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Il nuovo ‘Decreto Sicurezza e Immigrazione’ supera i Decreti Salvini

Il D.L. 130/2020 e un nuovo sistema di accoglienza e integrazione

Leonardo Ercoli

Il 18 dicembre 2020 il Consiglio dei Ministri, su proposta del Presidente Giuseppe Conte e del Ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, ha convertito in legge[1] il c.d. Decreto Immigrazione e Sicurezza del 21 ottobre 2020, n. 130 pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 21 ottobre 2020 e recante “Disposizioni urgenti in materia di immigrazione, protezione internazionale e complementare, modifiche agli articoli 131-bis, 391-bis, 391-ter e 588 del codice penale, nonché misure in materia di divieto di accesso agli esercizi pubblici ed ai locali di pubblico trattenimento, di contrasto all’utilizzo distorto del web e di disciplina del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale”.

Il nuovo Decreto Sicurezza, sotto il profilo dell’immigrazione, è intervenuto superando quelli che erano gli aspetti più incerti oltre che incostituzionali dei cosiddetti Decreti Salvini[2]. Lo stesso Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al momento della promulgazione della conversione in legge del secondo decreto Salvini[3], ha espresso, all’interno di una missiva inviata ai presidenti delle Camere e al Premier Conte, rilevanti perplessità in ordine a taluni profili, auspicando un nuovo intervento da parte del legislatore affinché si conformasse in tema di limitazione e/o divieto di ingresso delle navi delle ONG “agli obblighi internazionali dell’Italia”e, dunque, alla Convenzione di Montego Bay[4].

             Nell’incipit della missiva scrive MattarellaAl di là delle valutazioni nel merito delle norme, che non competono al Presidente della Repubblica, non posso fare a meno di segnalare due profili che suscitano rilevanti perplessità”, “rimettendo” – come si legge in chiusura – “[…] alla valutazione del Parlamento e del Governo l’individuazione dei modi e dei tempi di un intervento normativo sulla disciplina in questione”[5].

Ad avallare l’inconsistenza di uno dei due decreti Salvini è intervenuta anche la Corte Costituzionale che, con sentenza del 31 luglio 2020, n. 186[6], ha dichiarato illegittima la normativa prevista in materia di esclusione dei richiedenti asilo dall’iscrizione anagrafica. La Corte ha, infatti, dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1-bis del D.Lgs. 18 agosto 2015, n.142, per come introdotto dall’art. 13 del Decreto Legge n. 113/2018 (cosiddetto “Decreto Sicurezza”,) giacché in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione.

Più in particolare, la disposizione censurata prevedeva che il permesso di soggiorno rilasciato al richiedente asilo non costituisse titolo per l’iscrizione anagrafica. Tale norma – secondo quanto si evince dalla lettura della sentenza in esame – viola l’art. 3 della Costituzione per due differenti motivi: in primo luogo, per “irrazionalità intrinseca” dal momento che la suddetta norma anziché agevolare il controllo del territorio, così come avrebbe voluto la ratio della stessa, ne “limiterebbe le capacità di controllo e monitoraggio dell’autorità pubblica su una categoria di stranieri”. D’altro canto – rileva sempre la Corte – “la natura obbligatoria dell’iscrizione anagrafica sarebbe finalizzata ad assicurare la puntuale conoscenza dei soggetti presenti sul territorio italiano e, dunque, anche la sicurezza pubblica”, finalità queste che sarebbero vanificate dalla stessa norma in esame la quale, al contrario, renderebbe “maggiormente problematica l’individuazione degli stranieri esclusi dalla registrazione”. In secondo luogo la norma censurata viola l’art. 3 Cost. avendo la stessa riservato agli stranieri richiedenti asilo un “trattamento irragionevolmente differenziato rispetto ad altre categorie di stranieri legalmente soggiornanti nel territorio statale, oltre che ai cittadini italiani, contravvenendo al principio di pari dignità sociale”.

Sulla scorta delle osservazioni testé esposte, anche il Ministro degli Interni, Luciana Lamorgese, in una intervista rilasciata sull’Avvenire, ha dichiarato come i previgenti decreti, anziché garantire e preservare la sicurezza del Paese, avessero di fatto «stressato il sistema di accoglienza al punto da renderlo inefficace, perché, di fatto, sono stati esclusi dai centri moltissimi immigrati finiti in una terra di nessuno in condizioni di precarietà e clandestinità»[7].

Operate tali, seppur brevi, premesse di carattere generale in ordine all’accertata inconsistenza dei previgenti Decreti Sicurezza voluti dall’ex Ministro Salvini, appare evidente come l’esigenza di intervenire sulla materia si sia resa quanto mai impellente. Un iter senz’altro burrascoso quello di approvazione che ha visto l’Esecutivo porre per ben due volte la questione di fiducia e, precisamente, il 30 novembre 2020, allorquando la Camera ha approvato senza emendamenti il disegno di legge di conversione presentato dalla Commissione permanente della Camera nei giorni precedenti; nonché, successivamente, il 18 dicembre 2020, allorquando il medesimo testo è stato sottoposto al vaglio del Senato che lo ha approvato con 153 voti a favore , 2 contrari e 4 astenuti[8], al termine di una animata seduta parlamentare iniziata il giorno precedente per poi essere sospesa a seguito delle smisurate proteste perpetrate dal centro destra[9]. Riservando un dettagliato approfondimento nel prosieguo della trattazione, si noti, in via del tutto preliminare, che i sedici articoli del Decreto Legge, convertito con modificazioni dalla Legge 18 dicembre 2020, n. 173, modificano la disciplina vigente[10] non solo in materia di condizione giuridica dello straniero, prescrivendo, tra le altre cose, la convertibilità di talune tipologie di permessi di soggiorno in permessi di lavoro ma anche in materia di protezione internazionale, punto quest’ultimo di notevole rilevanza e attraverso le cui modifiche l’Esecutivo ha inteso bilanciare l’esigenza dello Stato di mantenere il rigore e il rispetto delle regole con quella dei cittadini stranieri di ottenere il riconoscimento di garanzie e tutele.

A ben vedere, ad essere mutato rispetto al previgente testo normativo di cui al Decreto Sicurezza e Sicurezza-bis è, altresì, il quadro normativo relativo ai divieti e ai limiti di navigazione delle ONG[11] per il soccorso in mare nonché il sistema di accoglienza e integrazione – cosiddetto SAI di cui all’art. 4 del D.L. 130/2020 – che sostituisce il SIPROIMI[12], ritornando a un sistema simile ai vecchi SPRAR[13].

Prescindendo dalle disposizioni in materia di immigrazione, di immediata rilevanza penale, invece, sono le modifiche apportate dal nuovo D.L. 130/2020 in tema di sicurezza il quale ha introdotto rilevanti novità legislative concernenti, in particolare, le comunicazioni con l’esterno di detenuti sottoposti al regime del 41-bis[14], il reato di rissa e il “Daspo urbano” per i locali pubblici nonché, altresì, il contrasto al traffico di stupefacenti via internet, la disciplina del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, che diventa il meccanismo nazionale di prevenzione della tortura e il cui quadro normativo ‘innovato’ è attualmente previsto agli artt. 7-16 del Decreto in esame[15].

Chiariti, dunque, i termini generali delle questioni, è d’uopo, in tal sede, procedere alla disamina approfondita di quanto previsto dal nuovo ‘Decreto Sicurezza e Immigrazione’ in materia di cittadinanza e immigrazione precisando, altresì, che il suddetto decreto non ha abrogato le disposizioni del suo predecessore, essendosi limitato a rimodellarne il contenuto in un’ottica fortemente garantista, fino ad ottenere un potenziamento della disciplina originale della protezione umanitaria. Anzitutto, come preventivamente anticipato, l’articolo 1 del decreto in commento interviene in materia di permesso di soggiorno e di controlli di frontiera recando modifiche al Testo Unico sull’Immigrazione. Più in particolare, attraverso un emendamento, approvato in Commissione Affari Costituzionali, e fortemente voluto dal Partito Democratico, viene di fatto reintegrata – ai sensi del co. 1, lett. 0a) – la facoltà che i decreti di programmazione delle quote di ingresso per ragioni lavorative, in assenza di una programmazione triennale – benché adottati in via provvisoria ai sensi del art. 3, co. 4, del D.lgs. n. 286 del 1998 – risultino comunque adeguati al fabbisogno lavorativo” del paese, sopprimendo il farraginoso termine fisso e il relativo vincolo del numero massimo di quote precedentemente vigenti[16]. Così operando, il Decreto Legge 130/2020 dà al Governo la possibilità di modificare siffatta quota in qualsiasi momento dell’anno, rendendo senz’altro più concrete oltre che adeguate le quote dei visti di ingresso e dei permessi di soggiorno per lavoro subordinato o, anche, stagionale.

Successivamente, come in parte anticipato, il decreto in commento – sulla scorta delle osservazioni (rectius: perplessità) avanzate in sede di promulgazione della legge 132/2018 dal Presidente della Repubblica – alla lettera a), co. 1 ha modificato l’articolo 5, co. 6 del Testo Unico dell’Immigrazione, ripristinando il divieto di rifiuto e/o revoca del permesso di soggiorno allorquando ricorrano seri motivi derivanti dal “rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato”; divieto questo precedentemente abrogato ad opera del decreto-legge n. 113 del 2018[17]. Detto in altri termini, la disposizione viene a stabilire che il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, fatto salvo il rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano. Peraltro, come si evince dal prosieguo della norma in commento, ad essere introdotta è stata anche una disposizione atta a regolare i soggiorni di breve durata – intendendosi per tale il soggiorno che differisca per un periodo non superiore a centocinquanta giorni[18] – degli studenti di uno specifico tipo di struttura educativa, ovvero le filiazioni in Italia di università o istituti superiori di insegnamento a livello universitario aventi sedi nel territorio di Stati esteri ed ivi riconosciuti giuridicamente quali enti senza scopo di lucro. Per i soggiorni brevi degli studenti di tali strutture, la novella prevede inoltre l’applicazione della legge n. 68 del 2007, la quale disciplina alcuni profili dei soggiorni di breve durata degli stranieri per visita, affari, turismo, studio.

Nondimeno, l’aspetto senz’altro più rilevante del decreto in esame lo si rinviene nella lettera b) del primo comma dell’articolo in esame che, novellando l’art. 6 del Testo Unico e introducendovi il comma 1-bis riconosce, allorquando ne ricorrano i requisiti, la convertibilità di alcune tipologie di permessi di soggiorno in permessi di lavoro[19]. Si viene in tal modo ad ammettere la conversione in permesso di soggiorno per motivi di lavoro dei permessi di soggiorno per protezione speciale; per calamità; per residenza elettiva straniero (titolare di una pensione percepita in Italia); per acquisto della cittadinanza (o dello stato di apolide); per attività sportiva; per lavoro di tipo artistico; per motivi religiosi; per assistenza di minori ed, in ultimo, per cure mediche dovute a gravi condizioni psico-fisiche o derivanti da gravi patologie[20].

Al fine di una maggiore comprensione delle disposizioni in commento appare utile approfondire talune delle suddette tipologie di ‘permessi speciali’ per i quali il legislatore ha previsto all’art. 1, co. 1 lett. b) la convertibilità. In particolare, ai sensi della lettera f) della summenzionata norma, con riferimento al permesso di soggiorno per calamità questo viene attualmente riconosciuto in caso di “grave” calamità e non più allorquando il Paese verso il quale lo straniero deve fare ritorno si trovi in una situazione di “contingente ed eccezionale” calamità, come richiedeva il previgente “Decreto Salvini”. La suddetta modifica accorda, perciò, il riconoscimento di tutte quelle situazioni connotate da una durevole durata come quelle determinate dai mutamenti climatici e non solo da catastrofi quali terremoti o inondazioni. La norma, tuttavia, precisa che tali permessi hanno una durata di soli sei mesi e possono essere rinnovati esclusivamente se permangono le condizioni di grave calamità e laddove il soggetto versi nelle condizioni di fare rientro nel proprio Paese. In merito alla convertibilità del permesso di soggiorno per calamità in permesso di soggiorno per motivi di lavoro, il Governo ha poi avuto modo di chiarire che non è previsto alcun automatismo e che la conversione avviene esclusivamente nel caso in cui il soggetto abbia un regolare contratto di lavoro. Ulteriore novità rilevante concerne, inoltre, i soggetti stranieri che svolgono attività di ricerca scientifica nel territorio italiano e che, ultimata l’attività di ricerca, abbiano un permesso di soggiorno per la ricerca giunto a scadenza. Per tali soggetti, il nuovo decreto, alla lett. g) della norma in esame, applica le regole generali in materie di assistenza sanitaria per gli stranieri regolarmente soggiornanti[21]. Nella specie, lo straniero che versi nelle condizioni di cui si è detto e che intenda trattenersi nel territorio italiano può dichiarare la propria immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa e alla partecipazione alle misure di politica attiva del lavoro” presso i servizi per l’impiego, come previsto dalla normativa vigente[22] e richiedere un permesso di soggiorno di durata non inferiore a nove mesi e non superiore a dodici mesi, così da ricercare un’occupazione o avviare un’impresa coerente con l’attività di ricerca compiuta. Proseguendo poi nella lettura della norma, con riferimento al permesso di soggiorno per minori stranieri non accompagnati, invece, la lett. h) reintroduce la previsione per cui il mancato rilascio del parere da parte del Comitato per i minori stranieri – previsto dall’articolo 33 del Testo Unico dell’Immigrazione – non possa legittimare il rifiuto del rinnovo del permesso di soggiorno ripristinando, altresì, la previsione dell’applicazione a tale procedimento del silenzio assenso precedentemente soppresso dal “Decreto Salvini” n. 113/2018[23]. Il permesso di soggiorno per acquisto della cittadinanza o dello stato di apolidia, invece, disciplinato ex art. 11, lett. c) D.P.R. 394/1999[24], viene accordato – come noto – allo straniero che risulti essere già in possesso del permesso di soggiorno per altri motivi e per la durata del procedimento di concessione o di riconoscimento. Tuttavia, la nuova normativa, alla lettera b) della disposizione in commento, precisa che tale permesso è convertibile in permesso di lavoro, purché lo straniero non sia stato precedentemente in possesso di un permesso per richiesta asilo[25] .

Proseguendo nella disamina del decreto oggetto della trattazione, di notevole pregio appare la modifica ivi prevista all’art. 1, co. 1, lett. e)
all’articolo 19 – rubricato “Divieti di espulsione e di respingimento. Disposizioni in materia di categorie vulnerabili” – del Testo Unico dell’Immigrazione per ciò che concerne l’ambito di applicazione del divieto di espulsione. Invero, il co. 1, lett. e), tra le altre cose, pone il divieto di respingimento e di espulsione verso Paesi nei quali lo straniero corra un rischio di persecuzione in ragione di finalità discriminatorie per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione. In sede di conversione in legge del decreto è stata introdotta, peraltro, una modificazione della suddetta norma, atta a ricomprendere, tra i motivi della persecuzione, anche “l’orientamento sessuale” e “l’identità di genere”. Inoltre, la lettera in commento, a seguito dell’inserimento del co. 1.2., accorda allo straniero per il quale valga il divieto di espulsione di cui ai co. 1 e 1.1. del medesimo art. 19 e al quale venga negata la protezione internazionale, la possibilità di vedersi riconosciuto un permesso di soggiorno per “protezione speciale” rilasciato dal Questore, previo parere della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale[26]. Permesso, quest’ultimo, che, giacché rinnovabile previo parere della Commissione territoriale, riconosce la possibilità di svolgere attività lavorativa ai sensi delle modifiche di cui si è detto in precedenza in materia di convertibilità e con cui è stata abrogata la precedente normativa che prescriveva, di contro, l’impossibilità della conversione in permesso di soggiorno per motivi di lavoro[27]. Infine, sempre in materia di divieto di espulsione, giova dar atto delle ulteriori modifiche dell’articolo 19 del Testo Unico, contenute nel co. 2, lettera d-bis). Nella specie, dalla lettura del dispositivo si evince che quanto testé esposto in tema di permesso di ‘protezione speciale’ trova applicazione anche per gli stranieri che versino in “gravi condizioni psico-fisiche o derivanti da gravi patologie” dicitura, quest’ultima, che è andata a sostituire quella “di particolare gravità” propria del decreto-legge n. 113 del 2018. Anche in tal caso, il Questore è tenuto al rilascio di un permesso di soggiorno per cure mediche, per il tempo attestato dalla certificazione sanitaria, comunque non superiore ad un anno, valido solamente nel territorio nazionale, rinnovabile fintanto che persistano le attestate condizioni di salute e – è bene ricordarlo – convertibile in permesso per motivi di lavoro in virtù dell’anzidetta novella di cui all’art. 1, co.1, lett. b). Sul punto, appare oltremodo evidente che un simile ampliamento normativo sia esplicazione dell’intento del legislatore di rievocare la vecchia protezione umanitaria.

Occorre adesso esaminare, per completezza di esposizione, il secondo e ultimo comma dell’art. 1 i quali intervengono in ordine alla disciplina relativa alla possibilità di limitazione o divieto di transito e di sosta delle navi mercantili nel mare territoriale allorquando ricorrano motivi di ordine e sicurezza pubblica, in conformità a quanto previsto dalle previsioni della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare di Montego Bay del 1982. La nuova disciplina – sostitutiva di quella introdotta nell’art. 11 del TU dal decreto-legge n. 53 del 2019 (c.d. Decreto Sicurezza-bis) – dispone che “fermo restando quanto previsto dall’articolo 83 del Codice della navigazione”[28] per ragioni di ordine e sicurezza pubblica, in conformità con la Convenzione di Montego Bay del 1982, il Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro della difesa e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, e previa informazione al Presidente del Consiglio dei ministri, detiene a facoltà di limitare o comunque vietare il transito e la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale. Contemporaneamente – precisa la norma – viene disposta l’esclusione per le operazioni di soccorso immediatamente comunicate al centro di coordinamento competente per il soccorso marittimo e allo Stato di bandiera ed effettuate nel rispetto delle indicazioni della competente autorità per la ricerca e soccorso in mare. Le indicazioni sono emesse sulla base degli obblighi derivanti dalle convenzioni internazionali in materia di diritto del mare nonché – come peraltro puntualmente precisato durante l’esame presso la Camera – della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e delle norme nazionali, internazionali ed europee in materia di diritto di asilo. Vengono, inoltre, rimodellate le previsioni inserite dal predetto decreto-legge 53 del 2019 agli articoli 11 e 12 del Testo Unico sull’Immigrazione che prevedevano, in particolare, una sanzione amministrativa da 150.000 euro a 1.000.000 euro, la responsabilità solidale dell’armatore con il comandante e la confisca obbligatoria della nave utilizzata nel caso di violazione del provvedimento di divieto o limitazione di ingresso, transito o sosta delle navi[29], sostituendovi – l’attuale normativa – la multa da euro 10.000 ad euro 50.000, che va ad aggiungersi alla reclusione fino a due anni prevista ex art. 83 del codice della navigazione.

L’art. 1-bis, poi,introduce la possibilità di assegnare i beni sequestrati nel corso delle operazioni di contrasto all’immigrazione clandestina anche agli enti del terzo settore.

Sempre nell’ambito della protezione internazionale, è necessario, altresì, esaminare quanto disposto dall’ art. 2 del nuovo Decreto Sicurezza e Immigrazione – rubricato Disposizioni in materia di procedure per il riconoscimento della protezione internazionale”- il quale interviene in ordine alla procedura di esame delle domande di protezione internazionale, sulla corrispondente decisione e sulle procedure di impugnazione, modificando il D.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25 di attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato. In particolare, sono stati sostituiti nella loro totalitàl’art. 28 d.lgs. 25/2008 sull’esame prioritario, l’art. 28 bis d.lgs. 25/2008 in materia di procedure accelerate nonché l’art. 29 bis d.lgs. 25/2008 in materia di domanda reiterata in fase di esecuzione di un provvedimento di allontanamento. Alla luce delle suddette modifiche apportate dalla normativa in commento si evince che la decisione di prevedere l’applicabilità della procedura accelerata, anziché quella prioritaria, per talune categorie di richiedenti risponde ad esigenze di opportunità e funzionalità giacché rivolta a soggetti che potrebbero essere sospettati di voler accedere a forme di protezione, pur essendo sprovvisti delle caratteristiche richieste. L’intento si sostanzia, dunque, nell’agevolare i soggetti maggiormente bisognose di protezione mediante una procedura prioritaria[30], mantenendo, invece, per i restanti richiedenti l’applicabilità della procedura accelerata[31].

Ai sensi dell’art. 2, co.1, lett. 0a), le Commissioni territoriali sono legittimate a disporre l’audizione dell’interessato, laddove effettivamente realizzabile, utilizzando le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili, anche “mediante collegamenti audiovisivi a distanza”, nel rispetto delle esigenze di riservatezza dei dati che riguardano l’identità e le dichiarazioni del richiedente. La successiva lett. a) dell’art. 2, co.1 in esame, impone poi alla Commissione territoriale l’obbligo di informare il richiedente della protezione internazionale in ordine alla procedura prescelta (se prioritaria o accelerata) in modo tempestivo – si legge nel testo normativo – e non già “all’avvio del colloquio” come, invece, precedentemente previsto.

Secondo quanto previsto ex art. 2, co. 2, lettere, a), b), c), la domanda deve essere esaminata in via prioritaria allorquando, ad una prima valutazione, appare verosimilmente fondata”; quando viene presentata da un richiedente appartenente a categorie di persone “vulnerabili”, ovverosia da un minore non accompagnato o che, comunque, necessita di garanzie procedurali particolari; e ancora, allorquando, possa presumibilmente ritenersi di avere sufficienti motivi per riconoscere lo status di protezione sussidiaria sulla base degli elementi in possesso.

Ai sensi del co.1, lett. c), è prevista l’inapplicabilità ai richiedenti portatori di esigenze particolari” quali minori, disabili, anziani, etc., della disciplina in materia di domande manifestatamente infondate. Sono, altresì, esclusi dall’esame prioritario i casi di domanda presentata da richiedenti per i quali è stato disposto il trattenimento in uno hotspot o all’interno di un centro di permanenza per i rimpatri o da richiedenti provenienti da Paesi di origine sicuri[32], i quali vengono attualmente ricondotti esclusivamente nella procedura accelerata.

Ebbene, proprio con riferimento all’esame accelerato delle domande di asilo l’articolo – contrariamente alla formulazione previgente per cui la decisione della Commissione territoriale doveva essere adottata entro cinque giorni nel caso di richiedenti provenienti da Paesi di origine sicura e di reiterazione della domanda[33] – mantiene fermo, nella sua nuova formulazione, il compito delle Commissioni territoriali di decidere entro cinque o nove giorni (sette giorni entro cui svolgere l’audizione più due per la decisione), in base alle fattispecie rispettivamente enucleate al co. 1 lett. a) e b) e co. 2 lett. a) b) c) d) ed e). Sul punto, merita di essere citata la nuova fattispecie di domanda prevista al co. 1, lett. b) per la quale la decisione deve essere assunta entro il termine di cinque giorni; si tratta delle domande presentate da persona sottoposta a procedimento penale, o condannato con sentenza anche non definitiva, per uno dei gravi reati[34] la cui condanna preclude l’acquisizione dello status di rifugiato[35] e della protezione sussidiaria[36]. Infine, il sesto comma della norma precisa, peraltro, che la procedura accelerata non trova applicazione nei confronti di stranieri portatori di esigenze particolari, persone vulnerabili, quali minori, minori non accompagnati, disabili, anziani, donne in stato di gravidanza, genitori singoli con figli minori, vittime della tratta di esseri umani, persone affette da gravi malattie o da disturbi mentali, persone che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale o connessa all’orientamento sessuale o all’identità di genere, nonché, infine,  vittime di mutilazioni genitali[37].

Per ciò che riguarda, invece, la frequente ipotesi di riproposizione della domanda di ingresso in Italia ad opera di un soggetto straniero che abbia già ricevuto il provvedimento di allontanamento, la norma prevede che il presidente della Commissione territoriale competente – sulla scorta di quanto previsto dall’emendamento approvato in Commissione Affari costituzionali – è tenuto a considerare anche i rischi di respingimento tanto diretti e quanto indiretti. La modifica incide sulla norma che permette allo straniero di reiterare la domanda di ingresso, “nella fase di esecuzione di un provvedimento che ne comporterebbe l’imminente allontanamento”, ovvero l’espulsione. La seconda domanda dovrà essere trasmessa con “immediatezza” al presidente della Commissione che procede all’esame preliminare entro il termine di tre giorni. Il riferimento alla necessità di valutare i rischi di respingimento diretti e indiretti è un richiamo all’articolo 33 della Convenzione di Ginevra, ed è volto a garantire una concreta ed efficace tutela all’incolumità dell’immigrato richiedente la protezione internazionale, evitando l’allontanamento forzato verso un paese non sicuro (art. 2, co.1, lett. d).

Infine, per ciò che qui rileva, di notevole importanza appare il dettato normativo di cui all’art. 2, co. 1, lettera e)che – come parzialmente anticipato – aumenta da uno a due anni la durata del permesso di soggiorno per “protezione speciale” rilasciato, sulla scorta della sussistenza di specifiche condizioni, a chi è stata respinta la domanda di protezione internazionale per ragioni di “carattere umanitario o nel rispetto di obblighi internazionali dello Stato italiano”. In tal senso – come ampiamente detto – ad essere assicurata è non solo la protezione dello straniero da eventuali torture ma anche da eventuali trattamenti inumani o degradanti o violazione del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare e, ancora, persecuzione per motivi di “orientamento sessuale” e di “identità di genere”. Ebbene, in una simile circostanza il Questore, previo parere della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, è chiamato a rilasciare il permesso di soggiorno per protezione speciale che abbiamo già visto essere convertibile in permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Nell’ipotesi in cui la domanda di protezione internazionale relativa ad un minorenne non venga accolta e nel corso del procedimento emerga la presenza di gravi motivi connessi allo sviluppo psicofisico e tenuto conto dell’età e delle condizioni di salute del minore, la Commissione territoriale è tenuta a darne conoscenza al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni competente, per l’eventuale attivazione delle misure di assistenza in favore del minore. Infine, il nuovo decreto all’art. 2, co.1, lett. f), interviene sulla disciplina delle controversie sulle decisioni di riconoscimento della protezione internazionale, ed in particolare sulle ipotesi di sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato, prevedendo, tra l’altro, che il provvedimento di sospensione, adottato per gravi motivi, deve essere emanato dal tribunale in composizione collegiale.

Conclusivamente, sul punto, di notevole pregio appare il disposto normativo di cui all’art. 3, co.2, lett. a) attraverso il quale il legislatore ha modificato il cosiddetto “Decreto accoglienza”[38]. Invero, l’articolo in parola – conformandosi alla già citata declaratoria di illegittimità costituzionale, resa dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 186 del 2020 – prescrive l’iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente nonché il contestuale rilascio della carta d’identità della durata di tre anni. Più in particolare, l’art. 5-bis d.lgs. 142/2015 così come sostituito prevede che il richiedente protezione internazionale, a cui sia stato rilasciato il permesso di soggiorno per richiesta di asilo ovvero la ricevuta attestante la presentazione della richiesta di protezione internazionale, vengaiscritto nell’anagrafe della popolazione residente. Inoltre, ai richiedenti protezione internazionale che abbiano ottenuto l’iscrizione anagrafica, è rilasciata, sulla base delle norme vigenti, una carta d’identità, di validità limitata al territorio nazionale e della durata di tre anni. Disposizione, questa, che – come ampiamente anticipato – era stata abrogata ad opera del dettato dal previgente art. 13 decreto-legge n. 113 del 2018, il quale aveva fatto venir meno la facoltà di tale iscrizione anagrafica. A ciò si aggiunga, peraltro, quanto disposto dai commi 5-7 dell’art. 4 che, così come modificati dalla Camera dei deputati, riducono da quarantotto mesi a ventiquattro mesi – prorogabili fino a trentasei – il termine massimo per la conclusione dei procedimenti di riconoscimento della cittadinanza per matrimonio e per naturalizzazione.

Occorre in ultimo esaminare, per mera completezza di esposizione, le modifiche normative introdotte ex artt. 3 e 4 del D.L. 130/2020 In materia di trattamento e sistema di accoglienza. Il co.1, dell’art. 3 apporta modifiche agli artt. 10-ter d.lgs. 296/1998 in materia di disposizioni per l’identificazione dei cittadini stranieri rintracciati in posizione di irregolarità sul territorio nazionale o soccorsi nel corso di operazioni di salvataggio in mare e all’art. 14 d.lgs. 296/1998 in materia di esecuzione dell’espulsione. In particolare, all’interno dell’art. 10-ter, co. 3, viene attualmente aggiunto un ulteriore periodo per cui lo straniero, che si trovi all’interno di un centro di permanenza, deve essere informato dei diritti e delle facoltà derivanti dal procedimento di convalida del decreto di trattenimento in una lingua da lui conosciuta oppure, ove non sia possibile, in francese, inglese o spagnolo. Mentre con riferimento all’art. 14 sono stati modificati i co. 1 e 5 in forza dei quali il termine di centottanta giorni precedentemente previsto è stato ridotto a novanta giorni prorogabili per altri 30 giorni. Più nel dettaglio, la norma così come modificata prescrive che il periodo massimo di trattenimento dello straniero all’interno del centro di permanenza per i rimpatri passa da centottanta giorno ad un massimo di novanta giorni, prorogabili per altri trenta giorni allorquando lo straniero risulti essere cittadino di un Paese con cui l’Italia abbia sottoscritto accordi in materia di rimpatri. Per di più, emerge, che lo straniero che sia già stato trattenuto presso le strutture carcerarie per un periodo pari a quello di novanta giorni può essere trattenuto presso il centro per un periodo massimo di trenta giorni, prorogabile per altri trenta giorni qualora lo straniero risulti essere cittadino di un Paese con cui l’Italia abbia sottoscritto accordi in materia di rimpatri.

L’art. 4 D.L. 130/2020 riforma, come anticipato seppur sinteticamente, il sistema di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale. Viene, infatti, previsto che: la prima assistenza sia svolta nei centri governativi; che, l’accoglienza si effettui, nei limiti dei posti disponibili, presso strutture del “Sistema di accoglienza e integrazione” (cosiddetti SAI), gestite dagli enti locali, il quale è tenuto ad erogare: servizi di primo livello a cui hanno accesso i richiedenti protezione internazionale e servizi di secondo livello – diretti all’integrazione – a cui hanno accesso le ulteriori categorie di beneficiari nonché assistenza sanitaria, sociale e psicologica, mediazione linguistico-culturale, ed, infine, somministrazione di corsi di lingua italiana e servizi di orientamento legale.


[1] Il Decreto Legge è stato convertito con modificazioni dalla Legge 18 dicembre 2020, n. 173, pubblicato in Gazz. Uff. del 19/12/2020, n. 314.

[2] Nella specie, il decreto-legge n. 113 del 4 ottobre 2018 e il decreto-legge n. 53 del 14 giugno 2019.

[3] Il riferimento è al Decreto-legge n. 53 del 14 giugno 2019.

[4] Nel diritto internazionale la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare – comunemente noto come Convenzione di Montego Bay – è un trattato internazionale che definisce i Diritti e le responsabilità degli Stati nell’utilizzo dei mari e degli oceani, definendo linee guida che regolano le trattative, l’ambiente e la gestione delle risorse minerali. La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) fatta a Montego Bay il 10 dicembre 1982, ratificata e resa esecutiva dal nostro Paese ai sensi della legge 2 dicembre 1994, n. 689 recante “Ratifica ed esecuzione della convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, con allegati e atto finale, fatta a Montego Bay il 10 dicembre 1982, nonché dell’accordo di applicazione della parte XI della convenzione stessa, con allegati, fatto a New York il 29 luglio 1994” Pubblicata in Gazz. Uff. del 19 dicembre 1994, n. 164 ed entrata in vigore il 20 dicembre del medesimo anno.

[5] Per un approfondimento si vedano le osservazioni formulate dal Presidente della Repubblica in sede, dapprima, di emanazione del d.l. 113/2018 e poi di promulgazione della l. 77/2019,  di conversione in legge del D.L. n. 53/2019.

[6] Il testo integrale della sentenza è consultabile in https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?param_ecli=ECLI:IT:COST:2020:186

[7] Intervista di SPAGNOLO V. R, “Ministro Lamorgese. «Basta persone ridotte a fantasmi, ora flussi migratori regolari»”, Avvenire del 11 ottobre 2020, in https://www.avvenire.it/attualita/pagine/basta-fantasmi-ora-umanit .

[8] Il centrodestra non ha partecipato al voto; hanno espresso voto contrario i Senatori Berutti e Quagliariello del gruppo Misto di ‘Idea-Cambiamo’; si sono, invece, astenuti i Senatori Bonino di “+Europa”, il senatore Richetti del gruppo Misto e due senatori autonomisti, Durnwalder e Steger.

[9] Il Corriere della Sera del 18 dicembre 2020, “Senato, approvato il decreto sicurezza Ma scoppia la rissa: un questore e un commesso in infermeria. I leghisti hanno fatto scattare la protesta, lanciando fogli contro i Cinque Stelle. Casellati: ci sarà un’istruttoria per stabilire le responsabilità sull’accaduto”, riportava: «L’approvazione è stata a dir poco concitata, tra striscioni, cartelli, fischietti, urla, spintoni. La seduta venerdì pomeriggio è stata sospesa dopo che i senatori della Lega hanno esposto uno striscione in cui era riprodotto il programma elettorale dei 5 stelle sulle politiche dell’immigrazione con tanto di logo, per sottolineare il cambiamento di posizione del Movimento. A quel punto sono scoppiate proteste e fischi, urla e cori. Il senatore dell’Udc, Antonio De Poli, è stato strattonato in aula durante il parapiglia ed è finito in infermeria insieme ad un commesso. Le proteste sono iniziate al termine delle dichiarazioni di voto» in https://www.corriere.it/politica/20_dicembre_18/senato-scoppia-rissa-questore-commesso-infermeria-ec5af11e-4148-11eb-b7e3-563a33cae2bc.shtml

[10] Cfr. Decreto Legislativo 25 luglio 1998, n. 286 rubricato “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, pubblicato in Gazz. Uff.   del 18 agosto 1998, n. 191 – Supplemento Ordinario n. 139.

[11] Organizzazione non governativa (ONG). Le ONG sono organizzazione senza fini di lucro indipendenti dagli Stati e dalle organizzazioni governative internazionali.

[12] Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati.

[13] Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati.

[14] In tal senso, si noti che l’articolo 41-bis è una disposizione dell’ordinamento penitenziario introdotta ad opera della legge 10. Ottobre 1986, n. 663, che legittima il Ministro della Giustizia a sospendere l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti previste dalla legge in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza per alcuni detenuti (anche in attesa di giudizio) incarcerati per reati di criminalità organizzata, terrorismo, eversione e altri tipi di reato.

[15] Sul punto per una maggiore trattazione del tema si rinvia al testo del Decreto in commento rinvenibile in Gazzetta Ufficiale https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2020/10/21/20G00154/sg .

[16] Precedentemente all’attuale modifica avvenuta con D.L 130/2020, ai sensi dell’art. 3 del Testo Unico sull’Immigrazione il Governo era tenuto ad approvare un documento programmatico triennale sull’immigrazione regolare, a cui avrebbero fatto seguito i decreti flussi annuali da approvare entro il 30 novembre. Siffatti decreti flussi dovevano indicare, sulla scorta del documento programmatico, delle quote massime di stranieri ammessi regolarmente nel territorio italiano a cui concedere il permesso di soggiorno per motivi lavorativi. Nel caso di assenza del decreto programmatico annuale il Governo, in via transitoria, poteva emanare un decreto flussi entro il 30 novembre nel limite delle quote stabilite nell’ultimo decreto emanato.

[17] Si noti che la norma circa il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno nel suo co. 6 prevede che essi possano essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti. Nella formulazione antecedente il decreto-legge n. 113 del 2018, la disposizione concludeva: “salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”. Tale inciso è stato abrogato dal decreto-legge n. 113 del 2018, facendo così venir meno l’ambito di discrezionalità nella valutazione dei “seri motivi”, attribuita al questore.

[18] L’art. 38 bis – inserito dall’art. 1, co. 1 lett. i-bis del decreto convertito – inserisce una nuova disposizione in materia di soggiorni di breve durata per gli studenti delle filiazioni in Italia di università e istituti superiori di insegnamento a livello universitario stranieri), cui dovranno applicarsi le disposizioni della l. 28 maggio 2007, n. 68 qualora il soggiorno in Italia dei predetti studenti non sia superiore a 150 giorni.

[19] Sul punto, si noti che la disciplina del permesso di soggiorno per motivi di lavoroè recata nel Testo Unico dell’Immigrazione dagli articoli da 21 a 27, nonché dall’articolo 27-quater per lavoratori altamente qualificati, dagli articoli 27-quinquies e sexies per trasferimenti intra-societari.

[20]  Si veda art. 19 co. 2, lett. d-bis del Testo Unico sull’Immigrazione.

[21] Cfr. art. 34, co. 3, D.lgs. n. 286 del 1998.

[22] Cfr. art. 19 del D.lgs. 14 settembre 2015, n. 150.

[23] Cfr. art. 14, co.1, lett. a) decreto-legge 4 ottobre 2018, n.113 con il quale è stato abrogato l’art. 8, co. 2, della legge 91/1992.

[24] Decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394 recante “Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell’articolo 1, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286”, pubblicato in Gazz. Uff. del 03/11/1999, n. 258 – Suppl. Ord. n. 190.

[25] In materia di permesso di richiesta di asilo si vedano gli artt. 4 e 22 del decreto legislativo n. 142 del 2015. Tale permesso secondo la normativa viene rilasciato in attesa della decisione sulla domanda di asilo, se essa non viene adottata entro sei mesi dalla presentazione della domanda ed il ritardo non sia imputabile al richiedente. Tale permesso ha durata di sei mesi, rinnovabile fino alla durata del procedimento, e consente di svolgere un’attività lavorativa fino alla conclusione della procedura, senza però poter essere convertito in permesso di lavoro. Ai sensi dell’art. 35, co.7 del decreto legislativo n. 25 del 2008, viene rilasciato anche a coloro che propongano ricorso giurisdizionale contro il diniego della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale.

[26] Cfr. art. 32, co. 3 del D.lgs. n. 25 del 2008.

[27] Cfr. art. 1, co.1, lett b), D.L. 130/2020.

[28] Regio Decreto 30 marzo 1942, n. 327.

[29] Il riferimento è da intendersi alle previsioni inserite all’art. 12 del TU Immigrazione, co. 6-bis, 6-ter e 6-quater, dal decreto-legge 53 del 2019 – cosiddetto decreto sicurezza bis.

[30] L’esame prioritario di cui all’art. 28 d.lgs. 25/2008 è volto a rendere più snella e veloce la procedura per le istanze che hanno una manifesta fondatezza o che sono presentate da persone vulnerabili.

[31] La procedura accelerata di cui all’art. 28 bis d.lgs. 25/2008, riguarda le fattispecie in cui la domanda si presume presentata per fini dilatori o strumentali, pertanto, prevede termini più stringenti.

[32] Ai sensi dell’articolo 2-bis del D.lgs. 25/2008, introdotto dal primo decreto sicurezza (D.L. 113/2018), sono considerati Paesi di origine sicuri gli Stati non appartenenti all’Unione europea dove non sussistono atti di persecuzione, tortura o forme di trattamento inumane.

[33] Cfr. art. 28-bis, co. 1-bis, D.lgs. 25/2008.

[34] Si tratta dei reati di grave allarme sociale previsti dall’articolo 407, co. 2, lett. a), c.p.p. tra cui associazione di tipo mafioso, associazione finalizzata al traffico di droga e al contrabbando di tabacchi, terrorismo, strage, omicidio, rapina aggravata e dei reati quali resistenza a pubblico ufficiale (art. 336); lesioni personali gravi (art. 583); mutilazioni genitali femminili (art. 583-bis); lesioni personali gravi o gravissime a un pubblico ufficiale in servizio di ordine pubblico in occasione di manifestazioni sportive (art. 583-quater); furto aggravato dal porto di armi o narcotici (artt. 624 e 625, primo comma, n. 3);furto in abitazione (artt. 624-bis, primo comma).

[35] Cfr. art.12, co. 1, lett. c), del D.Lgs. 252/2007.

[36] Cfr. art. 16, co. 1, lett. d-bis), D.Lgs. 2512007.

[37] Cfr. art. 17 del D.lgs. 18 agosto 2015, n. 142.

[38] Decreto legislativo n. 142 del 2015 recante “Attuazione della direttiva 2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, nonché della direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale”.

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Convegno gratuito: “I crimini della disperazione ed esasperazione”

 

La Lista Galletti per il Consiglio e le Associazioni

Laboratorio Forense, Azione Legale, Figli negati, Netforpp, Forum Nazionale Antiusura bancaria e Nuove Frontiere per il Diritto Vi invitano al Convegno Gratuito:

I CRIMINI DELLA DISPERAZIONE E DELLA ESASPERAZIONE:

SOCIETA’, ECONOMIA, SCIENZA, DIRITTO E CRONACA A CONFRONTO

 

ROMA, 13 DICEMBRE 2018 – ORE 13.00-16.00

CIRCOLO POLIZIA DI STATO – LUNGOTEVERE FLAMINIO, 79/81 – ROMA

Introduce e Saluti:

Cons. Avv. Antonino Galletti – Tesoriere del COA di Roma – Pres. Azione Legale

Modera

Prof. Avv. Federica Federici – Foro di Roma – Università Internazionale per la Pace – Università eCampus – Presidente Nuove Frontiere del Diritto

RELATORI

EMILIO ORLANDO

Giornalista e scrittore

“Crimini e crisi economica: dall’omicidio suicidio ai reati di prossimità nell’era della new economy”

 

MARINO D’AMORE

Criminologo – Università Unicusano

“Economia e crimine: modelli culturali e sociali”

 

PROF. AVV. FRANCESCO MAZZA

Foro di Roma – Università di Cassino e Lazio Meridionale

“Le nuove forme di criminalità nel tessuto economico”

 

AVV. BARBARA CARRARA

Foro di Roma

“Il fenomeno delle frodi assicurative”

 

AVV. PAOLO VOLTAGGIO

Foro di Roma – Laboratorio Forense

“La legittima difesa: una riforma che divide”

 

Prof. LAURA VOLPINI

Psicologa Forense e Criminologa – Università Unitelma La Sapienza

“Universo femminile: aspettative sociali di performance

e implicazioni psichiche (il suicidio di Alessandra Appiano)”

 

TIZIANA CIAVARDINI

Antropologa, Giornalista e Scrittrice

“Quando la disperazione prende il sopravvento: casi di suicidio/omicidio a livello internazionale”

 

AVV. ANTONIO PULCINI

Foro di Roma – Forum Antiusura bancaria

“Indebitamento del popolo italiano tra usura e stile di vita”

 

DOTT. GIORGIO CECCARELLI

Foro di Roma – Associazione Figli Negati

“Ogni figlio ha il diritto inviolabile di amare due genitori e quattro nonni”

 

AVV. MARIA GRAZIA MASELLA

Foro di Roma – Univ. Internazionale della Pace -Presidente CO.I.M. Consulenti Integrati Matrimoniali

Riflessioni e problematiche sul Diritto di emigrare e sul controllo dei confini statali come diritto alla sicurezza”

 

AVV. LAURA VASSELLI

Foro di Roma

“La patrimonializzazione dei nuovi rapporti e modelli familiari”

Locandina del 13 dicembre 2018

La partecipazione all’evento è subordinata alla prenotazione tramite sito www.nuovefrontierediritto.it o alla mail info@nuovefrontierediritto.it – Coordinatore scientifico: Avv. Federica Federici – L’evento è gratuito e accreditato presso l’Ordine degli Avvocati di Roma per 3 cfu ordinari. Si rilascerà attestato partecipazione anche per i non avvocati.

Per iscriverti compila il form sottostante






     

    Convegno gratuito: “I reati culturalmente orientati: dai casi di cronaca alla psicosi sociale. Questioni e prospettive giuridiche”

     

    La Lista Galletti per il Consiglio

    assieme alle Associazioni Nuove Frontiere del Diritto, Azione Legale, Netforpp e Laboratorio Forense Vi invitano al convegno gratuito

     

    I REATI CULTURALMENTE ORIENTATI: DAI CASI DI CRONACA ALLA PSICOSI SOCIALE

    QUESTIONI E PROSPETTIVE GIURIDICHE

    ROMA, 13 NOVEMBRE 2018

    ORE 13.00-16.00

    Circolo dell’Aeronautica Militare – Lungotevere Salvo d’Acquisto, 21

    Introduce e Saluti:

    Cons. Avv. Antonino Galletti – Tesoriere del COA di Roma – Pres. Azione Legale

    Modera

    Avv. Federica Federici – Foro di Roma – Università Internazionale della Pace – Università eCampus – Presidente Nuove Frontiere del Diritto

    RELATORI

    EMILIO ORLANDO

    Giornalista e Scrittore

    “L’etnicizzazione dei reati ed i crimini culturalmente orientati”

    AVV. BARBARA CARRARA

    Foro di Roma

    “I delitti di onore”

    Prof. EDMUND UGWU AGBO

    International Bio-research Institute Enugu Nigeria – Università Internazionale della Pace

    “Reati contro le donne nel continente africano: profili giuridici, etici e culturali”

    Avv. SANTAITI MASSIMILIANO

    Foro di Roma

    “Le vittime di reati intenzionali violenti: le lacune legislative a tutela delle stesse”

    AVV. PROF. FRANCESCO MAZZA

    Foro di Roma – Università di Cassino e Lazio Meridionale

    “La violenza di genere: aspetti normativi e lacune legislative”

    AVV. PAOLO VOLTAGGIO

    Foro di Roma – Laboratorio Forense

    “L’accattonaggio e il vivere in strada”

    TIZIANA CIAVARDINI

    Antropologa, Giornalista e Scrittrice

    “Uccidere secondo il Corano. I delitti dell’Islam”

    MARINO D’AMORE

    Università Unicusano

    “I significati mediatici e sociali del Migrante”

    AVV. CATERINA BIAFORA

    Foro di Torino – Consigliere Pari Opportunità COA Torino

    “Violenze culturalmente orientate in ambito familiare, anche nella dimensione europea”

    CONCLUDE Prof. LAURA VOLPINI

    Psicologa Forense – Università La Sapienza Unitelma Roma

    “Il profilo psicologico nei reati di matrice di genere, religiosa, etnico-razziale: tra giudizi e pregiudizi”

     

    L’evento è accreditato presso l’Ordine degli Avvocati e conferisca 1 cfu ordinario. Verranno rilasciati attestati anche ai non avvocati. Per iscriversi mandare mail a info@nuovefrontierediritto.it o compilare il form sottostante.

     

    Per iscrizione Compilare Form:






      I nuovi migranti economici

      interculturaCommento alla ordinanza del Tribunale di Milano, R.G. n. 64207/2015

      Nella vasta e complessa materia della tutela degli immigrati nel nostro Paese, divenuta sempre più attuale per le note vicende migratorie degli ultimi anni, è intervenuta una recentissima decisione del Tribunale di Milano che, con ordinanza decisoria del procedimento n. 64207/2015 R.G. del 31 marzo 2016 ha fornito una innovativa interpretazione del principio della protezione dello straniero per motivi umanitari, fondata sulla tutela del diritto alla salute e all’alimentazione ovvero, in linea generale, del diritto a una esistenza dignitosa.

      Il caso esaminato dal Tribunale riguardava la posizione di un soggetto rientrante nella fattispecie del cd.  “migrante economico” (tale intendendosi la posizione di un individuo che lascia il proprio paese volontariamente alla ricerca di una vita economicamente migliore), il quale, proveniente dal Gambia, notoriamente tra i paesi più piccoli e poveri dell’Africa, appena giunto nel nostro paese avanzava domanda di protezione internazionale, dichiarando di essere un militante politico nel partito di opposizione UDP e di rischiare di conseguenza l’arresto in caso di reimpatrio.

      L’istanza, tuttavia, veniva respinta dalla Commissione Territoriale per carenza del presupposto dei motivi  politici, non emergendo, a suo parere, il fondato timore che il ricorrente potesse subire – tornando nel proprio paese d’origine – una persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione o appartenenza ad un determinato gruppo politico; infatti, in sede di audizione, non aveva saputo indicare neppure la data di elezione del Presidente, circostanza che aveva indotto a dubitare significativamente della sua effettiva militanza politica.

      La Commissione aveva ritenuto insussistenti altresì gli elementi giustificativi dell’ulteriore requisito dell’effettivo rischio di subire un grave danno, tale da legittimare il riconoscimento della protezione sussidiaria, anch’essa oggetto di espressa richiesta da parte del ricorrente.

      Il Tribunale, su tali fattispecie, confermava la decisione della Pubblica Amministrazione, dichiarando la domanda inammissibile per genericità dello status di rifugiato oltreché infondata, non ritenendo la sua posizione riconducibile alle categorie esposte a violenze, torture o altre forme di trattamento inumano quali gli oppositori di regime o soggetti percepiti come tali (attivisti politici, giornalisti, minoranze etniche, religiose e persone LGBT).

      Tuttavia il Tribunale decideva di analizzare altre motivazioni in ordine alla sussistenza di gravi presupposti di carattere umanitario.

      Al fine di comprendere la portata innovativa della decisione, è opportuno un preliminare excursus in ordine alla legislazione in materia.

      La definizione dello status di rifugiato è stata introdotta con l’art. 1, lett. a), della Convenzione di Ginevra del 1951, secondo cui è tale “chi temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo una cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di siffatti avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”.

      L’Italia ha dato attuazione alla Convenzione di Ginevra nel 1954, confermando in tal modo la tutela del diritto d’asilo prevista nell’art. 10, comma 3 della Costituzione, secondo cui “lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.

      L’asilo politico è dunque un istituto giuridico sancito, in primis, dalla Carta Costituzionale e confermato dal diritto internazionale, a tutela delle persone perseguitate nei propri paesi di origine.

      Se l’individuo trova rifugio presso una rappresentanza diplomatica si parla di asilo diplomatico, mentre se trova rifugio nel territorio di una altro Stato sovrano si tratta di asilo territoriale.

      I motivi per richiedere l’asilo politico sono i seguenti:

      –              Razza: colore della pelle, discendenza o appartenenza ad un determinato gruppo etnico;

      –              Religione: convinzioni ateiste, partecipazione a riti di culto, forme di comportamento personale o sociale fondate su un credo religioso o da esse prescritte;

      –              Nazionalità: cittadinanza o anche, più semplicemente, appartenenza ad un gruppo caratterizzato da un’identità culturale, etnica o linguistica, origini geografiche o politiche;

      –              Particolare gruppo sociale:  caratteristica innata o storia comune dei membri del gruppo;

      –              Opinione politica:  professione di un’opinione, un pensiero o una convinzione su una questione inerente ai potenziali persecutori e alle loro politiche o ai loro metodi.

      A sua volta i soggetti cd “persecutori” dello straniero sono:

      –              Lo Stato;

      –              I partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato;

      –              Soggetti non appartenenti allo Stato qualora, però, questo si rifiuti di fornire protezione contro persecuzioni o danno gravi.

      Gli atti di persecuzione che possono giustificare il rilascio dell’asilo politico devono essere tali da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali e possono consistere in atti di violenza fisica o psichica o sessuale, provvedimenti legislativi, amministrativi discriminatori per loro stessa natura, rifiuto di accesso ai mezzi di tutela giuridici o atti diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia.

      In tali casi il rifugiato gode della cosiddetta protezione internazionale, che può essere riconosciuta anche ad un apolide che si trova fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale.

      Tuttavia qualora il richiedente non possedesse i suesposti requisiti ha diritto, comunque, ad una protezione sussidiaria, nel caso in cui sussistano fondati motivi di ritenere che, se tornasse nel paese di origine, o, nel caso di un apolide, nel paese nel quale aveva dimora abituale, correrebbe un rischio di subire un grave danno.

      A tal fine sono da considerare danni gravi:

      –              La condanna a morte;

      –              La tortura o altra forma di pena o trattamento inumano;

      –              La minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.

      Per quanto riguarda i minori non accompagnati, i sistemi di protezione tengono conto della Convenzione sui diritti del fanciullo attuando il principio del “miglior interesse del minore”, mentre particolare tutela è riservata alle donne vittime di violenza equiparate ai rifugiati, secondo la definizione della Convenzione di Ginevra del 1951.

      Nel 2014 lo Stato italiano, con il decreto legislativo  21 febbraio 2014 n. 18, ha recepito la direttiva 2011/95/UE, introducendo “uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta”.

      Per entrambe le figure è previsto il seguente trattamento: a) il permesso di soggiorno ha validità di 5 anni ed è rinnovabile a condizione che il titolare della protezione sussidiaria dimostri la persistenza delle cause che ne hanno consentito il rilascio; b) può esser rilasciato un titolo di viaggio per potersi recare all’estero; c) è consentito l’accesso all’occupazione, all’istruzione e all’assistenza sanitaria e sociale (assegno di invalidità civile, di accompagnamento, di maternità) al pari dei cittadini italiani; d) è consentito fare richiesta di ricongiungimento familiare (art. 29 bis D.lgs 286/98) senza dimostrare i requisiti di alloggio e di reddito richiesti per gli altri cittadini stranieri.

      Il rifugiato, inoltre, può chiedere la cittadinanza italiana dopo 5 anni di residenza in Italia, vedendosi i tempi per la richiesta per naturalizzazione dimezzati.

      Entrambi gli status sono riconosciuti all’esito di un istruttoria effettuata dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale dello Stato di primo ingresso, che diviene competente ad esaminare la domanda (Regolamento di Dublino II). La commissione territoriale può riconoscere, dunque, una forma di protezione internazionale o protezione sussidiaria, non riconoscere alcuna forma di protezione, rigettare la domanda per infondatezza o per inammissibilità, oppure può chiedere alla Questura il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione umanitaria, qualora sussistano gravi motivi umanitari.

      In base agli obblighi derivanti dalle convenzioni internazionali (Convenzione Europea dei diritti umani) l’Italia è obbligata a riconoscere quest’ultimo status con riferimento alle conseguenze che subirebbe lo straniero nel caso di rimpatrio. La condizione di vulnerabilità, di povertà, la presenza di catastrofi naturali del paese d’origine dello straniero o la violazione dei diritti umani sono presupposti sufficienti per la protezione umanitaria.

      La compromissione del diritto alla salute e del diritto all’alimentazione comporta gravi situazione di vulnerabilità, violando quindi i diritti inalienabili dell’individuo, appartenenti all’uomo in quanto tale, dal momento che derivano dall’affermazione del più universale diritto alla vita ed all’integrità fisica.

      Sulla scia di tali ultimi principi è stata emessa la rivoluzionaria ordinanza del Tribunale di Milano.

      Come anticipato, il Giudice ha riconosciuto la protezione umanitaria al cittadino del Gambia dando rilevanza al suo diritto a vivere dignitosamente.

      Le motivazioni che hanno portato a tale decisione hanno riguardato le gravi condizioni socio-economiche in cui versa il paese di provenienza del richiedente asilo.

      Il Gambia è un paese di diffusa povertà e di limitato accesso ai più elementari diritti inviolabili della persona per la maggior parte della popolazione; gran parte della sua economia si basa sugli aiuti internazionali e presenta un elevatissimo tasso di disoccupazione che spinge tanti abitanti ad emigrare. La maggior parte della popolazione povera del paese (tre quarti della popolazione) è composta da contadini e agricoltori che hanno visto, negli ultimi anni, la loro situazione peggiorare a causa della crisi economica globale e dell’aumento dei prezzi del cibo e del carburante, non riuscendo dunque a ricavare un reddito sufficiente a mantenere un livello di vita dignitoso dalla sola attività agricola. Inoltre per tale fetta della popolazione, esiste una “stagione della fame” che dura ogni anno da due a quattro mesi tra luglio e settembre, quando le scorte alimentari sono basse.

      L’aspettativa di vita è di 59.4 anni (in Italia 82), il Pil pro capite è di 1.600 dollari (in Italia 35 mila).

      Tenendo conto dei dati sopracitati, il richiedente, giunto nel nostro paese, è stato ritenuto titolare del diritto ad accedere alla protezione umanitaria, in base agli impegni internazionali e costituzionali, questi ultimi garantiti dagli art. 2 e 32 della Cost. (cfr. Cass. Sentenza n. 22111/2014).

       Gli impegni internazionali e costituzionali derivano dalla seguente normativa:

      –              Art. 32 Cost.: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo”, prendendo in considerazione la definizione di salute data dalla Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e cioè uno stato di completo benessere fisico, mentale, sociale e non soltanto assenza di malattie o infermità.

      –              Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, art. 25: “ Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari, ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà”.

      –              Patti Internazionali di New York del 1966, ratificati in Italia con legge n. 881/1977 art 11: “Gli Stati parte del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo ad un livello di vita adeguato per sé e per la propria famiglia, che includa un’alimentazione, un vestiario ed un alloggio adeguati, nonché al miglioramento continuo delle proprie condizioni di vita. Gli Stati parte prenderanno misure idonee ad assicurare l’attuazione di questo diritto e riconoscono a tal fine l’importanza essenziale della cooperazione internazionale, basata sul libero consenso”.

      Il Tribunale ha fatto altresì riferimento al Preambolo dei Patti internazionali: “in conformità alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, l’ideale dell’essere umano libero, che goda della libertà dal timore e dalla miseria, può essere conseguito soltanto se vengono create condizioni le quali permettano ad ognuno di godere dei propri diritti economici, sociali e culturali […]; lo Statuto delle Nazioni Unite impone agli Stati l’obbligo di promuovere il rispetto e l’osservanza universale dei diritti e delle libertà dell’uomo […]; l’individuo, in quanto ha dei doveri verso gli altri e verso la collettività alla quale appartiene, è tenuto a sforzarsi di promuovere e di rispettare i diritti riconosciuti nel presente Patto”.

      E tutto ciò non può che mettersi in atto mediante il riconoscimento della protezione umanitaria.

      Il Tribunale ha altresì preso in considerazione l’eventualità che la propria decisione possa considerarsi  un’apertura indiscriminata a tutti i migranti economici, concludendo il provvedimento sottolineando che “il riconoscimento di un diritto fondamentale non può dipendere dal numero di soggetti cui quel diritto viene riconosciuto. Per sua natura, un diritto universale non può essere a numero chiuso”.

      Il punto che fa la differenza, quindi, è la condizione di vulnerabilità più volte citata nell’ordinanza, su cui si decide il respingimento o meno lasciando, pertanto, spazio alla discrezionalità di un giudizio in base alla storia personale di ognuno.

      La Kafalah, il ricongiungimento familiare ed il best interest del minore

      La Kafalah, il ricongiungimento familiare ed il best interest del minore

      A cura della Prof.ssa Paola Todini

       

      L’istituto della kafalah[1] di diritto islamico ha origine in parte consuetudinaria  e in parte normativa[2]. Punto focale della disciplina è la Sura XXXIII[3]del Corano, nella quale non si concede spazio alla possibilità di adozione dei minori. Il divieto di adozione[4] si mostra in linea con l’orientamento dei sistemi di diritto islamico nei confronti dello status di figlio che, diversamente da quelli eurocentrici[5], è riconosciuto solo al figlio legittimo.

      La kafalah è l’istituto mediante il quale un minore – identificato con il nome makfoul, ossia soggetto da proteggere e richiedente cure – è affidato ad un  kafil,  soggetto deputato a prendersene cura. Rispetto agli istituti che assolvono alla medesima funzione nel diritto italiano, affidamento eterofamiliare ed adozione, la kafalah non attribuisce necessariamente le responsabilità educative, di protezione e mantenimento a oggetti terzi rispetto ai genitori a causa di una loro assenza o inidoneità.

      La kafalah non genera un  nuovo rapporto familiare, non instaura rapporti parentali, non ha funzione legittimante, dunque, di norma[6] il makfoul non assume il cognome del kafil e non acquista diritti successori[7], così come in seguito ad una kafalah non sorgono impedimenti matrimoniali. Gli effetti della kafalah, inoltre, non sono irreversibili. L’istituto di protezione dei minori in stato di necessità, dunque, non interrompe il legame giuridico con la famiglia d’origine e lo status personale del minore non viene a mutare.

      Il rapporto si può costituire per sentenza -mediante una dichiarazione resa innanzi ad un giudice- o negozialmente, per mezzo di una dichiarazione resa innanzi ad un notaio- e termina, di regola, con il raggiungimento della maggiore età del makfoul.

       Si tratta di un istituto non conosciuto nei sistemi giuridici eurocentrici[8]. La kafalah non crea legami giuridici relativi ai diritti ereditari, se non per via testamentaria e può nascere anche da un rapporto genitoriale[9].

      Di tutta evidenza che l’istituto non trovi un suo corrispondente negli istituti italiani di tutela dei minori privi del sostegno familiare segnatamente, a seconda della patologia familiare, adozione ed affidamento. Ogni tentativo di equiparazione o di inserimento nelle categorie occidentali  sarebbe vano atteso che la kafalah  risulterebbe carente dei requisiti ed inidonea ad assolvere le funzioni  tipiche dei due istituti menzionati[10], per tali motivi la giurisprudenza ha negato il riconoscimento dell’adozione ad un rapporto di kafalah[11]

      L’istituto rientra tra quelli individuati espressamente dalla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo[12] e l’art. 3 lettera e) della Convenzione dell’Aja del 1996 sulla responsabilità genitoriale e sulle misure di protezione minorile ha assimilato la kafalah alle misure di protezione minorile occidentali[13].

      La kafalah ha posto, sia in ambito dottrinario sia giurisprudenziale, una serie di problematiche in ordine alla sua validità ai fini dell’affidamento etero familiare e dell’adozione[14]. Costituisce, invece, presupposto per la realizzazione del diritto al ricongiungimento familiare[15], che come noto, trova il suo fondamento nel principio generale di protezione della famiglia consentendone la ricostruzione della sua unità attraverso la concessione di un permesso di ingesso nel Paese di accoglimento per gli altri componenti il nucleo familiare[16].

      L’art. 29, co 2 del D.lgs. 286/98 prevede, infatti, che,  ai fini del ricongiungimento, i minori adottati o affidati o sottoposti a tutela sono equiparati ai figli[17], ed al riguardo la giurisprudenza e la dottrina hanno teorizzato che potessero essere considerati tra i minori sottoposti a tutela o affidati anche quelli in kafalah[18].

      Come noto, secondo quanto previsto dall’ art. 3 della Convenzione di New York in ogni decisione concernente i minori di competenza delle istituzioni, dei tribunali e delle autorità amministrative l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente. Il best interest[19], o meglio i best interests[20] minorili, sono la ragione sottesa ad una serie di disposizioni giurisprudenziali che hanno innovato gli istituti di diritto italiano affini al tema di indagine di questo lavoro l’adozione[21] e l’affidamento[22] ed al contempo l’apertura verso una interpretazione maggiormente estensiva del riconoscimento della kafalah quale presupposto per la richiesta del ricongiungimento familiare.

      Il ricorso al best interest consente in più di un arret della suprema Corte[23] di riconoscere il ricongiungimento familiare per le seguenti motivazioni: laddove i valori costituzionali di riferimento siano plurimi (come nel caso del ricongiungimento familiare in cui da una parte c’è l’esigenza di protezione dei minori e dall’altra la tutela democratica dei confini di Stato) potrà considerarsi adeguata solo quell’interpretazione della norma che abbia alla base un equo bilanciamento degli interessi in gioco: in questo caso la prevalenza è tendenzialmente per la protezione del minore straniero rispetto alla difesa del territorio per arginare l’immigrazione dal momento che tale interesse può comunque essere realizzato attraverso controlli interni del procedimento di autorizzazione. Rifiutare il visto, nelle parole dei giudici, significherebbe “penalizzare tutti i minori, di paesi arabi, illegittimi, orfani o comunque in stato di abbandono, per i quali la kafalah è l’unico istituto di protezione previsto dagli ordinamenti islamici”. Nella sentenza viene, infatti, ricordato come in tali ordinamenti vi siano particolari regole in tema di filiazione previste dal Corano derivanti soprattutto dal principio per cui sia illecito qualsiasi rapporto sessuale al di fuori del matrimonio. I figli naturali e quelli adottati, pertanto,  non sono veri figli, ma vi è comunque un dovere di fratellanza e solidarietà per qualsiasi minore (Sura 33 versetto 5) attraverso l’unico strumento previsto che è quello della kafalah. Viene descritta la dinamica dell’istituto che per la maggior parte delle volte è disposta con procedura giudiziale ricordando che ogni singolo Paese musulmano ha regolato la disciplina in maniera più o meno dettagliata.

      Nel caso specifico del Marocco la disciplina è prevista a livello normativo nella legislazione speciale del dahir portant loi n.1-02-172 del 13 Giugno 2002, intitolato “prise en charge des enfants abandonnés”. Secondo il parere dei giudici: “Non si vede come possa pregiudizialmente escludersi, agli effetti del ricongiungimento familiare, l’equiparabilità della kafalah islamica all’affidamento”. Fuori dai casi in cui l’istituto sia esclusivamente negoziale in assenza di controlli effettivi dell’autorità “tra la Kafalah islamica e il modello dell’affidamento nazionale prevalgono, sulle differenze, i punti in comune, non avendo entrambi tali istituti, a differenza dell’adozione, effetti legittimanti, e non incidendo, sia l’uno che l’altro, sullo stato civile del minore; ed essendo anzi la Kafalah, più dell’affidamento, vicina all’adozione, in quanto, mentre l’affidamento ha natura essenzialmente provvisoria, essa (ancorché ne sia ammessa la revoca) si prolunga tendenzialmente fino alla maggior età dell’affidato.

      Si tratta di una nuova lettura dell’istituto di diritto islamico che, però, sino ad allora trovava applicazione solo per minori affidati in kafalah a cittadini non italiani, ulteriore pietra miliare nel percorso di riconoscimento della kafalah è fornita dalla Cassazione da ulteriori letture delle disposizioni vigenti alla luce del best interest minorile. Si che si riconosce per la prima volta il principio secondo la quale non può essere rifiutato il nulla osta all’ingresso nel territorio nazionale, per ricongiungimento familiare, di un minore affidato in kafalah a un cittadino italiano sulla base di una pronuncia giudiziale straniera, qualora il minore abbia vissuto con il cittadino italiano o sia stato a suo carico nel paese di origine ovvero per motivi di salute debba da questi essere personalmente assistito.

       Proprio per garantire la massima tutela del minore e soprattutto l’applicazione del best interest la nostra Suprema Corte a sezioni unite a dichiarato “…Non può essere rifiutato il nulla osta all’ingresso nel territorio nazionale, per ricongiungimento familiare, richiesto nell’interesse del minore cittadino extracomunitario, affidato a cittadino italiano residente in Italia con provvedimento di kafalah pronunciato dal giudice straniero, nel caso in cui il minore stesso sia a carico o conviva nel paese di provenienza con il cittadino italiano, ovvero gravi motivi di salute impongano che debba essere da questi personalmente assistito…”[24]. La Suprema Corte ha fatto emergere che l’esclusione del ricongiungimento del cittadino italiano con minore extracomunitario avrebbe condotto ad una illegittimità costituzionale per la disparità di trattamento dei minori stranieri richiedenti protezioni e cure.

      Orbene, il minore straniero affidato in kafalah, di sicuro non potrà acquisire lo status discendente sia per ciò che attiene il profilo biologico sia per il profilo giuridico dell’adozione in senso stretto, ma sicuramente può essere ricompreso nella cerchia della parentela (intesa quale vicinanza familiare), ed è tale espediente che diventa strumento per il cittadino italiano della richiesta per la concessione del ricongiungimento[25].

      Da ultimo una interessantissima sentenza della Suprema Corte del 02.02.2015, n. 1842, con la quale viene meno l’ultimo ostacolo che si frapponeva al completo riconoscimento della kafalah quale presupposto per il ricongiungimento. L’arret evidenzia che poiché la funzione dell’istituto è quella di protezione minorile, come peraltro dichiarato dalla medesima Convenzione di New York, la valutazione circa la possibilità di consentire al minore l’ingresso in Italia ed il ricongiungimento con l’affidatario non può essere esclusa aprioristicamente solo in considerazione della natura negoziale della costituzione della kafalah, ma deve essere effettuata caso per caso in considerazione del superiore interesse del minore[26].



      [1] L’etimologia del termine Kafalah in arabo classico assume due diversi significati, da un lato quello di garanzia (damān) vocabolo impiegato in ambito contrattuale e commerciale, dall’altro quello di prendersi cura  (dalla radice del verbo ka-fala) utilizzato nell’ambito degli istituti di protezione dei minori abbandonati.

      [2] Cfr. Cass. Civ. 21395/05, Trib. Minori Trento del 05.03.2002 , Corte appello Bari 16.04.2004.

      [3] Maometto, Invictus Editore, sura 33 vv. 4-5 e 37:

       “4. Allah non ha posto due cuori nel petto di nessun uomo, né ha fatto vostre madri le spose che paragonate alla schiena delle vostre madri, e neppure ha fatto vostri figli i figli adottivi.* Tutte queste non son altro che parole delle vostre bocche; invece Allah dice la verità, è Lui che guida sulla [retta] via.

      *[Il versetto si riferisce ad una particolare forma di divorzio diffusa presso gli arabi al tempo del Profeta (pace e benedizioni su di lui) il “dhahr” (schiena). Il marito che voleva divorziare diceva alla moglie: “che tu sia per me come la schiena di mia madre” (cioè intoccabile). Il Corano condanna questa pratica che metteva la donna nella condizione di non poter avere rapporti con il marito, senza però lasciarla libera di disporre di sé e contrarre un altro matrimonio. Anche per quello che riguarda i figli adottivi, il Corano precisa che non possono essere considerati figli a pieno titolo. In particolare si ricorda il caso di Zaid ibn Hâritha che fu adottato dall’Inviato di Allah (pace e benedizioni su di lui) e che la gente chiamava Zayd ibn Muhammad. Dopo la rivelazione di questo versetto, la cui pregnanza, relativamente al caso di Zaid, viene ribadita dal vers. 40, fu ben chiara la volontà di Allah a questo proposito]

      5. Date loro il nome dei loro padri: ciò è più giusto davanti ad Allah. Ma se non conoscete i loro padri siano allora vostri fratelli nella religione e vostri protetti. Non ci sarà colpa per voi per ciò che fate inavvertitamente, ma per quello che i vostri cuori fanno volontariamente. Allah è perdonatore, misericordioso.

      37. [Ricorda] quando dicevi a colui che Allah aveva gradito e che tu stesso avevi favorito: “Tieni per te la tua sposa e temi Allah”, mentre nel tuo cuore tenevi celato quel che Allah avrebbe reso pubblico. Temevi gli uomini, mentre Allah ha più diritto ad essere temuto. Quando poi Zayd non ebbe più relazione con lei, te l’abbiamo data in sposa, cosicché non ci fosse più, per i credenti, alcun impedimento verso le spose dei figli adottivi, quando essi non abbiano più alcuna relazione con loro. L’ordine di Allah deve essere eseguito.

      [4] J. LONG, Ordinamenti giuridici occidentali, kafalah e divieto di adozione: un’occasione per riflettere sull’adozione legittimante, in La nuova giurisprudenza civile commentata, Volume 2, 2003, p.175

      [5] Ed in particolar modo con quello italiano che in seguito alla novella del 2012 ed al successive Decreto attuativo D.lgs 28 dicembre 2013, n. 154 ha introdotto l’unicità dello status di figlio. Cfr. Ferranti D., Superamento della discriminazione formale a cerico dei figli nati fuori dal matrimonio, in Filiazione Commento al Decreto attuativo, Milano, 2014, pag. 1.

      [6] I caratteri dell’istituto possono qui essere descritti solo in linee generali e comuni ai diversi ordinamenti di diritto islamico ed assumono nei diversi Paesi sfumature diverse, v’è da aggiungere poi che ulteriori particolari caratteri della kafalah possono dipendere dall’inserimento o meno nella sua forma negoziale di cui si accennerà in seguito di peculiari previsioni.  Per una panoramica della diversa disciplina della Kafalah adottata negli ordinamenti dell’area mediterranea si rinvia a CILARDO A., Il minore nel diritto islamico. Il nuovo istituto della kafalah, in ID. ( a cura di ), La tutela dei minori di cultura islamica nell’area mediterranea.

      [7] ORLANDI M., La kafalah islamica e la sua riconoscibilità quale adozione, in Dir. Famiglia, 2005, pp 2, 635.

      [8]Unlike the Euro-American understanding of plain adoption as creating family, Kafalah does not automatically imply the living of the person taken into kafalah with those who offer the kafalah, fori t may enact only a select number of provisions, such as a financisal prtection, a moral or physical guardianship, or a combination of some of them. It is a gift of care, however one chooses to implement it.Amplius Bargach J., Orphans of islam: family, Abandonment, and Secret Adoption in Morocco, New York, 2002, pag. 29.

      [9] Badrane K.. Il codice di famiglia in Marocco, ed. libreriauniversitaria.it, pag. 56.

      [10] In questo senso si è espressa la Corte d’appello di Torino con  Decreto del 28 giugno 2007. “ Con l’affido etero familiare la kafalah condivide la funzione educativa tipica e la possibile temporaneità degli effetti, che nell’affido è connaturale, essendo quest’ultimo istituto di protezione finalizzto proprio al rientro del fanciullo nella famiglia di origine, mentre nella kafalah ciò è solo possibile, posto che, al contrario, vi è una tendenziale proiezione dei suoi effetti fino a che il minore non raggiunga la maggiore età … è ben vero che adozione e kafalah presentano marcate differenze, la prima essendo irretrattabile e munita di effetto legittimante, li dove la seconda può venir meno ed è incompatibile con l’interruzione del rapporto tra minore e genitori biologici.”

      [11] La giurisprudenza è molteplice e di consolidato orientamento al riguardo si segnala Trib. min. Trento 11 marzo 2002, che, peraltro, ipotizza, stante la peculiare condizione del minore già presente sul territorio italiano il cui ritorno nel Paese di origine non sarebbe corrisposto al suo best interest, una maggiore attinenza della fattispecie all’adozione nei casi particolari. Al riguardo si rinvia alle interessanti considerazioni di GALOPPINI A., L’adozione del piccolo marocchino, ovvero gli scherzi dell’eurocentrismo; in Nuova giur. civ. comm., 2003, I, 149.

      [12] L’art. 20 della Convenzione di New York prevede che ogni minore temporaneamente o definitivamente privato del suo ambiente familiare abbia diritto ad una protezione e ad aiuti speciali, in particolare il comma terzo dell’articolo riconoscendo espressamente la kafalah recita: “Tale protezione sostitutiva può in particolare concretizzarsi per mezzo dell’affidamento familiare, della Kafalah di diritto islamico, dell’adozione o in caso di necessità, del collocamento in adeguati istituti per l’infanzia. Nell’effettuare una selezione tra queste soluzioni, si terrà debitamente conto della necessità di una certa continuità nell’educazione del fanciullo, nonché della sua origine etnica, religiosa, culturale e linguistica”. Amplius GELLI R., La Kafalah di diritto islamico: prospettive di riconoscimento nell’ordinamento Italiano, in Famiglia e diritto, n.1/2005, p.66

      [13] Amplius Campiglio C., Il diritto di famiglia islamico nella prassi italiana, in rivista di diritto internazionale privato e processuale, XLIV, 1, pag. 70.

      [14] Amplius Cesaro G.O., Lovati P., Mastrangelo G., La famiglia si trasforma. Status familiari costituiti all’estero e loro riconoscimento in Italia, tra ordine pubblico ed interesse del minore: Status familiari costituiti all’estero e loro riconoscimento in Italia, tra ordine pubblico ed interesse del minore, Milano, 2014, Pag. 39.

      [15] Amlpius Di Francia, La condizione giuridica dello straniero in Italia nella giurisprudenza, Milano, 2006, pag. 405; Terraciano U, Il ricongiungimento familiare dello straniero in Italia: Diritto all’unità familiare e dei minori, Frosinone 2015; Sirianni G., Il diritto degli stranieri all’unità familiare, Milano, 2006, Aneschi A., Rapporti tra genitori e figli: profili di responsabilità, Milano, 2007, pag. 462.

      [16] Il Servizio studi del Senato ha pubblicato uno studio sul Disegno di legge A.S. n. 1552-bis “Norme di adeguamento dell’ordinamento interno alla Convenzione sulla competenza, la legge applicabile, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione dei minori, fatta all’Aja il 19 ottobre 1996″ (disegno di legge) e, in particolare sulla scelta di stralciare dal disegno di legge di ratifica dell’indicata Convenzione, approvato l’11 giugno 2015 e in via di pubblicazione, le norme di adeguamento dell’ordinamento interno con riguardo alla kafalah, istituto presente in numerosi Paesi islamici.

      [17] In una prima fase la giurisprudenza, attenendosi ad una lettura restrittiva e strettamente letterale del dato normativo, negava il ricongiungimento familiare dei minori in Kafalah poiché non la riteneva equiparabile alla adozione, affidamento o tutela. Cfr. Trib. Reggio Emilia 9 febbraio 2005, Dir. imm. e citt., 2005, 2, 183 ss.

      [18] Cfr.  Trib. Firenze 9 novembre 2006, Quad. dir. e pol. ecclesiastica, 2007, 846; Trib. min. Reggio Calabria 10 ottobre 2006, Famiglia e minori, 2006, 2, 86;

      [19] Ruo M.G., The best interest of the child nella giuriprudenza della Corte europea dei diritti dell’ uomo, in Minori e giustizia, 2001, III, pag. 39 e ss.; Moro A. C., Manuale di diritto minorile, Bologna, 2002, pag. 35 e ss; Quadri E., L’interesse del minore nel sistema della legge civile, in Fam. dir., 1999, pag. 80 e ss.

      [20] Sulla dottrina di matrice anglo-americana che contrappone il carattere pragmatico dell’interesse di ogni singolo minore, teorizzando tanti interessi quanti sono i minori, in contrapposizione alla dottrina che vede nel best interest un bene astratto e generico dell’età minorile si rinvia a Stanzione M.G., Identità del figlio e diritto di conoscere le proprie origini, Torino, 2015, pag. 179, in particolare la nota 357; nonché Alston P., The best interests of the child: reconciling culture and human rights, Oxford, 1994; Freeman M., The Best Interest of the Child? In Family,  State and Law, I, Aldershot, 1999, pag. 11 e ss.

      [21] Tribunale per i Minorenni di Bologna, Ordinanza del 10 novembre 2014. “…non consentono al giudice di valutare, nel caso concreto, se risponda all’interesse del minore adottato il riconoscimento della sentenza straniera che abbia pronunciato la sua adozione in favore del coniuge del genitore, a prescindere dal fatto che il matrimonio del caso abbia prodotto effetti in Italia (come per la fattispecie del matrimonio tra persone dello stesso sesso)

      [22] In questo senso il Decreto del 4 dicembre 2013 con cui il Tribunale per i minorenni di Palermo per il quale l’omosessualità della coppia affidataria “può per ciò solo considerarsi ostativa all’affidamento eterofamiliare, tenuto conto, per un verso, dell’assenza nella normativa nazionale di una precisa disposizione al riguardo specificamente riferibile all’affido del minore che non versi in stato di abbandono, e, per altro verso, dell’ampio concetto di legame familiare quale elaborato – con esplicito richiamo alle unioni omosessuali – anche dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo (24.6.2010, Schalk e Kopf c/ Austria), in aderenza ai dettami della Carta di Nizza, che impedisce le discriminazioni fondate sul sesso e sull’orientamento sessuale”.

      [23]Cass. Civ. 3 Marzo 2008, n.7472, Cass. Civ. 2 Luglio 2008, n.18174, Cass. Civ. 17 Luglio 2008, n.19734.

      [24]Suprema Corte di Cassazione Sezioni Unite Civili, Sent. n. 21108 del 16 Settembre 2013.

      [25] Canaj E., Bana S.. Il diritto al ricongiungimento familiare e la sua tutela multilivello, Roma, 2014.  pag. 99

      [26]Amplius Masi M., La Cassazione apre alla kafalah negoziale per garantire in concreto il best interest of the child, in La nuova giurisprudenza civile commentata, Anno XXXI, n. 7-8, pag. 707 e ss.

      Media, comunicazione immigrazione

      Media, comunicazione immigrazione

      Dott. Marino D’Amore

      Università L.U.de.S., Lugano (Svizzera)

       Nell’universo semantico giornalistico-televisivo in realtà non sono solo i titoli a sottendere un velato razzismo, ma gli stessi termini che vengono utilizzati dai mass media per indicare i migranti: pensiamo ad “extracomunitario”, utilizzato quasi esclusivamente per indicare gli stranieri provenienti da paesi poveri, e spesso con accezione negativa, “clandestino” , “fondamentalista”, quest’ultimo quasi sempre integralista e musulmano. Dare una connotazione etnica alla notizia significa dare al lettore delle informazioni ulteriori, a volte ridondanti e non necessarie, per la comprensione dell’articolo, ma si rischia, inconsapevolmente o meno, di rafforzare pregiudizi già presenti Sono parole che escludono, alzando barriere invalicabili invece di catalizzare dinamiche dialogiche tra le diversi componenti della società. Tali termini spesso si utilizzano non pensando al loro significato profondo e agli effetti socio-semantici che possono avere sugli individui, sedimentandosi nella società e orientandone le scelte. Sono parole messe in circolo sia da chi sul rifiuto dello straniero ha costruito la propria identità politica, sia da chi, pur dichiarandosi antirazzista, rischia di sottomettersi alle paure e ai pregiudizi contro gli immigrati. Ad utilizzarle non solo giornalisti, ma anche intellettuali e politici, stigmatizzando i cosiddetti migranti e tutto ciò che si riferisce ad essi, alimentando sacche di razzismo e intolleranza. Nei confronti degli immigrati nasce e si diffonde una visione parziale e riduttiva, quasi interamente schiacciata sulla cronaca. Il fenomeno migratorio viene vissuto come costante “emergenza”, “invasione”, “problema da risolvere”. Ma facciamo un passo indietro, la storia può essere chiarificatrice e maestra in questo senso.

      Tra il XIX e il XX secolo eravamo noi, gli italiani ad emigrare, inseguendo soprattutto “the american dream”, pronti a cogliere le opportunità che quella terra offriva. Dopo il 1960 l’emigrazione dall’Europa decrebbe velocemente e nei primi anni ’70 la rotta dei flussi migratori cominciò ad invertirsi, con movimenti dai Paesi meno sviluppati a quelli industrializzati e quindi anche al nostro. Una folla eterogenea che fuggiva da persecuzioni politiche o religiose o semplicemente voleva avere un’opportunità per costruirsi un futuro migliore rispetto a quello che la propria terra d’origine poteva garantirgli. L’Italia ha costituito storicamente una delle mete di questo ingente flusso migratorio, trasformandosi da terra di emigrazione a terra di immigrazione. La consapevolezza di questo cambiamento non è avvenuta tramite una cognizione graduale: la questione della presenza straniera è esplosa improvvisamente nel mondo politico, sociale, culturale, nella quotidianità del Belpaese. L’effetto “sorpresa” ha fatto sì che, nell’immaginario collettivo, l’immigrazione stessa venisse percepita come prevaricazione e relegata nell’ambito semantico della problematicità: la marginalità degli immigrati, lo sfruttamento nel lavoro nero, la delinquenza e così via. Un immaginario condiviso che la rappresentazione mediatica ha contribuito a instaurare nei cittadini, avendo riportato didascalicamente sin dall’inizio la questione migratoria con toni allarmistici e drammatici, definendola quasi esclusivamente in termini di “invasione”, influenzando anche l’agenda politica, che ne parla in termini di “problema di sicurezza nazionale” e “interesse di ordine pubblico”.

      In termini generali, gli effetti dell’immigrazione evidenziati dalla letteratura scientifica vengono riassunti in: aumento demografico, trasformazione del mercato del lavoro, aumento della flessibilità e della precarietà, diverso uso degli spazi urbani, xenofobia e trasformazione delle identità culturali. Il sistema sociale si trasforma e con esso emerge il problema della regolazione della convivenza tra minoranza e maggioranza, ovvero tra immigrati e società d’accoglienza. A questo proposito comincia già a delinearsi l’uso di specifici termini per descrivere la forma assunta dagli insediamenti delle comunità straniere: Un primo termine, che in realtà appartiene alla storia delle migrazioni del passato, è quello di “colonia etnica”: esso descrive il risultato di un’immigrazione di massa in una determinata area in un Paese straniero. Il termine colonia è solitamente riferito a regioni che si presentavano, all’arrivo degli immigrati, prive di popolazione o comunque poco popolate. Tale termine può essere altresì utilizzato, per estensione, per descrivere raggruppamenti di connazionali in determinate aree o quartieri delle grandi città, ai quali si è soliti riferirsi con appellativi quali, per citarne due particolarmente noti, Little Italy o China Town. A questo termine si accompagna “ghetto”, nel senso di: segregazione in cui spesso vivono gli immigrati in conseguenza delle loro condizioni di povertà e di estraneità agli usi e costumi della società d’accoglienza. Il concetto di ghetto comunque, se è senza dubbio pertinente a descrivere la realtà di molte città americane, appare non altrettanto consono ad essere applicato all’esperienza europea, ove è più facile rilevare, in particolare nei quartieri coinvolti in processi di degrado sociale e urbano, la convivenza indifferenziata di stranieri e autoctoni appartenenti agli strati più bassi della gerarchia sociale. Appare chiaro come, qualunque sia la tipologia d’inserimento degli immigrati, questi ultimi tendano ad essere mal sopportati dai cittadini: questi ultimi li assumono spesso come capri espiatori di situazioni di disagio e degrado che hanno cause non riconducibili, quantomeno immediatamente, al fenomeno dell’immigrazione[1].

      Nonostante la grande varietà di teorie sul tema, possiamo ammettere con certezza che i mezzi di comunicazione svolgono un ruolo centrale per la società contemporanea e per i processi ad essa sottesi, perché i media non svolgono soltanto la mera funzione di informare. Infatti, oltre alla funzione denotativa, essi svolgono una funzione connotativa, con implicazioni emotive e affettive, e una terza funzione, ancora più complessa, che è quella simbolica. Dunque l’informazione non è mai fine a se stessa, ma si accompagna con una visione del mondo predeterminata dagli stessi media e insita nel messaggio.
      Questo significa che i mezzi di comunicazione influenzano la rappresentazione della realtà sociale in funzione del loro ruolo di mediazione simbolica. Il loro ruolo di produttori, perfino di creatori, di notizie è di uguale importanza. Tuttavia, per quanto sia più o meno distorta intenzionalmente, l’immagine del mondo è sempre definita da una qualche prospettiva, messa a fuoco da qualche lente determinata.

      Un primo aspetto da sottolineare è che il difetto di comunicazione sugli immigrati si inscrive in un quadro più complessivo di inadeguata rappresentazione dei diversi soggetti sociali: la strumentalizzazione dell’immagine infantile e la parzialità della rappresentazione delle donne nei media. Nel complesso, quello che possiamo definire un vero e proprio difetto comunicativo può essere ricondotto ad alcune dimensioni caratterizzanti:

      – la tendenza alla drammatizzazione dell’informazione e alla spettacolarizzazione del quotidiano;

      – la tendenza all’uso di un linguaggio che privilegia la dimensione emotiva piuttosto che quella razionale;

      – la superficialità nella verifica delle fonti a favore di un messaggio a effetto;
      – la carenza di funzione  e fruizione critica dei prodotti di comunicazione[2].

      In questi esempi emerge la capacità dei media di alimentare la cosiddetta “paura del diverso”, comunque presente nella nostra società, esacerbando la dimensione problematica e conflittuale dell’immigrazione, quando, invece, in un’ottica globale e nel rispetto delle più elementari e reciproche regole di uguaglianza e solidarietà, sarebbe raccomandabile un approccio meno semplicistico al fenomeno. Nella società occidentale moderna, i mezzi di informazione svolgono un ruolo fondamentale in quanto non si limitano a catalizzare l’attenzione del pubblico su determinati argomenti, ma ne costruiscono una rappresentazione che viene, poi, generalmente, adottata da chi ascolta o legge come “la” rappresentazione, oggettiva ed incontrovertibile; ciò è tanto più vero nei confronti di quelle persone che non hanno conoscenze personali o esperienze dirette da confrontare con quanto sostenuto dai media e che, dunque, hanno a propria disposizione quella verità mediata; questi soggetti particolarmente deboli sono portati a credere incondizionatamente a quanto viene offerto dai media, in particolar modo ai media audiovisivi che ha, rispetto agli altri mezzi di comunicazione, anche il vantaggio di dare l’illusione di osservare un fenomeno con i propri occhi, mentre, in realtà, sono occhi altrui a selezionare cosa farci vedere. Stante questa enorme importanza dei mezzi di comunicazione ed il loro potere di influire sulle percezioni della realtà da parte di una massa di fruitori dei loro servizi, è tragico notare come, solitamente, scarsissimo sia lo spazio, non solo all’interno dei (tele)giornali, ma anche dei programmi più specificatamente dedicati al tema in questione, lasciato all’approfondimento e alla problematizzazione: del resto, il lavoro di una redazione giornalistica risulta, spesso, così complesso che, per ridurre tempi ed energie, si ricorre a tecniche di standardizzazione utili a razionalizzare e semplificare il lavoro, ottenendo, però, come effetto principale quello di banalizzare, appiattire, semplificare. In questo modo, la continua ripetizione di immagini (sbarchi, gommoni carichi fino all’inverosimile,…) e di espressioni (“emergenza immigrazione”, “ennesimo sbarco di clandestini”,…) stereotipate, oltre ad avere un effetto “ansiogeno” e a contribuire, dunque, alla diffusione del panico e alla “sindrome dell’invasione”, ne ha, paradossalmente, anche uno, per così dire, “abitudinario”: l’abitudine è un ottimo mezzo per fare diventare qualunque cosa insignificante; unita poi ad una pressoché totale mancanza di approfondimento, non solo impedisce di considerare i diversi aspetti del problema, riducendo i fenomeni dell’immigrazione, della clandestinità e della criminalità ad un unico indifferenziato fenomeno, ma porta anche e soprattutto a pensare che tutto ciò sia assolutamente normale (il bisogno di fuggire, i viaggi disperati, gli sbarchi in mezzo al mare, la considerazione che l’opinione pubblica ha dell’immigrato), mentre non lo è, non lo può essere e ci si dovrebbe chiedere se davvero stiamo rispettando i valori propri di una società democratica[3].

      È proprio questa superficialità, comunque, che sembra essere richiesta dal pubblico che non fruisce criticamente, un pubblico evidentemente poco propenso ad approfondire ed analizzare a fondo i problemi, magari astraendoli dal quotidiano fatto di cronaca e molto più interessato ad individuare un nemico comune, un capro espiatorio, dunque a soddisfare un bisogno emotivo: il pubblico “percepisce la situazione solo dal versante degli effetti negativi” perché è così che si vuole che essa venga rappresentata ed è così che essa, puntualmente, ci viene descritta.

      Il problema in questione, dunque, non è creato dai mezzi di comunicazione, , ma è già presente nella società, nella sua cultura (la quale, a sua volta, è influenzata in maniera decisiva dai media, secondo dinamiche meccanicistiche; è evidente, infatti, che una certa “paura del diverso”, quando non addirittura vere e proprie forme di xenofobia, è latente nella nostra società. D’altronde, la trattazione giornalistica di un tema dipende anche e soprattutto dall’attenzione che in un certo periodo viene dedicata dall’opinione pubblica al tema stesso: per quello che riguarda il nostro paese, se fino alla seconda metà degli anni ’80 la percezione del problema era assai scarsa, successivamente anche gli italiani hanno dovuto rendersi conto di essere diventati, da paese di emigranti (il che non dovrebbe essere mai dimenticato) a paese a forte immigrazione e, di conseguenza, anche i mezzi di comunicazione hanno cominciato ad occuparsi del fenomeno, generalmente in seguito al verificarsi di eventi particolarmente drammatici che lo hanno imposto all’attenzione dell’opinione pubblica.

      Un processo di formazione potrebbe essere agevolato proprio dai mezzi di comunicazione, tentando di abbattere questo muro di pregiudizi: un passo avanti sarebbe, indubbiamente, rappresentato, ad esempio, dall’inserimento nelle redazioni di autori o collaboratori provenienti da paesi di emigrazione, dal momento che, generalmente, quando si parla di immigrati, manca sempre il “loro” punto di vista: è evidente, infatti, che un immigrato ospite di un talk-show o semplicemente intervistato all’interno di un “servizio” non ha la stessa possibilità di un autore di un programma televisivo di interpretare il fenomeno del conflitto etnico e della discriminazione e, anzi, rischia spesso di incentrare il discorso eccessivamente sul proprio caso, sul singolo episodio di cronaca che lo ha riguardato, lasciando in secondo piano il tema nella sua portata generale; il sospetto, ancora una volta, però, è che il vero scopo sia proprio questo: invitare il singolo, fargli raccontare la sua triste storia perché, la TV verità raccoglie molti consensi tra il pubblico, evitando accuratamente di addentrarsi nel cuore del problema. Sarebbe raccomandabile, da parte di chi “fa” informazione, un atteggiamento meno propenso alla ricerca della spettacolarizzazione, meno “schiavo degli ascolti” e più orientato verso l’analisi e l’approfondimento, al fine di astrarre i problemi dal caso particolare, dall’episodio, per cercare di giungere, se non alla loro soluzione, quantomeno ad un’impostazione più oggettiva che permetta all’opinione pubblica, che sarà, poi, quella che entrerà in contatto diretto con gli immigrati, di cogliere a fondo l’origine di questi problemi e le loro diverse sfaccettature, in un’ottica non più unidimensionale di semplice contrapposizione “noi”/”loro”. Questo non è un problema esclusivo dell’immigrazione, ma riguarda anche altri importanti fenomeni, generalmente di reazione al sistema, di critica della società in cui viviamo che vengono, in genere, anziché affrontati dialetticamente e sulla base di fatti oggettivi, “etichettati” il più in fretta possibile e nel modo peggiore per evitare che possano trovare adesioni anche fra il “grande pubblico”[4].

      Tutti aspetti che ostacolano la fondamentale e necessaria pluralità dell’informazione a cui il pubblico dovrebbe sempre avere diritto e che dovrebbe richiedere a gran voce quando gli viene negata.

      BIBLIOGRAFIA

      1. D. Beetham, La teoria politica di Max Weber, Il Mulino,  Bologna 1989.
      2. M. Boschi, La violenza politica in Europa: 1969-1989. Yema editore, Milano  2005.
      3. F. Ferraresi, Il fantasma della comunità. Concetti politici e scienza sociale in Max Weber, Franco Angeli, Milano 2003.
      4. R.Fortner, International communication : history, conflict, and control of the global metropolis, Wadsworth,  Belmont 1993.
      5. M. Giacomarra, Al di qua dei media, Meltemi, Roma, 2000.
      6. A. Giddens,  Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, Bologna, Il Mulino 2000.
      7. P.Musarò, P. Parmiggiani, Media e migrazioni, Franco Angeli, Roma 2004
      8. H. Jenkins, Convergence Culture. Where Old and New Media Collide, New York University Press, New York e Londra 2006.

      [1] F. Ferraresi, Il fantasma della comunità. Concetti politici e scienza sociale in Max Weber, Franco Angeli, Milano 2003.

      [2] P.Musarò, P. Parmiggiani, Media e migrazioni, Franco Angeli, Roma 2004.

      [3] A. Giddens,  Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, Bologna, Il Mulino 2000.

      [4] M. Giacomarra, Al di qua dei media, Meltemi, Roma, 2000.