnelutti), infatti, ritiene che il significato della sentenza penale sta nel “vietare o comandare che il processo continui, passando dalla fase di cognizione a quella di esecuzione”; l’efficacia puramente processuale della sentenza invita a parlare, anziché di giudicato, di preclusione, che dal giudicato si distingue perché non assicura un bene della vita, ma risolve la questione dedotta in maniera irrevocabile e definitiva.

Seguendo l’articolato ragionamento della Cassazione, la preclusione si manifesta in forma differenti, tra cui la consumazione del potere di azione penale nonché, parallelamente, il potere di “ius dicere” da parte del giudice investito della cognizione della medesima res iudicanda; l’ufficio del P.M. non potrà pertanto reiterare l’azione penale contro la stessa persona per il medesimo reato; il Giudice non potrà pronunciarsi per la seconda volta sul medesimo fatto.

Le Sezioni Unite formulano così il principio di diritto:

Le situazioni di litispendenza, non riconducibili nell’ambito dei conflitti di competenza di cui all’art. 28 c.p.p., devono essere risolte dichiarando nel secondo processo, pur in mancanza di una sentenza irrevocabile, l’impromovibilità dell’azione penale in applicazione della preclusione fondata sul principio generale del ne bis in idem, semprechè i due processi abbiano ad oggetto il medesimo fatto attribuito alla stessa persona, siano stati instaurati ad iniziativa dello stesso ufficio del pubblico ministero e siano devoluti, anche se in fasi o in gradi diversi, alla cognizione di giudici della stessa sede giudiziaria”.

In sostanza le SS.UU., in una prospettiva implicitamente rivolta alla salvaguardia dell’economia processuale, posto il principio dell’irretrattabilità e non reiterabilità dell’azione penale affermano che è impromovibile l’azione penale c.d. “doppione” di un processo pendente presso la stessa sede: ciò non tanto perché l’art. 649 c.p.p. dev’essere letto estensivamente (e quindi applicato anche in assenza di una decisione irrevocabile) ma perché invece deve darsi atto della sussistenza di un principio generale, immanente nel nostro sistema processuale penale (appunto il principio del ne bis in idem) di cui la norma in questione rappresenta solo una specificazione e che ha come conseguenza la consumazione del potere di esercitare l’azione penale quando è già stato fatto per la prima volta.

Ulteriore presupposto necessario perché operi l’effetto preclusivo di cui all’art. 649 è che si tratti del medesimo fatto: al riguardo non rileva il mutamento del titolo del reato (dolo, colpa, preterintenzione) né tantomeno il grado (reato tentato o consumato) o le circostanze (aggravanti o attenuanti); ciò che rileva è infatti il “nucleo storico” del fatto, da intendersi come identità della condotta e, nei reati materiali, dell’oggetto fisico su cui la condotta è caduta. Mentre la dottrina non ritiene quindi necessaria la corrispondenza di tutti gli elementi costitutivi del reato, la giurisprudenza dominante ritiene invece coperto dal ne bis in idem solo il fatto sovrapponibile in tutti i suoi elementi (condotta, evento, nesso causale, circostanze).

Come recita l’ultima parte del c. 1 dell’art. 649 nessuna preclusione opera con riferimento alle ipotesi di sentenza ex art. 129 adottata sul presupposto della morte dell’imputato erroneamente dichiarata (art. 69 c. 2) e quella di sopravvenienza di una condizione di procedibilità la cui mancanza aveva prima giustificato il proscioglimento (art. 345).

Con riguardo all’ipotesi di violazione del divieto del bis in idem e quindi quando viene iniziato un nuovo procedimento penale nei confronti di un soggetto già giudicato il c. 2 dell’art. 649 prevede che il giudice, in ogni stato e grado del processo, pronunci sentenza di proscioglimento (in dibattimento) ovvero di non luogo a procedere (in udienza preliminare); mentre se l’improcedibilità non viene rilevata e si giunge quindi ad una nuova pronuncia si dovranno applicare le regole sul conflitto pratico di giudicati, ispirate al principio del favor rei.

Spigolatura Marzo 2014: riflessioni sulla prostituzione. (a cura dell’avv. Domenico Di Leo)

Spigolatura Marzo 2014: riflessioni sulla prostituzione.

(a cura dell’avv. Domenico Di Leo)

Senza alcuna pretesa di esaustività, che il contesto didattico non mi consente, vorrei soffermarmi sul fenomeno sociale, prima ancora che giuridico, della prostituzione. Offrirò brevi cenni sulla prostituzione femminile, tralasciando quella maschile, data la maggiore diffusione della prima, con lo strascico di questioni ad essa connesse.

I miti e le leggende sul tema si sprecano, al pari dei pregiudizi e delle convinzioni errate: le alterne vicende del fenomeno della prostituzione è dipeso dall’orientamento politico e religioso maggioritario, il quale a volte ha mostrato tolleranza, altre volte ha perseguitato duramente il fenomeno.

La prostituzione è generalmente definita come una prestazione sessuale a scopo di lucro in quanto è l’esito di una transazione commerciale indiscriminata, nel senso che la transazione avviene fra estranei e presuppone l’assenza di scelta del partner[1]. Tale definizione non chiarisce il contenuto della transazione, contenuto che nel corso dei secoli è mutato notevolmente. Ad esempio, non rientra nel concetto sociologico di prostituzione non rientra il rapporto sessuale occasionale in cambio di cibo o di regali o l’usufruire di servizi sessuali, come le gratificazioni sessuali ricevute attraverso stimoli visivi o auditivi (chat line erotiche, spettacoli  luci rosse etc.). Nella definizione di prostituzione non rientra neppure la pornografia, seppur le voci siano contrastanti in sociologia e in giurisprudenza, in quanto, accanto ad alcuni elementi della prostituzione, manca quello principale, il contatto fisico: esso avviene fra attori ed attrici mentre cliente entra in un rapporto commerciale con chi sfrutta quelle immagini e i relativi diritti, non con gli attori.

Neppure nel passato, la definizione di prostituzione era pacifica: nel Medioevo era considerata prostituzione ogni comportamento sessuale compiuto pubblicamente, anche in assenza di uno scambio di denaro. In questo periodo nascono molte legislazioni, comunali e nazionali, del fenomeno in esame e tutte individuavano nell’offesa alla morale pubblica: questo elemento è sopravvissuto in molte legislazioni contemporanee.

Gli antropologi affermano che non è affatto vero che la prostituzione sia il mestiere più antico del mondo. Infatti, il carattere professionale e quello universale sono discutibili: la prostituzione non è esistita in tutte le società umane, non è stata presente sempre ed è stata soggetta a variazioni nel tempo[2].

Queste brevi riflessioni inducono a ritenere che la prostituzione vada considerata una variabile piuttosto che una costante della società umana, nel senso generale dell’espressione. Infatti, è stato riscontrato che le condizioni che favoriscono il fenomeno della prostituzione vanno individuate nella presenza di norme di comportamento sessuale nettamente differenziate fra i due sessi e nella presenza di un doppio standard (c.d. doppia morale) che impone alle donne l’obbligo di fedeltà e per gli uomini ammette la libertà sessuale, limitata solo dalla differente disponibilità di risorse economiche e di energie fisiche. Altri fattori che favoriscono la diffusione della prostituzione sono dati dall’assenza di meccanismi che consentano agli uomini di ottenere la disponibilità di donne che svolgono un ruolo equivalente a quello delle prostitute e dalla presenza di donne ‘non matrimoniabili’ (vedove, donne non più vergini, divorziate etc) che, sul cd. ‘mercato matrimoniale’, hanno un valore ridotto, se finalizzato all’unione matrimoniale. Naturalmente, i fattori coinvolti nelle dinamiche del fenomeno della prostituzione sono tanti e dipendono dall’interazione di individui o di gruppi che si dedicano, ad esempio, alla c.d. ‘tratta delle schiave’, che si verifica quando le famiglie (di solito, i componenti di sesso maschile delle famiglie) vendono le donne appartenenti al clan le quali, una volta vendute, sono costrette a prostituirsi[3].

Non tutte le forme di prostituzione sono omogenee: una prima distinzione si verifica sul piano del livello di impegno e del coinvolgimento occupazionale, distinguendosi coloro che esercitano la prostituzione in modo continuativo, occasionale o temporaneo. Una seconda distinzione prende le mosse dal contesto occupazionale, cioè dal luogo in cui si svolge l’incontro fra il cliente e la prostituta, potendo esso avvenire al chiuso o all’aperto: inoltre, nel primo caso, occorre distinguere in quale tipo di ambiente viene esercitato il meretricio (case chiuse, bordelli, night club – autorizzati o clandestini – abitazioni private e così via). La distinzione fra tipi di prostitute e la correlata esistenza di diversi status risale al mondo greco – romano. In particolare, gli Ateniesi[4] distinsero fra le pornè, che esercitavano in strada o nei porneion, di bassa condizione sociale, e le etère, che sin da bambine, venivano istruite alla danza, al canto e alla musica per accompagnare, dietro versamento di danaro, gli uomini nei banchetti e in altre occasioni[5]. Si è detto che la prostituzione può essere di strada o al chiuso: ormai da decenni, si è diffusa una terza modalità di prostituzione, quella delle  c.d. ragazze – squillo. In questo caso, il contatto fra cliente e prostituta avviene per il tramite di annunci su giornali quotidiani o riviste o altri canali comunicativi analoghi oppure attraverso l’intermediazione di agenzie specializzate nel fornire hostess o accompagnatrici. A differenza dei due modelli precedenti, in questo caso non è la prostituta che adesca il cliente ma attende che questi la contatti: in genere, la prostituta interrompe la pubblicità tramite gli annunci e il suo principale canale di pubblicità diviene il passaparola dei clienti soddisfatti.

Questa interessante tematica merita approfondimenti ben più ampi rispetto ai cenni forniti nel presente contributo: tuttavia, avviandoci verso la conclusione, occorre fare un riferimento alle politiche che uno Stato può adottare verso il fenomeno.

Da un punto di vista strettamente formale, le prostitute svolgono un lavoro per il quale offrono prestazioni sessuali in cambio di denaro: il contenuto del servizio prestato è sessuale ma la finalità del servizio è economica, essendo rappresentata dalla retribuzione. Al pari di ogni altra attività economica, la prostituzione risente dell’azione di due istituzioni: il mercato e lo Stato.

Il primo influenza la prostituzione garantendo l’incontro fra domanda ed offerta di servizi sessuali: l’offerta di ragazze giovani ed avvenenti, di cui viene assicurato il ricambio, determina anche il calo dei prezzi, al pari di ogni altro bene o servizio presente sul mercato.

Lo Stato influenza la prostituzione attraverso l’adozione di politiche che esso ritiene opportune in vista del raggiungimento di determinati obiettivi. Sono quattro la possibili scelte[6] che uno Stato può effettuare.

  1. Il regolazionismo permette l’esercizio del mestiere ma considera le prostitute come una minaccia all’ordine pubblico, alla salute, alla morale e perciò vede con favore un penetrante intervento di controllo da parte di varie istituzioni nella loro vita e attività, controllandone la modalità di svolgimento, assoggettandole al controllo della polizia e dei medici, segregandole da un alto, nei bordelli e, dall’altro, nei sifilocomi o negli ospedali, quando erano ritenute pericolose per la salute pubblica.
  2. L’abolizionismo permette l’esercizio della prostituzione ma non considera pericolose le prostitute. Questo tipo di politica non regolamenta nessun aspetto relativo alla prostituzione. In contesti abolizionisti, viene arricchito l’elenco delle ipotesi di sfruttamento della prostituzione e, di conseguenza, si restringe l’ambito di esercizio legale del ‘mestiere’.
  3. Il proibizionismo vieta la prostituzione e condanna moralmente la prostituta: di conseguenza, la vendita di servizi sessuali prevede varie sanzioni comminate alla prostituta ma non al suo cliente.
  4. Infine, l’ultima politica prevede la criminalizzazione del cliente: la prostituzione è vietata ma viene colpito il cliente anziché la prostituta, operando un’equiparazione fra il rapporto cliente – prostituta ad un atto i violenza del primo nei confronti della seconda. Un solo Stato ha adottato una politica di questo tipo ed è la Svezia, dal 1999.
  5.  Un quinto tipo di politica, che in realtà è una variante del primo, considera la prostituzione un lavoro vero e proprio, regolamentato al pari di ogni altro lavoro convenzionale, senza discriminare chi la esercita. Un esempio di questo tipo è fornito da Paesi come l’Olanda e la Germania. Questo orientamento è noto con il nome di neo – regolazionismo.

(a cura dell’avv. Domenico Di Leo)



[1] Davis N. J., Prostituzione, in Enciclopedia delle scienze sociali, vol. VII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana.

[2] Ad esempio, fra gli amerindi e gli aborigeni australiani la prostituzione era piuttosto rara prima dell’arrivo dei colonizzatori. In alcune società asiatiche, a differenza di altre società del medesimo continente, la prostituzione è stata in larga misura una creazione occidentale: ciò è avvenuto in Vietnam, dove la sparizione dei mestieri femminili tradizionali e l’espropriazione delle terre avrebbero determinato migrazioni di massa dalle zone rurali a quelle urbane, lasciando a molte donne la prostituzione, come unica fonte di sostentamento. Il fenomeno si accentuò notevolmente con l’arrivo dei militari statunitensi nel 1965. Cfr. Davis, ibidem.

[3] Symanski R., The immoral landscape: Female prostitution in western societies, Toronto, 1981.

[4] Anche se storicamente è stata tramandata l’immagine di Atene come una città – stato moderna ed emancipata, in realtà in essa le donne vivevano segregate in casa ed escluse dalla comunità, a differenza di quanto accadeva a Sparta e nel coevo mondo dauno: infatti, la civiltà italica preromana riservava alla donna un ruolo di domina nei rituali connessi al culto delle divinità dei Lari e ai riti di purificazione legati al culto dell’acqua. Ne derivava un’immagine emancipata della figura femminile, non più relegata al ruolo di madre e donna di casa ma cui veniva riconosciuto un ruolo sociale generalmente ammesso e condiviso.

[5] Pioletti G., Prostituzione in Digesto, 4° ed., 1995, Vol. X, Torino, Utet, pp. 271 – 96; Mereu I. Prostituzione. Storia, in Enciclopedia del diritto, Vol. XXXVII, Milano, pp. 440 – 51. Citati in Barbagli, Colombo, Savona, Sociologia della devianza, Il Mulino, 2003, cap. 4.

[6] Si veda Barbagli, Colombo, Savona, cit., pp. 125 – 126.

Spigolatura febbraio 2014

L’incostituzionalità della c.d. legge Fini – Giovanardi.

(a cura dell’avv. Domenico Di Leo)

 

Con la sentenza dell’11 giugno 2013, n. 25554, la III Sezione penale della S.C.

ha preso posizione sul tema della ipotizzata incostituzionalità della L. 49/2006 che ha profondamente (e per taluno in maniera surrettizia e contraddittoriamente) modificato il regime sanzionatorio e le norme penali in materia di stupefacenti: e il 12 febbraio 2014, la Corte costituzionale ha accolto l’eccezione di incostituzionalità della legge c.d. Fini – Giovanardi. La Corte costituzionale ha accolto l’eccezione di incostituzionalità, sub specie dell’eccesso di delega, come presentata dalla III sez. penale, in accoglimento della prospettazione dei fatti offerta dall’avvocato dell’imputato trentino in ordine ai fatti contestatigli, secondo cui nella legge di conversione furono inseriti emendamenti estranei all’oggetto e alle finalità del decreto.

Dopo l’intervento della VI Sezione della Corte di Cassazione (sentenza n. 18804/13 del 28 febbraio/29 aprile 2013) che, recentemente, aveva dichiarato manifestamente infondata la duplice questione di legittimità costituzionale, denunziata, sia in relazione all’iter di approvazione della L. 49/2006, sia riguardo allo specifico profilo dell’art. 73 d.p.r. 309/90, è intervenuta la III Sezione, con una pronunzia particolarmente interessante, non solo perchè di segno totalmente opposto alla prima, ma anche per la ricchezza e la corretta profondità della disamina operata, alla luce degli sviluppi in termini di incostituzionalità della l. 49/2006.

L’approccio dei giudici di legittimità è teso a non lasciare nessuna zona di ombra in materia. L’ordinanza in parola costituisce, quindi, la migliore e più plausibile antitesi alla sentenza di rigetto sopra citata, proprio perchè affronta l’argomento della costituzionalità, sia dell’art. 73 – nello specifico – sia dell’intero complesso normativo della legge 49 del 21 febbraio 2006, quale momento di conversione del DL 30 dicembre 2005 n. 272. In ordine al percorso logico – argomentativo seguito, i giudici di Piazza Covour prendono atto della proposizione di tre dubbi di costituzionalità, da parte dell’avvocato dell’imputato:

  1. 1.         la dedotta assenza dei requisiti di straordinaria necessità ed urgenza (previsti dal comma 2 dell’art. 77 Cost.) dell’art. 4 bis dl 272/2005 nel suo assetto originario, oltre  che alla carenza dell’ulteriore carattere dell’omogeneità (sia oggettiva-materiale, che funzionale-finalistica) atteso, per converso, l’evidente eterogeneità ed autonomia delle materie inserite in tale decreto-legge;
  2. 2.        la dedotta assenza dei requisiti di straordinaria necessità ed urgenza (previsti dal comma 2 dell’art. 77 Cost.) dell’art. 4 bis dl 272/2005, ove esso apporta modifiche all’art. 73 d.p.r. 309/90, in sede  di conversione;
  3. 3.        il dedotto inadempimento del legislatore italiano a rispettare gli obblighi normativi di natura comunitaria (governati dall’art. 117 co. 1 Cost.), che nella fattispecie sono individuabili in alcune specifiche determinazioni contenute nella decisione 757/GAI/2004.

 

Il primo rilievo che la S.C. rileva attiene alla “profonda distonia di contenuto, di finalità e di ratio tra il decreto legge n. 272 del 2005 in generale, e anche tra le disposizioni dell’art. 4 in particolare, e le nuove norme introdotte in sede di conversione con le quali è stata sostanzialmente posta una nuova disciplina a regime sulle sostanze stupefacenti…”. Sulla base di questo rilievo, la Corte non manca di evidenziare quanto elevato sia il numero di articoli – 23 – aggiunti in sede di conversione che, assieme ad altri elementi, alimentano il sospetto di costituzionalità sollevato ex parte e recepito dal giudice. Viene, così, evidenziata la necessaria coincidenza – concreta e teleologica – fra l’oggetto del d.l. e le norme che vengano inserite ex novo nella fase della conversione in legge dello stesso.

Nel caso concreto, il Collegio ravvisa la “totale estraneità delle nuove norme rispetto all’oggetto ed alle finalità del decreto-legge”, situazione che venne ad evidenziarsi anche in sede parlamentare e che può essere desunta agevolmente per implicito, ad avviso della S.C., dalla nuova titolazione della L. 49/2006, la quale ha aggiunto all’originale  indicazione anche le inedite parole “e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309”.

La S.C. evidenzia che, nel caso de quo, si tratta del c.d. “abuso della prassi”. Tale vizio si ravvisa quando si sia in presenza della scelta del Governo di introdurre “un maxi-emendamento innovativo rispetto al contenuto originario del decreto legge, al fine di sostituire parzialmente od interamente il testo e sul quale sarà poi posta la questione di fiducia”. Sulla base di questi primi rilievi, la S.C. deriva il primo sospetto di incostituzionalità della l. 49/2006.

La S.C. fa un passo ulteriore: in via subordinata alla questione sin qui descritta, i giudici esaminano il dedotto profilo dell’assenza del ‘presupposto della necessità ed urgenza’, in riferimento all’art. 77 Cost.

Il difetto del duplice requisito (necessità ed urgenza) – previsto dal comma 2° dell’art. 77 Cost. – risulterebbe, comunque, evidente, posto che (in conformità ai principi sanciti dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 171 del 2007) è principio incontroverso che il decreto legge deve sempre subire uno scrutinio di legittimità, non apparendo possibile ed ammissibile l’affermazione secondo la quale la legge di conversione sia idonea a sanare in qualche modo i vizi del decreto stesso. La pronuncia in esame contesta la possibilità di ammettere una generalizzata facoltà emendatrice della legge di conversione perché questo creerebbe un inevitabile conflitto di attribuzioni fra Parlamento e Governo, nello svolgimento dell’attività normativa. Un avallo dell’assunto è giunto dal richiamo alla sentenza n. 22 del 2012, la quale sottolinea “il collegamento funzionale tra i due atti – il decreto legge e la legge di conversione – alla stregua delle tesi più tradizionali che vedevano la legge di conversione come <<condizionata>> alla disciplina adottata dal governo”.

Il riferimento alla normativa comunitaria deve intendersi assorbito nelle argomentazioni che precedono.

Non va taciuto che il tema in esame è tra i più spinosi da trattare, prestandosi a facilissime strumentalizzazioni che non portano a nessuna soluzione. Inoltre, nella costruzione delle fattispecie incriminatrici, non si può prescindere dal principio di offensività, quale corollario del principio di legalità alla luce del quale il consumo di cannabis o marijuana è diverso da quello di eroina o di cocaina.

Prima del referendum abrogativo del 18 e 19 aprile 1993, le condotte penalmente rilevanti erano definite sulla base di un parametro di tipo oggettivo, ossia la quantità superiore alla ‘dose media giornaliera’ per cui colui che poneva in essere una condotta fra quelle previste dal D.P.R. 309/90 – importazione, acquisto o detenzione – nella misura indicata era assoggettabile soltanto ad una sanzione amministrativa. All’esito del referendum, è stato adottato il D.P.R. 171/1993, il quale ha conservato la distinzione fra le condotte illecite soltanto dal punto di vista amministrativo (art. 75) o penale (art. 73) ed ha provveduto a sostituire il parametro oggettivo della ‘ dose media giornaliera’ con quello teleologico dell’uso personale, in modo che le attività elencate nell’art. 73 sono assoggettate a pena solo se riguardano sostanze stupefacenti destinate all’uso di terzi.

Con l’adozione della l. 49/2006, a seguito di un orientamento repressivo di politica criminale, è intervenuta l’equiparazione fra le droghe leggere e le droghe pesanti; attraverso la novella del 2006, è stato introdotto l’aggettivo ‘esclusivamente’ nella lett. a), comma 1 bis dell’art. 73. Nelle intenzioni del legislatore, tale aggettivo dovrebbe tracciare la linea di confine fra l’illecito amministrativo e quello penalmente rilevante, deducibile dalla quantità massima detenibile – fissata per ogni singola sostanza con decreto dal Ministero della Salute, di concerto con il Ministero della Giustizia – o dalle modalità di presentazione o da altre circostanze dell’azione.

In relazione alla quantità massima detenibile, occorre osservare come il superamento del limite prestabilito è utile ai fini di una ricostruzione da parte del giudice della finalità perseguita dall’agente, in modo che esso, benchè estraneo alla fattispecie tipica, funge da indice probatorio capace di orientare l’organo giudicante nella qualificazione giuridica della condotta illecita tenuta: al di sotto della soglia predeterminata con il provvedimento amministrativo, le condotte poste in essere sarebbero rilevanti soltanto sul piano dell’illecito amministrativo, attesa l’esiguità del pericolo arrecato alla società in relazione a quantità di sostanze stupefacenti inferiori al limite fissato. Come è chiaro, si tratta di un elemento di natura quantitativa che non integra il precetto penale ma serve a comprendere presuntivamente l’intenzione rivolta ad un uso non esclusivamente personale[1]. Tuttavia, la S.C. non ha ritenuto sufficiente l’accertamento di uno solo dei predetti indici perché la condotta rilevi sul piano penale[2].

Dal punto di vista sanzionatorio, dunque, le droghe leggere e quelle pesanti sono state accomunate: la scelta ideologica sottesa alla equiparazione delle due categorie poggia sull’assunto che vede il tossicodipendente come un nemico della società dal quale difendersi. Tale logica regge anche la compilazione delle tabelle ministeriali. Anche la scienza non offre un valido aiuto per sconfessare o sostenere la predetta equiparazione del trattamento sanzionatorio per sostanze naturalmente diverse: infatti, per quanto riguarda le droghe leggere, non è ancora chiara la pericolosità delle stesse e anzi, in ambito scientifico, si tende ancora a distinguerle da quelle pesanti. La riprova della intrinseca diversità delle due categorie di sostanze stupefacenti è data proprio dalla considerazione che i limiti di quantità massima detenibile, limiti che vengono prestabiliti per ciascuna sostanza, con il suaccennato decreto interministeriale, vengono ottenuti in base ad un moltiplicatore più elevato per le droghe leggere, più basso per quelle pesanti[3]. La S.C. ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale in relazione alla predetta equiparazione, avendo affermato che l’assimilazione di due diversi tipi di droghe, quale frutto di una scelta discrezionale operata dal legislatore, può essere opinabile, avuto riguardo ai presupposti scientifici sui quali quella scelta si fonda ma non appare suscettibile di censure in punto di irragionevolezza[4] della norma. Altra conseguenza dell’equiparazione in parola è che la contestuale detenzione di droghe di diverso tipo dà luogo alla realizzazione di un unico reato.

Un valido motivo capace di dare conto della tanto discussa equiparazione potrebbe essere rinvenuto nella ritenuta plurioffensività delle condotte individuate dal legislatore, tutte caratterizzate dal fatto che esse sono in grado di porre in pericolo la salute di chi usa le sostanze accanto alla sicurezza e quiete pubblica, la serenità delle famiglie, l’educazione delle giovani generazioni e così via. Tuttavia, si tratta di beni giuridici molto astratti, la cui reale portata è estremamente volatile[5]. Per quanto sin qui brevemente esposto, non sembra possa escludersi la rilevanza del principio di offensività, tanto più che la natura dei reati di cui è parola è ascrivibile alla categoria dei reati di pericolo astratto o presunto.

In ordine al principio di offensività, occorre fare una breve digressione. Il predetto principio si pone come cardine del sistema penalistico italiano, richiedendo un quid pluris rispetto alla realizzazione della condotta tipica ai fini della sussistenza del reato, dovendo la condotta predetta ledere o porre in pericolo un bene giuridico penalmente rilevante. In chiave squisitamente garantista, il principio di offensività evita che il soggetto venga punito per aver posto in essere la condotta tipica ma inoffensiva o comunque incapace di ledere o porre in pericolo il bene giuridico tutelato dalla norma penale.

Dal punto di vista dogmatico, i reati in materia di stupefacenti sono ricondotti nella categoria dei reati di pericolo astratto. Tale modello di illecito tipizza una condotta ritenuta pericolosa sulla base di una regola di esperienza la quale, però, potrebbe rivelarsi falsa o, comunque, inadeguata in quei casi in cui alla commissione della condotta vietata non segue quel pericolo per evitare il quale è stata posta la norma penale. Parte della dottrina e la Consulta[6] ritengono corretto l’inquadramento sistematico dei reati in esame e la loro legittimità sulla base di due assunti: in base al primo, il legislatore interviene nella materia degli stupefacenti attraverso una tecnica di costruzione della fattispecie penale in modo da intervenire incisivamente nell’anticipazione della soglia di tutela soltanto in presenza di condotte pericolose secondo l’insegnamento derivante dall’id quod plerumque accidit; in base al secondo assunto, il giudice dovrà colpire con la sanzione penale soltanto le condotte che siano concretamente idonee a porre in pericolo l’interesse tutelato[7]. In tema di stupefacenti, assumono rilevanza i beni giuridici della salute pubblica – valorizzando il pericolo che ad essa potrebbe derivare dalla realizzazione delle condotte individuate dal legislatore nel D.P.R. 309/1990, il rischio di aumento delle occasioni di cessione delle sostanze stupefacenti o psicotrope o del mercato di esse, fuori del controllo dell’autorità – la sicurezza, l’ordine pubblico, la salvaguardia delle nuove generazioni. Non sussiste alcun problema di compatibilità col principio di offensività perché bisogna tener conto della necessità di bilanciare esigenze e valori contrapposti all’interno di una strategia d’intervento voluta dal legislatore per far fronte al traffico di sostanze stupefacenti.

Le condotte enunciate nel comma 1 dell’art. 73 D.P.R. 309/90 sono svincolate da qualsiasi accertamento normativo ed è demandato al giudice il compito di accertare il superamento o meno della soglia minima tabellare: tali condotte risultano essere le più problematiche da accertare. Infatti, secondo un primo indirizzo, la S.C. ha ritenuto non configurata la cessione illecita di cui al comma 1, in ragione del fatto che le sostanze stupefacenti contenevano un principio attivo tale da escludere del tutto l’efficacia drogante e perciò, ai sensi dell’art. 49 comma 2 c.p., era esclusa la sussistenza dell’azione idonea ad offendere l’interesse ritenuto protetto dalla norma[8]. Successivamente, con la già ricordata sentenza n. 9973/1998, le S.U. hanno adottato un diverso orientamento, affermando che la nozione di sostanza stupefacente adottata dal D.P.R. 309/90 è quella legale e non quella farmacologica: con la conseguenza che è configurata la cessione penalmente rilevante quando si tratta di una delle sostanze indicate nel decreto, a prescindere da ogni valutazione circa l’effettiva efficacia drogante delle sostanze de quibus.

Tuttavia, la VI sezione, con la pronuncia del 18 luglio 2007, n. 28661, ha preferito prendere in considerazione la quantità di sostanza stupefacente[9]. La VI sezione ha tenuto in considerazione l’insegnamento della Corte costituzionale in base al quale, di fronte a singole condotte concretamente inidonee a mettere i pericolo il bene protetto, non ha ritenuto che fosse integrata la fattispecie astrattamente prevista. Inoltre, il sistema tabellare adottato dal nostro sistema giuridico presuppone che le sostanze in questione siano capaci di produrre gli effetti tipici degli stupefacenti. La VI sezione ha investito della questione le Sezioni Unite della Cassazione le quali, con la pronuncia del 20 dicembre 2007 n. 47472, non hanno ritenuto rilevante il dato della quantità insufficiente della dose media giornaliera preferendo quello della quantità massima detenibile, cioè la c.d. ‘soglia drogante’ prestabilita dal decreto interministeriale: nel caso concreto sottoposto all’attenzione delle S.U., tale soglia risultava superata e questo era sufficiente a configurare la penale responsabilità dell’agente.

Aldilà della diversa percezione a livello di agente comune della differente pericolosità insita in ciascuna sostanza, il legislatore, prima, e il giudice, poi, non possono trascurare la varietà del mondo del consumo di droga per predisporre efficaci strategie di intervento. Il dato qualitativo, assieme a quello quantitativo e quello culturale, offrono un’idea chiara circa i fatti da incriminare e quelli da scriminare e, in relazione ai primi, della pena più adeguata ne caso di consumo patologico di sostanze c.d. ‘pesanti’ rispetto al consumo ricreazionale ed occasionale di droghe c.d. leggere.

In conclusione del presente contributo, volutamente di largo respiro, un cenno merita la diade proibizionismo – antiproibizionismo. Con il primo orientamento, si propone il divieto di produrre, di vendere, di acquistare, di detenere e di consumare tutte le (o soltanto alcune delle) sostanze psicoattive per tutelare la salute pubblica o, in alternativa, la legalità o, in subordine, per bilanciare il rapporto costi – benefici fra le politiche di promozione della salute e la riduzione del consumo di sostanze.

All’opposto, il secondo orientamento si suddivide in tre proposte operative: la prima suggerisce l’abolizione di ogni divieto, come voluto dal proibizionismo (liberalizzazione); la legalizzazione propone una regolamentazione delle condizioni di produzione, commercio, vendita e consumo restringendo le quantità, i soggetti che vi possono accedere e i luoghi in cui il consumo è possibile, come già accade per l’alcol ed il tabacco; la depenalizzazione suggerisce la rimozione delle sanzioni penali o amministrative per episodi legati alla domanda o al consumo e così via.

Nessuno dei due orientamenti rappresenta la soluzione migliore: sia l’uno che l’altro orientamento vanno in concreto realizzati, proponendo politiche che tengano in considerazione una molteplicità di elementi variabili, diversi da contesto a contesto. Inoltre, quale che sia l’orientamento prescelto, occorre che nella pratica vengano realizzate campagne di prevenzione primaria (intesa quale insieme di provvedimenti intesi a scoraggiare l’uso delle droghe rivolti a tutta la popolazione), di prevenzione secondaria (onde fornire alla popolazione di consumatori informazioni utili ad evitare che passino da un consumo occasionale ad uno abituale o che passino dalle droghe ‘leggere’ a quelle ‘pesanti’ o dal consumo abituale alla dipendenza) e di riabilitazione (proponendo programmi di recupero nei confronti di coloro che hanno sviluppato la dipendenza dalle sostanze, operando con la distribuzione controllata di eroina e metadone).[10]

Il confronto fra i due modelli permette di affermare che le politiche repressive, cui il legislatore italiano ha ammiccato nel recente passato e a cui non ha mai rinunciato in modo deciso, possono avere effetti soltanto se sono sostenute da politiche di prevenzione e di riabilitazione che richiedono risorse notevoli rispetto a quelle necessarie alla lotta contro il fenomeno delle droghe, in sé considerato, e l’abbandono di pregiudizi, spesso inutili e sicuramente dannosi, nei confronti delle sostanze e dei consumatori.

 



[1] Sulla funzione presuntiva svolta dall’elemento quantitativo, cfr Cass. pen., sez. IV, 21 maggio 2008, n. 22643.

[2] Sul punto, si vedano, ex multis, Cass. pen., sez. VI, 29 gennaio 2009; sez. IV, 15 ottobre 2009; sez. III, 3 novembre 2009; sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 16834.

[3] Santalucia – Esposito, Tracce di diritto penale, Nel Diritto Editore, Ii ed., 2011,pag. 29 ss.

[4] Cass. pen., sez. VI, 20 dicembre 2008, n. 22643.

[5] Tuttavia, sia la Corte costituzionale (sent. 333/1991) chele S.U. della Corte di Cassazione (9973/98) hanno condiviso la tesi della plurioffensività, tesi suggerita dall’adozione di parametri macroscopici di tutela.

[6] Si veda la già citata sent. 360/1995.

[7] La Corte costituzionale ha ripetutamente ribadito la possibilità di perseguire con la tutela penale finalità politico – criminali contingenti che vanno aldilà della tutela dei beni giuridici e la conformità al dettato costituzionale della categoria del reato di pericolo astratto, essendo riservata al legislatore l’individuazione delle condotte illecite, cui collegare la presunzione assoluta di pericolo, e della soglia di pericolosità cui fare riferimento, purchè tale scelta sia immune da vizi di irrazionalità o arbitrarietà, benchè fondata su apprezzamenti rigorosi fondati sull’esperienza.

[8] Cass. pen., sez. IV, 1 ottobre 1993, n. 10466.

[9] Nel caso concreto, il soggetto era stato trovato con una dose di eroina superiore al minimo tabellare ma inferiore alla dose media giornaliera.

[10] Barbagli, Colombo, Savona, ult. op. cit., 102.