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Pandemia e uffici giudiziari

Dal Webinar su Pandemia e Green Pass

Nel D.L 2021/127 – recante Misure urgenti per assicurare lo svolgimento in sicurezza del lavoro pubblico e privato mediante l’estensione dell’ambito applicativo della certificazione verde COVID-19 e il rafforzamento del sistema di screening. (21G00139) Decreto-Legge convertito con modificazioni dalla L. 19 novembre 2021, n. 165, in G.U. 20/11/2021, n. 277 – allo scopo preciso di ridurre il rischio del contagio e con intento persuasivo, nonché di sensibilizzazione, si disciplina l’obbligo del Green Pass negli uffici giudiziari. In tali sedi operano magistrati, ausiliari e cancellieri, impiegati, avvocati, parti processuali e terzi (es. fornitori, volontari, accompagnatori, ecc.), i quali devono essere in possesso e pertanto esibire su richiesta il Green Pass. I dipendenti, se privi di Green Pass, a differenza degli avvocati, si considerano assenti ingiustificati. Pertanto vi è differenza tra i vari soggetti (artt. 1, 2 e 3). Si sono pertanto posti dubbi interpretativi su tali norme (nello specifico sul comma 8 dell’art. 2), così come in ambito Privacy /UE 2016/679 e D. Lgs. 196/03). Sussiste quindi un problema di compatibilità degli obblighi da parte degli avvocati con la loro connaturale autonomia ed indipendenza professionale? Può considerarsi un luogo di lavoro per i liberi professionisti la sede degli uffici giudiziari?

In realtà la pandemia da molto prima della normativa suddetta aveva travolto – e stravolto – in brevissimo tempo abitudini, prassi, norme del settore pubblico e privato, dei cittadini e di tutta l’organizzazione giudiziaria. L’emergenza si è innestata in un complesso scenario, di per sé già lacunoso, carente e con scarsità di risorse e mezzi. Dal blocco di molti processi nell’immediato alla ipertrofia normativa, in un contesta di dubbia costituzionalità e continue deleghe. Lo stesso Ordine degli Avvocati di Roma, che già aveva dato un forte impulso alla comunicazione sul sito con un significativo restyling, ha dovuto fare uno sforzo imponente per raccogliere e postare informazioni ufficiali, definire protocolli, predisporre vademecum, orientare gli avvocati, la cui attività professionale si è trovata impattata e cambiata in pressoché tutti gli ambiti, tanto gli studi piccoli quanto i grandi, con i loro collaboratori, così come i detenuti, i terzi, le cancellerie e gli uffici giudiziari.

I detenuti, già in condizioni di isolamento, hanno ulteriormente vissuto privazioni nelle visite dei familiari, i contagi nei carceri hanno messo in luce le criticità della medicina intramuraria, la polizia penitenziaria è stata esposta ai contagi, vittime vi sono state in entrambe le compagini e i casi di cronaca su sommosse e disordini in carcere sono noti. I difensori hanno inaugurato una stagione di colloqui audiovideo a mezzo dispositivi in dotazione degli istituti penitenziari.

Per i clienti e gli assistiti sono sorti subito problemi quali la firma della procura (a distanza), lo scambio e predisposizione di documentazione originale, la presenza in udienza, il ricevimento in studio. I bisogni sono cambiati, si sono aperte questioni giuridiche massive su tematiche giuslavoristiche, familiari, economiche e di accesso al credito e ai fondi, è cambiato il concetto di rischio e di responsabilità in molti ambiti.

I processi hanno visto in parte la sospensione dei termini, sospensione sulla quale sono stati numerosi gli sforzi e i dubbi interpretativi ed applicativi nelle singole peculiarità e dei conseguenti obblighi, il processo orale è stato amputato in alcune fasi, protocolli, faq, vademecum si sono avvicendati in modo entropico e schizofrenico, generando confusione e difficoltà. In un Paese piuttosto votato alla burocrazia e formalismi la remotizzazione e de materializzazione non poteva avvenire certo in pochi mesi, tantomeno in quelli “cuscinetto”. Dalle PEC alle videoconferenze, dai biglietti di cancelleria alle trattazioni scritte, dai depositi sui portali, gli operatori di giustizia tutti si sono divisi tra chi ne ha colto l’opportunità per una trasformazione della giustizia e chi ha evidenziati limiti e perplessità, di certo però la giustizia in questa fase ha dimostrato la sua altissima funzione sociale.

Riferimenti

Avv. Federica Federici

Commento all’ordinanza n. 6033/2020 del 16/11/2020 resa dal Tribunale di Milano in merito all’eventuale obbligo di segnalazione, ex art. 125 TUB, in Centrale dei Rischi del debitore ceduto da parte del creditore cessionario

Andrea Ravelli

Premessa.

Nell’ambito della cessione dei crediti una delle principali eccezioni che da ultimo, quasi per moda, viene sollevata dal debitore ceduto è l’eventuale assenza della notifica del preavviso di segnalazione che di cui è onerato il creditore ceduto ed eventualmente, a dire dei medesimi debitori ceduti, anche il creditore cessionario. Il Tribunale di Milano, con la recentissima ordinanza n. 6033/2020 del 16/11/2020, interviene a chiarire quale ruolo ha il cessionario del credito rispetto alle previsioni ex art. 125 TUB in merito al preavviso di segnalazione in Centrale dei Rischi da trasmettere al mutatario inadempiente.

Si tratta di affrontare in buona sostanza il tema relativo agli (eventuali) adempimenti prescritti al cessionario a seguito di operazioni di cessione pro soluto di crediti ai sensi del combinato disposto degli artt. 1 e 4 della L. n. 130 del 30/04/1999 e dell’art. 58 del D.Lgs. n. 385 del 01/09/1993.

Risulta, infatti, elevato il numero di contenziosi con oggetto questa eccezione che si instaurano tra il cessionario ed il debitore ceduto, volti ad ottenere da quest’ultimo la cancellazione della segnalazione del proprio nominativo dalla Centrale dei Rischi istituita presso la Banca d’Italia e ciò attraverso la contestazione, da un lato, del mancato preavviso di segnalazione e, dall’altro, della mancata complessiva valutazione patrimoniale del debitore ceduto.

Previsioni normative.

Ora, per quanto riguarda la questione relativa al presunto obbligo in capo al cessionario di rivolgere un preavviso di segnalazione al debitore ceduto, occorre evidenziare preliminarmente come le norme che intervengono a supporto, risultano principalmente le seguenti:

  • art. 125, III comma, Testo Unico Bancario, ai sensi del quale i finanziatori informano preventivamente il consumatore la prima volta che segnalano a una banca dati le informazioni negative previste dalla relativa disciplina. L’informativa è resa unitamente all’invio di solleciti, altre comunicazioni, o in via autonoma;
  • la Circolare n. 139 del 11 febbraio 1991 della Banca d’Italia, Capitolo I Sezione 1 paragrafo 4: il cliente consumatore, ai sensi dell’articolo 125 del T.U.B., va informato quando, per la prima volta, viene classificato “negativamente” (ossia quando si evidenzia un inadempimento persistente o una sofferenza); tale informativa deve essere preventiva, cioè va trasmessa prima dell’invio della prima segnalazione “negativa”.

Per garantire l’inoltro delle segnalazioni nei termini previsti, l’intermediario può – se necessario previa integrazione del contratto di finanziamento – preavvertire il debitore/consumatore anche attraverso l’uso di mezzi elettronici o telematici, quali ad esempio e-mail o sms, che consentano il tempestivo e sicuro recapito dell’informazione.

E’ utile segnalare poi come unanime giurisprudenza degli ultimi anni definisce la questione sorta tra cessionario del credito e debitore ceduto sostenendo la seguente, condivisibile, tesi: le istruzioni della Banca d’Italia (circolare n. 139 del 11 febbraio 1991, Capitolo I Sezione 1 paragrafo 4) prevedono che gli intermediari debbano informare per iscritto il cliente (e gli eventuali coobbligati) in occasione della “prima” segnalazione a sofferenza; se il cliente, inoltre, è un consumatore, le istruzioni ribadiscono come, ai sensi dell’art. 125 comma 3 T.U.B., il medesimo vada informato preventivamente quando, “per la prima volta”, viene classificato negativamente, ossia quando si evidenzia un inadempimento persistente o una sofferenza; tale informativa deve essere preventiva, ossia deve essere trasmessa prima dell’invio della segnalazione negativa.

Conclusioni.

Alla luce delle considerazioni suesposte e include nella citata pronunzia di merito, è possibile affermare, pertanto, che in caso di cessione di un credito a sofferenza, il cessionario intermediario che è tenuto obbligatoriamente a procedere alla segnalazione non deve nuovamente informare il cliente, consumatore o meno che sia (si confronti Trib. Milano 15.6.2018).

La recentissima ordinanza resa dal Tribunale di Milano oggetto di commento (ordinanza n. 6033/2020 del 16/11/2020) conferma l’obbligo della cessionaria di segnalare in continuità senza necessità di un nuovo preavviso e di una nuova valutazione dello stato di quasi insolvenza.

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Normativa emergenziale Covid-19 e locazioni: gli obblighi del conduttore

Avv. Giuliana Degl’Innocenti

 

Preliminarmente mi si conceda di osservare come l’esercizio legittimo del diritto di recesso del conduttore per gravi motivi oppure – se contemplato nel dettato contrattuale a prescindere da essi – comporta il solo venir meno del rapporto negoziale; pertanto non esime il conduttore dall’obbligo di corrispondere i canoni maturati durante il semestre di preavviso.

Concentrerò la presente trattazione della tematica in oggetto, appunto, sull’analisi delle conseguenze giuridiche relative al mancato versamento dei canoni di locazione di immobili durante il lockdown da parte delle imprese che hanno dovuto forzatamente sospendere la propria attività (con azzeramento del proprio fatturato) in conseguenza della normativa d’emergenza adottata dal Governo per fronteggiare la pandemia, nonché sulle conseguenze riguardanti la mancata corresponsione delle rate locatizie da parte dei conduttori di immobili non commerciali in costanza di confinamento.

Significative pronunce di merito sulla questione:

 

Esaminando le misure urgenti emanate nella fase d’emergenza, si nota in via generale un contegno cauto e prudenziale da parte del Giudicante che, quasi in attesa della definizione di una normativa dedicata, in continua e convulsa evoluzione, oppure del corroborarsi di quella esistente, evita di opzionare scelte potenzialmente pregiudizievoli, rinviando la decisione alla avvenuta integrazione del contraddittorio.

A titolo di esempio,  citerò quanto stabilito dal Tribunale di Venezia con provvedimento emanato il 14 aprile 2020 in un procedimento cautelare ex articolo 700 c.p.c., avviato dal conduttore di un immobile adibito ad uso commerciale che aveva avanzato richiesta di adozione di una misura urgente per precludere al locatore l’escussione della fideiussione rilasciata a garanzia del pagamento dei canoni. Il Giudice ritenendo possibile l’approvazione di un’ulteriore disciplina normativa emergenziale, ha disposto che la banca non pagasse quanto richiesto dal beneficiario della fideiussione.

Sul medesimo versante si inquadra pure  il decreto emesso dal Tribunale di Bologna il 12 maggio 2020, con il quale anche in virtù della pendenza di trattative tra i contendenti, è stato disposto che il locatore di un locale ad uso commerciale non mettesse all’incasso gli assegni bancari, ricevuti dall’inquilino posti a garanzia dei canoni non corrisposti per i mesi di aprile-luglio 2020, allo scopo di scongiurare il verificarsi delle conseguenze pregiudizievoli per il debitore in caso di incasso dei titoli e mancato pagamento per difetto di provvista (segnalazione al CAI e de plano divieto di sottoscrivere nuovi assegni, divieto di emissione dei ridetti titoli di credito e iscrizione del protesto da parte del pubblico ufficiale).

Evidenzio altresì, come con ordinanza del 29 maggio 2020 emanata all’interno di un procedimento cautelare ex articolo 700 c.p.c. avviato dal conduttore di un ramo d’azienda, il Tribunale di Roma, nell’accertare che “non vi è alcuna norma di carattere generale che preveda una sospensione dell’obbligo di corrispondere i canoni di locazione” impone di prendere atto che “il legislatore ha inteso, in relazione a talune fattispecie, di assumere iniziative di agevolazione ma nulla ha voluto disporre in ordine al quantum ed al quando del pagamento dei canoni locatizi commerciali o di affitto di azienda”, stabilendo così l’impossibilità di applicare “alcuna norma sospensiva dell’obbligo di pagamento di canoni di affitto di azienda tratta dalla disciplina emergenziale ad oggi adottata, per la ragione – tanto semplice quanto decisiva – che una norma di tal fatta non esiste” e, dunque, l’impossibilità di assumere una misura cautelare di semplice differimento dei termini negoziali di corresponsione delle rate di affitto.

Secondo la Giustizia adita, il richiamo al principio di buona fede sancito nelle disposizioni degli articoli 1175 e 1375 Codice Civile, pur rilevante, non convince, in quanto, se da un lato questa regola si traduce nel dovere di ogni contraente di soddidfare l’interesse della controparte, imponendo una condotta che, al di là da precisi obblighi negoziali e dal dovere del neminem laedere, sia in grado di tutelare gli interessi dell’altra, non può cagionare un deciso mutamento delle obbligazioni principali del contratto, appunto sia nelle tempistiche sia nella misura di versamento del canone, in quanto “rischierebbe di minare la possibilità, per le parti, di confidare nella necessaria stabilità degli effetti del negozio (quanto meno, i principali) nei termini in cui l’autonomia contrattuale li ha determinati. Allo stesso modo il Tribunale di Roma, rileva in una fattispecie analoga alla precedente che non potrebbe applicarsi l’articolo 1467 Codice Civile riguardante l’eccessiva onerosità sopravvenuta, essendo strumento incompatibile con la conservazione del dettato negoziale e capace soltanto di determinarne lo scioglimento.

La ricordata Giustizia di merito, infatti, interpretando le norme in chiave di ricostruzione dell’equilibrio contrattuale e di conservazione del vincolo obbligatorio, fa riferimento invece allo strumento dell’impossibilità temporanea, applicando in combinato disposto l’articolo 1256 Codice Civile (disposizione generale in materia di obbligazioni) e l’articolo 1464 Codice Civile (disposizione speciale in tema di contratti a prestazioni corrispettive)  sancendo che “nel caso di specie ricorre una (del tutto peculiare) ipotesi di impossibilità della prestazione della resistente allo stesso tempo parziale (perché la prestazione della resistente è divenuta impossibile quanto all’obbligo di consentire all’affittuario, nei locali aziendali, l’esercizio del diritto a svolgere attività di vendita al dettaglio, ma è rimasta possibile, ricevibile ed utilizzata quanto alla concessione del diritto di uso dei locali, e quindi nella più limitata funzione di fruizione del negozio quale magazzino e deposito merci) e temporanea (perché l’inutilizzabilità del ramo di azienda per la vendita al dettaglio è stata ab origine limitata nel tempo, per poi venir meno dal 18 maggio 2020)”.

De plano, seguendo il ragionamento condotto dal Tribunale capitolino, le ripercussioni della pandemia sul contratto “non sono dunque né solamente quelle della impossibilità totale temporanea (che comporterebbe il completo venir meno del correlato obbligo di corrispondere la controprestazione) né quelle della impossibilità parziale definitiva (che determinerebbe, ex articolo 1464, una riduzione parimenti definitiva del canone): trattandosi di impossibilità parziale temporanea, il riflesso sull’obbligo di corrispondere il canone sarà dunque quello di subire, ex articolo 1464 Codice Civile una riduzione destinata, tuttavia, a cessare nel momento in cui la prestazione della resistente potrà tornare ad essere compiutamente eseguita”.

Il Giudice stabilisce, quindi, che il locatore ha potuto eseguire (anche se senza colpa, ma per factum principis) durante il lockdown una prestazione solo parzialmente conforme al dettato contrattuale, dunque ha ritenuto che il conduttore avesse diritto ex articolo 1464 Codice Civile a una riduzione del canone limitatamente al solo periodo di impossibilità parziale, riduzione da effettuarsi, nel quantum, con riferimento: a) alla sopravvissuta possibilità di utilizzazione del ramo di azienda nella più limitata funzione di ricovero delle merci, correlata al diritto di uso dei locali; b) al fatto che il ramo di azienda è pur sempre rimasto nella materiale disponibilità della ricorrente.

In conclusione, pertanto si può affermare che il Tribunale di Roma, pur stimolando le parti a percorrere la via della ricerca di un accordo, sia intervenuto concretamente nel regolamento contrattuale e nella regolamentazione del rapporto obbligatorio, giudicando equa una riduzione dell’ammontare del canone mensile del 70% per i mesi di sospensione dell’attività economica.

Le pronunce della Giurisprudenza di legittimità sul punto:

Evidenzio subito come la Corte di Cassazione abbia offerto un contributo significativo in ordine alla regolamentazione delle conseguenze relative all’emergenza da Covid-19 che si ripercuotono sulle obbligazioni contrattuali (come, appunto, la locazione) attraverso la Relazione dell’Ufficio del Massimario dell’8 luglio 2020 n. 56.

Detta Relazione analizza gli istituiti tradizionali nonché le misure normative sostanziali relative al diritto emergenziale in ambito contrattuale e concorsuale.

Sarà sufficiente che rammenti come la Suprema Corte stabilisca chiaramente come l’istituto della impossibilità parziale di cui all’articolo 1464 Codice Civile possa difficilmente trovare applicazione ai contratti di locazione, anche di beni produttivi, “dal momento che la prestazione di concessione in godimento rimane possibile e continua a essere eseguita quand’anche per factum principis le facoltà di godimento del bene risultino momentaneamente affievolite”.

“Nel contratto di durata – viene osservato nella  Relazione – la prestazione del locatore continua ad essere resa benché l’utilità che il conduttore ne ricava sia allo stato depressa. Fare perno sulle disposizioni in materia di impossibilità sopravvenuta per smarcare in tutto o in parte il locatario dal pagamento del canone vuol dire correggere l’alterazione dell’equilibrio contrattuale, dislocando una porzione delle conseguenze finanziarie del Covid da una parte all’altra del contratto, ma sulla base di una considerazione che appare ispirata al buon senso, più che al rigore giuridico”.

In relazione poi allo strumento dell’eccessiva onerosità sopravvenuta, la Cassazione ne afferma il ricorso nell’attuale contingenza socio-economica, dovendosi attribuire al fenomeno pandemico i caratteri di straordinarietà, imprevedibilità e inevitabilità previsti dalla disciplina codicistica. Tale rimedio può rivelarsi, però, secondo i Giudici di Piazza Cavour, scarsamente utile nella prassi, a causa appunto, delle conseguenze falcidianti e non conservative del negozio, il quale può essere salvato soltanto dalla parte avvantaggiata dalla sopravvenienza e, pertanto, con il minor interesse alla riconduzione ad equità del dettato contrattuale.

Segnalo, altresì, come con precipuo riferimento alle obbligazioni pecuniarie, all’interno della Relazione si stabilisca che “il mancato o tardivo pagamento di somme dovute rimane, allo stato, e in linea di principio, ingiustificato e imputabile. Pur nel quadro costituzionale del principio solidaristico, il concetto di impossibilità della prestazione non ricomprende, infatti, la c.d. impotenza finanziaria, per quanto determinata dalla causa di forza maggiore in cui si compendia l’attuale emergenza sanitaria. Il principio non scalfito rimane quello che nega all’impotenza in questione, sebbene incolpevole, una vis liberatoria del debitore dall’obbligazione pecuniaria”.

In base al principio giuridico espresso dall’antico brocardo genus numquam perit, “non può esservi impossibilità oggettiva e assoluta di procurarsi il denaro per adempiere, essendo il denaro un bene generico e imperituro”.

Peraltro la Cassazione sancisce anche come la disposizione che obbliga le parti a comportarsi secondo correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 Codice Civile) si inserisce nel quadro delle norme imperative di legge che vincolano e regolano l’autonomia privata. Nel particolare momento oggetto della presente indagine, tale principio deve tradursi nel dovere di rinegoziare un negozio squilibrato.

Quindi seguendo il ragionamento dei Giudici di legittimità  il precetto della buona fede contrattuale genererebbe l’imposizione in capo alle parti di “rendersi disponibili alla modificazione del contatto, allorché la parte interessata a mantenere in essere un rapporto in senso aderente alla concreta realtà del mercato inviti l’altra a rinegoziare”, ingenerando quindi il dovere di quest’ultima di avviare la rinegoziazione in modo concreto, secondo i principi scaturenti, dalla clausola generale di buona fede.

Come vengono regolate le controversie scaturenti dalla pandemia da Covid-19:

Dopo aver passato in rassegna le principali posizioni assunte dalla Giurisprudenza di merito e di legittimità sul contenzioso scaturente dall’emergenza epidemiologica, ritengo opportuno dare conto di come il Legislatore, ha inteso regolare la materia in oggetto – in un’ottica di decongestionamento del contenzioso giudiziario – e abbia reso obbligatorio il preventivo ricorso all’istituto più utilizzato tra quelli di Alternative Dispute Resolution (ADR), ovvero la mediazione per risolvere le vertenze sorte a causa del lockdown a seguito della pandemia da Covid -19.

Analizzando la normativa sul punto osservo infatti che: il comma 1-quater dell’articolo 3 del Decreto-Legge 30 aprile 2020, n. 28, inserito in sede di conversione dalla Legge 25 giugno 2020, n. 70, ha aggiunto all’articolo 3 del Decreto-Legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito con modificazioni dalla Legge 5 marzo 2020, n. 13, il comma 3-ter secondo il quale:

“Nelle controversie in materia di obbligazioni contrattuali, nelle quali il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto, o comunque disposte durante l’emergenza epidemiologica da COVID-19 sulla base di disposizioni successive, può essere valutato ai sensi del comma 6-bis, il preventivo esperimento del procedimento di mediazione ai sensi del comma 1-bis dell’articolo 5 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, costituisce condizione di procedibilità della domanda”.

Detto articolo il quale è entrato in vigore il giorno successivo a quello di pubblicazione della Legge n. 70/2020 in Gazzetta Ufficiale e, pertanto, il 30 giugno 2020, aggiunge quindi un nuovo caso di mediazione obbligatoria per tutte le vertenze incentrate su obbligazioni nascenti da un contratto in cui l’inadempimento di una delle parti sia stato causato, anche solo in ipotesi, dal rispetto delle misure di contenimento disposte durante l’emergenza epidemiologica, da valutarsi, al contempo, per l’esonero della responsabilità per il ritardato, l’inesatto o il mancato adempimento dell’obbligazione assunta ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 Codice Civile (articolo 3, comma 3-bis, Decreto Legge 23 febbraio 2020, n. 6).

L’orientamento seguito dal Legislatore è quello di privilegiare la conservazione del rapporto obbligatorio valutando in modo meno severo gli effetti dell’inadempimento del debitore.

E’ pertanto ovvio come si sia cercato di stimolare in tutti i modi la ricerca e il raggiungimento di un’intesa tra le parti, allo scopo di garantire la sussistenza del vincolo obbligatorio attraverso la rinegoziazione del contratto, il ristabilirsi dell’equilibrio negoziale e la compartecipazione del proprietario alla temporanea difficoltà economica del proprio inquilino (vedasi sul punto la Relazione sopra menzionata: “Il venir meno dei flussi di cassa è un contagio diffuso, rispetto al quale la terapia non è la cesura del vincolo negoziale, ma la sospensione, postergazione, riduzione delle obbligazioni che vi sono annesse”), o regolarne in modo meno gravoso per il conduttore inadempiente gli effetti dello scioglimento del medesimo.

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La fotografia nell’era digitale e dei social network

Avv. Giorgia Crimi

La fotografia nell’era del digitale e dei social media subisce l’influenza di tre fenomeni, due di tipo tecnologico e uno sociale che ne hanno rivoluzionato, condizionato ed eroso la tutela autoriale.
Il primo fenomeno è costituito dal passaggio al digitale che ha portato alla smaterializzazione, alla evaporazione della fotografia.
Non solo l’immagine ritratta non è più fissata su una pellicola, venendo tradotta in un codice binario, su supporto informatico, ma nel passaggio dall’analogico al digitale, viene meno anche la stampa, che non costituisce più un passaggio indefettibile per fruire del risultato.

La facilità di accesso conseguente a questo cambiamento, al pari dell’annullamento di qualsiasi costo di gestione, ha di fatto “democraticizzato” l’arte fotografica, sempre più alla portata di tutti anche grazia al fatto che non è più necessario acquistare una macchina (né analogica, né digitale) ben potendo essere utilizzato lo smartphone, device multifunzionale a disposizione di tutti.
Smartphone che peraltro consentono di raggiungere risultati straordinari in termini di qualità dell’immagine che quindi non dipendono più dall’apporto dell’autore.

Il secondo fenomeno è legato al nuovo modo di fruire della fotografia, che prescinde dalla stampa: la divulgazione, più propriamente, la condivisione attraverso il web.
Anche la rete internet infatti, oltre ad essere sempre più veloce e affidabile (allargamento della banda, moltiplicazione delle connessioni, etc.), è a disposizione di tutti non solo mediante il collegamento “casalingo” da cui tutto è partito, nei primi anni ’90 del secolo scorso, ma anche attraverso economicissimi abbonamenti annuali sullo smarthphone.
Quindi alla facilità di accesso alla fotografia, si aggiunge la velocità a costo zero con cui le immagini possono circolare, non solo inviate da un destinatario all’altro, ma postate, scaricate, condivise, ripostate, etc. Tutte attività che oltre alla definizione del gergo informatico, hanno un contenuto giuridico poiché postare significa pubblicare, scaricare vuol dire creare una copia e riprodurre, condividere equivale a comunicare e/o mettere a disposizione del pubblico, modalità di utilizzo dell’immagine che la legge riserva all’autore, concetto sempre più ignorato dagli utenti del web.
Il terzo fenomeno che ha notevolmente complicato la tutela autoriale della fotografia è di tipo sociale: ci si trova oggi nella società dell’informazione, che si basa sullo scambio di contenuti, anche non finalizzato se non all’ottenimento di un like, ovvero a suscitare l’engagment, l’interazione su cui si basano soprattutto ai social network.
In questo tipo di società, gli internauti non sono solo passivi destinatari di dati, ma attivi produttori/creatori di contenuti, che immettono e fanno circolare sul web senza pensare troppo alle conseguenze, anche quando, nella specie, le immagini e informazioni riguardino la rivelazione di dati personali e aspetti del proprio privato, sempre più esposto e labile.
La presenza di dati e immagini così puntuale e dettagliata ha peraltro favorito un fenomeno illegale che è venuto a galla proprio nell’ultimo periodo, quello delle truffe sentimentali o romantiche, in cui il truffatore riesce a consumare il reato per avere riscosso la completa fiducia nella vittima grazie al fatto di avere indossato l’identità di un soggetto, di cui, a costo zero e senza sforzi, ha potuto conoscere tutto, avendo reperito un numero cospicuo di informazioni ingenuamente immesse sul web.
Dalla combinazione di questi fenomeni nasce la convinzione, radicata non solo negli internauti adolescenti, ma anche negli individui di livello culturale-professionale medio-alto, che tutto ciò che è tecnologicamente possibile è anche giuridicamente lecito.
Questo è ovviamente un problema che implica l’erosione della tutela autoriale del diritto d’autore, poiché è un principio alla base della filosofia del diritto che ai fini della effettività delle norme di diritto sia decisivo, rispetto al puro effetto deterrente della sanzione, l’adeguamento spontaneo ai precetti di legge da parte del corpo sociale organizzato.
Ciò premesso, la tutela autoriale della fotografia ha stentato ad affermarsi nell’ordinamento italiano; era invero radicata una certa diffidenza, poiché veniva considerato prevalente l’apporto tecnico rispetto a quello umano, diffidenza che, con il senno di poi, ad avviso della scrivente, non era poi così del tutto fuori luogo, visto la deriva odierna del sistema.

L’opera fotografica ha fatto ingresso nella legge 633 del 1941 solo a fine anni settanta, dopo il recepimento (tardivo) della Convinzione di Berna, nella versione di Bruxelles.
Infatti fino alla fine degli anni ’70 nell’ordinamento italiano esisteva la sola fotografia cosiddetta “semplice”, tutelata con la tecnica normativa del diritto connesso (art. 88 Legge 633/1941 e seg.ti), riservata a disciplinare fattispecie ancillari rispetto all’opera intellettuale (con la stessa tecnica ad esempio sono tutelati il produttore e gli artisti interpreti esecutori di cui parlerà più oltre la collega Antonella Marra).
L’opera fotografica propriamente detta è invece disciplinata dagli artt. 1 e 2 della Legge 633/1941.

Le due tipologie quindi sono entrambe presenti nel nostro ordinamento.
Il diritto connesso riconosciuto all’autore di fotografia semplice ha durata più breve nel tempo e uno statuto di diritti molto più limitata, oltre al fatto che l’esercizio del diritto (non già la sua costituzione in campo al titolare) richiede il rispetto delle formalità previste dalla legge, quali in particolare l’indicazione del nome dell’autore e della data; questa previsione ha l’obiettivo di mettere in condizione il terzo di conoscere se i diritti sull’immagine siano o meno scaduti (ovvero siano decorsi i 20 anni di tutela) e/o di mettersi in contatto con l’autore per acquisire il consenso all’utilizzazione; in mancanza delle indicazioni di legge, il terzo che utilizza senza autorizzazione la fotografia si considera in buona fede, salvo prova contraria.

Un certo orientamento poi tende ad estendere i diritti patrimoniali, riconoscendo anche diritti morali, oltre a quello di paternità anche quello di tutela dell’integrità dell’opera.

In punto di prova, rinvio ad una sentenza molto interessante (Tribunale Roma Sez. spec. Impresa, 01/06/2015, n.12076) che ha stabilito come la pubblicazione di una fotografia nella pagina personale del social network Facebook, pur in mancanza delle indicazioni richieste dalla legge sul file fotografico, può assurgere a presunzione grave, precisa e concordante della titolarità dei diritti fotografici in capo al titolare della pagina del social network; di conseguenza, il Tribunale ha condannato al risarcimento del danno il soggetto che le aveva utilizzate senza consenso dopo averle così scaricate.

L’opera fotografica invece è soggetta integralmente alla disciplina delle altre opere dell’intelletto: diritti patrimoniali esclusivi, di durata settentennale, diritti morali, etc.

Ma qual è la differenza tra le due tipologie di fotografie?
La fotografia semplice viene così classificata perché considerata una rappresentazione della realtà, priva di apporto creativo: i diritti vengono riconosciuti all’autore per remunerare l’investimento professionale, oltre al rilevare la destinazione informativa e commerciale della stessa.
L’opera fotografica invece è una interpretazione della realtà, una scelta libera e non finalizzata dell’autore, in cui esprime la propria personalità e creatività.
La differenza tra l’una e l’altra tipologia di fotografie va rilevata in funzione di indici elaborati dall’orientamento dottrinale e giurisprudenziale prevalenti che mediante un’indagine di merito, oggettivizzando il carattere della creatività, risiedono nella ricerca del “gioco di chiaro scuro”, nella capacità dell’autore di “cogliere l’attimo”, nella “scelta del soggetto”, nella capacità di generare “suggestioni”.
Il fatto è che spesso i giudici ricorrono anche a nozioni metagiuridiche: per giustificare la natura di opera fotografica si ricerca quindi un piglio artistico, che in realtà non è richiesto dalla norma.
Prendo in considerazione una recente sentenza, molto interessante in tema di fotografia, la sentenza n. 2539 del 23 aprile 2020 della Sezione Specializzata in Materia di Impresa del Tribunale di Milano.
Nella specie il Tribunale ha condannato la società dello stilista Marras, in solido con quella del distributore, per avere illecitamente utilizzato un’immagine scattata dal fotografo americano Cox, che ritraeva un lupo nella neve, su alcuni capi di abbigliamento della propria collezione.
La condanna, peraltro particolarmente severa, parte dall’avere ravvisato nell’immagine riprodotta la natura di opera fotografica.
Due note.
La prima. Anche la società di Marras, al pari di un giovane internauta solitario, si è difesa sostenendo di avere reperito l’immagine dal web, circostanza che non ha giocato a favore del convenuto, per avere il Giudice rilevato al contrario come un operatore professionista, specie se nel campo della moda, i cui si utilizzano spesso immagini, deve avere una diligenza specifica.
Il secondo argomento. La natura di opera fotografica è stata riconosciuta sulla scorta dei parametri di elaborazione dottrinale e giurisprudenziale menzionati. Ma è stata anche ricordata l’importanza dell’autore e la circostanza che l’opera fosse stata anche pubblicata su riviste di settore.
Quindi chiudo con una provocazione.
Siamo sicuri che la notorietà dell’autore non abbia giocato un proprio ruolo e che ad altrettanta soluzione sarebbe giunto il Tribunale se si fosse trattato di un’immagine di un qualunque sconosciuto?
Ed ancora, anche alla luce della difficoltà odierna, per gli stessi addetti ai lavori, di conoscere e tutelare i propri diritti, siamo sicuri che un fotografo non “blasonato” avrebbe potuto permettersi di affrontare un giudizio così complesso?
Ai posteri l’ardua sentenza.

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Making Law accessible, useful and engaging: il legal design

Dott.ssa Federica Martinez

 Sommario

  1. Premessa – 2. Il Legal Design: obiettivi e applicazioni – 2.1. “Design Thinking” – 2.2. “The proactive law approach” – 3. Depotenziare i dark pattern. Implicazioni pratiche nell’ambito della privacy4. Sviluppi nazionali ed internazionali – 5. Conclusioni
  1. Premessa

Il Legal Design è un nuovo approccio al mondo del diritto che coniuga due aspetti solo apparentemente estranei. Con il termine “legal” possiamo intendere tutto ciò che concerne la legge e la giustizia, come i processi, le procedure, i contratti e il materiale informativo. Il “design” al contrario non è legato al rigido panorama legale, ma al più creativo processo di visualizzazione di immagini per facilitare la comunicazione e la costruzione di progetti in grado di catturare e coinvolgere il destinatario. E’ sicuramente più facile immaginare l’utilizzo del design nel marketing, per persuadere l’utente finale ad acquistare un prodotto o rendere più agevole la comprensione di servizio offerto.

Non è tuttavia impossibile che il legal incontri il design. Margaret Hagan, docente alla Stanford University, esperta di design legale e di comunicazione, ritiene che sia necessario to make law more accessible, useful and engaging[1]. Questo nuovo approccio muove dall’esigenza di rendere chiaro, semplice, immediato, accessibile e comprensibile sia il diritto in sé che e le sue applicazioni pratiche. Ciò comporta una particolare attenzione all’impatto “estetico” del diritto, un settore che ben poco sembra avere di attrattivo.

La sfida del futuro è proprio questa: lavorare con un nuovo metodo multidisciplinare per rendere piacevole argomenti di non facile accesso e attirare l’attenzione verso un mondo apparentemente ostile e intricato.

 

  1. Il Legal Design: obiettivi e applicazioni

I primi studi e le prime applicazioni di questo metodo innovativo emergono in ambito universitario: in Finlandia, con il lavoro dell’avvocato Helena Haapio, e negli Stati Uniti, alla Stanford Law School grazie alla creazione del Legal Design Lab, guidato dalla professoressa Margaret Hagan.

I lavori e gli studi dei due team universitari pongono le lori basi, rispettivamente, nei concetti di Design Thinking e Proactive Law. I due approcci verranno disaminati nei paragrafi a seguire, ma possiamo fin da adesso chiarire quale sia la loro finalità, per meglio comprendere il motivo per cui vengono associati a questo metodo innovativo nel campo del diritto.

Entrambi gli approcci puntano alla centralità dell’utente finale ed alla efficace e produttiva interazione dell’uomo con il mondo che lo circonda. Per raggiungere questo obiettivo la comunicazione dovrà essere improntata a criteri di logicità, semplicità, chiarezza e trasparenza.

Possiamo pertanto definire il legal design come un’evoluzione della visualizzazione, intesa a rendere la comunicazione legale più semplice, più efficace e di più facile approccio. Si tratta quindi di un processo attraverso il quale il testo o la lingua parlata vengono chiariti dall’immagine, la cui funzione è quella di semplificare e integrare il linguaggio.[2]

Scopo principale è quello di prospettare una soluzione a quei problemi di trasparenza e comprensibilità dei testi a contenuto normativo, a partire dalla loro ideazione e progettazione. Ciò che il legal design si prefigge è pertanto la creazione e progettazione di testi orientati all’utente finale, un destinatario che ben può essere un profano della materia in questione. L’intento è quello di mantenere le persone al centro della progettazione e dell’erogazione dei servizi del mondo giuridico per renderlo più intuitivo, fruibile e sopratutto inclusivo. Tutti devono essere in grado di comprendere ciò che un operatore del diritto vuole comunicare: il linguaggio o l’impostazione di contenuti legali, applicando i criteri dettati dal legal design, saranno semplificati attraverso sintesi grafiche, infografiche, mappe e strumenti interattivi. Mediante l’utilizzo di tali strumenti da parte del designer l’utente finale potrà intraprendere un ragionamento logico, ponderato e completo che lo porterà a prendere delle decisioni consapevoli e in linea con quanto espresso dal testo. La semplificazione così operata non comporterà un sacrificio in termini di intenti e obiettivi del documento, ma al contrario le informazioni saranno percepite chiaramente e immediatamente eliminando, nei limiti del possibile, le incomprensioni e le difficoltà interpretative tipiche dell’ambito giuridico.

Il legal design è una disciplina che può inserirsi in differenti ambiti applicativi. Può infatti essere utilizzato nella progettazione di procedure e realizzazione di normative, nella produzione di materiale informativo a contenuto giuridico (come ad esempio le privacy policies o le condizioni generali di vendita) o ancora nella creazione dei design contracts.[3] Quest’ultimi rientrano nell’ambito dell’ambizioso progetto portato avanti dal team finlandese dell’avvocato Helena Haapio, il cui obiettivo è la creazione di una nuova generazione di contratti che pongono al centro il destinatario finale. Per ottenere questo risultato si ispirano a quattro criteri principali:

  1. linguaggio chiaro e semplice;
  2. design ed impatto visivo;
  3. facilitazione del rapporto utente-contenuto;
  4. organizzazione del contenuto in modo da raggiungere l’obiettivo prefissato. [4]

Infine in Svezia, nel 2009, i principi del Legal design sono stati applicati nella redazione di una sentenza con elementi visuali: due linee temporali per figurare la catena degli eventi, cruciale per comprendere i fatti di causa[5].

Alla base di questo metodo digitale di “fare diritto” vi è un approccio multidisciplinare e di confronto tra più professionisti, appartenenti non solo all’area giuridica ma anche a quella della comunicazione, del design vero e proprio e della programmazione informatica. La visual law racconta per immagini attuando una traduzione in forma grafica dei contenuti: dai primi tentativi di visualizzazione semplificata, con l’utilizzo di intestazioni in grassetto, sommari, diagrammi o tabelle volti a chiarire concetti complessi, si è giunti all’elaborazione di documenti contenenti icone, diagrammi di flusso, schematizzazioni, timelines e così via.

La presenza di un ambiente multidisciplinare sta al contempo creando e aprendo la strada a nuove figure professionali come quella del “Lawyer legal design”, una figura professionale che può essere ricoperta da un designer come da un avvocato. L’obiettivo è quello di costruire documenti chiari e fruibili per tutti i destinatari, anche attraverso l’utilizzo di immagini esplicative.

2.1. “Design Thinking”

Questo approccio è stato codificato nel 2000, dall’Università di Stanford (California), e si configura come modello progettuale volto alla risoluzione di problemi complessi, poco definiti o sconosciuti, attraverso visione e gestione creative. Uscito dagli studi di design, sta permeando vari settori: in particolar modo la consulenza direzionale, la trasformazione digitale e la progettazione di software e interfacce. Recentemente, come abbiamo visto, è stato prestato anche al mondo del diritto.

È un metodo centrato sulla conoscenza delle necessità umane, riformulando i problemi in modo da porre al centro “l’Uomo”. È strettamente collegato con quello che viene definito Human-centered design (HCD): “[…] is an approach to interactive systems development that aims to make systems usable and useful by focusing on the users, their needs and requirements, and by applying human factors/ergonomics, and usability knowledge and techniques. This approach enhances effectiveness and efficiency, improves human well-being, user satisfaction, accessibility and sustainability; and counteracts possible adverse effects of use on human health, safety and performance” ( ISO 9241-210:2019. E) [6].

Il processo di Design Thinking è un processo non lineare, articolato in cinque fasi[7]:

  1. Empathise

Acquisire una conoscenza profonda del problema che si vuole analizzare, creando relazioni con le persone interessate al fine di conoscere le loro esperienze e motivazioni consentendo così una maggiore percezione dei loro bisogni.

  1. Define (the Problem)

E’ la fase in cui si analizzano le osservazioni e le informazioni recuperate e si sintetizzano per definire il centro del problema identificato dal team.

  1. Ideate

Possiamo definire questa fase come “Think outside the box”, con la creazione di nuove soluzioni e punti di vista alternativi. Per fare questo si possono utilizzare varie tecniche di ideazione, come il brainstorming, tutte incentrate sulla stimolazione del pensiero libero espandendo l’ambito del problema.

  1. Prototype

Velocizza i processi di Design Thinking perché consente di comprendere in maniera rapida punti di forza e debolezza delle nuove soluzioni da implementare. Questo principio è strettamente correlato a quello di user contribution: nel Design Thinking non ci si limita a definire i passi per immaginare un’idea o una soluzione, ma si arriva alla concreta realizzazione di tale idea mediante il confezionamento di un prototipo. Tali prototipi possono concretizzarsi in roadmap di sviluppo o addirittura in veri e propri modelli funzionanti.

  1. Test

E’ la fase in cui entra in gioco l’utente finale (user contribution): la soluzione migliore identificata durante i precedenti passaggi è testata, facendo largo uso di ricerche etnografiche e test A/B.

 

Author/Copyright holder: Teo Yu Siang and Interaction Design Foundation. Copyright licence: CC BY-NC-SA 3.0

 

2.2. “The proactive law approach”

Il termine proactive è l’opposto di reattivo, indicando pertanto una tipologia di approccio alla legge basata su una visione ex-ante degli avvenimenti e non ex-post. Secondo la definizione indicata dal “Merriam -Webster Online Dictionary” la parola proactive fa riferimento ad un elemento anticipatorio, includendo azioni preventive per situazioni future (“acting in anticipation of future problems, needs, or changes”). O ancora, riprendendo la definizione del ” Dictionary.com. WordNet® 3.0. Princeton University”, proactive contiene elementi di controllo e di strategia per individuare cambiamenti idonei a rispondere a situazioni future, ancora prima che queste accadano[8].

Tradizionalmente la focalizzazione in campo giuridico è stata sul passato: le ricerche hanno avuto l’obiettivo di individuare fallimenti o lacune nel complesso panorama giuridico e legislativo. L’approccio proattivo è invece orientato verso il futuro, con lo scopo di prevenire le cause dei problemi, facilitando così un’interazione produttiva tra le parti del mondo del diritto.

Questo nuovo approccio nasce in Finlandia negli anni ‘90, ispirandosi a ciò che viene definito “Proactive Contracting”. Originariamente lo scopo era quello di fornire un quadro complessivo al fine di integrare le conoscenze giuridiche con l’aspetto pratico, tangibile e quotidiano per creare modelli di contratti sempre più efficienti.

L’obiettivo di questo nuovo approccio è quello di raggiungere un successo attraverso due aspetti: il primo è quello proattivo di promuovere e incoraggiare il corretto comportamento per raggiungere ciò che si desidera; il secondo è l’aspetto preventivo, mettendo in atto azioni e comportamenti tali da evitare che i rischi, strettamente legati all’aspetto legale, possano divenire concreti.

Utilizzando un’analogia con il campo della medicina preventiva, è possibile affermare che l’approccio della Proactive Law combina aspetti di promozione della salute con quelli della prevenzione: l’obiettivo è quello di aiutare individui e professionisti ad essere in una buona “legal health” e prevenire “malattie” di incertezza giuridica, controversie e contenziosi[9].

 

  1. Depotenziare i dark pattern. Implicazioni pratiche nell’ambito della privacy

Nel mondo digitale l’espressione “dark pattern” è un neologismo coniato dallo user experience designer Harry Brignull, per indicare tipologie di interfaccia di siti, app o di percorsi di interazione con un servizio, appositamente progettati per guidare l’utente verso comportamenti non realmente voluti[10].

Per la realizzazione di questi percorsi, che possono ad esempio omettere una parte di informazioni o al contrario somministrare un surplus di informazioni che rendono difficile la comprensione del contenuto all’interessato, interviene quella che viene definita User experience (UX): le interfacce vengono modificate e testate basandosi su analisi e studi di scienza cognitiva di abitudini e comportamenti dei futuri utenti.

È difatti possibile che il fornitore di un servizio sfrutti, per il proprio profitto, quelli che vengono definiti “bias cognitivi”[11]: errori semiautomatici del pensiero in cui il cervello umano incorre influenzando decisioni e giudizi. Tali bias vengono pertanto utilizzati in correlazione con i dark pattern al fine di spingere l’utente di un servizio verso decisioni o scelte solo apparentemente logiche ed obiettive, ma in realtà condizionate da fattori esterni.

Alcuni esempi saranno d’aiuto a comprendere meglio la correlazione bias cognitivo e dark pattern[12]:

  • pubblicizzare un prodotto o un servizio scontato, ma solo in quantità limitata o per un limitato periodo di tempo, mettendo in tal modo fretta all’utente/consumatore spingendolo ad un acquisto non ponderato;
  • un sito internet che facilita l’iscrizione ma rende molto lunga e difficoltosa la cancellazione, spingendo l’utente a desistere;
  • chiedere informazioni personali non necessarie, inducendo l’utente in errore in merito all’obbligatorietà reale.

Vediamo adesso, in particolare, ciò che accade nell’ambito della privacy. Non è infrequente entrare in contatto con dark pattern anche in relazione ai dati personali: molti siti o app, raccolgono ad esempio dei dati non necessari alla fruizione del servizio con l’ulteriore fine di profilare gli utenti o comunicare i dati a terze parti. La comunicazione di queste finalità può essere segnalata in un banner, a volte anche poco visibile, mentre l’accesso alle informazioni potrà essere reso lungo, complicato e poco intuitivo con la conseguente riduzione della tutela della propria privacy. O ancora, attraverso l’impiego di dark pattern volti a nascondere o eludere informazioni, l’utente non è in grado di avere un’effettiva consapevolezza e controllo dei dati personali.

Queste prassi si pongono in netto contrasto con le previsioni normative contenute nel nuovo GDPR (Regolamento europeo 2016/679). Il Regolamento prevede, unitamente ai principi di trasparenza e correttezza delle informazioni, il principio di limitazione del trattamento alle sole finalità dichiarate dal servizio e il principio di minimizzazione dei dati.

Le informazioni, sopratutto in contesto digitale, devono essere accessibili e di facile comprensione espresse in un linguaggio semplice e chiaro. L’art. 12 del GDPR, al comma 7, ammette la possibilità di utilizzare informazioni combinate con icone standardizzate, al fine di dare, in modo facilmente visibile e chiaramente leggibile, un quadro di insieme del trattamento previsto[13].

Secondo quanto affermato dal “Working Party art. 29”[14], che si è occupato di delineare le linee guida sulla trasparenza ai sensi del GDPR, occorre tutelare la parte debole che si trova in una posizione di asimmetria informativa. Per fare ciò è fondamentale che all’utente vengano fornite tutte le informazioni necessarie per una tutela efficace della sua privacy. Viene, ad esempio, chiarito che tali informazioni sulla privacy devono essere chiaramente differenziate dalle altre tipologie di informazione di tipo commerciale. O ancora è affermato che l’accesso online alle sezioni sulla privacy deve essere immediatamente attuabile ed evidente: il posizionamento di icone o la scelta di colori dell’interfaccia che renda poco intuibile o difficoltoso l’accesso a questa sezione (classico esempio di dark pattern) sono contrari alla normativa europea.

La trasparenza richiesta dal Regolamento non si limita a dover essere attutata in termini di linguaggio usato, ma necessita anche di un’attuazione concreta.

Nel mondo digitale, sempre più orientato alle immagini, contenitori di testi e significati, un approccio guidato dal legal design potrebbe sicuramente ampliare la portata della tutela intervenendo già nella fase della progettazione dell’interfaccia utente (UI), consentendo una reciproca interazione e garantendo una navigazione consapevole e dentro i confini delineati dal GDPR.

  1. Sviluppi nazionali ed internazionali

Il Legal Design nasce, come abbiamo visto, in Finlandia. Il suo sviluppo però non si arresta al territorio finlandese.

Negli Stati Uniti viene studiato e sviluppato alla Stanford Law School.

A New York, il legal design viene utilizzato per “raccontare” gli obblighi, gli adempimenti: lo Street vendor project, realizzato dal Center for Urban Pedagogy insieme ad un designer ha realizzato la Guida Vendor Power che rende accessibile il NY city code, permettendo ai negozianti (molti dei quali non di lingua inglese) di comprendere i propri doveri e i propri diritti.

In Canada, il legal design è pensato al servizio del settore pubblico: David Berman, esperto nel campo del graphic design e dell’information technology tenta questo nuovo approccio nel progetto Human Resources Development Canada and Justice Canada”.

In Italia, nonostante il nuovo metodo sia stato poco trattato dal punto di vista scientifico e divulgativo, possiamo indicare alcune esperienze attive.

Il legal designer del team Lexpert, Stefania Passera, ha dato vita alle Legal Design Jams. Ispirandosi alle jam session dei jazzisti degli anni ‘20, gli incontri sono “type of events that bring together designers, lawyers and like-minded innovators to give an extreme user-centered makeover to existing legal documents[15].

In ambito universitario, ruolo importante è rivestito dal centro di ricerca ReCEPL dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli che svolge attività di ricerca sul tema del legal design, con particolare riferimento alla contrattualistica, avvalendosi di varie metodologie multidisciplinari.

Questi ovviamente sono solo alcuni esempi delle realtà in Italia che si sono approcciate al legal design.

A livello internazionale ricordiamo il network denominato “The legal design alliance”, un vero e proprio laboratorio innovativo e promotore di iniziative, di scambio di documenti e prototipi. Degno di nota è il “The Legal Design Manifesto” creato con lo scopo di diffondere e comunicare questo metodo innovativo.

Ancora a livello internazionale troviamo la IACCM (International Association for Contracts & Commercial Management) che ha creato una raccolta di linee guida sul tema “Contract Design Pattern Library”.

 

5.Conclusioni
In conclusione, applicare la visione human-centered all’operato dei giuristi, nell’accezione più ampia del termine, permetterebbe di riportare il diritto, come scienza sociale, al servizio del suo destinatario finale, qualsiasi sia il suo livello di conoscenza in materia.

Ciò non comporta una perdita di intenti o di obiettivi, e nemmeno un impoverimento del suo corpus, ma al contrario una facilitazione nella comprensione e razionalizzazione degli stessi da parte sia degli esperti che del comune cittadino, portando ad un rafforzamento nel raggiungimento delle sue finalità. Più è chiaro il messaggio, più sarà per tutti facile comprenderlo ed applicarlo.

È in questo contesto che il legal design può supportare le conoscenze ed i servizi che l’ambito legale fornisce ai suoi utenti.

[1]             Maria Teresa De Luca, “Legal design, il diritto incontra la tecnologia”, in www.ilprogressonline.it, 2018.

[2]             Paola Fattori, Il Legal Design: un nuovo strumento per una comunicazione efficace, in www.animaimpresa.it, 24/10/2019.

[3]             Claudia Morelli, ”Legal design, cos’è e come può essere utilizzato dagli avvocati”,in www.altalex.com, 09/04/2018.

[4]               Per un maggiore approfondimento: http://www.legaltechdesign.com/2014/09/design-principles-for-legal-help-  websites/

[5]             Claudia Morelli, cit.

[6]             https://en.wikipedia.org/wiki/Human-centered_design

[7]             www.interaction-design.org

[8]             Opinion of the European Economic and Social Committee on ‘The proactive law approach: a further

        step towards better regulation at EU level’ – Official Journal of the European Union, 28/07/2009.

[9]             Ibidem

[10]           Andrea Afferni,”Dark pattern: cosa sono e il loro rapporto con il gdpr “, in www.cybersecurity360.it, 21/05/2020.

[11]           Vennero descritti per la prima volta nel 1974 da Tversky e Kahneman come distorsioni cognitive automatiche attraverso le quali la mente opera sui dati di partenza per arrivare a formulare pensieri, idee, giudizi, istruzioni e azioni, sfruttando il desiderio inconscio di ciascuno di essere obiettivo e logico.

[12]           Andrea Afferni, cit.

[13]           Massimiliano Nicotra, “Trasparenza web, attenti ai “dark pattern”: il ruolo del “legal design” per la tutela degli utenti, in www.agendadigitale.eu, 14/03/2019.

[14]           Organismo consultivo indipendente composto da un rappresentante per ogni autorità nazionale di vigilanza e protezione dei dati, dal Garante europeo per la protezione dei dati e da un rappresentante della Commissione europea. Il 25/05/2018 è stato sostituito dal Comitato Europeo per la protezione dei dati (EDPB).

[15]           Maria Teresa de Luca, cit.

Copyright 2020© Associazione culturale non riconosciuta Nuove Frontiere del Diritto Via Guglielmo Petroni, n. 44 00139 Roma, Rappresentante Legale avv. Federica Federici P.I. 12495861002. 
Nuove frontiere del diritto è rivista registrata con decreto n. 228 del 9/10/2013, presso il Tribunale di Roma, Direttore responsabile avv. Angela Allegria, Proprietà: Nuove Frontiere Diritto. ISSN 2240-726X

La garanzia nel settore automotive

Dott. Matteo Manconi

La disciplina antritrust dell’Unione Europea nel settore automobilistico

Nel novero della normativa antitrust dell’Unione Europea il settore automobilistico ha visto nel tempo una copiosa normazione da parta della Commissione dell’Unione Europea.

Il primo regolamento emesso è il Reg. (CEE) 123/1985 della Commissione, del 12 dicembre 1984, relativo all’ applicazione dell’ articolo 85, paragrafo 3, del trattato CEE a categorie di accordi per la distribuzione di autoveicoli e il servizio di assistenza alla clientela, a cui sono seguiti il Reg. (CE) 1474/1995 della Commissione, del 28 giugno 1995, il Reg. (CE) 1400/2002 della Commissione, del 31 luglio 2002, e da ultimo il Reg. (UE) 461/2010 della Commissione, del 27 maggio 2010.

A tutti questi regolamenti si sono poi aggiunti diversi regolamenti tecnici che hanno costituito un complesso quadro normativo: il Reg. (CE) 715/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2007, relativo all’omologazione dei veicoli a motore riguardo alle emissioni dai veicoli passeggeri e commerciali leggeri (Euro 5 ed Euro 6) e all’ottenimento di informazioni sulla riparazione e la manutenzione del veicolo e il Reg. (UE) 566/2011 della Commissione, dell’8 giugno 2011, che modifica il Reg. (CE) 715/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio e il Reg. (CE) 692/2008 della Commissione per quanto concerne l’ottenimento di informazioni per la riparazione e la manutenzione del veicolo.

Prima di esaminare quali siano le prescrizioni contenute nel citato regolamento, occorre brevemente analizzare quali siano i principi posti alla base della libera concorrenza nel mercato unico europeo.

La regolamentazione unionale in materia di concorrenza è pensata per garantire condizioni eque e leali per le imprese, lasciando allo stesso tempo spazio all’innovazione, a norme unificate e allo sviluppo delle piccole aziende. Compito principale della Commissione europea, in materia, è quello di monitorare e indagare sulle pratiche anticoncorrenziali, sulle concentrazioni e sugli aiuti di Stato per assicurare la parità di condizioni per le imprese dell’Unione, garantendo allo stesso tempo ampi scelta e prezzi equi per i consumatori.

L’art. 101, par. 1, prescrive che “Sono incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato interno ed in particolare quelli consistenti nel:

  1. a) fissare direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita ovvero altre condizioni di transazione;
  2. b) limitare o controllare la produzione, gli sbocchi, lo sviluppo tecnico o gli investimenti;
  3. c) ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento;
  4. d) applicare, nei rapporti commerciali con gli altri contraenti, condizioni dissimili per prestazioni equivalenti, così da determinare per questi ultimi uno svantaggio nella concorrenza;
  5. e) subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari, che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con l’oggetto dei contratti stessi”.

In via generale, sono vietati ogni tipo di accordi tra imprese o associazioni di imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare la libera concorrenza all’interno del mercato unico europeo.

Una deroga è prevista dal successivo par. 3, il quale prevede che “Tuttavia, le disposizioni del paragrafo 1 possono essere dichiarate inapplicabili:

— a qualsiasi accordo o categoria di accordi fra imprese,

— a qualsiasi decisione o categoria di decisioni di associazioni di imprese, e

— a qualsiasi pratica concordata o categoria di pratiche concordate,

che contribuiscano a migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti o a promuovere il progresso tecnico o economico, pur riservando agli utilizzatori una congrua parte dell’utile che ne deriva, ed evitando di:

  1. a) imporre alle imprese interessate restrizioni che non siano indispensabili per raggiungere tali obiettivi;
  2. b) dare a tali imprese la possibilità di eliminare la concorrenza per una parte sostanziale dei prodotti di cui trattasi”.

Quindi, in via molto generale, è possibile che appositi strumenti giuridici possano dar vita a una disciplina di esenzione per una determinata categoria di accordi verticali e pratiche concordate.

Regolamento 461/2010 della Commissione, del 27 maggio 2010, relativo all’applicazione dell’articolo 101, paragrafo 3, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea a categorie di accordi verticali e pratiche concordate nel settore automobilistico

Il Reg. (UE) 461/2010 è entrato in vigore il 1° giungo 2010.

Benché rubricato come il suo predecessore, lo sostituisce solo parzialmente e con particolare riguardo alla parte relativa agli accordi verticali che riguardano le condizioni in base alle quali le parti possono acquistare, vendere, o rivendere pezzi di ricambio per autoveicoli o fornire servizi di riparazione e manutenzione per autoveicoli, applicandosi, quindi, solo ed esclusivamente agli accordi e alle pratiche concordate per la vendita di pezzi di ricambio e per la fornitura dei servizi di assistenza post-vendita.

Secondo l’art. 1, par. 1, lett. c, del citato regolamento, per accordo verticale “deve intendersi o gli accordi o le pratiche concordate conclusi da due o più imprese, operanti ciascuna, ai fini dell’accordo, ad un livello differente della catena di produzione o di distribuzione”.

Il nuovo regolamento si presente molto più breve rispetto al predecessore per via del ristretto campo di applicazione.

L’operatività dell’esenzione apportata dal presente Regolamento è subordinata al rispetto di alcune condizioni: il primo emerge dal richiamo effettuato dall’art. 4, par. 1, il quale prevede che “che soddisfano i requisiti per l’esenzione previsti dal regolamento (UE) n. 330/2010” e prosegue “e non contengono nessuna delle restrizioni fondamentali elencate all’articolo 5 del presente regolamento”.

Al contrario del Reg. (CE) 1400/2002 in cui le “condizioni generali” e le “condizioni specifiche” erano individuate dallo stesso Regolamento, la nuova disposizione effettua un richiamo al Regolamento (UE) n. 330/2010 della Commissione, del 20 aprile 2010, relativo all’applicazione dell’articolo 101, paragrafo 3, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea a categorie di accordi verticali e pratiche concordate.

Quest’ultimo Regolamento prevede che l’esenzione dal divieto di accordi verticali che siano lesivi della concorrenza, si applichi: “agli accordi verticali conclusi tra un’associazione di imprese ed i suoi membri o tra una tale associazione ed i suoi fornitori, a condizione che tutti i membri siano distributori al dettaglio di beni e che nessuno dei singoli membri dell’associazione, insieme alle imprese ad esso collegate, realizzi un fatturato annuo complessivo superiore a 50 milioni di EUR. L’inclusione degli accordi verticali conclusi da tali associazioni nell’ambito di applicazione del presente regolamento fa salva l’applicazione dell’articolo 101 del trattato agli accordi orizzontali conclusi tra i membri dell’associazione o alle decisioni adottate dall’associazione stessa; agli accordi verticali contenenti disposizioni relative alla cessione all’acquirente o all’uso da parte dell’acquirente di diritti di proprietà intellettuale, a condizione che tali disposizioni non costituiscano l’oggetto primario degli accordi e che esse siano direttamente collegate all’uso, alla vendita o alla rivendita di beni o servizi da parte dell’acquirente o dei suoi clienti. L’esenzione si applica inoltre a condizione che, in relazione ai beni o servizi oggetto del contratto, queste disposizioni non contengano restrizioni della concorrenza aventi lo stesso oggetto di restrizioni verticali non esentate in virtù del presente regolamento”.

Una volta circoscritto a quali tipi di accordi si riferisca l’esenzione, il Regolamento prevede che tali accordi non possono essere stipulati da fornitori per i quali sia superata la soglia del 30% della quota di mercato rilevante sul quale vende i beni o servizi oggetto del contratto e la quota di mercato detenuta dall’acquirente non superi il 30% del mercato rilevante sul quale acquista i beni o servizi oggetto del contratto.

Le condizioni specifiche, previste dall’art. 5 del Reg. (UE) 461/2010, prevedono che “L’esenzione di cui all’articolo 4 non si applica agli accordi verticali che, direttamente o indirettamente, isolatamente o congiuntamente con altri fattori sotto il controllo delle parti, hanno per oggetto quanto segue:

  1. a) la restrizione delle vendite di pezzi di ricambio per autoveicoli da parte dei membri di un sistema di distribuzione selettiva a riparatori indipendenti che utilizzano tali pezzi per la riparazione e la manutenzione di un autoveicolo;
  2. b) la restrizione, concordata tra un fornitore di pezzi di ricambio, di attrezzature di riparazione o diagnostica o altre apparecchiature ed un produttore di autoveicoli, della facoltà del fornitore di vendere tali beni a distributori o riparatori autorizzati o indipendenti o ad utilizzatori finali;
  3. c) la restrizione, concordata tra un costruttore di autoveicoli che utilizza componenti per l’assemblaggio iniziale di autoveicoli ed il fornitore di detti componenti, della facoltà del fornitore di apporre in maniera efficace e chiaramente visibile il proprio marchio o logo sui componenti forniti o sui pezzi di ricambio”.

Tali condizioni operano in via assoluta, per cui un qualsiasi accordo che apporti restrizioni alle informazioni tecniche, alla vendita di ricambi o delle apparecchiature costituiscono restrizione per oggetto e quindi non ritenute esentabili né da un regolamento di esenzione, né ai sensi del par. 3 dell’art. 101 TFUE.

La normativa nazionale

In Italia la normativa in materia di garanzia legale è contenuta all’interno del Codice al consumo, D. Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, agli artt. 128 e ss.

In via generale, la garanzia generale di conformità è posta a tutela del consumatore. La sua funzione principale è quella di tutelare il consumatore in caso di acquisto di prodotti difettosi, sia nel caso in cui questi funzioni male sia che non sia corrispondenti all’uso dichiarato dal venditore o al quale quel bene è generalmente destinato.

Tale tutela può essere fatta valere dal consumatore direttamente al rivenditore, anche se questo sia diverso dal produttore.

Il consumatore ha diritto, a sua scelta, alla riparazione o alla sostituzione del prodotto, senza addebiti aggiuntivi. Se sostituzione o riparazione non sono possibili, il consumatore, ha comunque diritto alla riduzione del prezzo o ad avere indietro una somma, commisurata al valore del bene, a fronte della restituzione al venditore del prodotto difettoso.

La garanzia legale ha una durata di 2 anni dalla consegna materiale del bene e deve essere fatta valere dal consumatore entro 2 mesi dalla scoperta del difetto. Le eventuali clausole inserite da professionisti o condizioni generali di contratto che limitino la durata la garanzia legale o la escludono possono integrare clausole vessatorie ai sensi dell’art. 33, comma 2, let. b), del predetto Codice.

Il codice prevede alcuni obblighi per il venditore:

  • prendere in consegna il prodotto difettoso per verificare se il malfunzionamento dipenda o meno da un vizio di conformità. In particolare: (i) per i difetti che si manifestano nei primi sei mesi dalla data di consegna del prodotto la verifica è sempre a carico del venditore in quanto si presume che esistessero al momento della consegna; (ii) successivamente, nel solo caso in cui il malfunzionamento non dipenda da un vizio di conformità, può essere chiesto al consumatore il rimborso del costo – ragionevole e preventivamente indicato – che il venditore abbia sostenuto per la verifica;
  • riscontrato il vizio di conformità, effettuare la riparazione o la sostituzione del bene entro un congruo tempo dalla richiesta e senza addebito di spese al consumatore.

Le garanzie convenzionali, gratuite o a pagamento, offerte dal produttore o dal rivenditore, non sostituiscono né limitano quella legale di conformità, rispetto alla quale possono avere invece diversa ampiezza e/o durata.

Chiunque offra garanzie convenzionali deve comunque sempre specificare che si tratta di garanzie diverse e aggiuntive rispetto alla garanzia legale di conformità che tutela i consumatori.

Copyright 2020© Associazione culturale non riconosciuta Nuove Frontiere del Diritto Via Guglielmo Petroni, n. 44 00139 Roma, Rappresentante Legale avv. Federica Federici P.I. 12495861002. 
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Il diritto di frequentazione del genitore ai tempi del Covid-19: la compressione di diritti fondamentali e le posizioni giurisprudenziali

Avv. Giacomina Carla Squitieri

La decretazione d’urgenza che accompagna il nostro presente da quando è sorta l’emergenza epidemiologica da COVID-19 ha comportato, inevitabilmente, il sorgere di una serie di complicate questioni relative alla necessità di salvaguardare la salute pubblica anche a discapito di altre posizioni sostanziali, seppur costituzionalmente garantite. Tale circostanza risulta particolarmente evidente laddove a rapportarsi siano il diritto alla frequentazione ed il diritto alla salute ex art. 32 Cost., non solo nell’interesse generale ma anche del minore e dei genitori. Purtroppo sul punto, non si registra uniformità tra le posizioni giurisprudenziali e ciò perché il veloce susseguirsi di misure limitative sempre più stringenti, ha costretto il giudicante investito della questione episodica, a spostare di volta in volta il baricentro degli interessi coinvolti.

Nello specifico si commenta il provvedimento del Tribunale di Roma, sez. I, ordinanza 7 aprile 2020, n. 3692, del Tribunale di Busto Arsizio, decreto 3 aprile 2020 e del Tribunale di Vasto, decreto 2 aprile 2020.   

Le posizioni giurisprudenziali

In tutte le ipotesi in analisi, seppur scaturenti da vicende differenti, il Tribunale è stato chiamato a pronunciarsi sostanzialmente sulle modalità ed i tempi di esercizio del diritto-dovere di frequentazione dei genitori a fronte delle limitazioni poste dal diritto delle emergenze al fine di salvaguardare la salute pubblica.

In primis si evidenzia che, ai sensi dell’art. 83, comma 3 del D.L. n. 18/2020, nonostante il periodo di sospensione stabilito a causa dell’emergenza sanitaria, devono essere trattati i procedimenti per i quali sia ravvisabile una situazione di grave pregiudizio per i minori, quale è sicuramente quella da cui derivi una possibile violazione del principio di bigenitorialità (art. 30 Cost. ed art. 8 CEDU), prioritario interesse del minore posto alla base della legge n. 54 del 2006. Pregiudizio e conseguente urgenza di trattazione che sono stati ravvisati dai giudici summenzionati, i quali hanno adottato i provvedimenti necessari inaudita altera parte.

Dall’analisi di questi ultimi è possibile rinvenire due orientamenti antitetici, quello più restrittivo che ritiene recessivi alcuni aspetti della genitorialità rispetto all’emergenza in corso e quello che, attraverso un’interpretazione ampia delle disposizioni normative d’emergenza ed un bilanciamento tra gli interessi in gioco, garantisce il diritto dei genitori e dei figli al rispetto della vita familiare.

Nello specifico, al primo orientamento aderisce il Tribunale di Vasto il quale con il decreto del 2 aprile 2020, ha ritenuto che consentire gli incontri dei minori con i genitori dimoranti in un Comune diverso da quello di residenza dei minori stessi, non realizzerebbe affatto le condizioni di sicurezza e prudenza di cui ai Decreti della P.C.M. che si sono susseguiti nel mese di marzo 2020. Pertanto, nel bilanciamento degli interessi coinvolti, ha concluso che quello alla salute pubblica prevale in ogni caso, anche sul diritto del minore alla bigenitorialità oltre che sul diritto-dovere di frequentazione dei genitori separati/divorziati, soprattutto laddove non sia verificabile se il minore venga o meno esposto a rischio sanitario. Il giudice vastese quindi, in conformità dell’orientamento espresso poco tempo prima con decreto dalla Corte d’Appello di Bari il 26 marzo 2020 e ritenendo scopo primario della normativa emergenziale, tesa al contenimento del contagio, quello di attuare una rigorosa e universale limitazione dei movimenti sul territorio con conseguente sacrificio di tutti i cittadini ed anche dei minori, ha specificato che di fatto il diritto-dovere di frequentazione è stato sospeso limitatamente agli incontri “in presenza”. Il Tribunale di Vasto, infatti, nel rigettare l’istanza presentata dal genitore non collocatario dimorante in un Comune diverso da quello presso il quale si trovava la figlia minore, al fine di ottenere l’emissione di un provvedimento di collocazione presso di sé della stessa nel periodo oggetto di restrizioni, ha disposto che il ricorrente possa esercitare il proprio diritto di frequentazione attraverso colloqui telefonici riservati in videochiamata con la figlia, secondo un calendario puntualmente indicato in decreto.

È chiaro che nulla esclude che al termine dell’emergenza sanitaria, venga posta fine alla sospensione permettendo la riespansione del diritto, seppur nei limiti delle eventuali nuove disposizioni di contenimento vigenti.

Maggiori adesioni ha avuto l’orientamento opposto a quello appena descritto.

Il Tribunale di Roma con ordinanza n. 3692 del 7 aprile 2020, nel decidere in merito alla vicenda in cui un genitore collocatario, in conseguenza dell’emergenza sanitaria, si allontanava da Roma e si recava in Puglia, portando con sé i figli, senza avvisare in alcun modo il padre e senza comunicare il nuovo domicilio, riassume egregiamente il fulcro di tale indirizzo.

Difatti la questione principale decisa dal Tribunale ha riguardato l’influenza esercitabile dall’emergenza sanitaria, non solo sul concreto esercizio dei rapporti tra genitori e figli, ma, preliminarmente, sulla possibilità di derogare alle norme ordinarie. È evidente che, secondo la soluzione adottata dal giudice, l’emergenza non può neppure determinare deroghe al diritto del genitore non collocatario di frequentare i figli.

Nello specifico il giudice romano, richiamando gli insegnamenti della Corte di Cassazione, ha rimarcato che non può ritenersi che il genitore non collocatario abbia un diritto inferiore o condizionato, rispetto all’altro, nell’esercizio della genitorialità. La collocazione del minore concerne, infatti, modalità pratiche e risponde all’esigenza di dare allo stesso un punto di riferimento abitativo stabile, senza incidere in alcun modo sia sul principio di bigenitorialità, inteso “quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi” sia su quello di pari dignità di ciascuno dei genitori nell’esercizio delle facoltà educative e nell’attribuzione dei tempi di frequentazione.

Tutto ciò premesso, il Tribunale ha poi affermato, nel merito, la necessità di bilanciare l’interesse alla bigenitorialità con l’interesse alla salute, sia sotto il profilo individuale sia sotto quello collettivo ed ha ritenuto che l’esercizio del primo non pregiudicasse in alcun modo il secondo. A ragionare diversamente si negherebbe il diritto del genitore non collocatario di continuare a vedere e tenere con sé i figli, determinando la lesione del diritto di questi ultimi nonché un’inaccettabile riconoscimento della subalternità del genitore.

Alle stesse conclusioni giunge l’opzione ermeneutica sposata dal Tribunale di Busto Arsizio con il decreto del 3 aprile 2020, il quale, interpretando ampiamente le disposizioni normative d’urgenza, ha stabilito che il diritto di visita dei figli di genitori separati e divorziati non ha subìto limitazioni a seguito della normativa emergenziale per fronteggiare il Coronavirus, in quanto certamente rientrante nelle “situazioni di necessità” che legittimano lo spostamento sul territorio.

La vicenda esaminata dal suddetto Tribunale traeva origine dall’istanza presentata da un padre separato che vedeva sospesi e sostituiti da videochiamate i suoi incontri calendarizzati con i figli, secondo quanto indicato dai Servizi Sociali a seguito delle misure sanitarie adottate in relazione alla pandemia da Coronavirus. Tale sospensione degli incontri “in presenza”, evidentemente, non discende da una valutazione delle competenze genitoriali ma dall’interpretazione, da parte del Servizio Tutela Minori, della normativa emergenziale vigente.

Ecco perché il Tribunale ha disposto che i Servizi Sociali riferiscano sulle ragioni giustificative della sospensione dei rapporti padre/figli, la quale può discendere solo da preclusioni normative.

Proseguendo nell’analisi del provvedimento di cui si discorre, il giudice ha poi riportato tutte le considerazioni svolte dall’istante nel ricorso introduttivo ed in particolare si segnala tra queste, oltre all’inevitabile richiamo della normativa emergenziale in vigore, il riferimento al modello di autodichiarazione pubblicato sul sito del Ministero degli Interni dopo il D.L. n. 19/2020, il quale espressamente prevedeva gli “obblighi di affidamento di minori” tra le motivazioni che consentivano gli spostamenti individuali, circostanza questa riportata anche nel FAQ governativo e della Regione Lombardia.

Il riferimento al contenuto del FAQ è ravvisabile anche nella pronuncia del Tribunale di Milano che, tempo prima e precisamente l’11 marzo 2020, ha stabilito, anch’esso attraverso un’interpretazione ampia della disciplina vigente, che “le disposizioni del D.P.C.M. 8 marzo 2020 non impediscono al genitore di spostarsi per raggiungere i figli minori che si trovino presso la casa dell’altro genitore o dell’affidatario”.

Si segnala infine, una decisione particolarmente interessante del Tribunale di Terni del 30 marzo 2020, che si pone in una posizione mediana fra le ricostruzioni fin qui esaminate, stabilendo che “nel bilanciamento degli interessi di pari rango costituzionale, quello alla tutela della bigenitorialità e quello alla tutela della salute, gli incontri in spazio neutro tra il padre ed i figli devono avvenire con modalità che, pur assicurando il costante contatto, non mettano a rischio la salute psico-fisica dei minori, quali, ad esempio, videochiamate (skype ovvero whatsapp), attivate dall’operatore dei Servizi Sociali, il quale assicurerà la propria presenza per l’intera durata della conversazione”.

È chiaro quindi, che il Tribunale non ha ritenuto di attribuire priorità assoluta ad uno dei beni giuridici in gioco ma ha provveduto ad individuare delle modalità operative attraverso le quali salvaguardare entrambi gli interessi, pur tenendo conto delle peculiarità del caso concreto.

A parere di chi scrive, pur essendo apprezzabile la logica adottata dal giudice umbro, non può certo sottacersi che la soluzione concretamente adottata non appare del tutto soddisfacente: l’esercizio del diritto di frequentazione attraverso le videochiamate si pone, indubbiamente, come un minus rispetto alle modalità usuali.

La delicata questione

Appare necessario per poter meglio comprendere le posizioni giurisprudenziali esaminate, soffermarsi nel dettaglio sul contenuto della citata normativa d’urgenza.

È fondamentale premettere che quest’ultima non ha specificatamente affrontato il problema della frequentazione genitori/figli ma elenca una serie di misure incidenti su diritti e libertà costituzionali, tra cui la libertà personale ed il diritto di circolazione sul territorio.

Questa normativa speciale prende avvio con la Delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020, attraverso la quale è stato preso atto della dichiarazione di emergenza internazionale fatta dall’Organizzazione mondiale della sanità e delle raccomandazioni di quest’ultima circa la necessità di intervenire stabilendo misure adeguate a tutela della salute e dell’incolumità pubblica. Tenuto conto che detta situazione di emergenza non è stata ritenuta fronteggiabile con mezzi e poteri ordinari, ne è scaturita la dichiarazione dello stato di emergenza per sei mesi ex artt. 7, comma 1, lett. c), e 24, comma 1, D.lgs. n. 1 del 2018. Si tratta di un tipo di intervento tra quelli più ponderosi previsti dal nostro ordinamento, atteso che gli articoli summenzionati regolamentano “Emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo che in ragione della loro intensità o estensione debbono, con immediatezza d’intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo ai sensi dell’art. 24”, il quale dal canto suo prevede che “il Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, formulata anche su richiesta del Presidente della Regione o Provincia autonoma interessata e comunque acquisitane l’intesa, delibera lo stato d’emergenza di rilievo nazionale, fissandone la durata e determinandone l’estensione territoriale con riferimento alla natura e alla qualità degli eventi e autorizza l’emanazione delle ordinanze di protezione civile di cui all’articolo 25”, le quali possono essere assunte “in deroga ad ogni disposizione vigente, ma nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento e delle norme dell’Unione europea” purché comunque contengano l’indicazione delle norme cui si intende derogare e le relative motivazioni.

Il D.L. 23 febbraio 2020, n. 6, conv., con modificazioni, nella L. 5 marzo 2020, n. 13, ha previsto la possibilità di massima incisività delle misure via via adottate con i decreti successivi. Com’è noto, sulla base di questa legge sono stati emanati ulteriori decreti legge, decreti della Presidenza del Consiglio dei ministri e una serie di ordinanze da parte dei ministri coinvolti.

Tornando agli aspetti della succitata normativa che più interessano ai fini di questa breve disamina, rileva il D.P.C.M del 9 marzo 2020 che ha dato la stura al crescendo di misure sempre più stringenti incidenti tra le altre cose, anche sul diritto di frequentazione. Nel vigore di questo provvedimento che prevedeva: “a) evitare ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dai territori di cui al presente articolo, nonché all’interno dei medesimi territori, salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute. È consentito il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza…” era stato pacificamente ritenuto che accompagnare i figli dalla casa di un genitore all’altro, sia all’interno dello stesso comune che in uno diverso, rientrasse tra le specifiche ragioni in grado di giustificare, tramite l’autocertificazione, lo spostamento. In tal senso aveva chiarito anche il Governo tramite le cd. FAQ, pubblicate sul sito istituzionale e richiamate in più d’una delle decisioni giudiziarie su commentate. In argomento non poteva che rilevarsi il fatto che i figli di genitori separati o divorziati hanno due domicili, coincidenti con ciascuna delle abitazioni dei genitori, e quindi gli spostamenti tra i due rientravano senza alcun particolare problema nella previsione che consentiva “il rientro presso l’abitazione, il domicilio o la residenza”.

Tale conclusione è diventata meno certa in seguito all’ordinanza del Ministero della salute del 20 marzo 2020 la quale, inasprendo ulteriormente le misure restrittive, ha introdotto in merito agli spostamenti consentiti, il riferimento al solo domicilio principale. Da ciò rampollava l’incertezza sul poter intendere quest’ultimo come riferito esclusivamente al domicilio del genitore collocatario, con la conseguenza di includere nell’ambito della limitazione anche gli spostamenti legati alla frequentazione genitoriale.

Sicuramente sul punto era da preferire un’interpretazione strettamente letterale della limitazione, in ossequio a quanto disposto dall’art. 12, comma 1 delle preleggi, ed in effetti, l’ordinanza in commento, vieta espressamente solo lo spostamento verso le seconde case, intendendo evidentemente precisare, a contrario, il significato di tale locuzione attraverso il richiamo al domicilio principale. Senza alcun dubbio il domicilio del genitore non collocatario non può essere assimilato a una seconda casa.

Non può certo sottacersi inoltre, il fatto che in termini di fonti del diritto, l’ordinanza del Ministro della salute, pur se temporalmente successiva, resta in posizione subordinata rispetto al decreto del Consiglio dei Ministri del 9 marzo 2020 il quale, come già evidenziato riteneva pacificamente esercitabile l’attività di cui si discorre.

Maggiori problematiche sono sorte quando con l’adozione del decreto del 22 marzo, viene espressamente abolita, tra le ipotesi consentite, la possibilità di fare ritorno nel proprio domicilio. La nuova regolamentazione è palesemente più restrittiva rispetto alla precedente, difatti, scompare la “situazione di necessità” ed essendo stato aggiunto un ulteriore limite territoriale quale quello del comune di residenza, vengono aggiunte le “comprovate esigenze di assoluta urgenza” che consentono gli spostamenti ultra comunali.

Quanto appena rimarcato significa, nell’ottica del diritto di frequentazione, che il minore, quand’anche si trovasse nella casa del genitore non collocatario, non potrà certo raggiungere il domicilio dell’altro, laddove si trovi in un altro comune ed analogamente in caso contrario. Tali spostamenti resterebbero limitati alla ricorrenza delle “comprovate esigenze di assoluta necessità” in cui certamente non rientra l’esercizio della normale frequentazione genitori-figli.

Tuttavia l’aspetto che lascia perplessi è l’assunzione del territorio comunale quale area di riferimento per gli spostamenti che, riguardo all’argomento di cui si discorre, realizza in maniera evidente una disparità di trattamento che non trova alcuna giustificazione né funzionale né giuridica, se non quella del luogo in cui si trovano i figli o i genitori.

Ai decreti fin qui analizzati è stato aggiunto il D.L. n. 19 del 25 marzo 2020, il quale riespande il diritto alla frequentazione dei genitori, eliminando il limite del territorio comunale e le comprovate esigenze di assoluta necessità. Questa nuova disciplina degli spostamenti deve, tuttavia, norme alla mano, ritenersi operante solo dopo la data di espirazione del D.P.C.M. del 22 marzo 2020.

È importante però evidenziare come le FAQ pubblicate il 26 marzo dal Governo, riprendevano i contenuti già richiamati in precedenza, definendo infatti come consentito lo spostamento tra i domicili dei genitori del minore, seppur ubicati in comuni diversi. Questa precisazione, più consona alla garanzia degli interessi coinvolti, consente di evitare che la situazione d’emergenza sanitaria possa essere utilizzata per ampliare o per restringere il diritto di frequentazione in analisi.

L’incertezza derivante da tale quadro normativo ha, come ampiamente evidenziato in precedenza, dato origine alle diverse posizioni giudiziarie analizzate ma con il nuovo D.P.C.M. del 26 aprile 2020 sembra si sia fatto finalmente un passo in avanti. Con tale decreto infatti, non solo è stata nuovamente introdotta la previsione secondo cui “è in ogni caso consentito il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza” ma è stato anche riconosciuto tra gli spostamenti necessari, quello per incontrare i congiunti, a condizione che vengano comunque rispettate le regole di distanza interpersonale, il divieto di assembramento e l’impiego delle mascherine.

Si segnala infine, che con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della legge n. 27 del 24 aprile 2020 si è concluso l’iter di conversione del D.L. 17 marzo 2020, n. 18, c.d. decreto “Cura Italia”, con tutte le modifiche apportate dal maxiemendamento governativo. Questa legge ha introdotto rilevanti novità in tema di procedimenti relativi a minori e famiglia, accogliendo i suggerimenti della prassi giurisprudenziale nel periodo dell’emergenza sanitaria ed ha introdotto una nuova disciplina per lo svolgimento degli incontri tra genitori e figli nel cd. spazio neutro, ipotesi simile a quella sottoposta e decisa dal Tribunale di Terni con il provvedimento citato in precedenza. È stata disegnata la possibilità, in via di deroga al regime ordinario disposto dal giudice della separazione, di nuove forme di svolgimento, mediante connessione da remoto, degli incontri genitori-figli in forma protetta.

A parere di chi scrive è importante porre l’accento sul fatto che la richiamata nuova disciplina è intrisa del principio per cui la sospensione del diritto di frequentazione genitori/figli è da intendersi come extrema ratio poiché pregiudizievole per l’interesse prevalente del minore.

In conclusione, indipendentemente dall’interpretazione, criticabile o meno, della disciplina emergenziale attualmente in vigore, non può aprioristicamente ritenersi prevalente il diritto alla salute rispetto ad altri diritti fondamentali come quello alle relazioni familiari, tanto più in un momento come quello che stiamo vivendo che già da solo mette a dura prova l’equilibrio psicofisico, di per sé delicato, dei figli di genitori separati o divorziati. Bisognerebbe in realtà, come mostrano anche alcune delle recenti pronunce giurisprudenziali commentate, evitare automatismi e procedere, nel necessario bilanciamento dei diritti, a trovare soluzioni fondate sul buon senso e sulle specificità del caso concreto, sempre nell’ottica del superiore interesse del minore.

Fonti:

D.L. 18/2020;

art. 30 Cost.;

art. 8 CEDU;

legge n. 54 del 2006;

Tribunale di Vasto, decreto del 2 aprile 2020;

Corte d’Appello di Bari, decreto del 26 marzo 2020;

Tribunale di Roma, ordinanza n. 3692 del 7 aprile 2020;

Cassazione civile, ordinanza n. 9764 del 2019;

Tribunale di Busto Arsizio, decreto del 3 aprile 2020;

Tribunale di Milano, decreto dell’11 marzo 2020;

Tribunale di Terni, sentenza del 30 marzo 2020;

D.lgs. n. 1 del 2018;

D.P.C.M n. 11 del 9 marzo 2020;

ordinanza del Ministero della salute del 20 marzo 2020;

D.P.C.M. 22 Marzo 2020;

D.L. n. 19 del 25 marzo 2020;

D.P.C.M. del 26 aprile 2020;

legge n. 27 del 24 aprile 2020.

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Il diritto alla provvigione nel caso di mediazione per vendita immobiliare

Casi nei quali  si configura la conclusione dell’affare ex art. 1755 c.c.

Avv. Giacomina Carla Squitieri

Con l’ordinanza del 10 aprile 2020, n. 7781 la Cassazione ha escluso che il diritto alla provvigione sorga qualora tra le parti non sia stato concluso l’affare in senso economico-giuridico previsto dall’art. 1755 c.c., “ma si sia soltanto costituito un vincolo idoneo a regolare le successive articolazioni del procedimento formativo dell’affare, come nel caso in cui sia stato stipulato un patto di opzione, idoneo a vincolare una parte soltanto, ovvero un cd. “preliminare di preliminare”, costituente un contratto ad effetti esclusivamente obbligatori non assistito dall’esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. in caso di inadempimento”.

La vicenda

Il titolare della ditta individuale incaricata della vendita ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza con cui la corte d’appello di Genova, confermando integralmente la decisione del tribunale della stessa città, ha rigettato la domanda di pagamento della provvigione dal medesimo avanzata in relazione all’incarico conferitogli dai sig.ri S.M. e F.V. per la vendita di un appartamento di proprietà.

Difatti la corte territoriale ha escluso che fosse sorto il diritto dell’agente alla provvigione, ritenendo invero che la proposta irrevocabile di acquisto, formulata dall’acquirente reperito dall’incaricato mediatore, non integrasse quella “conclusione dell’affare” che l’art. 1755 c.c. pone all’origine del diritto alla provvigione.

Sul punto l’impugnata sentenza ha evidenziato che le parti non avevano sottoscritto alcun atto qualificabile come contratto preliminare di compravendita, ma avevano provveduto semplicemente a fissare gli accordi di massima già raggiunti in seguito alla presentazione della proposta di acquisto e ciò nella prospettiva della sottoscrizione di un contratto preliminare in un momento successivo. Nello specifico, la corte ligure ha argomentato le conclusioni su riportate rievocando la copiosa corrispondenza intercorsa tra le parti da cui si evinceva chiaramente che queste non avevano ancora trovato un accordo sulla conclusione dell’affare ed avevano altresì, fissato una data proprio per la stipula del contratto preliminare.

La corte d’appello ha inoltre, fondato la negazione del diritto del ricorrente alla provvigione sul rilievo che nell’atto di conferimento dell’incarico alla propria agenzia immobiliare era contenuta la clausola “tale somma vi sarà integralmente pagata contestualmente alla sottoscrizione del contratto preliminare“, la quale incontestabilmente collegava il diritto rivendicato alla stipula del contratto preliminare.

Il ricorrente invece, con i due motivi di ricorso, sostiene che la corte territoriale ha errato nel qualificare la proposta formulata dall’acquirente reperito come una minuta o un accordo di massima costituendo essa indubbiamente, un’intesa già vincolante fra le parti stipulanti secondo lo schema proposta-accettazione, ciò in virtù del fatto che conteneva tutti gli elementi essenziali e quasi tutti gli elementi accessori, del futuro negozio giuridico traslativo. Quanto alla clausola che prevedeva la contestualità tra il versamento della provvigione e la sottoscrizione del preliminare, il ricorrente argomenta che, alla stregua dei canoni ermeneutici di buona fede nell’esecuzione del contratto e di conservazione degli effetti del negozio giuridico, il riferimento ivi contenuto al contratto preliminare andrebbe inteso come genericamente riferito alla “conclusione dell’affare“, perfezionatasi nella specie, con l’accettazione da parte dei convenuti della proposta di acquisto del soggetto reperito dall’agenzia.

La posizione della giurisprudenza

La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso, ha in primis evidenziato che i due motivi in cui si articola il ricorso si risolvono, sostanzialmente, in una critica di merito all’apprezzamento delle risultanze istruttorie, operato dalla Corte ligure, riguardo all’interpretazione della proposta di acquisto e dell’atto di conferimento dell’incarico all’agenzia immobiliare del ricorrente. Sul punto ha ribadito, richiamando gli insegnamenti della sentenza della stessa corte n. 2465 del 2015, che “il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sé, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma afferisce solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione addotta, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati”.

La Corte ha proseguito poi, nell’ordinanza oggetto della presente disamina, precisando che l’orientamento giurisprudenziale richiamato dal ricorrente (Cass. civ., sez. III, sent. del 17-01-2017, n. 923; Cass. civ., sez. VI – 2, sent. del 30-11-2015, n. 24397), che collega anche all’ipotesi della conclusione di un contratto preliminare di preliminare l’insorgenza del diritto del mediatore alla provvigione è stato superato dalla più recente giurisprudenza di legittimità con la sentenza n. 30083 del 19/11/2019.

Difatti se da un lato, è sempre stato pacifico in giurisprudenza che la provvigione non è dovuta all’agente se le parti hanno unicamente predisposto una bozza di accordo, le cd. Puntuazioni, da cui non scaturiscono pretese giudizialmente tutelabili, diversamente si è pronunciata negli anni la giurisprudenza in merito all’ipotesi della proposta di acquisto integrante un preliminare di preliminare.

In particolare la giurisprudenza più recente succitata, cui aderiscono gli ermellini nel rigettare il ricorso oggetto della nostra analisi, ha avuto modo di chiarire che, poiché il diritto alla provvigione del mediatore deriva dalla conclusione dell’affare di cui all’art. 1755 c.c., ai fini della relativa insorgenza, non può ritenersi sufficiente un mero accordo preparatorio finalizzato a regolamentare il successivo svolgimento del procedimento formativo del programmato contratto definitivo. L’orientamento in questione ha infatti, precisato che, al fine di riconoscere al mediatore il diritto alla provvigione, tra le parti poste in relazione dallo stesso, deve costituirsi un vincolo giuridico che abiliti ciascuna di esse ad agire per la esecuzione specifica del negozio, nelle forme di cui all’art. 2932 c.c., ovvero per il risarcimento del danno derivante dal mancato conseguimento del risultato utile del negozio programmato.

Pertanto è da escludersi che possa ritenersi concluso un affare rilevante ai sensi dell’art. 1755 c.c. nel caso in cui sia stato stipulato un patto di opzione, idoneo a vincolare una parte soltanto, ovvero un c.d. “preliminare di preliminare”, costituente notoriamente un contratto ad effetti esclusivamente obbligatori non assistito dall’esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. in caso di inadempimento. In quest’ultima ipotesi infatti, ove sia configurabile un interesse delle parti meritevole di tutela alla formazione progressiva del contratto fondata sulla differenziazione dei contenuti negoziali delle varie fasi in cui si articola il procedimento formativo, tale contratto legittima la parte non inadempiente solo ad agire per ottenere il risarcimento dell’autonomo danno derivante dalla violazione, contraria a buona fede, della specifica obbligazione contenuta nell’accordo interlocutorio.

Fonti:

Art. 1755 c.c.;

Cassazione civile, sez. VI-2, ordinanza 10 aprile 2020, n. 7781;

Cassazione civile, sez. II, sent. del 19-11-2019, n. 30083;

Cassazione civile, sez. III, sent. del 17-01-2017, n. 923;

Cassazione civile, sez. VI – 2, sent. del 30-11-2015, n. 24397.

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L’osservanza degli obblighi di mantenimento nei confronti dei figli durante e dopo l’emergenza Covid-19

Avv. Giuliana Degl’Innocenti

Una volta rientrata l’emergenza sanitaria correlata al Coronavirus, gli italiani dovranno prepararsi ad affrontare un’altra sfida: quella finanziaria. Infatti se già in tempi non sospetti molte famiglie si trovavano in uno stato di sofferenza economica, a seguito della pandemia da Covid-19 risulteranno messe ancora più a dura prova. Tuttavia la speranza non dovrà venire mai meno e sicuramente non mancheranno al nostro Paese le potenzialità e gli strumenti per superare tutto ciò.

Sul fronte del diritto di famiglia mi preme evidenziare però come a seguito delle drastiche misure adottate dal Governo per il contenimento del contagio sia stata introdotta una normativa d’urgenza che incide inevitabilmente sull’esercizio di alcune fondamentali libertà costituzionali, come ad esempio quella di circolazione e riunione, a presidio appunto del prevalente diritto alla salute, anch’esso tutelato dalla nostra Costituzione e come pertanto pure i rapporti familiari siano divenuti suscettibili di essere intaccati con gravi ripercussioni legate alle restrizioni imposte che si riflettono appunto sulla regolazione e gestione dell’affidamento condiviso dei figli da parte dei genitori separati.

Su tale aspetto osservo infatti che le maggiori criticità che potrebbero scaturire dalle restrizioni imposte soprattutto in ordine al mutamento delle abitudini quotidiane e alla contrazione dell’ordinaria attività lavorativa, concernono soprattutto il regolare adempimento degli obblighi di  contribuzione al mantenimento della prole da parte del genitore onerato in ragione di una possibile riduzione del suo reddito, nonché influire sul diritto di visita e di frequentazione del minore da parte del genitore presso il quale non è stata stabilita la collocazione privilegiata, oltre che quello dei nonni.

E bene puntualizzare, infatti, che in conseguenza dell’inaspettata emergenza sanitaria e della conseguente diminuzione delle risorse finanziarie a disposizione delle famiglie, sia il padre che la madre e – soprattutto in caso di regime di affidamento condiviso (quello peraltro più diffuso costituendo la regola)– il genitore non collocatario della prole, obbligato anche ad assolvere l’obbligo di contribuzione al mantenimento per i figli e/o in certi casi anche del coniuge, potrebbe trovarsi nella condizione di non essere in grado di adempiere ai propri doveri, esponendosi così al rischio concreto di incorrere in gravi conseguenze sia sul versante civile che su quello penale.

Questi aspetti richiedono particolare attenzione soprattutto considerando che di solito riguardano soggetti minorenni o comunque non ancora autosufficienti.

Quindi, sia il padre che la madre al di là della crisi emergenziale che noi tutti viviamo, sono chiamati a continuare ad osservare gli accordi e le disposizioni inseriti nei verbali di separazione o nelle sentenze di divorzio emesse dal Tribunale  e ad assicurare il rispetto del principio di bigenitorialità.

E’ necessario tuttavia fare chiarezza su un punto fondamentale: qualora il genitore non collocatario della prole si trovasse  nell’impossibilità concreta e comprovata di seguire le modalità stabilite in ordine al diritto di visita del figlio, stante le restrizioni in ordine alla circolazione attualmente previste, oppure non potesse osservare con puntualità e integralmente l’obbligo di contribuzione al mantenimento ordinario e straordinario della prole, risulta più che mai necessario evidenziare all’attenzione dei cittadini interessati alcuni rimedi in grado di evitare eventuali ripercussioni sanzionatorie riguardo alla predetta condotta.

E’ da rilevare infatti che nonostante circolino interpretazioni della recente decretazione d’urgenza adottata dal Governo favorevoli a permettere gli spostamenti per assicurare il diritto di visita dei figli minori, è comunque il caso di ricordare che in ipotesi di concrete difficoltà (per esempio se trattasi di genitori residenti in regioni o comuni diversi) oppure in quella di sopraggiunte e improvvise diminuzioni reddituali, è consigliabile che il genitore onerato illustri, a prescindere, dette circostanze all’altro genitore attraverso una comunicazione formale al fine appunto di comprovare – in caso di successive eventuali contestazioni da parte dell’altro – le motivazioni e gli oggettivi impedimenti legati all’emergenza di specie che hanno reso impossibile all’obbligato/a di adempiere puntualmente ai propri obblighi, sia quelli legati al calendario di visita che quelli di contribuzione al mantenimento dei figli.

Aggiungo anche che se si vuole diminuire ulteriormente il pericolo di andare in contro a querele e/o a recuperi forzosi dell’assegno di contribuzione al mantenimento non corrisposto, oppure se si vuole ridurre il rischio di incorrere in un’eventuale contestazione di violazione delle condizioni di separazione, sarebbe opportuno formalizzare presso le sedi competenti anche una modifica consensuale delle citate condizioni che appunto comprenda e consideri la contingenza epidemiologica  in oggetto e le relative ripercussioni sui doveri posti a carico dei genitori.

Una breve riflessione sulla recente giurisprudenza di legittimità, ci aiuterà, in chiusura, ad approfondire la specifica questione che qui interessa, offrendoci altresì l’orientamento più sicuro a cui in ogni caso uniformarci per evitare di incappare nelle spiacevoli conseguenze sopra elencate.

Vediamo la pronuncia della Cassazione penale (sent. 10422/2020): Un piccolo artigiano, rimasto senza lavoro durante l’anno 2007, aveva avuto nei due anni successivi incassi mensili di circa 1.000 euro, ma aveva deciso di non versare più all’ex moglie l’assegno stabilito in sede di separazione a favore dei figli , appunto 250 euro al mese oltre al 50% delle spese mediche e scolastiche, in virtù del presupposto che i pochi soldi che guadagnava servivano per far fronte al pagamento dell’affitto, delle spese correnti, di debiti con l’Agenzia delle Entrate, con le banche e con il fratello.    L’ex compagna aveva quindi sporto querela contro l’uomo per violazione degli obblighi di assistenza familiare  sostenendo che i bambini non potevano considerarsi ‘mantenuti’ grazie a qualche giocattolo portato loro di tanto in tanto dal padre. L’uomo si era difeso sostenendo il proprio stato di indigenza e che i debiti contratti riguardavano spese inerenti all’attività di piccolo artigiano all’epoca svolta, e non spese personali o addebitabili a un suo comportamento colpevole. Oltre a ciò – aveva proseguito – i figli non si sarebbero mai trovati in uno stato di bisogno perché erano stati assistiti dai nonni abbienti. La Cassazione, nel confermare le sentenze di primo e secondo grado del Tribunale e della Corte d’Appello torinesi, ha risolto il caso condannando l’uomo a due mesi di reclusione e al pagamento di 220 euro di multa, con il beneficio della pena sospesa.

“Lo stato di bisogno di un figlio minore è presunto“, ha dichiarato la Corte, trattandosi di un soggetto non in grado di procacciarsi un reddito proprio. Ma vi è di più: la Cassazione ha pure affermato che lo stato di bisogno e l’obbligo di contribuire al mantenimento dei figli minori non vengono meno anche quando al mantenimento dei figli minori o inabili provveda in via sussidiaria l’altro genitore o terzi (i nonni, nel caso in oggetto).

Secondo la Suprema Corte, infatti, per escludere la responsabilità penale il padre avrebbe dovuto provare rigorosamente di essere stato impossibilitato incolpevolmente a soddisfare le esigenze minime di vita dei figli. Irrilevanti, dunque, le difficoltà economiche lamentate dall’uomo poiché non sono state ritenute sufficienti per integrare gli estremi di un vero e proprio stato di indigenza economica e di “una situazione incolpevole di assoluta indisponibilità di introiti sufficienti a soddisfare le esigenze minime di vita” dei figli minori.

Alla luce di tutto ciò è proprio il caso di dire quindi: occhio a chi intende utilizzare l’emergenza Covid-19 per venire meno ai propri doveri di genitore.

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Guida operativa alla lettura delle disposizioni in materia di Giustizia del d.l. n. 18/2020 a cura dell’OCF

GUIDA OPERATIVA ALLA LETTURA DELLE DISPOSIZIONI IN MATERIA DI GIUSTIZIA DEL D.L. N. 18/2020 A CURA DELL’UFFICIO DI MONITORAGGIO LEGISLATIVO DELL’OCF

Il D.L. 17.03.2020 n. 18, accanto alle previsioni di natura economica, contiene diverse norme che incidono sull’organizzazione della giustizia e sulla disciplina processuale, modificando o, a seconda dei casi, chiarendo quanto già previsto in materia – con soluzioni, a dire il vero, non sempre cristalline e perspicue – dai decreti-legge nn. 9 e 11 del 2020. Con la presente guida operativa s’intende fornire ai colleghi un primo strumento d’orientamento, rispetto a questo nuovo assetto giuridico della professione forense ai tempi dell’emergenza.

Per leggere tutto il testo:

Guida operativa d.l. 18 2020