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Istituzione elenco dei mediatori esperti in Giustizia riparativa: decreto 9 giugno 2023

Decreto 9 giugno 2023 – Di concerto con il Ministro del Lavoro e delle politiche sociali e con il Ministro dell’Università e della ricerca, recante:

Istituzione presso il Ministero della giustizia dell’elenco dei mediatori esperti in giustizia riparativa. Disciplina dei requisiti per l’iscrizione e la cancellazione dall’elenco, del contributo per l’iscrizione allo stesso, delle cause di incompatibilità, dell’attribuzione della qualificazione di formatore, delle modalità di revisione e vigilanza sull’elenco, ed infine della data a decorrere dalla quale la partecipazione all’attività di formazione costituisce requisito obbligatorio per l’esercizio dell’attività, ai sensi degli articoli 60, comma 2, e 93, commi 2 e 3, del d. lgs. 150/2022 di attuazione della l. 134/2021 recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari

9 giugno 2023

Il Ministro della Giustizia

VISTO l’articolo 59, commi 7, 8, 9 e 10 del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, di attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari;

VISTO in particolare, l’articolo 60, comma 2, del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, il quale prevede che, con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e con il Ministro dell’università e della ricerca, da adottarsi entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo, sia istituito presso il Ministero della giustizia l’elenco dei mediatori esperti in programmi di giustizia riparativa;

VISTO altresì l’articolo 93, comma 2, del medesimo decreto legislativo, il quale prevede che, con decreto del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’università e della ricerca, da adottarsi entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo, siano stabilite le modalità di inserimento in detto elenco dei soggetti in possesso dei requisiti di cui al comma 1 della stessa norma, nonché le modalità di svolgimento e valutazione della prova pratica valutativa di cui al comma 2;

VISTA la legge 5 febbraio 1992, n. 104, legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate;

VISTA la legge 8 ottobre 2010, n. 170, recante nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico;

VISTO l’articolo 3, comma 4-bis del decreto-legge 9 giugno 2021, n. 80, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2021, n. 113, recante misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per l’efficienza della giustizia;

VISTO l’articolo 5, comma 2, del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, recante codice dell’amministrazione digitale;

VISTO l’articolo 4, comma 9, del decreto-legge 29 dicembre 2009, n. 193, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 febbraio 2010, n. 24, recante interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario;

VISTO il decreto del 9 novembre 2021 della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dipartimento della funzione pubblica, recante modalità di partecipazione ai concorsi pubblici per i soggetti con disturbi specifici dell’apprendimento;

VISTO il decreto del Ministro dell’economia e delle finanze del 9 ottobre 2006, n. 293, Regolamento recante norme per l’introduzione di nuove modalità di versamento presso le tesorerie statali;

Di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e con il Ministro dell’università e della ricerca

DECRETA

Art. 1
(Definizioni)

  1. Ai fini del presente decreto si intende per:

a) «attività preliminari»: le attività precedenti il primo incontro di cui all’articolo 54 del decreto legislativo;
b) «Centro»: Centro per la giustizia riparativa di cui all’articolo 42, comma 1, lettera g), del decreto legislativo;
c) «Conferenza locale»: Conferenza locale per la giustizia riparativa di cui all’articolo 63, commi 2, 3, 4, 5, 6 del decreto legislativo;
d) «Conferenza nazionale»: Conferenza nazionale per la giustizia riparativa di cui all’articolo 61, del decreto legislativo;
e) «convivente del mediatore esperto»: la persona legata al mediatore esperto da un’unione civile ai sensi dell’articolo 1, comma 2, della legge 20 maggio 2016, n. 76, o da una convivenza di fatto, anche se non formalizzata ai sensi dell’articolo 1, comma 36, della stessa legge;
f) «decreto legislativo»: il decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150;
g) «elenco»: l’elenco dei mediatori esperti istituito presso il Ministero;
h) «esito riparativo»: l’accordo di cui agli articoli 42, comma 1, lettera e) e 56, del decreto legislativo;
i) «familiare»: la persona fisica di cui all’articolo 42, comma 1, lettera d), del decreto legislativo;
l) «formazione del mediatore esperto»: il percorso formativo, iniziale e continuo, del mediatore esperto, ai sensi dell’articolo 59 del decreto legislativo;
m) «formazione del mediatore esperto formatore»: il percorso formativo, iniziale e continuo, del mediatore esperto formatore;
n) «giustizia riparativa»: ogni programma come definito all’articolo 42, comma 1, lettera a), del decreto legislativo;
o) «mediatore esperto»: il mediatore esperto in programmi di giustizia riparativa, qualificazione conseguita in seguito al superamento della prova finale di cui all’articolo 59, comma 9, del decreto legislativo;
p) «mediatore esperto coassegnatario del programma»: uno dei due mediatori che presiede allo svolgimento del programma, ai sensi dell’articolo 53, comma 1, del decreto legislativo;
q) «mediatore esperto formatore»: il mediatore esperto ammesso a svolgere attività di formazione dei mediatori esperti, ai sensi dell’articolo 59, comma 7, del decreto legislativo, qualificazione conseguita in seguito all’effettuazione della simulazione, con giudizio di idoneità, di cui all’articolo 12, comma 5, del decreto ministeriale previsto dall’articolo 59, comma 10, del decreto legislativo;
r) «Ministero»: il Ministero della giustizia;
s) «partecipanti al programma»: i soggetti partecipanti al programma di cui agli articoli 42, comma 1, lettere b), c), d), e 45, comma 1, del decreto legislativo;
t) «persona indicata come autore dell’offesa»: la persona di cui all’articolo 42, comma 1, lettera c), del decreto legislativo;
u) «programma»: una delle tipologie di programmi di giustizia riparativa di cui all’articolo 53, comma 1, del decreto legislativo;
v) «prova pratico-valutativa»: la prova di cui all’articolo 93, comma 2, del decreto legislativo;
z) «responsabile»: il responsabile della tenuta dell’elenco;
aa) «tirocinio»: il percorso di apprendistato guidato del mediatore esperto, di cui all’articolo 59, comma 3, ultima ipotesi, del decreto legislativo;
bb) «Università»: le istituzioni universitarie che compongono il sistema della formazione superiore di tipo universitario;
cc) «vittima del reato»: la persona fisica di cui all’articolo 42, comma 1, lettera b), del decreto legislativo.

Art. 2
(Oggetto)

  1. Il presente decreto disciplina:

a) l’istituzione presso il Ministero dell’elenco dei mediatori esperti, con l’indicazione, accanto al nominativo del mediatore esperto, dell’eventuale qualificazione di formatore;
b) i requisiti per l’inserimento nell’elenco, ai sensi degli articoli 60 e 93 del decreto legislativo, ai fini dell’esercizio dell’attività di mediatore esperto;
c) le modalità di svolgimento e valutazione della prova pratico-valutativa e la relativa disciplina dell’onere finanziario a carico dei partecipanti;
d) i criteri per la cancellazione dei mediatori esperti dall’elenco;
e) le cause di incompatibilità con l’esercizio dell’attività di mediatore esperto;
f) il contributo per l’iscrizione nell’elenco;
g) le modalità di revisione dell’elenco;
h) la vigilanza sull’elenco;
i) i criteri per la valutazione delle esperienze e delle competenze dei mediatori esperti, al fine dell’attribuzione della qualificazione di formatore;
l) l’individuazione della data a decorrere dalla quale la partecipazione all’attività di formazione costituisce requisito obbligatorio per l’esercizio dell’attività di mediatore esperto e di mediatore esperto formatore.

Art. 3
(Elenco)

  1. È istituito l’elenco dei mediatori esperti abilitati alla conduzione dei programmi di giustizia riparativa.
  2. L’elenco è tenuto presso il Ministero, titolare del trattamento dei dati personali, in sede di prima applicazione, presso il Dipartimento per gli affari di giustizia. Presso il Dipartimento ne è responsabile il direttore generale degli affari interni, o persona da lui delegata, incardinata o assegnata alla suddetta direzione generale, con qualifica dirigenziale o con qualifica di magistrato.
  3. Il responsabile dell’elenco, al fine di esercitare la vigilanza sullo stesso nonché sull’attività degli iscritti, si può avvalere dell’Ispettorato generale del Ministero e della collaborazione dei Centri; il responsabile cura altresì l’aggiornamento dei dati.
  4. L’elenco è pubblicato sul sito istituzionale del Ministero e aggiornato con cadenza almeno trimestrale.
  5. L’elenco contiene l’annotazione della qualificazione di formatore ed è altresì articolato in una parte accessibile al pubblico ed una ad accesso riservato.
  6. Nella parte accessibile al pubblico sono consultabili i dati anagrafici del mediatore esperto, comprensivi di codice fiscale, numero e data di iscrizione all’elenco e di eventuale assunzione della qualificazione di formatore.
  7. Nella parte ad accesso riservato, sono indicati e consultabili soltanto dai Centri, dai partecipanti alla Conferenza nazionale e alle Conferenze locali e da coloro che ricoprono la carica di Autorità Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e di Garante territoriale dei diritti dei detenuti nonché di Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza, nell’esercizio delle potestà loro conferite dalla legge, i dati relativi a:
    1. requisiti per l’inserimento nell’elenco, di cui agli articoli 4, 5, 6, 7 e 10;
    2. ente che ha rilasciato l’attestazione di cui agli articoli 9, comma 7, 10, comma 6 e 12, comma 5, del decreto ministeriale previsto dall’articolo 59, comma 10, del decreto legislativo;
    3. le richieste di sospensione o cancellazione volontaria dall’elenco e i provvedimenti di sospensione o cancellazione adottati, anche d’ufficio, dal responsabile.
  8. Ai soggetti di cui al comma 7 è altresì consentito l’accesso, su richiesta, alla documentazione relativa ai mediatori esperti, ivi inclusi i provvedimenti di sospensione e cancellazione dall’elenco.

Art. 4
(Requisito per l’inserimento nell’elenco ai sensi dell’articolo 60, comma 1, del decreto legislativo)

  1. Il possesso del requisito formativo per l’inserimento nell’elenco ai sensi degli articoli 59, comma 9, e 60, comma 1, del decreto legislativo, è comprovato dall’interessato mediante l’attestazione, con giudizio di idoneità, del superamento della prova finale teorico-pratica della formazione, di cui all’articolo 9, comma 7, del decreto ministeriale previsto dall’articolo 59, comma 10, del decreto legislativo.

Art. 5
(Requisiti per l’inserimento nell’elenco ai sensi dell’articolo 93, comma 1, lettera a), del decreto legislativo)

  1. Il possesso dei requisiti formativi ed esperienziali per l’inserimento nell’elenco ai sensi degli articoli 60, comma 1, e 93, comma 1, lettera a) del decreto legislativo è attestato dall’interessato mediante:
    1. certificazione, rilasciata da soggetti ed enti pubblici o privati eroganti formazione specialistica nella materia, o istituzioni universitarie, comprovante il conseguimento, alla data del 30.12.2022, di una formazione completa alla giustizia riparativa, analoga a quella di cui all’articolo 59, commi 5 e 6, del decreto legislativo, ed altresì attestante le modalità di svolgimento dell’attività formativa teorica e pratica. La formazione attestata nella certificazione può comprendere la frequenza di corsi, la partecipazione a seminari e convegni nonché attività laboratoriali ed esperienziali, anche con l’utilizzo di esercitazioni pratiche di progettazione e sperimentazione della conduzione dei diversi programmi di giustizia riparativa, in riferimento a tutte le fasi dei distinti percorsi; discussioni guidate; analisi e discussioni di casi; giochi di ruolo; simulazioni; esercizi di risoluzione di problemi; esercizi di ascolto attivo; esercizi di comunicazione non verbale; sollecitazioni metaforiche; visione guidata di materiale audio-video; ascolto di testimonianze;
    2. certificazione, rilasciata da soggetti specializzati che erogano servizi di giustizia riparativa, pubblici o privati, i quali, alla data del 30.12.2022, risultavano convenzionati con il Ministero della giustizia ovvero che alla medesima data risultavano operare in virtù di protocolli di intesa con gli uffici giudiziari o altri enti pubblici. La certificazione reca l’indicazione della convenzione o del protocollo, ed attesta il possesso, nell’arco del decennio precedente il 30.12.2022, di un’esperienza nella conduzione di programmi, anche a titolo volontario e gratuito, presso i soggetti suindicati, della durata di almeno cinque anni, di cui tre consecutivi. A tal fine, la certificazione contiene: l’elenco dei programmi effettivamente svolti dall’interessato nel periodo indicato, tra quelli di cui all’articolo 53, comma 1, lettere a), b) e c) del decreto legislativo; la loro tipologia e durata; la specifica indicazione di quelli gestiti in via esclusiva o quale componente operativo di un gruppo di lavoro.

Art. 6
(Requisiti per l’inserimento nell’elenco ai sensi dell’articolo 93, comma 1, lettera b), del decreto legislativo)

  1. Il possesso del requisito formativo per l’inserimento nell’elenco ai sensi dell’articolo 93, comma 1, lettera b) del decreto legislativo, è attestato dall’interessato mediante certificazione, relativa alla formazione teorica e pratica ricevuta nonché al tirocinio seguito.
  2. La certificazione, rilasciata da soggetti ed enti pubblici o privati eroganti formazione specialistica nella materia, o istituzioni universitarie, comprova il completamento, alla data del 30.12.2022, di una formazione alla giustizia riparativa in materia penale, articolata come segue:
    1. almeno centosessanta ore di frequenza effettiva dedicate alla formazione teorica, ispirata a metodi, valori e principi della giustizia riparativa sanciti a livello internazionale, svoltasi altresì nelle forme tipiche della giustizia riparativa ed avente ad oggetto i seguenti insegnamenti: principi, teorie e metodi della giustizia riparativa, nozioni basilari di diritto penale, diritto processuale penale, diritto penitenziario, diritto minorile, criminologia, vittimologia e ulteriori materie correlate. Dette materie sono individuate tra le seguenti: elementi di diritto pubblico, con particolare riferimento al diritto antidiscriminatorio, studi di genere, psicologia giuridica, psicologia di comunità, psicologia del conflitto, antropologia giuridica e culturale, sociologia dei processi culturali e interculturali, sociologia della devianza, teorie sociologiche sul conflitto e sui conflitti, sociolinguistica. I principi, teorie e metodi della giustizia riparativa comprendono anche lo studio: del paradigma della giustizia riparativa in una visione europea e internazionale, con riferimento alle raccomandazioni e alle politiche internazionali; dei protagonisti, programmi, principi, standard e metodi della giustizia riparativa in materia penale; dei peculiari ambiti applicativi della giustizia riparativa, tra cui quelli relativi ai reati più gravi o commessi in contesti di criminalità organizzata o altresì con vittime minorenni o altrimenti vulnerabili; della deontologia del mediatore esperto; ;
    2. almeno trecentoventi ore di frequenza effettiva dedicate alla formazione pratica, svolta prioritariamente in presenza e nelle forme di cui all’articolo 5, comma 1, lettera a), ultimo capoverso, dedicata allo sviluppo delle capacità di ascolto e di relazione nonché a fornire competenze e abilità necessarie alla gestione degli effetti negativi dei conflitti, con specifica attenzione alle vittime, ai minorenni e alle altre persone vulnerabili, mediante: l’acquisizione della consapevolezza dei propri conflitti e danni, agiti e subiti; l’apprendimento delle pratiche e delle tecniche di giustizia riparativa; lo sviluppo di sensibilità specifica per i peculiari ambiti applicativi della giustizia riparativa, indicati nell’articolo 4, comma 4, lettera d) del decreto ministeriale di cui all’articolo 59, comma 10, del decreto legislativo; lo sviluppo della capacità di discernimento del programma più idoneo al caso concreto e dell’abilità di seguirne integralmente il relativo percorso, gestendone con competenza ogni sua fase; l’acquisizione dell’idoneità al lavoro di gruppo con altri mediatori esperti ed altresì dell’abilità di costruire il gruppo di lavoro idoneo al caso concreto; l’acquisizione, infine, delle specifiche competenze necessarie per operare nell’ambito di un servizio pubblico nonché delle abilità relazionali e dialogiche funzionali all’interazione anche con i servizi della giustizia, l’autorità giudiziaria, i difensori, i servizi del territorio, le autorità di pubblica sicurezza ed ogni ulteriore interlocutore sociale;
    3. almeno duecento ore di tirocinio successivo, comprendente l’affiancamento nella conduzione di almeno dieci programmi. A tal fine, la certificazione contiene l’elenco di tutti i programmi cui ha partecipato l’interessato, tra quelli di cui all’articolo 53, comma 1, lettera a), b) e c) del decreto legislativo nonché la loro tipologia e durata.
  3. Il possesso altresì del requisito di cui all’articolo 93, comma 2, seconda ipotesi, del decreto legislativo, è comprovato dall’interessato mediante l’attestazione, con giudizio di idoneità, del superamento della prova pratica-valutativa, di cui all’articolo 8.

Art. 7
(Requisiti per l’inserimento nell’elenco ai sensi dell’articolo 93, comma 1, lettera c), del decreto legislativo)

  1. Il possesso dei requisiti formativi ed esperienziali per l’inserimento nell’elenco ai sensi dell’articolo 93, comma 1, lettera c) del decreto legislativo, è attestato dall’interessato mediante:
    1. documentazione, presentata ai sensi degli articoli 46 e 47 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, attestante il servizio prestato presso i servizi minorili della giustizia o presso gli uffici di esecuzione penale esterna alla data del 30.12.2022, ed ancora in essere all’epoca di presentazione della domanda;
    2. certificazione, rilasciata da soggetti ed enti pubblici o privati eroganti formazione specialistica nella materia o istituzioni universitarie, comprovante il conseguimento, alla data del 30.12.2022, di una adeguata formazione alla giustizia riparativa, analoga a quella di cui all’articolo 59, commi 5 e 6, del decreto legislativo, ed altresì attestante le modalità di svolgimento dell’attività formativa teorica e pratica. La formazione attestata nella certificazione può comprendere la frequenza di corsi, la partecipazione a seminari e convegni nonché attività laboratoriali ed esperienziali, anche con l’utilizzo di esercitazioni pratiche di progettazione e sperimentazione della conduzione dei diversi programmi di giustizia riparativa, in riferimento a tutte le fasi dei distinti percorsi; discussioni guidate; analisi e discussioni di casi; giochi di ruolo; simulazioni; esercizi di risoluzione di problemi; esercizi di ascolto attivo; esercizi di comunicazione non verbale; sollecitazioni metaforiche; visione guidata di materiale audio-video; ascolto di testimonianze;
    3. apposita certificazione, attestante il possesso di un’esperienza acquisita nella medesima materia mediante il servizio prestato presso gli uffici di cui alla lettera a), della durata di almeno cinque anni, di cui tre consecutivi, nell’arco del decennio precedente il 30.12.2022. A tal fine, la certificazione contiene: l’elenco dei programmi effettivamente svolti, tra quelli di cui all’articolo 53, comma 1, lettere a), b) e c) del decreto legislativo, nel periodo indicato e nell’ambito del servizio prestato dall’interessato; la tipologia e durata di ogni singolo programma; la specifica indicazione di quelli gestiti in via esclusiva o quale componente operativo di un gruppo di lavoro.

Art. 8
(Prova pratico-valutativa)

  1. La prova pratico-valutativa di cui all’articolo 93, comma 2, seconda ipotesi, del decreto legislativo, è organizzata, nell’ambito della collaborazione di cui all’articolo 3, comma 2, del decreto ministeriale previsto dall’articolo 59, comma 10, del decreto legislativo, dalle Università e dai Centri che individuano altresì le modalità attraverso le quali vengono sostenuti dai candidati gli oneri finanziari della prova.
  2. Alla stessa accedono esclusivamente i soggetti in possesso del requisito formativo di cui all’articolo 93, comma 1, lettera b) del decreto legislativo, attestato nelle forme di cui all’articolo 6, comma 1 e 3 del presente decreto. Alla prova sovrintende una commissione di almeno cinque membri, composta da due formatori teorici e tre mediatori esperti formatori, scelti nell’ambito della collaborazione di cui al comma 1.
  3. La prova consiste nella dimostrazione, da parte dei candidati, della piena padronanza delle competenze tecnico-pratiche e delle specifiche abilità acquisite nel percorso formativo effettuato. La stessa, in particolare, mira a valutare, ai sensi dell’articolo 59, comma 6, del decreto legislativo, il possesso, in capo ai candidati stessi, di capacità di ascolto e di relazione, nonché delle seguenti competenze, abilità e capacità necessarie alla gestione degli effetti negativi dei conflitti:
    1. consapevolezza dei propri conflitti e danni, cagionati e subiti;
    2. piena padronanza delle pratiche e delle tecniche della mediazione, del dialogo riparativo e di ogni altro programma dialogico di cui all’articolo 53, comma 1, lettera c), del decreto legislativo;
    3. sensibilità specifica per i peculiari ambiti applicativi della giustizia riparativa, tra cui quelli relativi ai reati più gravi o commessi in contesti di criminalità organizzata o altresì con vittime minorenni o altrimenti vulnerabili;
    4. capacità di discernimento del programma più idoneo al caso concreto e abilità di seguirne integralmente il relativo percorso, gestendone con competenza ogni sua fase;
    5. idoneità al lavoro di gruppo con altri mediatori esperti ed altresì abilità di costruire il gruppo di lavoro idoneo al caso concreto;
    6. specifiche competenze necessarie per operare nell’ambito di un servizio pubblico nonché abilità relazionali e dialogiche funzionali all’interazione anche con i servizi della giustizia, l’autorità giudiziaria, i difensori, i servizi del territorio, le autorità di pubblica sicurezza ed ogni ulteriore interlocutore sociale.
  4. La prova, della durata complessiva non inferiore a sei ore, da svolgersi in presenza, consiste nella simulazione di un programma articolato nei differenti momenti ed attività di cui lo stesso si compone: segnalazione del caso; gestione delle attività preliminari, tra cui valutazione individualizzata della vittima e della persona indicata come autore dell’offesa, scelta dello stile del linguaggio da utilizzare e attività di informazione nei confronti dei partecipanti; scelta del programma più utile per la gestione del conflitto avente rilevanza penale; raccolta del consenso; conduzione del programma prescelto, con specifico riferimento alla gestione dei rapporti con l’altro mediatore, ed eventuali ulteriori mediatori, con la vittima o le vittime del reato, la persona indicata come autore dell’offesa e i loro familiari, con gli altri partecipanti, con l’autorità giudiziaria, con i difensori, gli interpreti ed i traduttori, con i servizi della giustizia e del territorio, con l’autorità di pubblica sicurezza e con ogni ulteriore interlocutore sociale; costruzione, ove possibile, dell’accordo riparativo; redazione della relazione e delle ulteriori comunicazioni all’autorità giudiziaria; gestione dell’esito del programma. A mezzo della simulazione in questione, i candidati dimostrano le competenze e abilità acquisite con riferimento ad ognuna delle fasi e delle attività indicate al capoverso che precede. Alla simulazione partecipano, nei differenti ruoli richiesti dal programma, soggetti scelti dalla commissione di cui al comma 2, secondo periodo.
  5. La prova finale si conclude con la valutazione, debitamente attestata, di idoneità o non idoneità del candidato.
  6. Nell’organizzazione, svolgimento e valutazione della prova si tiene conto delle peculiari esigenze dei candidati portatori di disabilità o di disturbi specifici dell’apprendimento -DSA-, ove debitamente documentati, e si provvede ai sensi della legge 5 febbraio 1992, n. 104, e della legge 8 ottobre 2010, n. 170, nonché dell’ articolo 3, comma 4-bis, del decreto-legge 9 giugno 2021, n. 80, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2021, n. 113, e del decreto del 9 novembre 2021 della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dipartimento della funzione pubblica.

Art. 9
(Requisiti soggettivi e di onorabilità)

  1. I soggetti che chiedono l’inserimento nell’elenco devono possedere inoltre i seguenti requisiti:
    1. non essere iscritti all’albo dei mediatori civili, commerciali o familiari;
    2. non trovarsi in stato di interdizione legale o di inabilitazione o non essere altresì sottoposti ad amministrazione di sostegno;
    3. non essere stati condannati con sentenza definitiva, per delitto non colposo, a pena detentiva, anche se sostituita da una delle pene indicate nell’articolo 20-bis, primo comma, numeri 1), 2), e 3) del codice penale;
    4. non essere stati destinatari di sentenza definitiva resa ai sensi dell’articolo 444, comma 2, del codice di procedura penale, per delitto non colposo, a pena detentiva, anche se sostituita da una delle pene indicate nell’articolo 20-bis, primo comma, numeri 1), 2) e 3), del codice penale, con la quale sono state altresì applicate pene accessorie;
    5. non avere in corso procedimenti penali per delitti non colposi, fermo restando quanto previsto dall’articolo 335-bis del codice di procedura penale;
    6. non essere incorsi nell’interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici;
    7. non essere stati sottoposti a misure di prevenzione, salvi gli effetti della riabilitazione, né a misure di sicurezza personali;
    8. non avere riportato, per gli iscritti ad un ordinamento professionale, negli ultimi cinque anni, una sanzione disciplinare più grave di quella minima prevista dal singolo ordinamento.
  2. Con riferimento al comma 1, lettere c) e d), sono fatti salvi gli effetti della riabilitazione e della revoca della sentenza per abolizione del reato ai sensi dell’articolo 673, comma 1, del codice di procedura penale.
  3. Il possesso dei requisiti di cui al comma 1 è attestato dagli interessati mediante documentazione presentata ai sensi degli articoli 46 e 47 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445.
  4. Il responsabile verifica la sussistenza dei requisiti e ha facoltà di accertare la veridicità delle dichiarazioni rese dai richiedenti ai sensi dell’articolo 71 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445.

Art. 10
(Requisiti per l’attribuzione della qualificazione di formatore)

  1. È attribuita la qualificazione di formatore di cui all’articolo 3, comma 5, del presente decreto a coloro che risultino iscritti nell’elenco con la qualificazione di mediatore esperto e che siano in possesso dell’attestazione comprovante l’effettuazione della simulazione finale della formazione iniziale con giudizio di idoneità, di cui all’articolo 12, comma 5, del decreto ministeriale previsto dall’articolo 59, comma 10, del decreto legislativo.
  2. Ai fini del primo popolamento dell’elenco, è altresì attribuita la qualificazione di formatore di cui all’articolo 3, comma 5, ai soggetti iscritti nell’elenco di cui all’articolo 3, con la qualificazione di mediatore esperto, ai sensi degli articoli 5, 6, 7 e 8, che siano comunque in possesso, alla data del 30.12.2022, dei seguenti requisiti:
    1. avere comprovate perizia e professionalità nella materia della giustizia riparativa, derivanti dall’esperienza concreta e specifica maturata nella conduzione di programmi, in modo ininterrotto nei cinque anni precedenti il 30.12.2022, presso soggetti specializzati che erogano servizi di giustizia riparativa, pubblici o privati, i quali, alla medesima data, risultavano convenzionati con il Ministero della giustizia ovvero risultavano operare in virtù di protocolli di intesa con gli uffici giudiziari o altri enti pubblici;
    2. aver già svolto, in Italia o all’estero, attività di formatore in materia di giustizia riparativa, in modo ininterrotto nei cinque anni precedenti il 30.12.2022. Quale attività formativa può essere valorizzata quella prestata in materia di giustizia riparativa nel settore penale nell’ambito di corsi diretti a futuri mediatori o nell’ambito di corsi universitari o infine nell’ambito di seminari o convegni scientifici.
  3. I requisiti di cui al comma che precede sono attestati a mezzo di idonea certificazione, che contiene:
  1. nell’ipotesi di cui al comma 2, lettera a), l’indicazione in dettaglio della convenzione o del protocollo nonché l’elencazione dettagliata dei programmi effettivamente svolti dal mediatore esperto presso i soggetti indicati nella stessa lettera a) nei cinque anni precedenti il 30.12.2022, con specificazione di tipologia, durata e gestione in via esclusiva o quale componente operativo di un gruppo di lavoro;
  2. nell’ipotesi di cui al comma 2, lettera b), l’indicazione in dettaglio di luogo, data, durata, contenuto e destinatari di ogni singola esperienza formativa come docente.

Art. 11
(Procedimento di iscrizione)

  1. La domanda di iscrizione nell’elenco dei mediatori esperti istituito in conformità all’articolo 3 è presentata utilizzando i modelli uniformi predisposti dal responsabile, resi disponibili sul sito del Ministero ed è trasmessa al Ministero stesso, unitamente alla documentazione indicata da ciascun modello, in via telematica, mediante utilizzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato.
  2. Sulla domanda di iscrizione provvede il responsabile.
  3. Il procedimento di iscrizione deve essere concluso entro trenta giorni dal ricevimento della domanda; può essere richiesta, per una sola volta, l’integrazione della domanda o dei suoi allegati entro trenta giorni dal ricevimento della stessa. La richiesta di integrazione interrompe il decorso del termine, che inizia nuovamente a decorrere dalla data in cui risulta pervenuta la documentazione integrativa richiesta.
  4. Gli iscritti sono tenuti a comunicare al responsabile dell’elenco:
    1. il venir meno dei requisiti di cui all’articolo 9;
    2. l’avvio di procedimenti penali a loro carico per delitti non colposi;
    3. l’avvio di procedimenti disciplinari a loro carico;
  5. Le richieste e le comunicazioni di cui, rispettivamente, ai commi 3 e 4 sono effettuate con le modalità di cui al comma 1.
  6. Per le domande di inserimento nell’elenco pervenute entro sei mesi dall’approvazione del modello di domanda di cui al comma 1, il termine di conclusione del procedimento previsto dal comma 3 è di quarantacinque giorni. La richiesta di integrazione interrompe il decorso del termine, che inizia nuovamente a decorrere dalla data in cui risulta pervenuta la documentazione integrativa richiesta.
  7. Alle domande di attribuzione della qualificazione di formatori, anche ove presentate disgiuntamente dalle domande di iscrizione all’elenco dei mediatori esperti, si applicano le disposizioni di cui ai commi 1, 2, 3 e 6.

Art. 12
(Effetti dell’iscrizione)

  1. Il provvedimento di iscrizione è comunicato al richiedente con il numero d’ordine attribuito nell’elenco.
  2. Dalla data della comunicazione di cui al comma 1, il mediatore esperto è tenuto, negli atti e nella corrispondenza, a fare menzione del numero d’ordine.
  3. Il provvedimento di attribuzione della qualificazione di formatore è comunicato al richiedente e annotato nell’elenco di cui all’articolo 3. Si applica la disposizione di cui al comma 2.

Art. 13
(Cause di sospensione dall’elenco)

  1. Costituiscono causa di sospensione d’ufficio, per un periodo da sei a dodici mesi:
    1. la mancata comunicazione delle variazioni intervenute riguardo i requisiti di cui all’articolo 9, attestati ai sensi del comma 3 dello stesso articolo all’atto della domanda di inserimento;
    2. la mancata trasmissione delle attestazioni o certificazioni relative all’adempimento degli obblighi formativi permanenti, rispettivamente entro il 31 maggio di ciascun anno, per le attestazioni o certificazioni rilasciate fino al 30 aprile, ed entro il 30 novembre dell’anno medesimo, per le attestazioni o certificazioni rilasciate fino al 31 ottobre;
    3. la violazione di uno dei doveri del mediatore esperto, descritti negli articoli 43, comma 1, lettere b), e) e g), 47, commi 3, 4, 5, 48, 50, comma 1, 52, comma 5, 54, comma 1, 55, commi 2 e 4, 56, comma 4 e 57 del decreto legislativo;
    4. l’ipotesi prevista dall’articolo 18, comma 6 del presente decreto.
  2. Costituisce causa di sospensione della qualificazione di formatore la mancata trasmissione delle attestazioni o certificazioni relative all’adempimento degli obblighi formativi permanenti, nella qualità di mediatori esperti formatori, rispettivamente entro il 31 maggio di ciascun anno, per le attestazioni o certificazioni rilasciate fino al 30 aprile, ed entro il 30 novembre dell’anno medesimo, per le attestazioni o certificazioni rilasciate fino al 31 ottobre.
  3. Costituisce altresì causa di sospensione dall’elenco o di sospensione della qualificazione di formatore l’istanza in tal senso volontariamente avanzata dall’interessato, per gravi e comprovate ragioni di salute, familiari o professionali, per un periodo non superiore a sei mesi, prorogabile una sola volta per ulteriori sei mesi.
  4. Sull’istanza di cui al comma che precede, provvede il responsabile con decreto adottato ai sensi dell’articolo 15, comma 4.

Art. 14
(Cause di cancellazione dall’elenco)

  1. Costituiscono cause di cancellazione d’ufficio dall’elenco:
    1. l’insussistenza, anche per fatti sopravvenuti, dei requisiti di cui all’articolo 9;
    2. il mancato adempimento agli obblighi formativi permanenti;
    3. la volontaria divulgazione di dati personali relativi ai programmi;
    4. la reiterata violazione di uno dei doveri del mediatore esperto, di cui all’articolo 13, comma 1, lettera c);
    5. la conduzione di uno o più programmi in presenza di una delle cause di incompatibilità di cui all’articolo 19;
    6. l’ipotesi prevista dall’articolo 18, comma 7.
  2. Costituisce causa di cancellazione d’ufficio della qualificazione di formatore il mancato adempimento degli obblighi formativi permanenti.
  3. Costituisce altresì causa di cancellazione dall’elenco o di cancellazione della sola qualificazione di formatore l’istanza in tal senso avanzata dall’interessato.
  4. Sull’istanza di cui al comma 3, provvede il responsabile con decreto adottato ai sensi dell’articolo 15, comma 4.

Art. 15
(Procedura di contestazione)

  1. Il responsabile dell’elenco, quando rileva la sussistenza di fatti che, in relazione alle cause indicate negli articoli 13, commi 1 e 2, e 14, commi 1 e 2, potrebbero dar luogo all’adozione di un provvedimento, rispettivamente, di sospensione o di cancellazione anche della sola qualificazione di formatore, ne dà comunicazione al mediatore esperto con l’invito, entro un termine non superiore a trenta giorni, a fornire chiarimenti e ad effettuare eventuali produzioni documentali.
  2. Scaduto il termine assegnato ai sensi del comma 1, il responsabile dell’elenco, esaminati, se presentati, i chiarimenti e documenti, se ritiene di non archiviare la procedura, contesta formalmente all’interessato i fatti riscontrati, indica le norme che ritiene violate e assegna un termine di quindici giorni per difese e ulteriori produzioni documentali.
  3. Se nel termine assegnato ai sensi del comma 2, l’interessato non fornisce elementi idonei a superare la contestazione, il responsabile dell’elenco, con provvedimento motivato, dispone la sospensione indicandone la durata o la cancellazione, dando comunicazione all’interessato del provvedimento adottato.
  4. La sospensione e la cancellazione sono disposte con decreto succintamente motivato, comunicato senza ritardo all’interessato mediante utilizzo di posta elettronica certificata o altro servizio elettronico di recapito certificato qualificato.
  5. In ogni fase della procedura di contestazione, il mediatore esperto può dichiarare di non avere interesse al mantenimento dell’iscrizione o dell’annotazione della qualificazione di formatore. In tal caso il responsabile dell’elenco, allo stato degli atti, ne dispone la relativa cancellazione.
  6. Spetta al responsabile, per le finalità di cui al comma 1, l’esercizio del potere di vigilanza, anche mediante acquisizione di atti e notizie, che viene esercitato nei modi e nei tempi stabiliti da circolari o atti amministrativi equipollenti, di cui viene curato il preventivo recapito, anche soltanto in via telematica, agli interessati.
  7. Tutte le comunicazioni previste dal presente articolo sono effettuate dal responsabile dell’elenco all’indirizzo indicato dall’interessato al momento dell’iscrizione.

Art. 16
(Effetti della sospensione e della cancellazione)

  1. Il mediatore esperto, ricevuto il provvedimento di sospensione o di cancellazione, ne informa immediatamente il Centro presso il quale opera e documenta al responsabile dell’elenco l’adempimento di tale onere.
  2. Dopo la comunicazione della sospensione o della cancellazione, il mediatore esperto non può più condurre programmi; laddove il mediatore esperto abbia programmi in corso di svolgimento, gli stessi saranno riassegnati ad altro mediatore esperto, a cura del Centro.
  3. Fuori del caso previsto dall’articolo 18, comma 7, secondo periodo, la cancellazione preclude al mediatore di procedere a nuova iscrizione per un periodo di due anni.
  4. Alla sospensione e alla cancellazione della qualificazione di formatore si applica la disposizione di cui al comma 1. Il mediatore esperto formatore informa altresì del provvedimento in questione ogni soggetto presso il quale stia svolgendo attività di formazione, documentando al responsabile dell’elenco l’adempimento di tale onere.
  5. Dopo la comunicazione della sospensione o della cancellazione di cui al comma 4, il mediatore esperto formatore non può più procedere a svolgere attività formative, anche laddove le stesse siano in corso.
  6. La cancellazione della qualificazione per qualsiasi causa preclude al mediatore esperto formatore di procedere a nuova richiesta di attribuzione della qualificazione di formatore per un periodo di due anni.

Art. 17
(Cessazione degli effetti della sospensione)

  1. Il mediatore esperto, almeno trenta giorni prima della scadenza del termine finale del periodo di sospensione irrogato per i motivi di cui all’articolo 13, comma 1, lettere a), b) e d), comunica e documenta al responsabile dell’elenco l’assolvimento degli obblighi previsti nelle medesime disposizioni.
  2. Il responsabile, verificato l’assolvimento degli obblighi in questione, alla scadenza del termine finale del periodo di sospensione dichiara cessata la sospensione, altrimenti dispone la cancellazione.

Art. 18
(Contributo per l’iscrizione e per il mantenimento dell’elenco e modalità di versamento)

  1. In sede di prima formazione dell’elenco, non è dovuto alcun contributo per l’iscrizione allo stesso.
  2. A far data dal 1.1.2025, per l’iscrizione all’elenco è dovuto dal richiedente la stessa un contributo di euro cinquanta.
  3. Per il mantenimento dell’iscrizione è posto a carico dell’iscritto un contributo annuo di euro cinquanta da versare entro il 31 gennaio di ciascun anno. Il contributo è dovuto a far data dal 1.1.2026 e comunque dall’anno successivo a quello dell’iscrizione.
  4. Il pagamento del contributo di cui ai commi 2 e 3 è effettuato tramite la piattaforma tecnologica Pago PA, prevista dall’articolo 5, comma 2, del decreto legislativo del 7 marzo 2005, n. 82, con versamento sull’apposito capitolo dell’entrata del bilancio dello Stato.
  5. Non è dovuto ulteriore contributo per gli iscritti che formulano anche la richiesta di annotazione della qualificazione di formatore.
  6. Nel caso di omesso pagamento del contributo di cui al comma 3, il responsabile, decorsi tre mesi dalla scadenza prevista per il pagamento, dispone la sospensione del mediatore esperto dall’elenco.
  7. In caso di perdurante omesso pagamento del contributo, decorsi sei mesi dall’adozione del provvedimento di sospensione di cui al comma 6, è disposta la cancellazione dall’elenco. In tal caso non è consentita una nuova iscrizione nell’elenco prima che sia decorso almeno un anno dalla comunicazione della cancellazione.
  8. In caso di corresponsione tardiva del contributo sono dovuti gli interessi sull’importo della somma dovuta dall’iscritto dalla data di scadenza del termine per il pagamento, al tasso previsto dall’articolo 1284 del codice civile.

Art. 19
(Cause di incompatibilità)

  1. Non possono esercitare l’attività di mediatore esperto:
    1. i membri del Parlamento nazionale, i membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia, i membri del Governo;
    2. i membri delle giunte degli enti territoriali, nonché i consiglieri regionali, provinciali, comunali e municipali, all’interno del distretto di corte d’appello in cui hanno sede gli enti presso i quali i predetti svolgono il loro mandato;
    3. coloro che ricoprono o che hanno ricoperto, nei tre anni precedenti alla domanda di iscrizione nell’elenco, incarichi direttivi o esecutivi in partiti o movimenti politici o nelle associazioni sindacali maggiormente rappresentative;
    4. coloro che ricoprono la carica di difensore civico;
    5. coloro che ricoprono la carica di Autorità Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e di Garante territoriale dei diritti dei detenuti.
  2. Non possono esercitare l’attività di mediatore esperto, all’interno del distretto di corte d’appello in cui svolgono a qualsiasi titolo le loro funzioni, i magistrati onorari. Tale incompatibilità è limitata al periodo di effettivo esercizio delle funzioni per i giudici popolari della corte d’assise e per gli esperti delle sezioni specializzate agrarie.
  3. I mediatori esperti non possono svolgere la loro attività all’interno del medesimo distretto di corte d’appello in cui esercitano in via prevalente la professione forense gli stessi mediatori esperti ovvero i loro associati di studio, i membri dell’associazione professionale, i soci della società tra professionisti, il coniuge e il convivente, i parenti fino al secondo grado o gli affini entro il primo grado.
  4. Sussiste altresì incompatibilità con l’esercizio dell’attività di mediatore esperto, in relazione al singolo programma:
  1. se il mediatore esperto, il suo coniuge o convivente, uno dei suoi ascendenti, discendenti, fratelli, sorelle, affini nello stesso grado, zii e nipoti hanno interesse nel programma relativo al procedimento penale, nelle ipotesi previste dall’articolo 44, commi 2 e 3, del decreto legislativo, o nel procedimento penale stesso;
  2. se un partecipante al programma, il mediatore esperto coassegnatario del programma o una delle parti private o dei difensori del procedimento penale di cui alla lettera a) è debitore o creditore del mediatore esperto, del coniuge o del convivente o del figlio del mediatore stesso;
  3. se il mediatore esperto, il coniuge o il convivente o il figlio di costui è tutore, curatore, procuratore, amministratore di sostegno o datore di lavoro di un partecipante al programma o del mediatore esperto coassegnatario del programma o di una delle parti private del procedimento penale di cui alla lettera a);
  4. se il difensore, il tutore, il procuratore, il curatore, l’amministratore di sostegno di un partecipante al programma o del mediatore esperto coassegnatario del programma o di una delle parti private del procedimento penale di cui alla lettera a) è ascendente, discendente, fratello, sorella, affine nello stesso grado, zio o nipote del mediatore esperto, del suo coniuge o convivente;
  5. se vi è inimicizia grave fra un partecipante al programma o una delle parti private del procedimento penale di cui alla lettera a) e uno dei seguenti soggetti: il mediatore esperto; il coniuge o il convivente dello stesso; gli ascendenti, i discendenti, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti del mediatore esperto;
  6. se è partecipante al programma o comunque vittima del reato o offeso o danneggiato dal reato o parte privata del procedimento penale di cui alla lettera a) uno dei seguenti soggetti: ascendenti, discendenti, fratelli, sorelle, affini nello stesso grado, zii e nipoti del mediatore esperto o del suo coniuge o convivente;
  7. in ogni caso in cui è partecipante al programma persona alla quale il mediatore esperto è legato da un rapporto personale o professionale.
  8. Il mediatore esperto non può altresì ricoprire il ruolo di partecipante in un programma che si svolga presso il Centro per il quale costui presta la propria opera.
  9. Chi ha svolto la funzione di mediatore esperto non può intrattenere rapporti professionali di qualsiasi genere con alcuno dei partecipanti al programma prima che siano decorsi due anni dalla conclusione dello stesso.
  10. Il mediatore esperto, all’atto dell’affidamento di un caso, rilascia una dichiarazione di impegno, dallo stesso sottoscritta, diretta al responsabile del Centro, nella quale dichiara espressamente, ai sensi degli articoli 46 e 47 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, di non versare in alcuna delle cause di incompatibilità di cui ai commi 1, 2, 3, 4 e 5 del presente decreto. Laddove la causa di incompatibilità sussista, il mediatore esperto lo dichiara per iscritto nelle forme di cui al primo periodo del presente comma ed è tenuto ad astenersi dal seguire il programma.
  11. Il responsabile ha facoltà di accertare la veridicità delle dichiarazioni rese dal richiedente ai sensi dell’articolo 71 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445.
  12. La violazione degli obblighi inerenti alle dichiarazioni previsti dal presente articolo, commesse da un mediatore esperto che è pubblico dipendente o professionista iscritto in un albo o collegio professionale, costituisce illecito disciplinare sanzionabile ai sensi delle rispettive normative deontologiche. Il responsabile dell’elenco è tenuto a informarne gli organi competenti.

Art. 20
(Monitoraggio)

  1. I Centri, entro il 31 gennaio di ogni anno, trasmettono al Ministero, con modalità informatiche, ai fini delle attività di analisi e monitoraggio, i dati relativi all’anno precedente concernenti:
    1. il numero totale di mediatori esperti di cui i Centri si sono avvalsi;
    2. il numero totale di programmi svolti, la loro tipologia, durata ed esito, distinti per Conferenze locali di riferimento.

Art. 21
(Disciplina transitoria)

  1. Al fine dell’effettiva operatività dei servizi di giustizia riparativa, le domande di iscrizione all’elenco ai sensi degli articoli 5, e 7 sono presentate dagli interessati, a pena di inammissibilità, entro sei mesi dalla data di approvazione del modello di domanda di cui all’articolo 11, comma 1. Le domande di iscrizione all’elenco ai sensi dell’articolo 6 sono altresì presentate a pena di inammissibilità entro sei mesi dal conseguimento dell’attestazione di cui all’articolo 8, comma 5.
  2. Le domande di attribuzione della qualificazione di formatore ai sensi dell’articolo 10, comma 2, sono presentate dagli interessati, a pena di inammissibilità, entro sei mesi dalla data di approvazione del modello di domanda di cui all’articolo 11, comma 1, anche ove avanzate disgiuntamente dalle domande di iscrizione all’elenco.

Art. 22
(Clausola di invarianza finanziaria)

  1. Dall’attuazione del presente decreto non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Le amministrazioni competenti provvedono ai relativi adempimenti con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente.

Il presente decreto sarà trasmesso ai competenti organi di controllo e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana ai sensi dell’articolo 18 del decreto del Presidente della Repubblica 13 giugno 1985, n. 1092, e sul sito istituzionale dei Ministeri della giustizia, del lavoro e delle politiche sociali e dell’università e della ricerca.

Roma, il 9 giugno 2023

IL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA
Carlo Nordio

IL MINISTRO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI
Marina Elvira Calderone

IL MINISTRO DELL’UNIVERSITÀ E DELLA RICERCA
Anna Maria Bernini

Registrato alla Corte dei Conti il 30/06/2023 con il n.1880

Formazione operatori Giustizia riparativa. Decreto 9 giugno 2023

Decreto 9 giugno 2023 – Di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e con il Ministro dell’università e della ricerca, recante:

Disciplina delle forme e dei tempi della formazione finalizzata a conseguire la qualificazione di mediatore esperto in programmi di giustizia riparativa nonché delle modalità di svolgimento e valutazione della prova di ammissione alla formazione ed altresì della prova conclusiva della stessa, ai sensi dell’articolo 59, commi 7, 8, 9 e 10, del d. lgs. 150/2022 di attuazione della l. 134/2021 recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari

9 giugno 2023

Il Ministro della Giustizia

VISTO l’articolo 59, commi 7, 8, 9 e 10 del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, di attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari;

VISTO il decreto legislativo 16 gennaio 2013, n. 13, recante definizione delle norme generali e dei livelli essenziali delle prestazioni per l’individuazione e validazione degli apprendimenti non formali e informali e degli standard minimi di servizio del sistema nazionale di certificazione delle competenze, a norma dell’articolo 4, commi 58 e 68, della legge 28 giugno 2012, n. 92;

VISTO l’articolo 1, comma 720, della legge 30 dicembre 2021, n. 234, recante bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2022 e bilancio pluriennale per il triennio 2022-2024;

VISTA la legge 5 febbraio 1992, n. 104, legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate;

VISTA la legge 8 ottobre 2010, n. 170, recante nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico;

VISTO l’articolo 3, comma 4-bis del decreto-legge 9 giugno 2021, n. 80, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2021, n. 113, recante misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per l’efficienza della giustizia;

VISTO il decreto del 9 novembre 2021 della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dipartimento della funzione pubblica, recante modalità di partecipazione ai concorsi pubblici per i soggetti con disturbi specifici dell’apprendimento;

Di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e con il Ministro dell’università e della ricerca

DECRETA

Art.1
(Definizioni)

  1. Ai fini del presente decreto si intende per:

a) «attività preliminari»: le attività precedenti il primo incontro di cui all’articolo 54 del decreto legislativo;
b) «Centro»: Centro per la giustizia riparativa di cui all’articolo 42, comma 1, lettera g), del decreto legislativo;
c) «Conferenza locale»: Conferenza locale per la giustizia riparativa di cui all’articolo 63, commi 2, 3, 4, 5, 6 del decreto legislativo;
d) «decreto legislativo»: il decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150;
e) «elenco»: l’elenco dei mediatori esperti istituito presso il Ministero;
f) «esito riparativo»: l’accordo di cui agli articoli 42, comma 1, lettera e) e 56, del decreto legislativo;
g) «familiare»: la persona fisica di cui all’articolo 42, comma 1, lettera d), del decreto legislativo;
h) «formazione continua»: il percorso formativo permanente del mediatore esperto, di cui all’articolo 59, comma 4, del decreto legislativo;
i) «formazione del mediatore esperto»: il percorso formativo, iniziale e continuo, del mediatore esperto, ai sensi dell’articolo 59 del decreto legislativo;
l) «formazione iniziale»: il percorso formativo finalizzato a conseguire la qualificazione di mediatore esperto, di cui all’articolo 59, commi 3, 5 e 6 del decreto legislativo;
m) «formazione del mediatore esperto formatore»: il percorso formativo, iniziale e continuo, del mediatore esperto formatore;
n) «formazione pratica»: il percorso formativo, iniziale e continuo, del mediatore esperto, di cui all’articolo 59, commi 3, seconda ipotesi, 4 e 6, del decreto legislativo;
o) «formazione teorica»: il percorso formativo, iniziale e continuo, del mediatore esperto, di cui all’articolo 59, commi 3, prima ipotesi, 4 e 5, del decreto legislativo;
p) «giustizia riparativa»: ogni programma come definito all’articolo 42, comma 1, lettera a), del decreto legislativo;
q) «mediatore esperto»: il mediatore esperto in programmi di giustizia riparativa, qualificazione conseguita in seguito al superamento della prova finale di cui all’articolo 59, comma 9, del decreto legislativo;
r) «mediatore esperto formatore»: il mediatore esperto ammesso a svolgere attività di formazione dei mediatori esperti, ai sensi dell’articolo 59, comma 7, del decreto legislativo, qualificazione conseguita in seguito all’effettuazione della simulazione, con giudizio di idoneità, di cui all’articolo 12, comma 5, del presente decreto;
s) «Ministero»: il Ministero della giustizia;
t) «obiettivi formativi»: i risultati assicurati dalla formazione del mediatore esperto, di cui all’articolo 59, comma 1, del decreto legislativo;
u) «partecipanti al programma»: i soggetti partecipanti al programma di cui agli articoli 42, comma 1, lettere b), c), d), e 45, comma 1, del decreto legislativo;
v) «persona indicata come autore dell’offesa»: la persona di cui all’articolo 42, comma 1, lettera c), del decreto legislativo;
z) «programma»: una delle tipologie di programmi di giustizia riparativa di cui all’articolo 53, comma 1, del decreto legislativo;
aa) «prova di ammissione»: la prova culturale e attitudinale, al cui superamento è subordinato l’accesso alla formazione iniziale, ai sensi dell’articolo 59, comma 8 del decreto legislativo;
bb) «prova finale»: la prova finale teorico-pratica del percorso formativo iniziale, al cui superamento consegue l’acquisizione della qualificazione di mediatore esperto, ai sensi dell’articolo 59, comma 9, del decreto legislativo;
cc) «responsabile»: il responsabile della tenuta dell’elenco;
dd) «tirocinio»: il percorso di apprendistato guidato del mediatore esperto, di cui all’articolo 59, comma 3, ultima ipotesi, del decreto legislativo;
ee) «Università»: le istituzioni universitarie che compongono il sistema della formazione superiore di tipo universitario;
ff) «vittima del reato»: la persona fisica di cui all’articolo 42, comma 1, lettera b), del decreto legislativo.

Art. 2
(Oggetto)

  1. Il presente decreto disciplina:
    1. le forme e i tempi della formazione pratica e teorica finalizzata a conseguire la qualificazione di mediatore esperto in programmi di giustizia riparativa, ai sensi dell’articolo 59, comma 7, del decreto legislativo;
    2. le modalità di svolgimento e valutazione della prova di ammissione culturale e attitudinale ai sensi dell’articolo 59, comma 8, del decreto legislativo;
    3. le modalità di svolgimento e valutazione della prova finale teorico-pratica ai sensi dell’articolo 59, comma 9, del decreto legislativo;
    4. le modalità con cui i partecipanti sostengono l’onere finanziario della formazione e della prova finale.

Art. 3
(Finalità, struttura ed erogazione della formazione dei mediatori esperti)

  1. Il mediatore esperto in programmi di giustizia riparativa è un professionista, imparziale e adeguatamente formato, che, con indipendenza, sensibilità, riservatezza ed equiprossimità, conduce i programmi, mediativi o comunque dialogici, svolti nell’interesse della vittima e della persona indicata come autore dell’offesa, cui costoro, i loro familiari, altri soggetti appartenenti alla comunità e chiunque altro vi abbia interesse partecipano in modo consensuale, attivo e volontario, allo scopo di risolvere le questioni derivanti dal reato e raggiungere un esito riparativo. Per l’esercizio di tale professionalità il mediatore esperto in programmi di giustizia riparativa deve essere in possesso dei seguenti ambiti di competenza:

a) capacità di valutare la scelta del programma più idoneo, previa valutazione sulla fattibilità dello stesso e sull’assenza di pericolo concreto per i partecipanti;
b) capacità di informare, orientare, favorire la partecipazione attiva delle persone coinvolte nel programma, attraverso l’uso di un linguaggio chiaro e appropriato e un ascolto attento;
c) capacità di sostenere la paura dei potenziali effetti distruttivi del conflitto provocato dal reato, di collocarsi in posizione di equiprossimità rispetto alle persone che ne sono immediatamente portatrici, di facilitare il percorso comunicativo tra le stesse, di aiutarle a raccontare e ad ascoltare, con modalità reciproca, il dolore, di gestire le emozioni e i sentimenti della vittima del reato e della persona indicata come autore dell’offesa, di promuovere il riconoscimento della prima e la responsabilizzazione della seconda;
d) capacità di garantire tempi adeguati alle necessità del caso, spazi e luoghi adeguati e idonei ad assicurare riservatezza e indipendenza;
e) capacità di gestire le relazioni interpersonali, attraverso la padronanza delle tecniche riparative, con un trattamento rispettoso, equiprossimo e non discriminatorio dei partecipanti, senza assumere nei confronti degli stessi un comportamento giudicante e senza fornire consulenza legale in alcuna forma;
f) capacità di farsi carico e prendersi cura degli effetti negativi del conflitto provocato dal reato, analizzandolo in modo imparziale, e capacità di favorire la scelta delle soluzioni migliori a superare gli effetti pregiudizievoli dell’offesa; ove possibile, capacità di costruire l’accordo riparativo e la ricostituzione dei legami con la comunità;
g) capacità di gestire, anche attraverso la padronanza del sistema normativo di riferimento, gli effetti che le vicende processuali producono sui partecipanti;
h) capacità di lavorare in gruppo con altri mediatori esperti e saper costruire il gruppo di lavoro idoneo al caso concreto;
i) capacità di interloquire con l’autorità giudiziaria, mediante le relazioni e le ulteriori comunicazioni dirette alla stessa;
l) capacità di gestire, con competenze relazionali e dialogiche funzionali all’interazione, nell’ambito del servizio pubblico, i rapporti con i difensori, gli interpreti e i traduttori, con i servizi della giustizia e del territorio, con l’autorità di pubblica sicurezza e con ogni ulteriore interlocutore sociale;
m) capacità di gestire, in modo autonomo, processi di formazione continua e aggiornamento professionale al fine di assicurare un alto livello di professionalità e competenza nella sua attività di mediazione.

  1. Il percorso per la formazione teorico-pratica dei mediatori esperti di cui all’articolo 59, commi 1, 2, 3, 4, 5, 6 e 7, del decreto legislativo, è unitario ed è istituito presso le Università, in collaborazione paritetica con i Centri.
  2. La collaborazione ha ad oggetto:
    1. il coordinamento scientifico-didattico del percorso unitario di formazione iniziale, con riguardo alla programmazione, all’ammissione, allo svolgimento e alla valutazione dello stesso;
    2. l’individuazione delle modalità tramite le quali vengono sostenuti, rispettivamente, dai candidati e dai partecipanti, gli oneri finanziari relativi alla prova di ammissione e alla formazione, ivi inclusa la prova finale, ai sensi dell’articolo 59, comma 10, ultima ipotesi, del decreto legislativo;
    3. l’individuazione delle modalità di ripartizione, tra le Università e i Centri, dei proventi finanziari della formazione.
  3. Le forme in cui si realizza detta collaborazione sono individuate dalle Università nell’ambito della loro autonomia.
  4. Alle Università è affidata la gestione amministrativa e finanziaria del percorso formativo unitario, previamente concordata con i Centri, e il rilascio dell’attestazione finale di cui all’articolo 9, comma 7.
  5. Per le finalità di cui al comma 2, il percorso formativo è istituito presso le Università aventi sede nel singolo distretto di corte d’appello, in collaborazione con i Centri di cui alla Conferenza locale di riferimento.
  6. Nell’ambito territoriale della medesima Conferenza locale, possono operare in forma consorziata sia i Centri sia le Università.
  7. L’offerta formativa si ispira a criteri di trasparenza e pubblicità.
  8. Per le finalità di cui all’articolo 59, comma 1, del decreto legislativo, il percorso formativo di cui al comma 1 del presente articolo riflette anche le specificità del territorio, ed è aperto all’evoluzione delle tecniche e delle migliori pratiche sperimentate anche in ambito internazionale.
  9. I partecipanti al percorso formativo unitario di cui agli articoli 4, 5 e 6 non possono superare il numero di venticinque per ciascun ciclo formativo, ad eccezione delle attività seminariali di cui all’articolo 4, comma 2.
  10. Ai sensi e per gli effetti del decreto legislativo 16 gennaio 2013, n. 13, le qualificazioni di mediatore esperto in programmi di giustizia riparativa e di mediatore esperto formatore sono rimesse alla titolarità del Ministero della giustizia in qualità di ente pubblico titolare, che individua le Università quali enti titolati al suo rilascio.
  11. Nell’ambito della formazione, il trattamento dei dati personali da parte dei Centri si svolge nelle forme previste dal decreto ministeriale previsto dall’articolo 65 del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150.

Art. 4
(Formazione teorica iniziale)

  1. La formazione teorica iniziale è assicurata dalle Università e si articola in un corso, di durata complessiva non inferiore a centosessanta ore effettive, avente ad oggetto l’insegnamento di principi, teorie e metodi della giustizia riparativa, nonché di nozioni basilari di diritto penale, diritto processuale penale, diritto penitenziario, diritto minorile, criminologia, vittimologia e delle ulteriori materie correlate di cui all’articolo 5. La frequenza delle attività formative è obbligatoria, salva una quota di assenze giustificate non superiore al 10% del monte ore complessivo
  2. In aggiunta a quanto previsto al comma 1 e al relativo monte orario, possono essere organizzati seminari specialistici, destinati a partecipanti la cui formazione accademica di partenza possa richiedere una integrazione specialistica funzionale al perseguimento degli obiettivi formativi di cui all’articolo 3, comma 1.
  3. I moduli formativi di cui ai commi che precedono tengono conto dei bisogni formativi specifici della singola classe di corso.
  4. I principi, teorie e metodi della giustizia riparativa comprendono anche lo studio:
    1. del paradigma della giustizia riparativa in una visione europea e internazionale, con riferimento alle raccomandazioni e alle politiche internazionali;
    2. di protagonisti, programmi, principi, standard e metodi della giustizia riparativa in materia penale, secondo lo specifico modello di cui al decreto legislativo;
    3. della deontologia del mediatore esperto;
    4. di peculiari ambiti applicativi della giustizia riparativa, tra cui quelli relativi ai reati più gravi o commessi in contesti di criminalità organizzata o altresì con vittime minorenni e altrimenti vulnerabili.
  5. L’insegnamento di principi, teorie e metodi della giustizia riparativa si svolge integralmente in presenza. L’insegnamento delle rimanenti discipline di cui al comma 1 può svolgersi con collegamento da remoto nei limiti di un quarto del relativo monte ore. I seminari di cui al comma 2 possono svolgersi anche con collegamento da remoto.
  6. La formazione con collegamento da remoto si svolge in diretta e con la telecamera sempre accesa anche per i partecipanti, salve specifiche esigenze, valutate dai formatori.
  7. La formazione di cui ai commi 1 e 2 si ispira a metodi, valori e principi della giustizia riparativa sanciti a livello internazionale. La stessa si svolge nelle forme tipiche della giustizia riparativa e prevede altresì:
  1. il coinvolgimento dei partecipanti nella didattica;
  2. l’alternanza costante, anche nella singola unità formativa, tra la formazione teorica e la sperimentazione pratica. Detta alternanza si realizza anche a mezzo della collaborazione dei mediatori formatori, allo scopo di consentire ai partecipanti, all’esito dell’illustrazione del modello teorico, l’esperienza personale e immediata della dinamica, anche relazionale, tipica del modello stesso, e la sua conseguente rielaborazione e restituzione al formatore teorico.

Art. 5
(Materie correlate)

  1. Le materie correlate di cui all’articolo 59, comma 5, del decreto legislativo, sono individuate, nell’ambito della collaborazione di cui all’articolo 3, comma 3, tenendo conto dei bisogni formativi specifici della singola classe di corso e delle conflittualità più frequenti nel territorio di riferimento.
  2. Nell’ambito della rispettiva autonomia regolamentare, le Università prevedono l’introduzione nell’offerta formativa di discipline individuate tra le seguenti materie correlate: elementi diritto pubblico, con particolare riferimento al diritto antidiscriminatorio, studi di genere, psicologia giuridica, psicologia di comunità, psicologia del conflitto, antropologia giuridica e culturale, sociologia dei processi culturali e interculturali, sociologia della devianza, teorie sociologiche sul conflitto e sui conflitti, sociolinguistica.

Art. 6
(Formazione pratica iniziale)

  1. La formazione pratica iniziale, nell’ambito del percorso unitario oggetto di programmazione in collaborazione di cui all’articolo 3, comma 3, è assicurata dai Centri tramite i mediatori esperti formatori.
  2. Il modulo formativo ha durata complessiva non inferiore a trecentoventi ore effettive, calcolate ai sensi dell’articolo 4, comma 1, secondo periodo, e si svolge integralmente in presenza. I contenuti tengono conto dei bisogni formativi specifici di ogni singola classe di corso.
  3. Per le finalità di cui all’articolo 59, comma 6, del decreto legislativo, il percorso formativo dei partecipanti comprende i seguenti passaggi:
    1. acquisizione della consapevolezza dei propri conflitti e danni, provocati e subiti, anche mediante specifici e adeguati momenti esperienziali di lavoro, in forma dialogica con i formatori e con il gruppo;
    2. apprendimento delle pratiche e delle tecniche della mediazione, del dialogo riparativo e di ogni altro programma dialogico di cui all’articolo 53, comma 1, lettera c), del decreto legislativo;
    3. sviluppo di sensibilità specifica per i peculiari ambiti applicativi della giustizia riparativa, di cui all’articolo 4, comma 4, lettera d);
    4. sviluppo della capacità di discernimento del programma più idoneo al caso concreto e dell’abilità di seguirne integralmente il relativo percorso, gestendone con competenza ogni sua fase;
    5. acquisizione dell’idoneità al lavoro in gruppo con altri mediatori esperti e dell’abilità di costruire il gruppo di lavoro idoneo al caso concreto;
    6. acquisizione delle specifiche competenze necessarie per operare nell’ambito di un servizio pubblico nonché delle abilità relazionali e dialogiche funzionali all’interazione anche con i servizi della giustizia, l’autorità giudiziaria, i difensori, i servizi del territorio, le autorità di pubblica sicurezza e ogni ulteriore interlocutore sociale.
  4. Per le finalità di cui al comma 3, il modulo formativo prevede:
  1. l’utilizzo di specifici strumenti formativi interattivi, tra i quali: esercitazioni pratiche di progettazione e sperimentazione della conduzione dei diversi programmi di giustizia riparativa, in riferimento a tutte le fasi dei distinti percorsi; discussioni guidate; analisi e discussioni di casi; giochi di ruolo; simulazioni; esercizi di risoluzione di problemi; esercizi di ascolto attivo; esercizi di comunicazione non verbale; sollecitazioni metaforiche; visione guidata di materiale audio-video; ascolto di testimonianze;
  2. nell’ambito dell’attività di collaborazione di cui all’articolo 3, comma 3, e in analogia con la previsione di cui all’articolo 4, comma 7, lettera b), la restituzione degli esiti del percorso formativo anche ai formatori teorici, al termine del modulo o delle singole unità che lo compongono.

Art. 7
(Tirocinio)

  1. Il tirocinio curriculare è assicurato dai Centri, tramite i mediatori esperti.
  2. Il tirocinio si svolge presso il Centro o uno dei Centri consorziati che hanno curato la formazione pratica iniziale; può essere altresì svolto, in caso di specifiche esigenze valutate dai Centri stessi, esclusivamente presso altro Centro tra quelli che hanno attivato percorsi formativi pratici.
  3. Il tirocinio consiste nell’affiancamento dei tirocinanti a mediatori esperti, prioritariamente nella conduzione dei differenti programmi di cui articolo 53, comma 1, del decreto legislativo, ed altresì nel complesso delle ulteriori attività operative e organizzative del Centro.
  4. Il tirocinio ha durata complessiva pari a duecento ore effettive, calcolate ai sensi dell’articolo 4, comma 1, secondo periodo, e comprende l’affiancamento nella conduzione di almeno dieci programmi.

Art. 8
(Prova di ammissione)

  1. La prova di ammissione è organizzata dalle Università e dai Centri, nell’ambito della collaborazione di cui all’articolo 3, comma 3.
  2. Alla prova di ammissione accedono i candidati in possesso del titolo di studio di cui all’articolo 59, comma 8, del decreto legislativo, e titoli equivalenti o equipollenti ai sensi di legge, e che abbiano previamente depositato il proprio curriculum vitae ed una lettera motivazionale. La prova consiste in un colloquio pubblico, da svolgersi in presenza, volto a valutare il contenuto della documentazione prodotta, nonché il livello di cultura generale e le attitudini specifiche del candidato stesso.
  3. Alla prova sovrintendono congiuntamente almeno due rappresentanti dell’Università e un mediatore esperto formatore e la stessa si conclude con l’espressione del giudizio di ammissione o non ammissione alla formazione teorica iniziale.
  4. Nell’organizzazione, svolgimento e valutazione della prova si tiene conto delle peculiari esigenze dei candidati portatori di disabilità o di disturbi specifici dell’apprendimento – DSA -, ove debitamente documentati, e si provvede ai sensi della legge 5 febbraio 1992, n. 104, e della legge 8 ottobre 2010, n. 170, nonché dell’ articolo 3, comma 4-bis del decreto-legge 9 giugno 2021, n. 80, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2021, n. 113, e del decreto del 9 novembre 2021 della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dipartimento della funzione pubblica.

Art. 9
(Prova finale)

  1. La prova finale è organizzata dalle Università e dai Centri, nell’ambito della collaborazione di cui all’articolo 3, comma 3, e accedono alla stessa i partecipanti che hanno assolto all’obbligo di frequenza nella misura di cui agli articoli 4, comma 1, secondo periodo, 6, comma 2, e 7, comma 4.
  2. La prova finale di valutazione del percorso formativo unitario consiste nella dimostrazione, da parte dei partecipanti alla formazione, della conoscenza completa dei contenuti teorici del percorso, nonché della piena padronanza delle competenze tecnico-pratiche e delle specifiche abilità acquisite nel percorso formativo. A tali fini, la prova finale si articola in una prova teorica e una pratica.
  3. A entrambe le prove sovrintende una commissione di almeno cinque membri, composta da due formatori teorici e tre mediatori esperti formatori, scelti tra coloro che hanno somministrato il percorso unitario di formazione, nell’ambito della collaborazione di cui all’articolo 3, comma 3, lettera a) e comma 4.
  4. La prova teorica mira a valutare, in capo ai partecipanti, l’assimilazione dei contenuti didattici di cui all’articolo 4, commi 1, 2, 3 e 4, e di cui all’articolo 5, commi 1 e 2, nonché la capacità di elaborazione di uno scritto in materia di giustizia riparativa e altresì il livello di capacità dialettica raggiunto sul tema. La prova, della durata complessiva non inferiore a quattro ore, da svolgersi in presenza, consiste nella redazione di un testo scritto, elaborato in risposta a un quesito avente a oggetto un tema affrontato nel corso della formazione iniziale, seguita dalla discussione, in forma pubblica, dell’elaborato stesso.
  5. La prova pratica mira a valutare, ai sensi dell’articolo 59, comma 6, del decreto legislativo, il possesso, in capo ai candidati, di capacità di ascolto e di relazione, nonché delle competenze e abilità necessarie alla gestione degli effetti negativi dei conflitti, con specifica attenzione alle vittime, ai minorenni e alle altre persone vulnerabili, anche nelle peculiari modalità di cui all’articolo 6, comma 3 del presente decreto.
  6. La prova, della durata complessiva non inferiore a sei ore, da svolgersi in presenza, consiste nella simulazione di un programma, articolato nei differenti momenti e attività di cui lo stesso si compone: segnalazione del caso; gestione delle attività preliminari, tra cui valutazione individualizzata della vittima e della persona indicata come autore dell’offesa, scelta dello stile del linguaggio da utilizzare e attività di informazione nei confronti dei partecipanti; scelta del programma più utile per la gestione del conflitto avente rilevanza penale; raccolta del consenso; conduzione del programma prescelto, con specifico riferimento alla gestione dei rapporti con l’altro mediatore, e eventuali ulteriori mediatori, con la vittima o le vittime del reato, la persona indicata come autore dell’offesa e i loro familiari, con gli altri partecipanti, con l’autorità giudiziaria, con i difensori, gli interpreti e i traduttori, con i servizi della giustizia e del territorio, con l’autorità di pubblica sicurezza e con ogni ulteriore interlocutore sociale; costruzione, ove possibile, dell’accordo riparativo; redazione della relazione e delle ulteriori comunicazioni all’autorità giudiziaria; gestione dell’esito del programma. A mezzo della simulazione, i candidati dimostrano le competenze e abilità acquisite con riferimento a ciascuna delle fasi e delle attività indicate nel primo periodo; alla stessa partecipano, nei differenti ruoli richiesti dal programma, soggetti scelti dalla commissione di cui al comma 3 anche tra partecipanti alla formazione.
  7. La prova finale si conclude con la valutazione, oggetto di deliberazione a maggioranza, di idoneità o non idoneità del candidato, al quale è rilasciata attestazione relativa all’esito della prova. Alla prova si applica la disposizione di cui all’articolo 8, comma 4.

Art. 10
(Formazione continua)

  1. I mediatori esperti iscritti nell’elenco di cui all’articolo 60 del decreto legislativo curano la formazione continua mediante la frequenza dei percorsi di cui ai commi che seguono, con cadenza annuale a far data dal provvedimento di iscrizione nell’elenco istituito in forza dell’articolo 3 del decreto ministeriale di cui all’articolo 60, comma 2, del decreto legislativo.
  2. La formazione continua, per le finalità di cui all’articolo 59, comma 4, del decreto legislativo, è assicurata dalle Università e dai Centri, in collaborazione paritetica tra loro, tramite corsi annuali istituiti presso le Università.
  3. La collaborazione ha ad oggetto quanto previsto nell’articolo 3, comma 3, lettera a), nonché l’individuazione delle modalità tramite le quali i partecipanti sostengono gli oneri finanziari della formazione ed altresì delle modalità di ripartizione dei proventi finanziari della formazione tra le Università e i Centri.
  4. La scelta delle forme della collaborazione è effettuata ai sensi dell’articolo 3, comma 4. Alle Università è poi affidata la gestione amministrativa e finanziaria della formazione continua, previamente concordata con i Centri.
  5. La formazione ha ad oggetto: la revisione dei contenuti della formazione teorica e pratica, tramite moduli avanzati; la supervisione, a cura dei formatori, delle modalità di conduzione dei programmi da parte dei mediatori esperti, nonché la verifica della persistenza nel tempo del possesso delle capacità, abilità e competenze di cui all’articolo 9, comma 4; la condivisione, anche tra i partecipanti, di nuove prassi nazionali, europee e internazionali.
  6. Il corso annuale di formazione permanente ha durata complessiva non inferiore a sessanta ore effettive, calcolate ai sensi dell’articolo 4, comma 1, secondo periodo, e si articola in moduli formativi anche suddivisi nel corso dell’anno solare, per un numero massimo di cinquanta partecipanti. Il corso si svolge in presenza per i tre quarti del monte orario complessivo e comunque per i moduli pratici; la residua formazione eventualmente offerta con collegamento da remoto si svolge in diretta e con la telecamera sempre accesa anche per i partecipanti, salve specifiche esigenze, valutate dai formatori. Al termine del corso annuale, è rilasciato dalle Università attestazione di partecipazione agli interessati, con onere di comunicazione al responsabile dell’elenco di cui all’articolo 3 del decreto ministeriale previsto dall’articolo 60, comma 2, del decreto legislativo.

Art. 11
(Finalità, struttura ed erogazione della formazione dei mediatori esperti formatori)

  1. Il percorso per la formazione iniziale e continua dei mediatori esperti formatori, di cui agli articoli 60, comma 2, terzo capoverso, prima ipotesi, del decreto legislativo, e 10 del decreto ministeriale previsto dalla stessa norma, è unitario ed è istituito presso le Università, in collaborazione paritetica con i Centri. Allo stesso si applicano le disposizioni di cui all’articolo 3, commi 4, 5, 6, 7 e 8, del presente decreto.
  2. La collaborazione ha ad oggetto:
    1. il coordinamento scientifico-didattico del percorso unitario di formazione inziale e permanente, con riguardo alla programmazione, allo svolgimento e alla valutazione dello stesso;
    2. l’individuazione delle modalità tramite le quali vengono sostenuti dai partecipanti gli oneri finanziari relativi alla formazione;
    3. l’individuazione delle modalità di ripartizione, tra le Università e i Centri, dei proventi finanziari della formazione.

Art. 12
(Modalità della formazione iniziale e continua dei mediatori esperti formatori)

  1. Al percorso formativo accedono i mediatori esperti iscritti nell’elenco di cui all’articolo 60 del decreto legislativo, che hanno comprovata perizia e professionalità nella materia della giustizia riparativa, derivante dall’esperienza concreta, specifica e continuativa nella conduzione di programmi come mediatore esperto presso uno o più Centri, maturata nel corso di almeno cinque anni precedenti la data della richiesta di iscrizione al percorso formativo.
  2. La formazione iniziale è assicurata dalle Università e dai Centri ai sensi dell’articolo 11, comma 1, e si articola in un corso, di durata complessiva non inferiore a ottanta ore effettive, calcolate ai sensi dell’articolo 4, comma 1, secondo periodo, di cui almeno sessanta in presenza. Il corso si ispira a metodi, valori e principi della giustizia riparativa sanciti a livello internazionale e si svolge altresì nelle forme tipiche della giustizia riparativa, prevedendo il coinvolgimento dei mediatori esperti nella riflessione e in confronti orizzontali, sia tra gli stessi mediatori esperti sia tra costoro e i formatori.
  3. Il corso mira a:
    1. fornire ai partecipanti le competenze formative e psico-attitudinali, necessarie a preparare altri mediatori esperti alla formazione, specificamente declinate secondo i criteri della formazione in età adulta e altresì ispirate ai metodi, valori e principi di cui al comma 2;
    2. valorizzare l’acquisizione di tutte quelle competenze relazionali che rendono il formatore abile nel facilitare il mediatore esperto verso lo sviluppo personale e professionale;
    3. rendere i partecipanti in grado di organizzare e gestire processi di formazione continua, dalla fase di progettazione alla fase di valutazione, calibrandoli in funzione dei differenti bisogni dei destinatari della formazione;
    4. far conseguire ai partecipanti la capacità didattica circa l’autovalutazione della verifica della persistenza nel tempo del possesso delle capacità, abilità e competenze di cui all’articolo 9, comma 5.
  4. Il corso ha ad oggetto la rivisitazione, in chiave formativa, delle materie oggetto della formazione di cui agli articoli 4, 5 e 6, nonché l’insegnamento delle nozioni basilari di modelli didattici per la formazione degli adulti, l’autovalutazione e la costruzione del proprio modo di fare formazione, con specifico riferimento: allo studio del processo formativo nella sua interezza; all’attenzione all’ascolto della narrazione dei partecipanti; alla costruzione di una storia narrativa; alla capacità di creare un dialogo attento sia all’atto violento sia alla particolare vulnerabilità delle vittime; alla creazione e utilizzo del materiale didattico; alla gestione delle esercitazioni.
  5. Al termine del corso, è prevista per i partecipanti una simulazione finale dell’attività di formazione, sotto la supervisione dei docenti, nonché il rilascio, da parte dell’Università, di attestazione di idoneità o non idoneità del partecipante alla simulazione.
  6. I mediatori esperti formatori curano la formazione continua, assicurata dalle Università e dai Centri in collaborazione paritetica tra loro, tramite la frequenza dei corsi istituiti presso le Università, con cadenza annuale a far data dal provvedimento di annotazione della qualifica di formatore nell’elenco istituito in forza dell’articolo 3 del decreto ministeriale previsto dall’articolo 60, comma 2, del decreto legislativo.
  7. La formazione continua ha ad oggetto la revisione dei contenuti della formazione di cui ai commi 2, 3 e 4, tramite moduli avanzati, nonché la condivisione, anche tra i partecipanti, di nuove prassi formative nazionali, europee e internazionali.
  8. Il corso annuale di formazione permanente ha durata complessiva non inferiore a trenta ore effettive, calcolate ai sensi dell’articolo 4, comma 1, secondo periodo, e si articola in moduli formativi anche suddivisi nel corso dell’anno solare, per un numero massimo di cinquanta partecipanti. Il corso si svolge in via prioritaria in presenza; la formazione eventualmente offerta con collegamento da remoto si svolge in diretta e con la telecamera sempre accesa anche per i partecipanti, salve specifiche esigenze, valutate dai formatori. Al termine del corso annuale, è rilasciata dalle Università attestazione dell’attività formativa svolta ai frequentanti, con onere di comunicazione al responsabile dell’elenco di cui all’articolo 3 del decreto ministeriale previsto dall’articolo 60, comma 2 del decreto legislativo.

Art. 13
(Disciplina transitoria)

  1. In deroga a quanto previsto dall’articolo 3, comma 6, laddove nel distretto di corte d’appello di competenza della Conferenza locale non siano ancora stati istituiti Centri, il percorso formativo dei mediatori esperti, di cui agli articoli 3 e seguenti, nonché dei mediatori esperti formatori, di cui agli articoli 11 e 12, è istituito presso le Università in collaborazione con uno o più Centri di cui alle Conferenze locali limitrofe. Laddove in detto distretto non siano presenti Università, il percorso formativo è istituito presso Università situate nei distretti di corte d’appello limitrofi, in collaborazione con uno o più Centri di cui alla conferenza locale di riferimento.

Art. 14
(Clausola di invarianza finanziaria)

Dall’attuazione del presente decreto non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

Il presente decreto sarà trasmesso ai competenti organi di controllo e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana ai sensi dell’articolo 18 del decreto del Presidente della Repubblica 13 giugno 1985, n. 1092, e sul sito istituzionale dei Ministeri della giustizia, del lavoro e delle politiche sociali e dell’università e della ricerca.

Roma, il 9 giugno 2023

IL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA
Carlo Nordio

IL MINISTRO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI
Marina Elvira Calderone

IL MINISTRO DELL’UNIVERSITÀ E DELLA RICERCA
Anna Maria Bernini

Registrato alla Corte dei Conti il 30/06/2023 con il n.1879

Associazione mafiosa e associazione dedita allo spaccio

Uno sguardo critico sull’annosa questione del concorso di reati

Massimo Autieri*

ABSTRACT

Il lavoro mette in luce il contrasto giurisprudenziale e le distorsioni applicative della giurisdizione di merito, soffermandosi sul rischio di adire interpretazioni estensive del concorso tra reati volte ad ampliare l’ambito di punibilità del reato di associazione finalizzata allo spaccio. Nella specie, si formula l’auspicio che venga scongiurato il rischio di adire interpretazioni tese ad esasperare la funzione repressiva del diritto penale, auspicando l’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite della Cassazione.

The contribution highlights the jurisprudential contrast and the application distortions of the trial judges, focusing on the risk of bringing extensive interpretations of the concurrence of crimes aimed at expanding the scope of punishment of the crime of association aimed at drug dealing. The aim is underlining the risk of resorting to interpretations aimed at exacerbating the repressive function of criminal law will be averted, in the hope of a clarifying intervention of the Grand Chamber of the Supreme Court of Cassation.

Sommario: 1. Note introduttive – 2. Distorsioni applicative del concorso di reati: l’associazione mafiosa e l’associazione per delinquere finalizzata allo spaccio- 3. Applicabilità della cd. aggravante mafiosa alla associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti – 4. Conclusioni.

1. Note introduttive

Il presente lavoro prende le mosse dall’annosa questione relativa alle distorsioni applicative in punto di concorso di reati, in particolare tra il reato associativo di cui all’articolo 416 bis c.p. e associazione per delinquere ex art. 74 d.P.R. 309/90, offrendo soluzioni alternative a quelle proposte dalla giurisprudenza di merito.

Sul punto concernente la coesistenza delle due associazioni, va subito chiarito che la giurisprudenza di merito, per lo più, ritiene che la differenza sostanziale tra un’associazione di stampo camorristico (416 bis c.p.) e un’associazione dedita al narcotraffico (art. 74 d.P.R. 309/90) stia nel fine programmatico dell’una, certamente più ampio, rispetto all’altra, caratterizzata dall’esclusivo narcotraffico; che ricorra la sola associazione dedita al narcotraffico se il sodalizio nasce e si sviluppa solo allo scopo di operare nel settore degli stupefacenti[1]; ancora, la prevalente giurisprudenza di legittimità sostiene che le due fattispecie associative concorrano solo a condizione che il fine criminoso perseguito dall’associazione camorristica non si esaurisca nel narcotraffico[2]; in ultimo, generalmente in giurisprudenza si afferma che i reati di associazione per delinquere, generica o di stampo mafioso, concorrono con il delitto di associazione per delinquere dedita al traffico di sostanze stupefacenti, anche quando la medesima associazione sia finalizzata alla commissione di reati concernenti il traffico degli stupefacenti e di reati diversi[3].

2. Distorsioni applicative del concorso di reati: l’associazione mafiosa e l’associazione per delinquere finalizzata allo spaccio

Al fine di fare corretta applicazione dei canoni ermeneutici in materia, occorre, innanzitutto, chiarire e fare buon uso dell’istituto giuridico del principio di specialità e, comunque, di quello di elaborazione dottrinale[4] e giurisprudenziale dell’assorbimento o continenza, pur in presenza di una affermata commistione tra le due entità associative, essendovi sostanziale sovrapposizione di uomini e mezzi con piena condivisione dei profitti provenienti dalla consumazione dei delitti fine. 

Non può certamente negarsi che l’associazione dedita al traffico di sostanze stupefacenti, fin dalla sua entrata in vigore quale autonoma fattispecie di reato, pongaproblemi relativi alsuo concorso formale con altre fattispecie delittuose di tipo associativo, in particolare con quelle previste dagli articoli 416 e 416 bis c.p.

Invero, non è infrequente imbattersi in dinamiche delinquenziali ove vi sia un unico sodalizio finalizzato alla commissione di delitti di diversa natura, tra cui quelli in materia di stupefacenti e/o che operi avvalendosi del metodo mafioso, anche in quelle in cui sia riscontrabile una pluralità di sodalizi differenti per finalità delittuosa, ma afferenti alla medesima complessa struttura criminosa, elevata a società criminale “madre”.

In questi casi, il rischio di cadere in ipotesi di violazione del ne bis in idem sostanziale e, comunque, di pervenire a un esito sanzionatorio eccessivo, dovrebbe indurre ogni interprete del diritto a un attento esame dei rapporti tra le diverse fattispecie associative e suggerire una certa prudenza nel valutare un concorso formale tra di esse. 

Non vi è dubbio che l’associazione dedita al traffico di sostanze stupefacenti mutui la propria struttura dal reato associativo semplice di cui all’art. 416 c.p.: elementi strutturali comuni sono la stabilità del vincolo associativo, la struttura organizzativa e l’indeterminatezza del programma criminoso, ma ne differisce, indubbiamente, in relazione ai reati-fine, al bene giuridico protetto, alla ratio e alle finalità politico-criminali. Infatti, l’art. 74 d.P.R. 309/90 punisce specificamente il traffico di stupefacenti e tutela, oltre l’ordine pubblico, anche la vita e la salute.

Alla luce di quanto esposto è innegabile, come riconosciuto in dottrina[5] e giurisprudenza, che vi sia un rapporto di specialità tra le due fattispecie associative, con aggiunta di elementi specializzanti unilaterali per l’associazione di cui all’art. 74 d.P.R. 309/90. In tal caso è da ritenere non configurabile un concorso formale tra i due reati qualora sussistano, nella fattispecie concreta, detti elementi specializzanti, ovvero l’associazione sia dedita esclusivamente al traffico di sostanze stupefacenti.

Maggiori difficoltà si incontrano nel caso in cui si sia in presenza di un’associazione che presenti un programma criminoso “misto”, ovvero dedita non solo al traffico di stupefacenti ma anche ad altre fattispecie delittuose. In tal caso, stante la diversità dei beni giuridici – perché l’art. 74 tutela, oltre l’ordine pubblico, anche la salute e la vita – la giurisprudenza[6] ritiene possibile il concorso formale tra i due reati, rappresentandosi, nel caso di specie, una specialità reciproca per sotto-fattispecie; pertanto i sodali sarebbero punibili per entrambe le ipotesi associative, pur in presenza di un’unica compagine associativa.

In realtà, non si comprende per quale ragione non possa applicarsi anche per questo caso specifico l’art. 15 c.p. che, in virtù del principio di specialità, ritenga prevalente l’art. 74 d.P.R. 309/90, tale da evitare una duplicazione della punizione del soggetto agente partecipe della stessa realtà associativa, salva la possibilità di condannarlo per i singoli reati-fine, cui abbia concorso, evitando cosìla violazione del ne bis in idem sostanziale.  

Anche l’associazione di tipo mafioso e l’associazione per il narcotraffico presentano taluni elementi fondamentali comuni, quali la stabilità del vincolo associativo, la struttura organizzativa, l’indeterminatezza del programma criminoso, ma differiscono, indubbiamente, in relazione al bene giuridico protetto, alla ratio e alle finalità politico-criminali delle due norme, oltre che, sotto il profilo formale, per la differente formulazione normativa delle due fattispecie[7].

In questo caso, secondo la giurisprudenza, le due fattispecie possono, pertanto, concorrere tra loro[8].

Nonostante la Suprema Corte si sia espressa in favore del concorso formale, anche in questo caso tanto nell’ipotesi concreta dell’unico sodalizio dedito al traffico di stupefacenti che ricorra al metodo mafioso, quanto in quella del sottogruppo della stessa associazione di stampo mafioso che si dedichi stabilmente e in via esclusiva alla realizzazione delle attività di cui all’art. 74 T.U. in materia di sostanze stupefacenti  – sembra possa affermarsi tra le due norme un rapporto di specialità.

In particolare, il rapporto tra i due reati associativi, qualificabile in termini di specialità reciproca, può essere dettagliatamente ricostruito nel senso che l’art. 74 d.P.R. 309/90 è speciale quanto alla tipologia delittuosa perseguita (traffico di stupefacenti – specialità per specificazione), ma è aspecifica quanto al metodo di azione (assenza del metodo mafioso), mentre l’art. 416 bis c.p. è speciale quanto al metodo mafioso (specialità per aggiunta), ma è aspecifico con riferimento ai delitti perseguiti.

In tali termini, ritenendo opportuno valutare le singole posizioni di interferenza, qualora risulti costituito un unico sodalizio, in virtù dell’art. 15 c.p., dovrebbe prevalere l’art. 416 bis c.p., per il maggior numero di elementi specializzanti; nella diversa ipotesi in cui si rinvenga la sussistenza di due sodalizi distinti e autonomi, che abbiano tra di loro relazioni, deve valutarsi attentamente la specifica posizione degli appartenenti, giungendo a conclusioni differenti a seconda che questi ultimi svolgano un ruolo in entrambi oppure abbiano aderito soltanto a uno di essi, perché solo nel primo caso sarebbe possibile il concorso formale tra i due reati associativi.

Sarebbe eccessivo ritenere configurabile il concorso formale tra le due associazioni, quella mafiosa e quella dedita ai traffici di stupefacenti, nel caso di fattispecie associative che presentino la medesima struttura organizzativa, perché in tali casi il fatto appare esprimere un disvalore penale sostanzialmente omogeneo[9].

L’opportunità di applicare la disciplina del concorso apparente di norme ai casi di partecipazione a un unico sodalizio a prescindere dalla varietà del programma delittuoso, può giustificarsi attraverso il criterio dell’assorbimento in luogo di quello strutturale, perché si è in presenza di una unitarietà normativo-sociale del fatto associativo; dunque, il disvalore del fatto concreto verrebbe assorbito dalla fattispecie che sanziona il reato più grave.

In presenza di una struttura organizzativa unitaria, per quanto allettante sia la prospettiva del concorso formale in termini repressivi e di deterrenza per l’eccezionale carico sanzionatorio, sembra davvero inopportuna la contestazione di una pluralità di reati associativi in conseguenza della diversa natura dei reati-fine, posto che la pericolosità insita nella struttura organizzativa, che è alla base del programma delittuoso, è già sufficientemente neutralizzata dall’applicazione di una sola delle disposizioni rilevanti. In pratica, il favor per il concorso apparente di norme pare conseguenza necessaria di un’interpretazione delle fattispecie associative che valorizzi come fulcro del disvalore l’elemento strutturale dell’organizzazione, più che la specifica tipologia dello scopo delittuoso[10].      

Pertanto, non è condivisibile la ricostruzione giuridica operata dalla Corte di Cassazione prevalente, che vuole il concorso formale tra il reato associativo di stampo mafioso e il reato associativo dedito al traffico di sostanze stupefacenti, negando il concorso apparente di norme, pur in presenza di una medesima struttura organizzativa di tipo associativo.

La giurisprudenza della Corte riconosce il concorso tra il reato di cui all’articolo 416 bis c.p. e quello di cui all’art. 74 d.P.R. 309/90, ma con riferimento a un contesto associativo tra gruppi federati o sottogruppi nell’ambito di un’organizzazione associativa “madre”, giammai in presenza di un unico sodalizio con similitudine di uomini, mezzi e condivisione di profitti.

In tal senso, il principio dell’assorbimento o consunzione, in luogo di quello di specialità che ha natura logico-strutturale, si configura quale criterio di valore che inevitabilmente assolve la funzione di venire incontro a esigenze di equità e di giustizia sostanziale. Secondo tale principio, in presenza di fatti astrattamente sussumibili sotto più fattispecie incriminatrici (tra le quali non ricorra un rapporto di specialità ex art. 15 c.p.), è consentito ritenere operante un concorso apparente di norme e non un concorso di reati quando la realizzazione di un reato comporti, secondo l’id quod plerumque accidit, la commissione anche dell’altro, di modo che il primo esaurisce in sé l’intero disvalore del fatto. Questo rapporto di compresenza non sfuggirebbe nemmeno al Legislatore, il quale, nel prevedere il trattamento per il reato più grave, fisserebbe una sanzione adeguata a coprire il disvalore del reato meno grave, in ossequio al principio di legalità. Dunque, in base al criterio di consunzione, lex consumens derogat lex consumptae, troverebbe applicazione la sola norma che prevede la pena più grave allo scopo di venire incontro all’esigenza di evitare l’addebito plurimo di un medesimo fatto quando quello meno grave esaurisca il significato antigiuridico in quello più grave, sicché appare evidente l’irragionevole quanto ingiusta duplicità di sanzione in relazione al criterio di proporzione tra fatto illecito e pena quale principio che ispira il nostro ordinamento (ne bis in idem “sostanziale”). 

La prevalente giurisprudenza di legittimità, più volte citata, nell’affermare la sussistenza di un “nuovo organismo criminale” finalizzato al traffico degli stupefacenti “dotato di autonomia strutturale e finalistica oltre che decisionale e organizzativa” ma con una “commistione di uomini e mezzi mutuati dall’organismo originario impegnando e impiegando i sodali storici più affidati ed esperti e mantenendo anche i ruoli a loro affidati” cede il passo a un percorso argomentativo evidentemente illogico e contraddittorio. Invero, non può ragionevolmente esservi organismo criminale contiguo a quello originario con identità di organigramma (uomini e mezzi) che allo stesso tempo acquisisca e conservi autonomia strutturale, finalistica, decisionale e organizzativa, ancor più se al vertice della nuova struttura vi sia la stessa persona; pertanto, da un punto di vista “fattuale”, l’organizzazione criminale non può che essere la medesima, mentre da un punto di vista “normativo – descrittivo” sarebbe da riconoscerne l’unitarietà in base al richiamato principio dell’assorbimento.

Le distorsive prassi applicative della giurisprudenza di merito scelgono di estremizzare tali concetti, tanto da ritenere che impegnare e impiegare gli stessi sodali, quelli storici più fidati ed esperti al fine di rendere sicura la riuscita delle nuove operazioni illecite nel campo degli stupefacenti, equivarrebbe alla possibile configurabilità delle due fattispecie associative pur quando si tratti di un gruppo criminale non sovrapponibile in toto a quello del clan mafioso.

Appare allora evidente il disallineamento logico di simili argomentazioni in ordine all’applicazione del principio dell’assorbimento.

Tanto a fondamento del ragionamento che gli interessi programmatici di natura delinquenziale s’incentrino nell’ambito di un’unica compagine associativa;  pertanto, avendosi sul piano “fattuale” un’unica struttura organizzativa, al fine di evitare una duplice condanna per l’esistenza sul piano “giuridico” di due diverse associazioni criminali, sarà possibile evocare il principio dell’assorbimento per il quale, pur non essendovi piena identità di bene giuridico tutelato ma comunque uniformità degli scopi prevalenti perseguiti dalle norme concorrenti, secondo cui lo scopo della norma che prevede il reato minore sia chiaramente assorbito da quella relativa al reato più grave inglobandone il disvalore sociale e il significato antigiuridico. Così, argomentando, apparirà irragionevole la duplicità di sanzione in relazione al principio di proporzione tra fatto illecito e pena secondo un criterio di normalità e giustizia sociale che ispira il nostro ordinamento giuridico, e sarà possibile applicare la sola pena per il reato più grave.

3. Applicabilità della cd. aggravante mafiosa alla associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti. 

A questo punto, non è un fuor d’opera trattare della problematica relativa all’applicabilità della aggravante mafiosa all’associazione dedita al narcotraffico.

L’aggravante mafiosa di cui all’art. 416 bis 1 c.p.  in relazione al reato di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti non dovrebbe – diversamente da quanto avviene nella prassi giurisprudenziale – avere riconoscimento, per essere elemento essenziale del concorrente reato di associazione mafiosa e per essere stata contestata quale aggravante dei singoli reati di cessione di stupefacenti, configurandosi, in tal guisa, una violazione del ne bis in idem sostanziale.

Il metodo mafioso e l’agevolazione mafiosa sono elementi tipici del reato di cui all’art. 416 bis c.p.;  pertanto la partecipazione alla concorrente associazione dedita al narcotraffico – quando espressiva di tali connotazioni – presenterebbe modalità dell’azione insite nella partecipazione al reato di associazione mafiosa che ne assorbirebbe l’intero disvalore sociale; diversamente opinando, il soggetto sconterebbe più volte un medesimo “fatto” configurato dal Legislatore nella duplice veste di elemento essenziale del reato associativo di stampo mafioso e quale elemento accidentale di ogni delitto che dell’atteggiamento mafioso si avvale per la sua consumazione o per agevolare l’associazione mafiosa.

Sarebbe logico quanto opportuno convenire, nei casi di concorso formale tra i reati di associazione per delinquere di stampo mafiosa e associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, quando espressive del “medesimo contesto associativo”, che l’aggravante ex art. 7 L. 203/91 non possa sussistere con riferimento al reato di cui all’articolo 74 d.P.R. 309/90, invocandosi ancora una volta il principio dell’assorbimento o consunzione.

Invero, se il sodalizio è “unico” (identità di persone e mezzi) e ha tra le sue finalità anche l’illecito traffico di stupefacenti è di palmare evidenza che i sodali, predisponendo una struttura organizzativa per operare anche nel settore degli stupefacenti, altro non fanno che perseguire il comune programma da tutti condiviso e l’adesione al quale integra la condotta di partecipazione con le modalità di quella mafiosa.

In giurisprudenza, si tende a  valorizzare un criterio di giudizio che implica una consequenzialità automatica (ai limiti dell’imputazione oggettiva) quando si lega l’aggravante mafiosa, sotto il profilo del metodo e dell’agevolazione, al reato associativo dedito al narcotraffico per il semplice dato di appartenere anche all’associazione camorristica, secondo un ragionamento per il quale far parte di un’associazione mafiosa implicherebbe un’inevitabile espressione mafiosa in ogni delitto-fine si volesse consumare.

4. Conclusioni

In conclusione, se appare fondato l’assunto per il quale il contesto ambientale e l’appartenenza a un’associazione mafiosa implichino inevitabilmente un portato mafioso in ogni delitto-fine si voglia consumare (al di là di un criterio di imputazione oggettiva che in violazione del principio di colpevolezza comunque si contesta), allora bisognerebbe disconoscere l’aggravante mafiosa per l’associazione dedita al narcotraffico perché condotta “assorbita” in quella di partecipazione nel reato di stampo camorristico (essendone qui elemento strutturale),  non potendosi duplicare una contestazione per un medesimo “fatto” stante il richiamato principio del ne bis in idem sostanziale.

Pertanto, è pienamente condivisibile la massima secondo la quale “La circostanza aggravante di cui all’art. 7 del D.L. 13 maggio 1991, n. 152, convertito nella legge 12 luglio 1991, n. 203, nelle due differenti forme dell’impiego del metodo mafioso nella commissione del reato e della finalità di agevolare, con il delitto posto in essere, l’attività dell’associazione per delinquere di stampo mafioso, è configurabile anche con riferimento al reato associativo di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990”[11]. Tuttavia, bisognerebbe escluderne il portato proprio per l’ipotesi in cui una data persona appartenga a un “unico sodalizio” che sul piano giuridico si configuri sotto il duplice assetto di associazione mafiosa e associazione dedita al narcotraffico; diversamente opinando, evidente sarebbe la violazione del principio del ne bis in idem sostanziale.

L’aggravante mafiosa di cui all’art. 416 bis 1 c.p., sotto altro ragionamento, è da considerare incompatibile con il reato associativo dedito al traffico di sostanze stupefacenti anche per essere quest’ultimo un particolare reato di natura permanente. Il metodo mafioso e l’agevolazione mafiosa quando costantemente esistenti in un’organizzazione anche specializzata nel traffico di stupefacenti non potranno che qualificare come mafiosa quell’associazione ai sensi dell’art. 416 bis c.p. per il principio di specialità; diversamente, al di fuori di ipotesi associative il metodo mafioso e l’agevolazione mafiosa, quali circostanze aggravanti, connoteranno qualsivoglia reato sotto il diverso profilo della modalità della condotta (metodo mafioso) o dei motivi a delinquere (agevolazione mafiosa), ma riferiti al singolo episodio criminoso e nel momento in cui esso si perfeziona.

Il ragionamento valorizza il medesimo elemento sotto un duplice aspetto: il metodo mafioso e l’agevolazione mafiosa, quando rapportati a un’entità associativa con programma delittuoso indeterminato, incidono sulla struttura del reato stesso; invece, quando rapportati a qualsiasi altro reato, anche permanente ma non di tipo associativo, incidono sotto l’aspetto circostanziale. In particolare, il rapporto tra i due reati associativi, qualificabile in termini di specialità reciproca, può essere dettagliatamente ricostruito nel senso che l’art. 74 d.P.R. 309/90 è speciale quanto alla tipologia delittuosa perseguita (traffico di stupefacenti – specialitàper specificazione) ma è aspecifica quanto al metodo di azione (assenza del metodo mafioso), mentre l’art. 416 bis c.p. è speciale quanto al metodo mafioso (specialità per aggiunta) ma è aspecifico con riferimento ai delitti perseguiti[12]. Pertanto, dovrebbe prevalere la sola norma che punisce l’associazione mafiosa (mostrando una specialità per aggiunta) ogni qualvolta vi sia un unico sodalizio espressivo di ambedue le realtà associative, in ossequio al principio del ne bis in idem sostanziale.

Tale ricostruzione che vuole l’aggravante di cui all’art. 416 bis 1 c.p. riferita ai singoli reati fine non connotati dal pactum sceleris e dal programma delittuoso indeterminato, offre una soluzione, dunque, in armonia con il principio di proporzione del trattamento sanzionatorio, evitando di punire un medesimo soggetto per il medesimo fatto più volte, oltre che di osservanza al principio di stretta legalità.

Riferimenti bibliografici

Albanese F., Caruso A., La Russa I., Panella S.M., Morace C., Saruci L., Legislazione antimafia e sistema del doppio binario. Analisi della normativa penale, processuale e penitenziaria, Reggio Calabria, 2009, in part. L. SARUCI, Il sistema del doppio binario nell’ambito delle indagini preliminari, 268 ss. e 295 ss.; Amato G., Configurabilità del concorso tra associazione finalizzata al traffico di stupefacente e associazione di tipo mafioso, Nota a Cass., Sez. IV Pen. (Pres. A. Morgigni, Rel.-est. C. G. Brusco), sentenza 20 marzo 2008, n. 12349, in Cass. pen., 2008, 4294-4296; Antolisei F., Manuale di diritto penale. Parte Generale, Milano, XVI ed. 2003; De Vero G., Tutela dell’ordine pubblico e reati associativi, in Riv. it. dir. proc. pen., 1993, n. 1, 93; Fiandaca G., Musco E.., Diritto penale. Parte Generale, Bologna, VIII ed. 2019; Insolera G., Spangher G., Della Ragione L., I reati in materia di stupefacenti, fattispecie monosoggettive. Criminalità organizzata. Profili processuali, Milano, 2019; Maiello V., voce Pubblica intimidazione, in Enc. Dir., Vol. XXVII, Milano 1988, 912; Mutti F., L’associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e psicotrope, in Insolera G. (a cura di), Le sostanze stupefacenti, Torino, 1992; Palazzo F. C., Consumo e traffico degli stupefacenti, Padova, Ed. II, 1994; Spagnolo G., L’associazione di tipo mafioso, Padova, 1990; Pelissero M., Associazione di tipo mafioso e scambio elettorale politico-mafioso, in AAvv., Reati contro la Personaltà dello Stato e l’Ordine pubblico, in Pelissero M. (a cura di), i Torino, ed. I, 2010; Mantovani F., Diritto Penale, Padova, X ed. 2017; Marinucci G.- Dolcini E., Manuale di diritto Penale, Milano, VI ed. 2017; Serra G., Le Sezioni Unite e il concorso apparente di norme, tra considerazioni tradizionali e nuovi spunti interpretativi, in Dir. pen. cont., 2017, n. 11, 173-185.

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*Avvocato penalista presso il Foro di Napoli. Cultore della materia di diritto penale presso l’Università degli studi di Napoli “Parthenope”, cattedra dei Proff. Alberto De Vita e Fabrizio Rippa. Docente dir. pen. a.c. Link Campus University Roma. Patrocinante in Cassazione.

[1] Cfr. Cass., Sez. Un. Pen. (Pres. V. Carbone, Rel-est. G. Marasca), sentenza 13 gennaio 2009 (ud. 25 settembre 2008), n. 1149, in dejure.it

[2] Cfr. Cass., Sez. IV Pen. (Pres. C. Citterio, Rel.-est. M. Ricciarelli), sentenza 8 gennaio 2016 (ud. 29 ottobre 2015), n. 563, in dejure.it.

[3] Cfr., ex plurimis, Cass. Sez. II Pen., (pres. De Santis Annamaria, rel-est Tutinelli Vincenzo, sentenza 25 novembre 2011 n. 44888 in dejure.it; Cass. sez. II pen, sentenza 30 gennaio 2008 (ud. 30 gennaio 2008), n. 17746 in dejure.it.

[4] Vedi F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte Speciale, volume II, Milano, ed. 2016, p. 247 ss; G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte Speciale, Bologna, VIII ed. 2019, pp. 463 ss.

[5] In tal senso cfr. F. C. Palazzo, Consumo e traffico degli stupefacenti, Padova, Ed. II Cedam, 1994,  p 33ss; cfr. P. Mutti, L’associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e psicotrope, in G. Insolera (a cura di), Le sostanze stupefacenti, Torino, 1992, 272.

[6] Tra tutte, Cass., SS. UU. Pen., sentenza 13 gennaio 2009, n. 1149, cit.

[7] Sul tema, cfr. G. Amato, Configurabilità del concorso tra associazione finalizzata al traffico di stupefacente e associazione di tipo mafioso, in Cass. pen., 2008, 4294-4296.

[8] Cfr. Cass., Sez. I Pen. (Pres Di Lauro, Rel-est Scino), sent. 21 gennaio 2010 n. 17702, CED, Rv 247059; Cass., Sez. IV Pen. (Pres. A. Morgigni, Rel.-est. C. G. Brusco), sentenza 20 marzo 2008, 12349, CED Rv 239298.

[9] F. Albanese, G. Caruso, I. La Russa, C. Morace, S.M. Panella, L. Saruci, in Legislazione antimafia e sistema del doppio binario. Analisi della normativa penale, processuale e penitenziaria, Reggio Calabria, 2009, in part. L. Saruci, Il sistema del doppio binario nell’ambito delle indagini preliminari, 268 ss. e 295 ss.  

[10] Sul punto, cfr. G. Insolera, G. Spangher, L. Della Ragione, I reati in materia di stupefacenti, fattispecie monosoggettive. Criminalità organizzata. Profili processuali, Milano, 2019, 483.

[11] Cfr. Cass., Sez. VI Pen. (P.M. in proc. Corso), 30 ottobre 2013 (udienza 30 ottobre 2013), sentenza n. 462013 in C.E.D. Cass., n. 258163; Cass., Sez. Un. pen., 22 giugno 2017, n. 41588, La Marca, con nota di G. Serra, Le Sezioni Unite e il concorso apparente di norme, tra considerazioni tradizionali e nuovi spunti interpretativi, in Dir. pen. cont., 2017, n. 11, 173-185.

[12] Sul punto vedi, in dottrina, M. Pelissero, Associazione di tipo mafioso e scambio elettorale politico-mafioso, in Id. (a cura di), Reati contro la Personaltà dello Stato e l’Ordine pubblico, Torino, I ed. 2010, pp. 299ss; F. Mantovani, Diritto Penale, Padova, X ed. 2017, 469; G. Marinucci- E. Dolcini, Manuale di diritto Penale, Milano, VI ed. 2017, 521ss. 

Processo mediatico e victim blaming

Avv. Prof. Federica Federici

Assistiamo da tempo al fenomeno dei processi mediatici, in luogo di quelli nelle aule, uniche sedi invero deputate all’accertamento della verità sostanziale in forma processuale. Legato alle nuove tecnologie che consentono a chiunque di esprimersi (social networks, forum, blog, pagine e profili personali, communities, etc.) tale fenomeno degenera quasi sempre in gogna mediatica per gli imputati – presunti innocenti e non presunti colpevoli o condannati in attesa di giudizio – ma anche nei confronti delle vittime, che subiscono un ennesimo processo, ma anche un vero e proprio stupro mediatico. I casi più eclatanti infatti sono evidenti nei recenti casi di cronaca, nelle vicende e nei processi a sfondo sessuale, dove sexual offenders, violenti e soggetti omicidi vengono attaccati unitamente ai familiari e passati ai raggi X nelle loro vite e contesti, ma anche nei casi di revenge porn, baby squillo e stupri di gruppo. Il Me Too, il caso Genovese e del figlio di Beppe Grillo docent.

La nostra società in realtà è malata di voyerismo, populismo, vendette mediatiche, informazione distorta, inesatta, parziale, dove il titolo stesso della notizia è un giudizio e magari la notizia che si legge all’interno è un mero tam tam di rinvio ad altre notizie fino a divenire una notizia monocorde, nonché unica fonte. Tutto ciò porta, e comporta, una sovraesposizione mediatica di imputati e vittime, in un tutti contro tutti da Far Web o War Web.

Dal punto di vista giuridico la presentazione di querele, le disposizioni del Codice Rosso, i primi momenti di assistenza di una vittima di stupro, sono fasi chiave e cruciali, che possono condizionare tutto il prosieguo ma anche le indagini iniziali (fughe di notizie, dinamiche disdicevoli dei media che arrivano ad esse prima dei legali e delle famiglie, reticenze e resistenze di persone coinvolte e della P.G. nel ricevere le denunce-querela) tutte prassi da debellare con fermezza e onestà intellettuale in modo da rompere quel muro ormai noto.

Molti sono i concetti e gli istituti giuridici coinvolti dal fenomeno in questione: la presunzione di innocenza, il consenso e l’autodeterminazione, il rischio, l’imputabilità, la minore età o l’ignoranza della minore età, l’uso illecito di denaro, di alcool, sostanze stupefacenti o psicotrope, il suicidio, i soggetti fragili o vulnerabili, il concorso morale e materiale nel reato, i reati di gruppo, lo ius educandi e vigilandi, la privacy, il concetto di tentativo, consumazione e desistenza.

Risultano purtroppo ancora necessari interventi, sensibilizzazione, crescita culturale ed educazione alla legalità, correttivi allo stesso Codice Rosso, strumenti di tutela a protezione di tutti, in una visione organica e centrata sulle persone coinvolte, indipendentemente dal loro ruolo.

(spunti di riflessione a margine del convegno in tema di vittimizzazione secondaria organizzato dall’Osservatorio Violenza e suicidio del Dott. Stefano Callipo, che con l’occasione ringrazio)

Pandemia e uffici giudiziari

Dal Webinar su Pandemia e Green Pass

Nel D.L 2021/127 – recante Misure urgenti per assicurare lo svolgimento in sicurezza del lavoro pubblico e privato mediante l’estensione dell’ambito applicativo della certificazione verde COVID-19 e il rafforzamento del sistema di screening. (21G00139) Decreto-Legge convertito con modificazioni dalla L. 19 novembre 2021, n. 165, in G.U. 20/11/2021, n. 277 – allo scopo preciso di ridurre il rischio del contagio e con intento persuasivo, nonché di sensibilizzazione, si disciplina l’obbligo del Green Pass negli uffici giudiziari. In tali sedi operano magistrati, ausiliari e cancellieri, impiegati, avvocati, parti processuali e terzi (es. fornitori, volontari, accompagnatori, ecc.), i quali devono essere in possesso e pertanto esibire su richiesta il Green Pass. I dipendenti, se privi di Green Pass, a differenza degli avvocati, si considerano assenti ingiustificati. Pertanto vi è differenza tra i vari soggetti (artt. 1, 2 e 3). Si sono pertanto posti dubbi interpretativi su tali norme (nello specifico sul comma 8 dell’art. 2), così come in ambito Privacy /UE 2016/679 e D. Lgs. 196/03). Sussiste quindi un problema di compatibilità degli obblighi da parte degli avvocati con la loro connaturale autonomia ed indipendenza professionale? Può considerarsi un luogo di lavoro per i liberi professionisti la sede degli uffici giudiziari?

In realtà la pandemia da molto prima della normativa suddetta aveva travolto – e stravolto – in brevissimo tempo abitudini, prassi, norme del settore pubblico e privato, dei cittadini e di tutta l’organizzazione giudiziaria. L’emergenza si è innestata in un complesso scenario, di per sé già lacunoso, carente e con scarsità di risorse e mezzi. Dal blocco di molti processi nell’immediato alla ipertrofia normativa, in un contesta di dubbia costituzionalità e continue deleghe. Lo stesso Ordine degli Avvocati di Roma, che già aveva dato un forte impulso alla comunicazione sul sito con un significativo restyling, ha dovuto fare uno sforzo imponente per raccogliere e postare informazioni ufficiali, definire protocolli, predisporre vademecum, orientare gli avvocati, la cui attività professionale si è trovata impattata e cambiata in pressoché tutti gli ambiti, tanto gli studi piccoli quanto i grandi, con i loro collaboratori, così come i detenuti, i terzi, le cancellerie e gli uffici giudiziari.

I detenuti, già in condizioni di isolamento, hanno ulteriormente vissuto privazioni nelle visite dei familiari, i contagi nei carceri hanno messo in luce le criticità della medicina intramuraria, la polizia penitenziaria è stata esposta ai contagi, vittime vi sono state in entrambe le compagini e i casi di cronaca su sommosse e disordini in carcere sono noti. I difensori hanno inaugurato una stagione di colloqui audiovideo a mezzo dispositivi in dotazione degli istituti penitenziari.

Per i clienti e gli assistiti sono sorti subito problemi quali la firma della procura (a distanza), lo scambio e predisposizione di documentazione originale, la presenza in udienza, il ricevimento in studio. I bisogni sono cambiati, si sono aperte questioni giuridiche massive su tematiche giuslavoristiche, familiari, economiche e di accesso al credito e ai fondi, è cambiato il concetto di rischio e di responsabilità in molti ambiti.

I processi hanno visto in parte la sospensione dei termini, sospensione sulla quale sono stati numerosi gli sforzi e i dubbi interpretativi ed applicativi nelle singole peculiarità e dei conseguenti obblighi, il processo orale è stato amputato in alcune fasi, protocolli, faq, vademecum si sono avvicendati in modo entropico e schizofrenico, generando confusione e difficoltà. In un Paese piuttosto votato alla burocrazia e formalismi la remotizzazione e de materializzazione non poteva avvenire certo in pochi mesi, tantomeno in quelli “cuscinetto”. Dalle PEC alle videoconferenze, dai biglietti di cancelleria alle trattazioni scritte, dai depositi sui portali, gli operatori di giustizia tutti si sono divisi tra chi ne ha colto l’opportunità per una trasformazione della giustizia e chi ha evidenziati limiti e perplessità, di certo però la giustizia in questa fase ha dimostrato la sua altissima funzione sociale.

Riferimenti

Avv. Federica Federici

Sulla sussistenza della fattispecie delittuosa di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti sia nell’ipotesi di inesistenza oggettiva e sia in quella di inesistenza soggettiva

Nota a Corte di Cassazione penale, sez. III, sentenza del 15/11/2019 n.1998

Corrado Spriveri[1]

Estratto:   “Il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti sussiste sia nell’ipotesi di inesistenza oggettiva dell’operazione, cioè quando non sia stata posta mai in essere nella realtà, sia in quella di inesistenza soggettiva, ossia quando l’operazione vi sia stata ma per quantitativi inferiori a quelli indicati in fattura, sia infine nel caso di sovrafatturazione qualitativa, nel quale la fattura attesti la cessione di beni e/o servizi aventi un prezzo maggiore di quelli forniti, in quanto oggetto di repressione penale è ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale”.

La Suprema Corte con la sentenza in commento[2], ha rigettato il ricorso del ricorrente, condannandolo altresì alla spese processuali, ritenendolo responsabile della fattispecie delittuosa di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, non rilevando il carattere “soggettivo” ovvero “oggettivo” dell’inesistenza.

Invero, l’art.2 del decreto legislativo n.74 del 2000[3], rubricato “Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”, punisce “con la reclusione da quattro a otto anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative alle suddette imposte, elementi passivi fittizi”, esponendo, in altri termini, costi o altre componenti negative del reddito del tutto disancorate rispetto alla realtà gestionale ovvero “esagerate” rispetto all’entità effettiva[4].

La previgente normativa penal-tributaria, all’art.4, comma 1, lett. d) del decreto legge n.429/1982, convertito nella legge n.516 del 1982, prevedeva la punibilità di chi emetteva o utilizzava fatture o altri documenti per operazioni in tutto o in parte inesistenti, o recanti l’indicazione dei corrispettivi o dell’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero emetteva o utilizzava fatture o altri documenti recanti l’indicazione di nomi diversi da quelli veri, in modo che risultasse impedita l’identificazione dei soggetti cui si riferivano.

L’ipotesi di dichiarazione fraudolenta mediante uso di falsa documentazione, invece, era oggetto di distinta disposizione normativa, indicata nell’art.4, comma 1, lett. f) del decreto legge n.429/1982, secondo la quale era punibile chi indicava, nella dichiarazione dei redditi ovvero nel bilancio o rendiconto ad essa allegato, al di fuori dei casi previsti dall’art.1 del decreto legge n.429/1982, ricavi, proventi o altri componenti positivi di reddito, ovvero spese od altri componenti negativi di reddito in misura diversa da quella effettiva, utilizzando documenti attestanti fatti materiali non corrispondenti al vero, oppure ponendo in essere altri comportamenti fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento di fatti materiali.

La novella del 2000 ha introdotto la nuova nozione di “frode fiscale”. Tale definizione consiste nella dichiarazione fraudolenta fondata su falsa documentazione, idonea a fornire una falsa rappresentazione contabile della situazione fiscale del contribuente.

Il secondo comma dell’art.2 del decreto legislativo n.74/2000 precisa che il fatto si considera commesso avvalendosi di “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” quando … “tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie o sono detenuti a fine di prova nei confronti dell’Amministrazione finanziaria”.

Invero, la fattispecie delittuosa in parola si considera integrata con la presentazione della dichiarazione[5], ai fini delle imposte sui redditi e/o dell’imposta sul valore aggiunto, in quanto il legislatore mira a reprimere penalmente le sole condotte direttamente correlate alla lesione degli interessi fiscali, rinunciando invece a perseguire quelle di carattere meramente preparatorio o formale (fatti prodromici alla effettiva lesione del bene giuridico protetto già sanzionati penalmente con la previgente normativa – legge n.516/1982 cd. “manette agli evasori” –).

Elemento costitutivo del reato è dunque, l’indicazione in una delle dichiarazioni (ai fini delle imposte sui redditi e/o dell’I.V.A.) di elementi passivi fittizi inesistenti, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.

La condotta antigiuridica viene definita “bifasica”: l’autore, dapprima raccoglie o riceve la documentazione non veritiera e del tutto disancorata dalla realtà, annotandola nelle scritture contabili obbligatorie, ovvero conservandola come prova da far valere contro l’Amministrazione finanziaria nell’eventualità di un accertamento.

Successivamente, presenta la dichiarazione ai fini delle imposte sui redditi o dell’imposta sul valore aggiunto nella quale è recepita la falsa rappresentazione di cui la documentazione fittizia rappresenta il supporto.

Soggetto attivo del reato è considerato colui che sottoscrive la dichiarazione anche se, di fatto, potrebbe non aver partecipato alla fase antecedente di acquisizione e registrazione delle fatture per operazioni inesistenti nelle scritture contabili obbligatorie.

Sia la dottrina che la giurisprudenza sono concordi nel ritenere la fattispecie delittuosa in parola un reato “proprio”: affinché possa dirsi configurato è richiesto, invero, che il suo autore si trovi in una particolare posizione soggettiva, giuridica o di fatto, recte sia titolare dell’obbligo di presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte sui redditi o dell’imposta sul valore aggiunto.

L’art.1, lett. c),  del decreto legislativo n.74 del 2000, dispone  che per “dichiarazione” si intendono anche le dichiarazioni presentate in qualità di amministratore, liquidatore o rappresentante di società, enti o persone fisiche.

L’art. 1, lett. a) del medesimo decreto, rubricato “Definizioni” chiarisce, invero, che per  “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”  …  si intendono le fatture o gli altri documenti aventi rilievo  probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di  operazioni non realmente effettuate in  tutto  o  in  parte  o  che  indicano  i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura  superiore  a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti  diversi da quelli effettivi”.

Secondo la Suprema Corte[6] la fattispecie delittuosa di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti si configura sia nell’ipotesi di inesistenza oggettiva dell’operazione, cioè quando non sia stata posta mai in essere nella realtà, oppure qualora l’operazione vi sia stata ma per quantitativi inferiori a quelli indicati in fattura, sia infine nell’ipotesi di sovrafatturazione qualitativa –  ossia quando la fattura attesti la cessione di beni e/o servizi aventi un prezzo maggiore di quelli forniti – sia in quella di inesistenza soggettiva, in quanto oggetto di repressione penale è ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale.

Relativamente all’inesistenza soggettiva, essa si configura allorquando la prestazione indicata nella fattura sia effettivamente eseguita ma da o a favore di un soggetto diverso da quello che risulta nel documento contabile[7].

In definitiva secondo il Supremo Collegio ai fini dell’integrazione della fattispecie criminosa in esame, ciò che rileva è l’indicazione di elementi passivi fittizi nella dichiarazione, avvalendosi di fatture per operazioni inesistenti, non rilevando il carattere “soggettivo” ovvero “oggettivo” dell’inesistenza.

Invero, la fattispecie delittuosa prevista dall’art.2 decreto legislativo n.74 del 2000, nel riferirsi all’uso di fatture o altri documenti concernenti operazioni inesistenti, non opera alcuna distinzione, né riconduce espressamente la rilevanza dell’inesistenza soggettiva esclusivamente alla dichiarazione fiscale ai fini dell’imposta sul valore aggiunto[8].

Con queste motivazioni, in buona sostanza, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del ricorrente condannandolo, altresì,  alle spese processuali.

IL CASO:

Con sentenza 18.01.2019, la Corte d’appello di Roma confermava la sentenza del GUP/tribunale di Roma del 17.07.2014, appellata dal ………, che era stato condannato alla pena di mesi 6 di reclusione, in esito al rito abbreviato richiesto e con il concorso di attenuanti generiche e dell’attenuante di cui al D.Lgs. n.74 del 2000, art. 13, e riconoscimento dei doppi benefici di legge, perché ritenuto colpevole del reato di utilizzazione di fatture per operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti, per un ammontare pari ad euro 280.000 esclusa IVA pari ad Euro 56.000, in relazione al periodo di imposta 2010, in relazione a fatti accertati in data (OMISSIS) e commessi nell’(OMISSIS).

Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del difensore di fiducia, iscritto all’Albo speciale previsto dall’art. 613, c.p.p., articolando due motivi di ricorso, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art.173 disp. att. c.p.p..

Deduce, con il primo motivo, violazione di legge in relazione alla sussistenza del fatto ed alla data della sua eventuale commissione e correlato vizio di contraddittorietà ed assenza della motivazione. In sintesi, si sostiene che la Corte di Appello di Roma avrebbe omesso di considerare che, ai fini dell’integrazione del reato addebitato, prima ancora di ogni valutazione sulle fatture e sull’esistenza delle relative operazioni, sarebbe preliminare accertare il loro utilizzo nelle dichiarazioni fiscali presentate.

Sul punto, non sarebbe stata prodotta agli atti la dichiarazione fiscale presentata dalla società ………. S.r.l., poiché essa non risulterebbe tra gli allegati ai processi verbali redatti dal personale dell’Agenzia delle Entrate.

Non vi sarebbe pertanto alcuna prova documentale in ordine alla sussistenza del delitto, né in ordine alla data della sua eventuale commissione. Ciò si risolverebbe in una totale assenza di motivazione circa la ricorrenza di un elemento costitutivo del delitto, o comunque in una contraddittorietà della motivazione rispetto agli atti, mancando un documento probatorio che confermi un dato materiale implicitamente assunto per vero. Sarebbe, poi, stata violata anche la legge sostanziale, essendo stata pretermessa la rilevanza della dichiarazione ai fini della sussistenza del reato, il quale sarebbe stato ricostruito elidendo dalla fattispecie tipica l’elemento dell’utilizzazione delle fatture, anticipando la punibilità al ricorrere della mera detenzione delle stesse. Tale difetto documentale si ripercuoterebbe anche su un ulteriore elemento fondamentale ai fini della punibilità, ossia la data della commissione della condotta illecita. Nel capo di imputazione verrebbe genericamente ed apoditticamente fissata nell’(OMISSIS). Tuttavia già la mancanza del giorno farebbe comprendere come non vi sia stata alcuna precisa individuazione della data di presentazione della dichiarazione. Sarebbe dunque apodittica ed in implicito contrasto con gli atti anche l’individuata data di commissione del delitto, il che non consentirebbe di valutare l’eventuale decorso della prescrizione. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di assenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla inesistenza oggettiva delle prestazioni fatturate ed alla richiesta di assoluzione perché il fatto non sussiste.

In sintesi, si rileva come già nei motivi di appello si era evidenziato come affermare che la prestazione sia stata resa da un soggetto diverso rispetto a quello che ha emesso la fattura, implicherebbe che la prestazione è stata in effetti esistente.

La stessa Agenzia delle Entrate, all’esito del proprio accertamento e dopo le deduzioni della società, avrebbe considerato le prestazioni inesistenti soltanto dal punto di vista soggettivo, ed ammesso invece la loro esistenza sul piano oggettivo, rideterminando conseguentemente la quantificazione dell’imposta evasa.

La difesa aveva pertanto richiesto il riconoscimento dell’esistenza almeno oggettiva delle prestazioni, così da spostare l’accertamento sulla consapevolezza della società ……….. e del suo legale rappresentante pro tempore in ordine alla diversità tra il soggetto che effettuava la prestazione e quello che la fatturava.

Infatti, stante il rapporto fiduciario intercorrente con il consulente finanziario ………. (che aveva indicato quelle società per l’effettuazione delle prestazioni) la rapida crescita sul mercato della società ……….., il ruolo di raccordo e coordinamento del ……….. tra la realtà italiana e la struttura inglese e russa, che lo costringeva a costanti soggiorni fuori dall’Italia ed a delegare di fatto altri collaboratori per i contratti con i fornitori, sarebbe stato evidente il difetto di prova circa la consapevolezza del ricorrente che le prestazioni – effettivamente rese e retribuite dalla società ……….. – fossero state in realtà prestate da altro soggetto giuridico.

La Corte di Appello avrebbe tuttavia aggirato la questione, limitandosi a ricordare che, ai fini della rilevanza penale della fattispecie, importi indistintamente l’utilizzo di documenti fiscali “emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte … ovvero che riferiscano l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi”, affermando che, rilevata l’assenza di prova contraria, le operazioni erano sicuramente inesistenti sotto il profilo soggettivo e che “anche a non voler ritenere l’inesistenza della operazioni sotto il profilo oggettivo … il reato di dichiarazione fraudolenta … nel riferirsi all’uso di fatture o altri documenti concernenti operazioni inesistenti, non distingue tra quelle che sono tali dal punto di vista oggettivo o soggettivo”.

Il giudice di secondo grado avrebbe svilito il rilievo per cui la mancanza di prove in ordine all’inesistenza oggettiva rafforzi l’onere motivazionale circa l’individuazione dell’elemento psicologico del legale rappresentante della società relativamente all’identità del soggetto giuridico che ha effettuato le prestazioni.

Nel momento in cui si afferma che non si via prova dell’inesistenza oggettiva delle operazioni, diventerebbe stringente l’onere di provare che l’amministratore della società beneficiaria delle prestazioni fosse consapevole della diversità giuridica del soggetto che le ha rese.

Sarebbe dunque evidente che la Corte territoriale ha pretermesso di prendere in esame gli argomenti offerti sul punto nei motivi di appello, i quali non sarebbero neanche citati né ad essi sarebbe stata data risposta.

Sulla questione, la sentenza fornirebbe argomentazioni puramente di stile, manifestamente illogiche e disancorate dal caso concreto, nonché contraddette dagli atti. La decisione assume che l’imputato fosse ben a conoscenza di detta situazione, il che verrebbe dimostrato dal fatto che tutte le società fossero assistite dallo stesso studio di commercialisti, nonché dal fatto che le società fatturanti erano state proposte alla societù …………. dal titolare dello studio predetto.

La società ………. non avrebbe inoltre fornito alcuna documentazione attestante l’avvenuto integrale pagamento delle prestazioni. Tali argomentazioni sarebbero palesemente illegittime. Come già affermato in appello, sarebbe del tutto naturale che un cittadino straniero che avvii una attività imprenditoriale in Italia, in mancanza di una pregressa rete di relazioni, di contatti ed i fornitori di servizi, si affidi almeno inizialmente alle indicazioni provenienti dai pochi interlocutori ritenuti fidati.

In quest’ottica era stato spiegato come la segnalazione alla società …….S.r.l. di tali società da parte del commercialista, nonché i rapporti successivi, lungi dall’essere la prova del dolo in capo al ………., rappresentavano al contrario, dal punto di vista logico, esattamente la ragione per cui il ricorrente avrebbe in buona fede affidato tali mansioni proprio alla società …………., e non ad altre società.

Pertanto la Corte di Appello avrebbe, in modo illogico, considerato come un indizio a carico ciò che invece avrebbe piuttosto costituito la prova della buona fede del ricorrente. Relativamente all’assenza di documentazione commerciale in ordine alle prestazioni ricevute, la Corte territoriale non avrebbe preso in considerazione gli atti di causa da cui sarebbe emerso che nel corso delle indagini era stato ascoltato il Dott. ………, direttore commerciale della società ……….., che avrebbe riferito degli incontri con cadenza mensile con appartenenti alla società ………. e alla società ………….. (indicandone i nominativi), i quali avevano svolto indagini sul mercato, al fine di ottenere dettagliati resoconti sulle attività espletate. Nel corso della verifica fiscale, inoltre, sarebbero state prodotte tanto le lettere di conferimento dell’incarico alle due fatturanti, tanto i dettagliati resoconti, resi in forma scritta con riguardo alle prestazioni sottostanti agli importi presentati nelle relative fatture. Ne consegue che la sentenza sul punto sarebbe contraddittoria e del tutto apodittica, non corrispondendo al vero che la società ……….  non avrebbe fornito dimostrazione dell’effettività delle prestazioni, non confrontandosi la Corte con le deposizioni testimoniali e la documentazione agli atti, anche solo per smentirne la rilevanza. Il medesimo errore sarebbe stato commesso relativamente all’asserito mancato pagamento delle prestazioni fatturate, dal momento che nell’impugnazione sarebbero stati indicati gli atti di indagine da cui sarebbe emerso l’integrale pagamento delle prestazioni fatturate, a fronte di ogni fattura emessa. Ciò troverebbe conferma anche dalla posizione assunto sul punto dall’Agenzia delle Entrate, che non avrebbe mai ritenuto integralmente deducibile ai fini dell’IRES e dell’IRAP l’importo fatturato ove non le fosse chiaramente risultato a tutti gli effetti corrisposto. Nessuna risposta sarebbe stata fornita, inoltre, circa gli altri indicatori proposti dalla difesa per l’esclusione del dolo, ossia: i lunghi periodi di assenza dell’imputato e le sue esclusive funzioni propulsive e di raccordo con le altre società estere del gruppo; il compito assunto da alcuni suoi fidati collaboratori nel mantenere i rapporti con i responsabili delle società fatturanti; l’affidamento e la fiducia nel consulente ……….; il presumibile interesse dello stesso a non offrire in sede di verifica i doverosi chiarimenti che avrebbero potuto eventualmente scagionare il ricorrente ma portare ad una sua incriminazione. Ne deriverebbe che alcuna reale ed effettiva risposta sarebbe stata fornita ai motivi di appello in punto di integrazione dell’elemento soggettivo del reato addebitato.

MOTIVI DELLA DECISIONE:

Il ricorso è inammissibile. Il primo motivo è inammissibile. Ed invero, la violazione di legge lamentata non è stata dedotta nei motivi di appello, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 3. In ogni caso, indiscutibile è la presenza materiale della dichiarazione, il che si evince ex actis, ossia dagli accertamenti posti in essere dall’Amministrazione competente (richiesta di esibizione di documentazione da parte della società, includente la dichiarazione per l’anno 2010, dichiarazione che risulta essere stata esibita).

Anche il secondo motivo è inammissibile. Al fine di chiarire le ragioni di tale approdo occorre, peraltro, operare un adeguato approfondimento dei temi principali posti dal ricorrente con le doglianze svolte nel motivo in esame, ossia evidenziare, in relazione al D.Lgs. n.74 del 2000, art.2, gli elementi costitutivi della fattispecie, il tema dell’elemento psicologico normativamente richiesto ai fini della punibilità dell’agente nonché, ancora, la questione della c.d. inesistenza delle operazioni.

Orbene, la fattispecie della dichiarazione fraudolenta, di cui al D.Lgs. n.74 del 2000, art.2, si connota come quella più grave ontologicamente in quanto non solo l’agente dichiara il falso, ma supporta la propria condotta mediante un “impianto contabile”, o più genericamente documentale, diretto a sviare o ostacolare la successiva attività di accertamento dell’Amministrazione, avvalorando in modo artificioso l’inveritiera prospettazione di dati inseriti nella dichiarazione.

Tale fattispecie criminosa si configura come un reato di pericolo e di mera condotta, il quale si perfeziona nel momento in cui la dichiarazione è presentata agli uffici finanziari e prescinde dal verificarsi dell’evento di danno.

Ne consegue che, ai fini dell’individuazione della data di consumazione dell’illecito, non rileva l’effettività dell’evasione. Il reato è integrato con la presentazione della dichiarazione (Cass., S.U., n. 27/2000, n. 32348/2015), in quanto il legislatore mira a reprimere penalmente le sole condotte direttamente correlate alla lesione degli interessi fiscali, rinunciando invece a perseguire quelle di carattere meramente preparatorio o formale (fatti prodromici alla effettiva lesione del bene giuridico protetto).

Elemento costitutivo essenziale è dunque l’indicazione in una delle dichiarazioni di elementi passivi fittizi, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Dal momento che alla dichiarazione non vengono allegati documenti probatori, si chiarisce che si avvale della documentazione in questione chi li registra nelle scritture contabili obbligatorie o comunque li detiene al fine di prova nei confronti della Amministrazione.

La condotta si dice essere “bifasica”: l’autore, infatti, raccoglie o riceve la documentazione inveritiera e se ne avvale registrandola nelle scritture contabili obbligatorie o conservandola come prova da far valere contro l’Amministrazione nell’eventualità di un accertamento.

Successivamente, presenta la dichiarazione dei redditi o ai fini IVA nella quale è recepita la falsa rappresentazione di cui la documentazione fittizia rappresenta il supporto.

Soggetto responsabile è colui che sottoscrive la dichiarazione anche se lo stesso non ha partecipato alla fase antecedente di acquisizione e registrazione delle fatture relative ad operazioni inesistenti. Sia la dottrina che la giurisprudenza sono concordi nel ritenere il delitto in argomento un reato “proprio”: perché possa dirsi configurato è richiesto che il suo autore si trovi in una particolare posizione soggettiva, giuridica o di fatto, recte sia titolare dell’obbligo di presentazione della dichiarazione dei redditi o ai fini IVA.  

Il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, lett. c), dispone chiaramente che per “dichiarazione” si intendono anche le dichiarazioni presentate in qualità di amministratore, liquidatore o rappresentante di società, enti o persone fisiche, così escludendo ogni possibilità di far valere queste posizioni di sostanziale intermediazione come situazioni di estraneità rispetto alle responsabilità che con le dichiarazioni sono assunte.

Tale reato sussiste sia nell’ipotesi di inesistenza oggettiva dell’operazione, cioè quando non sia stata posta mai in essere nella realtà, che di inesistenza soggettiva, quindi qualora l’operazione vi sia stata ma per quantitativi inferiori a quelli indicati in fattura, sia infine nell’ipotesi di sovrafatturazione qualitativa (ossia quanto la fattura attesti la cessione di beni e/o servizi aventi un prezzo maggiore di quelli forniti) in quanto oggetto di repressione penale è ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e sua espressione documentale (Cass., Sez. III, 2 dicembre 2015, n. 51027).

 Sul piano dell’elemento psicologico è richiesto il dolo specifico. Qualora il contribuente affidi a terzi il compito di preparare e presentare la dichiarazione, è richiesto che il medesimo sia consapevole dell’artificiosità della dichiarazione, costruita su una documentazione atta a supportarne l’apparenza di verità.

La dottrina ritiene che la condotta fraudolenta finalizzata a conseguire l’evasione non appare conciliabile con la accettazione del rischio, che connota il dolo eventuale. Tuttavia, il dolo specifico richiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, rappresentato dal perseguimento della finalità evasiva, si aggiunge alla volontà di realizzare l’evento tipico (la presentazione della dichiarazione), potendosi affermare la compatibilità della fattispecie con il dolo eventuale: l’accettazione del rischio può, ovviamente, concernere gli altri elementi costitutivi della fattispecie, quale ad esempio l’essersi avvalso di fatture per operazioni inesistenti.

In dottrina è invece esclusa la possibilità che la finalità evasiva possa essere ricondotta nell’area del dolo eventuale, in considerazione della funzione di garanzia che tale elemento possiede nell’ambito dei reati tributari. Tuttavia all’opposta soluzione è giunta la recente giurisprudenza di questa Corte, ammettendosi la configurabilità del reato ove l’accettazione del rischio attenga alla possibilità di evadere le imposte dirette o l’IVA, mediante la presentazione della dichiarazione comprensiva di fatture per operazioni inesistenti. (Cass., Sez. III, 19 giugno 2018, n. 52411; Cass., Sez. III, 23.6.2015, n. 30492).

La dichiarazione inveritiera deve essere sorretta dalla piena conoscenza dell’insussistenza delle operazioni passive prese in considerazione per determinare il risultato finale esposto in essa, nonché dalla volontà di servirsene strumentalmente nel rappresentare quel falso risultato dichiarato come rispondente a una contabilità inappuntabile.

L’inesistenza delle operazioni deve essere stata non solo conosciuta ma soprattutto posta al servizio del risultato favorevole al quale l’agente mira mediante la dichiarazione fiscale. Il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, lett. e), precisa, inoltre, che nel caso di presentazione della dichiarazione ad opera di amministratori, liquidatori o rappresentanti di società o persone fisiche, il fine di evadere le imposte si intende riferito alla società, all’ente o alla persona fisica per conto della quale si agisce.

 Irrilevante è l’origine della fattura falsa: essa può essere stata emessa da un terzo ovvero autoprodotta dallo stesso soggetto che la utilizzerà successivamente in dichiarazione. In passato si era ritenuto che questa seconda ipotesi non potesse configurare la fattispecie penale, ricorrendo la stessa solo in presenza di falsità ideologica e non anche materiale.

Tale orientamento è stato superato dalla giurisprudenza che ha valorizzato l’importanza che assume ai fini della configurazione del reato la artificiosa creazione del costo, a prescindere dalla cooperazione di un terzo.

Per il significato di inesistenza deve aversi riguardo al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, lett. a). La dottrina ha declinato il significato della locuzione in tre ipotesi applicative: inesistenza oggettiva, giuridica e soggettiva.

Con la prima, si fa riferimento al caso paradigmatico di una rappresentazione della realtà del tutto o in parte difforme da quella effettiva, ad es. qualora venga enunciata come oggetto della fattura una prestazione mai eseguita o eseguita solo parzialmente, senza nessun corrispettivo ovvero dietro un corrispettivo diverso da quello indicato (fuoriesce dall’ambito applicativo il caso di sotto-fatturazione in cui il corrispettivo viene indicato in misura inferiore.

 In tal caso si realizza a favore del percettore un guadagno in nero, che nelle condizioni di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4 può integrare una ipotesi di dichiarazione infedele).

Si considera anche una inesistenza da sovrafatturazione, per il caso di fatture o documenti nei quali i dati vengano gonfiati (c.d. inesistenza qualitativa), o sia stata posta in essere una cessione di beni e/o servizi per un prezzo maggiore di quello realmente praticato.

Ciò sul presupposto che la categoria dell’inesistenza si verifica ogniqualvolta vi sia una divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale (Cass., Sez. III, 21maggio 2013, n. 28352).

Non vale ad escludere l’inesistenza della operazione il fatto che il corrispettivo venga pagato o che comunque figuri un flusso in uscita dalle casse del contribuente: il meccanismo tipico di formazione dei fondi neri passa proprio attraverso la contabilizzazione di fatture fittizie, accompagnata da pagamenti in favore di chi risulta come esecutore della prestazione ed emittente di fattura. A questo primo passaggio di denaro fa seguito una triangolazione, secondo una o più tappe intermedie, che conduce il flusso finanziario alla destinazione finale, normalmente sotto il controllo del primo disponente.

Un caso significativo è quello del dividend washing (operazione valida sul piano giuridico ma inesistente su quello economico). La fattura, al pari di tutti gli elementi equipollenti, deve contenere una rappresentazione veritiera di tutti gli elementi in grado di incidere su aspetti fiscalmente rilevanti, sicché assume rilevanza anche l’inesistenza giuridica, la quale si verifica ogniqualvolta la divergenza tra realtà e rappresentazione riguardi la natura della prestazione documentata in fattura (è il caso in cui l’oggetto del negozio giuridico indicato sia diverso da quello effettivamente realizzato) con ciò determinandosi una alterazione del contenuto del documento contabile. Relativamente all’inesistenza soggettiva, essa si ha allorché la prestazione indicata nella fattura sia effettivamente eseguita ma da o a favore di un soggetto diverso da quello che risulta nel documento contabile.

Sul punto, la Corte di Giustizia UE (sentenze n. 78/2003, cause C78/02, C-79/02 e causa C-566/07) ha sottolineato che l’avvenuta fatturazione di un’operazione con applicazione dell’Iva mediante addebito alla controparte, non è elemento assorbente per stabilire che il tributo resti definitivamente dovuto, in quanto tale effetto discende dalla ricorrenza delle condizioni oggettive e soggettive per l’applicazione dell’imposta medesima, rispetto alle quali l’addebito, isolatamente considerato, non ha che una valenza indicativa del comportamento tenuto dal soggetto passivo.

In altri termini, l’imposta si applica sulle operazioni che oggettivamente e soggettivamente sono comprese nella sfera di applicazione del tributo. Ne consegue che l’esposizione di dati fittizi anche solo soggettivamente implica la creazione delle premesse per un rimborso al quale non si ha diritto, e l’indicazione di un soggetto diverso da quello che ha effettuato la fornitura non è circostanza indifferente ai fini dell’Iva, dal momento che la qualità del venditore può incidere sulla misura dell’aliquota e, conseguentemente, sull’entità dell’imposta che l’acquirente può legittimamente detrarre.

Si precisa che, ai fini dell’integrazione della fattispecie criminosa in esame, ciò che rileva è l’indicazione di elementi passivi fittizi nella dichiarazione, avvalendosi di fatture per operazioni inesistenti, non rilevando il carattere soggettivo ovvero oggettivo dell’inesistenza.

Il reato previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art.2, infatti, nel riferirsi all’uso di fatture o altri documenti concernenti operazioni inesistenti, non opera alcuna distinzione (Cass., Sez. III, 18 ottobre 2018, n. 4236; Cass., Sez. III, 2 marzo 2018, n. 30874), né riconduce espressamente la rilevanza dell’inesistenza soggettiva esclusivamente alla dichiarazione fiscale ai fini IVA.

Tanto premesso, il motivo è inammissibile. Ed invero, come anticipato, la giurisprudenza di questa Corte ha sottolineato come la configurabilità della fattispecie di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art.2 non subisca alcuna distinzione a seconda dell’imposta evasa (sul reddito o Iva) e, conseguentemente, del carattere soggettivo ovvero oggettivo dell’inesistenza delle operazioni rappresentate nelle fatture (o nei documenti equivalenti). La sentenza impugnata si presenta dunque in linea con tale orientamento.

Altrettanto inammissibile è la censura afferente al difetto di motivazione in ordine all’elemento soggettivo. Il ricorrente propone sostanzialmente una diversa lettura del compendio probatorio sul quale il giudice di merito ha fondato la propria decisione. In sede di legittimità, deve escludersi che la Corte di Cassazione possa procedere ad una ulteriore valutazione delle risultanze istruttorie, dovendo il controllo della medesima limitarsi ad accertare la presenza materiale, la non contraddittorietà e logicità della motivazione, non anche la maggiore o minore persuasività della stessa.

Il giudice di secondo grado, al fine di sostenere la consapevolezza del ricorrente dell’inesistenza delle operazioni oggetto di fatturazione, risulta del resto testualmente aver valorizzato alcuni elementi quali: a) le strettissime interrelazioni tra i soggetti-persone fisiche riconducibili alle società emittenti le fatture, il soggetto che ha segnalato le società alla società …….. (il consulente fiscale …….) e l’imputato; b) la circostanza che la sede legale delle società coincida con quella della società ……….., ossia la sede dello studio “………..” del ………; c) il fatto che la società ………. abbia inviato le fatture emesse dalle società nonostante avesse già precedentemente dichiarato ai verificatori di non avere più la disponibilità della predetta documentazione.

Elementi, tutti, da cui indiziariamente, con motivazione del tutto immune dai denunciati vizi, è stata individuata la sussistenza dell’elemento psicologico normativamente richiesto in capo al ricorrente. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma, ritenuta adeguata, di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

In definitiva, con la sentenza n.1998/2019  la Suprema Corte ha sancito, in buona sostanza, che “Il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti sussiste sia nell’ipotesi di inesistenza oggettiva dell’operazione, cioè quando non sia stata posta mai in essere nella realtà, sia in quella di inesistenza soggettiva, ossia quando l’operazione vi sia stata ma per quantitativi inferiori a quelli indicati in fattura, sia infine nel caso di sovrafatturazione qualitativa, nel quale la fattura attesti la cessione di beni e/o servizi aventi un prezzo maggiore di quelli forniti, in quanto oggetto di repressione penale è ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale”.


[1] Avvocato.

Per un approfondimento sulla disciplina del diritto penale tributario: Corrado Spriveri, “Il sistema penale tributario in Italia. Dalla teoria alla prassi applicativa, alla luce delle novità  introdotte dal c.d. Decreto Fiscale (d.l. n. 124/2019 convertito con modificazioni dalla legge n. 157/2019)”, Bari, Cacucci, 2020.

[2] Corte di Cassazione, pen., sez. III, sentenza del 15 novembre  2019,  n.1998.

[3] Art. 2 del decreto legislativo n. 74/2000 avente ad oggetto: “Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”, così recita: “1. È punito con la reclusione da quattro a otto anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi. 2. Il fatto si considera commesso avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti quando tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie, o sono detenuti a fine di prova nei confronti dell’Amministrazione finanziaria. 2-bis. Se l’ammontare degli elementi passivi fittizi è inferiore a euro centomila, si applica la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni”. Testo in vigore dal 25 dicembre 2019.

[4] Commette, dunque, tale delitto il contribuente che una volta ricevute le fatture per operazioni inesistenti ne tiene poi conto ai fini della deducibilità delle imposte sui redditi e/o della detraibilità dell’I.V.A. in sede di dichiarazione annuale.

[5] Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza n.27/2000; Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza n. 32348/2015.

[6] Corte di Cassazione, Sez. III, sentenza 2 dicembre 2015, n.51027.

[7] Corte di Giustizia U.E., sentenze nn.78/2003, cause C78/02, C-79/02 e causa C-566/07. Sul punto la CGUE  ha sancito che l’avvenuta fatturazione di un’operazione con applicazione dell’Iva mediante addebito alla controparte, non è elemento assorbente per stabilire che il tributo resti definitivamente dovuto, in quanto tale effetto discende dalla ricorrenza delle condizioni oggettive e soggettive per l’applicazione dell’imposta medesima, rispetto alle quali l’addebito, isolatamente considerato, non ha che una valenza indicativa del comportamento tenuto dal soggetto passivo. In altri termini, l’imposta si applica sulle operazioni che oggettivamente e soggettivamente sono comprese nella sfera di applicazione del tributo. Ne consegue che l’esposizione di dati fittizi anche solo soggettivamente implica la creazione delle premesse per un rimborso al quale non si ha diritto, e l’indicazione di un soggetto diverso da quello che ha effettuato la fornitura non è circostanza indifferente ai fini dell’Iva, dal momento che la qualità del venditore può incidere sulla misura dell’aliquota e, conseguentemente, sull’entità dell’imposta che l’acquirente può legittimamente detrarre.

[8] Corte di Cassazione , Sez. III,  sentenza 18 ottobre 2018, n. 4236; Corte di Cassazione, Sez. III,  sentenza 2 marzo 2018, n. 30874.

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Nuove frontiere del diritto è rivista registrata con decreto n. 228 del 9/10/2013, presso il Tribunale di Roma, Direttore responsabile avv. Angela Allegria, Proprietà: Nuove Frontiere Diritto. ISSN 2240-726X

Le intercettazioni preventive

giudiceA cura dell’Avv. Angela Allegria

 

Le intercettazioni processuali costituiscono un mezzo di ricerca della prova disciplinato dal capo IV del titolo III del libro III del codice di procedura, a partire dall’art. 266 c.p.p.

Il codice vigente, al pari di quello abrogato, non contiene una definizione di tale mezzo di acquisizione di prove; spetta, dunque, all’interprete individuarne i tratti essenziali per delimitarne il campo di applicabilità della relativa disciplina.[1]

Le intercettazioni regolate dagli artt. 266 e ss c.p.p. consistono nella captazione occulta e contestuale di una comunione o conversazione tra due o più soggetti che agiscono con l’intenzione di escludere altri e con modalità oggettivamente idonee allo scopo, attuate da soggetto estraneo alla stessa mediante strumenti tecnici di percezione tali da vanificare le cautele ordinariamente poste a protezione del suo carattere riservato.[2]

Accanto a queste, al fine di prevenire gravi delitti che destano allarme sociale, di criminalità organizzata, di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale, il legislatore (art. 226 disp. coord. c.p.p., così come modificato dal d.l. 18.10.2001, n. 374, poi convertito nella legge 15.12.2001, n. 438, e artt. 4 e 7 d.l. n. 144/2005, convertiti con modificazioni nella legge 155/2005) autorizza il compimento di intercettazioni di comunicazioni o conversazioni, anche tra presenti e anche se avvengono nei luoghi di cui all’art. 614 c.p., il tracciamento delle comunicazioni telefoniche e telematiche, l’acquisizione di dati esterni relative alle medesime e di ogni altra informazione utile in possesso degli operatori di telecomunicazioni.

La Corte Costituzionale, con sentenza del 29 dicembre 2004, n. 443 ha stabilito che non è possibile alcun confronto tra la disciplina delle intercettazioni con quella relativa alle intercettazioni preventive, le quali non tendono ad accertare ipotesi criminose ma a prevenire la commissione di reati e sono caratterizzate dall’avere una minore garanzia rispetto alle intercettazioni regolate dall’art. 266 del codice di rito. Pertanto non può essere applicabile alle intercettazioni preventive, la disciplina di cui all’art. 271 comma 1 dello stesso codice, nella parte in cui prevede l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, allorché non siano state considerata le disposizioni di cui al citato art. 268 comma 3.[3]

I controlli citati sono autorizzati dal Procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto in cui si trova il soggetto da sottoporre a controllo con decreto motivato[4], su istanza di vari organi quali il Ministro dell’Interno o su sua delega, i responsabili dei Servizi centrali fi cui all’art. 12 della legge 12 luglio 1991, n. 203, nonché il questore o il comandante provinciale dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, nel caso si tratti di delitti di cui all’art. 51, comma 3 bis, dal direttore della DIA, quando vi siano elementi investigativi che giustifichino l’attività di prevenzione e, nel contempo, il p.m. lo ritenga necessario. Oggetto della richiesta è l’autorizzazione al compimento di attività eterogenee per un periodo massimo di quaranta giorni.

L’art. 226, comma 2, disp. coord. c.p.p., prevede la possibilità di proroga delle intercettazioni preventive per periodi di venti giorni, indicando le ragioni nel decreto motivato predisposto dal p.m. È, difatti, sì vero che la proroga è ammessa laddove permangono i presupposti di legge e dando chiaramente atto dei motivi che rendono necessaria la prosecuzione delle operazioni nel suddetto decreto; tuttavia, non essendo fissato il numero di proroghe possibili, si corre il rischio di dare attuazione a tale strumento invasivo senza limiti temporali, comprimendo sine die un diritto riconosciuto e garantito come inviolabile dalla Carta costituzionale.[5]

L’esecuzione delle operazioni di intercettazione di comunicazioni telefoniche e telematiche devono essere eseguite soltanto con impianti istallati presso la Procura della Repubblica o presso altre idonee strutture individuate dal procuratore che concede l’autorizzazione.

Una volta effettuata l’intercettazione, la stessa viene cristallizzata in un verbale sintetico che è depositato presso la segreteria del P.M. che ha autorizzato le attività unitamente ai supporti utilizzati, entro cinque giorni dalla fine delle operazioni.

Dopo aver verificato la conformità delle attività compiute all’autorizzazione concessa, il Procuratore della Repubblica dispone l’immediata distruzione dei supporti e dei verbali.

Anche in tal caso, dunque, analogamente alle misure di prevenzione e di perquisizioni preventive, pur se la finalità dell’atto è impedire la commissione di un reato, ben potrà accadere che sia invece acquisita la notizia di un reato già avvenuto.

Tuttavia l’art. 226 disp. att. c.p.p. appare chiaro nell’escludere che l’intercettazione preventiva possa essere di per se stessa considerata come notizia di reato: quest’ultima dovrà comunque essere reperita in via autonoma, attraverso una diversa forma di informazione. Sicché l’atto preventivo costituirà solo la base della pre-inchiesta, volta a ricercare un ulteriore dato che poi possa essere utilizzato come notizia di reato. Secondo quanto dispone l’art. 226, comma 5, disp. att. c.p.p., infatti, i risultati delle intercettazioni preventive possono essere utilizzati in un eventuale processo penale esclusivamente a fini investigativi. In se stessi, quindi, non possono costituire base di informativa o denuncia al p.m., né costituire la notizia di reato appresa dal p.m. di sua iniziativa, né essere menzionati o posti a fondamento di atti di indagine o di provvedimenti dell’autorità giudiziaria né, ancora, costituire oggetti di deposizione testimoniale o di divulgazione extraprocessuale. Anzi, tali atti, devono immediatamente essere distrutti, così che non ne rimanga alcuna traccia.

In definitiva, la disposizione esplicita ciò che si ritiene debba avvenire in tema di notizie anonime, o provenienti dai confidenti, o dai colloqui investigativi “confidenziali”, o, ancora, dalle informazioni dei servizi d’informazione o sicurezza: deve essere reciso ogni riferimento alla fonte che ha dato l’avvio alla ricerca della notizia di reato; una volta che quest’ultima venga acquisita, la genesi con l’atto preventivo non deve risultare da alcun atto processuale, e quindi, in primo luogo, dalla stessa notizia di reato.[6]



[1] DI MARTINO – PROCACCIANTI, Le intercettazioni telefoniche, Padova, 2001, p. 16.

[2] Cass. SS.UU. 28.5.2003, Torcasio, in Cass. Pen., 2004, p. 21.

[3] DELLE FAVE, Manuale di polizia giudiziaria, Milano, 2013, p. 259.

[4] In realtà il legislatore tace riguardo ai requisiti che deve contenere tale provvedimento, ma, se guardiamo al decreto con il quale si dispone la proroga che deve essere motivato, allora si può desumere che anche il provvedimento autorizzativo debba essere motivato.

[5] VELE, Le intercettazioni nel sistema processuale penale: tra garanzie e prospettive di riforma, Padova, 2011, pp. 46-47.

[6] SPANGHER, Trattato di Procedura penale, vol. 3, Torino, 2009, pp. 49-51.

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Sulla sussistenza del delitto di “indebita compensazione”, anche nell’ipotesi di indebita compensazione di debiti di natura non tributaria

Nota a Corte di Cassazione, sez. III, sentenza  (ud. 08/07/2021) 31/08/2021, n.32389

Corrado Spriveri[1]

Estratto:   “Il  delitto  di  indebita compensazione  sussiste anche qualora l’indebito risparmio di imposta, che la norma incriminatrice tende a colpire, non sia limitato al mancato versamento delle imposte dirette o dell’Iva, ma coinvolge necessariamente anche le somme dovute a titolo previdenziale e assistenziale, il cui mancato pagamento, attraverso lo strumento della compensazione effettuata utilizzando crediti inesistenti o non spettanti, determina per il contribuente infedele un analogo risparmio di imposta”.

La Suprema Corte con la sentenza che qui si annota[2] ha ritenuto inammissibile il ricorso proposto dall’imputato affermando, in buona sostanza,  che la fattispecie delittuosa di “Indebita compensazione”, ex art.10-quater decreto legislativo n.74 del 2000[3], sussiste anche qualora l’indebito risparmio di imposta non sia limitato al mancato versamento delle imposte dirette o dell’IVA, ma coinvolge anche le somme dovute a titolo previdenziale e assistenziale, il cui mancato pagamento, attraverso lo strumento della compensazione effettuata utilizzando crediti inesistenti o non spettanti, determina per il contribuente infedele un analogo risparmio di imposta.

La fattispecie delittuosa di “Indebita compensazione”, viene collocata dal legislatore nel novero dei “Delitti in materia di pagamento delle imposte”, poiché la condotta di chi omette il versamento di somme dovute, avvalendosi dell’istituto della compensazione, si traduce esclusivamente in un omesso versamento, non presupponendo alcuna violazione riferita ai contenuti della dichiarazione[4].

Sotto il profilo sanzionatorio la condotta incriminata si realizza attraverso l’omesso versamento di somme dovute avvalendosi dell’istituto della compensazione, in modo scorretto, per un importo superiore a euro cinquantamila – soglia di punibilità –  per ciascun periodo d’imposta; precisamente opponendo in compensazione crediti “inesistenti” ovvero “non spettanti”.

Tale condotta si perfeziona al momento della presentazione del modello di versamento cd. “F24” il quale rileva, tra l’altro, anche ai fini dell’individuazione del giudice competente per territorio, ex art.18 decreto legislativo n.74/2000.

Secondo l’orientamento di una parte della dottrina[5], si tratta di un reato dove può essere assolutamente carente l’intenzione della frode fiscale e, con riferimento al quale, la soglia di punibilità fissata dal legislatore in cinquantamila euro per anno d’imposta (e non modificata con la legge 19 dicembre 2019, n.157) appare francamente troppo bassa.

Come ben precisato dalla Circolare dell’Agenzia delle Entrate n.28/E del 4 agosto 2006, nel caso in cui nel corso di uno stesso periodo d’imposta siano state effettuate compensazioni con crediti “non spettanti” o “inesistenti”, per importi inferiori alla soglia di punibilità, il delitto si perfeziona alla data in cui si procede nel medesimo periodo d’imposta alla compensazione di un ulteriore importo di crediti “non spettanti” o “inesistenti” che, sommato agli importi già utilizzati in compensazione, sia superiore a cinquantamila euro.

L’elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice è il “dolo generico” che si realizza attraverso l’omesso versamento di somme dovute a motivo dell’utilizzazione in compensazione di crediti “non spettanti” o “inesistenti”.

Nel caso di specie, la giurisprudenza di legittimità[6], superando una isolata pronuncia[7], ha, con orientamento oramai consolidato, sancito che “il reato di indebita compensazione di cui al D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10-quater  riguarda  l’omesso versamento di somme di denaro attinente a debiti, sia tributari, sia di altra natura, per il cui pagamento debba essere utilizzato il modello di versamento unitario”.

In buona sostanza, con la sentenza che qui si commenta si è chiarito che in considerazione dell’ampliamento delle ipotesi di compensazione in ambito tributario previste dall’art.17 del decreto legislativo  n.241 del 1997 – a norma del quale i contribuenti che devono eseguire versamenti unificati di imposte, di contributi previdenziali e assistenziali, di premi INAIL e di altre somme a favore dello Stato, delle Regioni, delle Province, dei Comuni e di altri enti possono utilizzare in compensazione i crediti risultanti dalle dichiarazioni fiscali o dalle denunce periodiche contributive –, il reato di indebita compensazione possa configurarsi sia in caso di compensazione “verticale”, riguardante crediti e debiti afferenti alla medesima imposta, sia in caso di compensazione “orizzontale”, concernente crediti e debiti di imposta di natura diversa, in quanto può avere ad oggetto tutte le somme dovute che possono essere inserite nell’apposito modello di versamento F24, incluse quelle relative ai contributi previdenziali e assistenziali[8].

Invero, la Suprema Corte con la pronuncia in commento ravvisa la ratio della disposizione in esame, nella necessità di punire tutti quei comportamenti che si concretizzano, in realtà, nell’omesso versamento del dovuto e nel conseguimento di un indebito risparmio di imposta mediante l’indebito ricorso al meccanismo della compensazione tributaria, ossia attraverso la materiale redazione di un documento ideologicamente falso idoneo a prospettare una compensazione che non avrebbe potuto avere luogo, o per la non spettanza o per l’inesistenza del credito.

Da qui l’irrilevanza della natura dei debiti compensati dall’imputato che possono, ai fini della rilevanza penale,  essere anche di natura previdenziale oltre che di natura tributaria.

IL CASO:

Con sentenza del 15 ottobre 2020, la Corte d’appello di Campobasso in parziale riforma della sentenza

del Tribunale di Larino, in accoglimento dell’appello del Procuratore generale, ha disposto l’applicazione delle pene accessorie di cui al D.lgs. 10 marzo 2000, n.74, art.12, ed ha confermato la sentenza del Tribunale di Larino di condanna dell’imputato, alla pena di anni uno e mesi tre di reclusione, in relazione ai reati di cui al D.lgs. 10 marzo 2000, n.74, art.10 quater (capi a) e b) per avere, quale legale rappresentante della Marina S.r.l. omesso di versare somme dovute utilizzando in compensazione, ai sensi del D.lgs. n.241 del 1997, art.17, crediti inesistenti per un ammontare complessivo pari a Euro 131.238,00 per l’anno 2011 e Euro 129.068,00 per l’anno 2012 e di cui al D.lgs. 10 marzo 2000, n.74, art.10 (capo d) per avere occultato le scritture contabili e i documenti di cui è obbligatoria la conservazione in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi, al fine di evadere le imposte, accertato il 21/01/2014.

Avverso la sentenza di condanna ha presentato ricorso l’imputato, a mezzo del difensore di fiducia, e ne ha chiesto l’annullamento deducendo i seguenti motivi di ricorso:

  • violazione di cui all’art.606 c.p.p., comma 1, lett. b) in relazione all’erronea applicazione della legge penale segnatamente il D.lgs. 10 marzo 2000, n.74, art.10 quater.  

La corte territoriale avrebbe ritenuto sussistente il reato contestato sull’unico presupposto della ricorrenza di alcune fatture di importi notevoli che avrebbero generato operazioni in contestazione, fatture che in sede di verifica fiscale non venivano adeguatamente dimostrate con altra documentazione contabile.

Tale conclusione si porrebbe in contrasto con le pronunce della corte di legittimità laddove ha espresso il principio secondo cui l’indebita compensazione deve risultare dal mod. F24 di cui nel caso in esame non vi è prova che fosse stato effettivamente compilato e presentato e ciò in quanto è la compensazione che esprima la componente decettiva o di frode insista nella fattispecie in questione.

  • violazione di cui all’art.606 c.p.p., comma 1, lett. e) in relazione alla contraddittorietà della motivazione della corte territoriale rispetto a quella del Tribunale che aveva ritenuto che i crediti portati in compensazione erano crediti Iva, mentre la corte territoriale ha ritenuto che la compensazione riguardasse debiti previdenziali e assicurativi.
  • violazione di cui all’art.606 c.p.p., comma 1, lett. b) in relazione all’erronea applicazione della legge penale segnatamente il D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10.

La corte territoriale avrebbe reso una motivazione insufficiente limitandosi a ribadire la responsabilità penale dell’imputato limitandosi a rilevare il mancato reperimento nella sede legale della documentazione contabile, senza provare che la documentazione contabile, di cui si assume l’occultamento o la distruzione, sia stata istituita.

  • violazione di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) in relazione alla violazione del canone della condanna al di là del ragionevole dubbio.

MOTIVI DELLA DECISIONE:

Il ricorso è inammissibile per la proposizione di censure generiche e comunque meramente ripetitive di

quelle già devolute al giudice dell’impugnazione e da quel giudice disattese con motivazione congrua, il che costituisce causa di inammissibilità.

Deve, in primo luogo, rammentarsi il principio secondo il quale quando le sentenze di primo e secondo grado concordano nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complessivo corpo argomentativo, sicché è possibile, sulla base della motivazione della sentenza di primo grado colmare eventuali lacune della sentenza di appello (Sez.4, n.15227 del 14/02/2008, Rv. 239735).

Il ricorso non si confronta con la sentenza impugnata che, sulla scorta della deposizione testimoniale del dipendente dell’Agenzie delle Entrare di Termoli, che aveva effettuato gli accertamenti nei confronti dell’imputato compendiati nel verbale di constatazione in data 20/02/2014, verbale acquisito su accordo delle parti dopo l’assunzione della testimonianza del collega accertatore I., ha ritenuto dimostrato che l’imputato, legale rappresentate della Marina S.r.l., aveva utilizzato in compensazione a debiti derivanti da fatture e debiti Irap della società, crediti Iva superiori a Euro 7.500,00 negli anni di imposta 2011 e 2012, limitandosi a produrre solo alcune fatture di acquisto e di vendita e omettendo di esibire i registri Iva e tutta la restante documentazione prevista dalla legge ai sensi del d.P.R. n.600 del 1973, art.14 e riteneva dimostrata l’inesistenza di siffatti crediti sul rilievo dell’inesistenza della documentazione contabile non prodotta e sul fatto che all’indirizzo indicato come sede sociale della società emittente vi era una stalla e la società risultava in liquidazione.

Ora il ricorrente ripropone la censura già devoluta mettendo in dubbio la stessa esistenza del mod. F24, censura che non coglie nel segno dal momento che il controllo dell’Agenzia delle Entrate era stato proprio, e necessariamente, effettuato su tale modello nel quale era stata rilevata la compensazione di debiti con crediti Iva inesistenti, né il ricorrente deduce il travisamento della prova. Da cui la manifesta infondatezza del motivo.

Anche il secondo motivo è inammissibile. La giurisprudenza di legittimità, superando una isolata pronuncia (n.380342/2019), ha, con orientamento oramai consolidato, affermato che il reato di indebita compensazione di cui al D.lgs. 10 marzo 2000, n.74, art.10-quater riguarda l’omesso versamento di somme di denaro attinente a debiti, sia tributari, sia di altra natura, per il cui pagamento debba essere utilizzato il modello di versamento unitario (Sez. 3, n.389 del 18/09/2020) Rv. 280776 – 01).

Si è chiarito che in considerazione dell’ampliamento delle ipotesi di compensazione in ambito tributario previste dal D.lgs. n.241 del 1997, art.17 – a norma del quale i contribuenti che devono eseguire versamenti unificati di imposte, di contributi previdenziali e assistenziali, di premi INAIL e di altre somme a favore dello Stato, delle Regioni, delle Province, dei Comuni e di altri enti possono utilizzare in compensazione i crediti risultanti dalle dichiarazioni fiscali o dalle denunce periodiche contributive – l’orientamento prevalente di questa Corte, richiamato come tale anche nella sentenza n.35 del 2018 della Corte costituzionale, ha ritenuto che il reato di indebita compensazione possa configurarsi sia in caso di compensazione “verticale”, riguardante crediti e debiti afferenti alla medesima imposta, sia in caso di compensazione “orizzontale”, concernente crediti e debiti di imposta di natura diversa, in quanto può avere ad oggetto tutte le somme dovute che possono essere inserite nell’apposito modello F24, incluse quelle relative ai contributi previdenziali e assistenziali.

Tale giurisprudenza ravvisa la ratio della disposizione in esame nella necessità di punire tutti quei comportamenti che si concretizzano in realtà nell’omesso versamento del dovuto e nel conseguimento di un indebito risparmio di imposta mediante l’indebito ricorso al meccanismo della compensazione tributaria, ossia attraverso la materiale redazione di un documento ideologicamente falso idoneo a prospettare una compensazione che non avrebbe potuto avere luogo, o per la non spettanza o per l’inesistenza del credito.

Ed è evidente che, in questa prospettiva, l’indebito risparmio di imposta che la norma incriminatrice tende a colpire non può essere limitato al mancato versamento delle imposte dirette o dell’Iva, ma coinvolge necessariamente anche le somme dovute a titolo previdenziale e assistenziale, il cui mancato pagamento, attraverso lo strumento della compensazione effettuata utilizzando crediti inesistenti o non spettanti, determina per il contribuente infedele un analogo risparmio di imposta (ex plurimis, Sez. 3 n. 13149 del 03/03/2020, Rv. 279118; Sez.3, n. 5934 del 12/09/2018, Rv. 275833; Sez.3, n. 8689 del 30/10/2018, Rv. 275015; 4/02/2015, n. 5177; Sez.3, n. 15236 del 16/01/2015).

Da qui l’irrilevanza della natura dei debiti compensati che possono essere anche di natura previdenziale

oltre che di natura tributaria e della diversa indicazione contenuta nella sentenza impugnata sulla natura dei crediti rispetto alla sentenza di primo grado (pag. 3), essendo tutti debiti compensati con crediti inesistenti.

Infine, di carattere generico è il terzo motivo di ricorso non confrontandosi con la decisione impugnata nella parte in cui ha dato atto che era predisposta una qualche documentazione contabile, circostanza, peraltro, confermata dalla sentenza di primo grado dal momento che erano state prodotte dall’imputato alcune fatture di acquisito e di vendita (pag. 3). La censura che genericamente si appunta sulla mancata

motivazione sul presupposto dell’istituzione della documentazione contabile, di cui si assume l’occultamento o la distruzione, è inammissibile.

È noto che la condotta del reato de quo non può sostanziarsi in un mero comportamento omissivo, ossia il non avere tenuto le scritture in modo tale che sia stato obbiettivamente più difficoltosa – ancorché non impossibile – la ricostruzione ex aliunde ai fini fiscali della situazione contabile, ma richiede, per l’integrazione della fattispecie penale, un quid pluris a contenuto commissivo consistente nell’occultamento ovvero nella distruzione di tali scritture.

Nel caso in esame, contrariamente a quanto assume il ricorrente, la Corte territoriale è pervenuta all’affermazione della responsabilità penale in ordine al delitto di cui all’art.10 cit. con motivazione logica, aderente al dato probatorio e giuridicamente corretta alla luce dell’interpretazione della norma incriminatrice di cui sopra.

La sentenza impugnata dà rilievo all’accertata circostanza dell’esistenza di fatture attive e passive e della mancata produzione in sede di accertamento, da cui l’affermazione della responsabilità penale al di là del ragionevole dubbia come genericamente sostenuto nell’ultimo motivo di ricorso che è, anch’esso, inammissibile per genericità.

Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali ai sensi dell’art.616 c.p.p.

Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n.186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

In definitiva, con la sentenza che qui si annota la Suprema Corte con motivazione logica aderente al dato probatorio e alla luce dell’interpretazione della norma incriminatrice, come meglio ut supra  descritta, ha statuito, in buna sostanza, che  “Il  delitto  di  indebita compensazione  sussiste anche qualora l’indebito risparmio di imposta, che la norma incriminatrice tende a colpire, non sia limitato al mancato versamento delle imposte dirette o dell’Iva, ma coinvolge necessariamente anche le somme dovute a titolo previdenziale e assistenziale, il cui mancato pagamento, attraverso lo strumento della compensazione effettuata utilizzando crediti inesistenti o non spettanti, determina per il contribuente infedele un analogo risparmio di imposta”.


[1] Avvocato.

Per un approfondimento sulla disciplina del diritto penale tributario: Corrado Spriveri, “Il sistema penale tributario in Italia. Dalla teoria alla prassi applicativa, alla luce delle novità  introdotte dal c.d. Decreto Fiscale (d.l. n. 124/2019 convertito con modificazioni dalla legge n. 157/2019)”, Bari, Cacucci, 2020.

[2] Corte di Cassazione, sez. III, sentenza  31/08/2021, n. 32389.

[3] L’art.10-quater del decreto legislativo n. 74/2000, rubricato: “Indebita compensazione”, prevede che “1. È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti non spettanti, per un importo annuo superiore a cinquantamila euro. 2. È punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti inesistenti per un importo annuo superiore ai cinquantamila euro”. Testo normativo con le modifiche introdotte dal decreto legislativo n. 158/2015, in vigore dal 22 ottobre 2015.

[4] N. Pollari F. Loria, “Elementi di diritto repressivo tributario”, pag..54.

[5] R. Fanelli, “Sanzioni fiscali, previdenziali e societarie”, pag..814.

[6] Corte di Cassazione, sez. III, sentenza 18/09/2020, n.389.

[7]  Corte di Cassazione, sentenza  n. 380342/2019.

[8] Si veda in proposito: Corte Costituzionale,  sentenza n.35 del 2018.

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Sulla sussistenza del delitto di dichiarazione infedele anche nell’ipotesi in cui l’evasione d’imposta riguardi redditi di derivazione illecita

NOTA A  SENTENZA

Corte di Cassazione, penale, sez. III, sentenza del 14/02/2020 (ud. 14/02/2020, dep. 19/06/2020) n.18575

Corrado Spriveri[1]

Estratto:   “Il  delitto  di  dichiarazione infedele sussiste anche qualora l’evasione di imposta riguardi redditi di derivazione illecita, salvo che i relativi proventi siano stati assoggettati  alla misura cautelare del sequestro preventivo, ovvero alla confisca penale, nel medesimo periodo d’imposta in cui si è verificato il presupposto impositivo, dal momento che solo in tale ipotesi i provvedimenti ablatori determinano, in relazione al principio della capacità contributiva di cui all’art.53 della Costituzione, una riduzione del reddito imponibile”     

La Suprema Corte con la sentenza in commento[2] ha ritenuto inammissibile il ricorso proposto dal ricorrente affermando che la fattispecie delittuosa di “Dichiarazione infedele”, ex art.4 decreto legislativo n.74 del 2000[3], sussiste anche nel caso in cui l’evasione d’imposta riguardi redditi di derivazione illecita,salvo che i relativi proventi siano stati assoggettati alla misura cautelare del sequestro preventivo, ovvero alla confisca penale, nel medesimo periodo d’imposta in cui si è verificato il presupposto impositivo, nella considerazione che solo in tale ipotesi i provvedimenti ablatori determinano, in relazione al principio della capacità contributiva[4], una riduzione del reddito imponibile.

La difesa dell’imputato ritiene, invece, che la Corte d’appello non avrebbe considerato che l’art.36, comma 34-bis del decreto legge n.223 del 2006, ha ampliato la nozione di “reddito diverso” di cui all’art.14, comma 4 della legge n.537 del 1993,  ricomprendendovi i proventi derivanti da illecito, ma ha lasciato inalterata la restante disciplina del citato comma 4, che contempla, quale presupposto della sottoposizione ad imposta dei redditi diversi provenienti da illecito, che gli stessi non siano stati sottoposti a sequestro o a confisca penale[5].

Ora, poiché il reddito indebitamente percepito dal ricorrente è stato oggetto di sequestro e di confisca penale mancherebbe, secondo la difesa dell’imputato, il presupposto per la tassazione del reddito stesso come proveniente da delitto e non sussisterebbe, di conseguenza, il reato fiscale.

Secondo la Suprema Corte[6], invece, fermo restando che a mente dell’art.14, comma 4 della legge n.537/1993, potrà ritenersi integrato il reato di “dichiarazione infedele”, ex art.4 d.lgs. n.74/2000, qualora l’evasione di imposta riguardi redditi di derivazione illecita; la seconda parte del citato articolo individua una condizione negativa di imponibilità nell’ipotesi di spossessamento dei proventi illeciti che avvenga per effetto di sequestro o  confisca penale.

Invero, secondo il Supremo Collegio la  non imponibilità dei redditi di derivazione illecita è subordinata alla circostanza che il provvedimento ablatorio sia intervenuto nello stesso periodo di imposta cui il provento si riferisce.

In altri termini, il sequestro e la confisca dei proventi sono opponibili al fisco purché intervengano nel medesimo periodo in cui si è verificato il presupposto imponibile, dal momento che solo in questa ipotesi detti provvedimenti determinano, dal punto di vista fiscale e in relazione al principio della capacità contributiva di cui all’art.53 della Costituzione, una riduzione del reddito.

Viceversa, il sequestro o  confisca penale non assumono alcuna rilevanza qualora siano disposti, come nel caso di specie, contestualmente alla sentenza di condanna di primo grado, come ulteriore conseguenza sanzionatoria della fattispecie delittuosa di “dichiarazione infedele” imposta, ai sensi dell’art.12-bis  del decreto legislativo n.74/2000[7], a notevole distanza di tempo dalla consumazione del reato.

IL CASO:

Con sentenza del 17 luglio 2017, il Tribunale di Genova ha condannato l’imputato alla pena – condizionalmente sospesa –  di mesi dieci di reclusione, per il reato di cui al D.Lgs. n.74 del 2000, art.4, per avere omesso di indicare, nella dichiarazione dei redditi relativa all’anno 2011, elementi attivi di reddito pari a Euro 1.301.704,00 provenienti dai delitti di cui all’art.646 c.p. ai danni del partito “(OMISSIS)”, con un’imposta IRPEF evasa di Euro 559.732,00, disponendo la confisca per equivalente fino alla concorrenza dell’ammontare dell’imposta evasa.

Con sentenza del 15 febbraio 2019, la Corte d’appello di Genova, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale, rideterminando in Euro 649.787,67 gli elementi attivi di reddito e in Euro 279.408,70 l’imposta IRPEF evasa, ha ridotto a tale somma la confisca disposta con la precedente sentenza e a nove mesi di reclusione la pena inflitta all’imputato.

Avverso la sentenza della Corte d’appello l’imputato, tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.

Con una prima doglianza, si deducono la violazione del D.L. n. 223 del 2006, art. 36, comma 34-bis e L. n.537 del 1993, art.14, nonché vizi di motivazione relativamente alla determinazione del reddito imponibile.

A parere della difesa, la Corte d’appello non avrebbe considerato che il D.L. n.223 del 2006, art. 36, comma 34-bis, ha ampliato la nozione di “reddito diverso” di cui alla L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4, ricomprendendovi i proventi derivanti da illecito, ma ha lasciato inalterata la restante disciplina del citato comma 4, che contempla, come presupposto della sottoposizione ad imposta dei redditi diversi provenienti da illecito, che gli stessi non siano stati sottoposti a sequestro o a confisca penale.

Nel caso di specie, dal momento che il reddito indebitamente percepito dall’imputato è stato oggetto di sequestro e di confisca, mancherebbe il presupposto per la tassazione del reddito stesso come proveniente da delitto e non sussisterebbe, di conseguenza, il reato fiscale.

Con un secondo motivo di ricorso, si lamentano la violazione dell’art.522 c.p.p. e il vizio di motivazione con riferimento alla provenienza della somma oggetto dell’imputazione, in quanto il giudice di secondo grado avrebbe eluso l’argomentazione difensiva, volta a evidenziare la mancanza di prova della condotta di appropriazione indebita, e avrebbe violato il principio di correlazione tra accusa e sentenza, nella parte in cui ha affermato che l’eventuale esclusione della provenienza delittuosa delle somme oggetto di evasione fiscale non ostacola la configurazione del reato di dichiarazione infedele.

La decisione sarebbe altresì contraddittoria dal momento che il giudice, dopo avere formulato tale dichiarazione di principio, avrebbe dato per presupposta l’illecita provenienza delle somme di denaro percepite dall’imputato, riconducendole alla categoria di “redditi diversi”, piuttosto che verificarne in concreto la natura e i limiti di assoggettabilità a imposizione fiscale.

In terzo luogo, si deducono la violazione di legge in ordine alla determinazione dell’aliquota applicabile al reddito oggetto di evasione fiscale e il vizio di motivazione, dal momento che i giudici di secondo grado, piuttosto che applicare l’aliquota reale, corrispondente a quella che il contribuente avrebbe pagato ove il reddito fosse stato ricompreso nella dichiarazione, si sarebbero limitati ad applicare la percentuale di tassazione prevista dallo scaglione di reddito più alto (il 43%).

Inoltre – sostiene la difesa – andrebbero scorporate dall’importo complessivo presuntivamente evaso dall’imputato, le seguenti somme di denaro, non oggetto di condotte appropriative da parte dello stesso: a) Euro 60.000,00 come pagamento dell’avv. Scovazzi, avendo quest’ultimo percepito la diversa somma di Euro 6.000,00; b) Euro 51.000,00, non oggetto della dichiarazione dei redditi relativa all’anno 2011 perché in realtà riferiti all’anno 2010; c) Euro 100.000,00, impiegati per un investimento del partito e già riconsegnati. Cosicché, tenendo conto di tali detrazioni e applicando l’aliquota reale, l’ammontare dell’imposta evasa dal contribuente sarebbe stato al di sotto della soglia di punibilità di Euro 150.000,00 prevista dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, comma 1, lett. a).

Con una quarta doglianza, si lamentano la violazione di legge in relazione al calcolo del reddito imponibile e il vizio di motivazione, sul rilievo che la totale inattendibilità dei documenti contabili denunciata dalla difesa con l’atto di appello – e dimostrata dall’anomala presenza nella cassa del partito di un saldo negativo di Euro 327.789,00 – impediva di avere contezza delle somme oggetto di appropriazione indebita tassabili, secondo la normativa fiscale, quali redditi diversi. Inoltre, sarebbe stata pretermessa dalla Corte d’appello la circostanza emersa negli accertamenti peritali di C. e M. relativa all’esistenza in cassa di un saldo positivo di Euro 338.000,00, che avrebbe imposto, in ogni caso, di procedere nuovamente al calcolo degli importi oggetto di appropriazione indebita. Per la difesa, infatti, scomputando tale somma dall’ammontare ritenuto oggetto di illecita appropriazione (Euro 649.787,67) e applicando al ricavato il coefficiente del 43%, l’importo evaso (Euro 134.068,69) risulterebbe inferiore alla soglia di punibilità di cui al D.Lgs. n.74 del 2000, art. 4, e ciò non consentirebbe di configurare l’illecito penale.

MOTIVI DELLA DECISIONE:

Il ricorso è inammissibile, risultando le censure sollevate in parte generiche e in parte manifestamente infondate. Il primo motivo, con il quale si deduce l’impossibilità di sottoporre a tassazione, ai sensi della L. n.537 del 1993, art. 14, comma 4, il reddito che sia stato confiscato o sequestrato, è inammissibile, avendo ad oggetto violazioni di legge non dedotte nei motivi di appello.

La circostanza che nelle precedenti sedi processuali non era stato formulato alcun rilievo concernente il sequestro e la confisca dei proventi, conferisce, infatti, alla censura carattere assolutamente nuovo e ne preclude l’esame in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 2. In ogni caso, tale deduzione risulta manifestamente infondata. Deve rilevarsi, sul punto, che la L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4, dispone che, “nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con cit. D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale”.

Fermo restando, dunque, che potrà ritenersi integrato il reato di dichiarazione infedele di cui al D.Lgs. n.74 del 2000, art.4 qualora l’evasione di imposta riguardi redditi di derivazione illecita, la seconda parte del citato articolo individua una condizione negativa di imponibilità nell’ipotesi di spossessamento dei proventi illeciti che avvenga per effetto di sequestro o confisca. L’operatività di tale meccanismo, secondo l’interpretazione data alla norma dalla costante giurisprudenza di legittimità, è tuttavia subordinata alla circostanza che il provvedimento ablatorio sia intervenuto nello stesso periodo di imposta cui il provento si riferisce. Il sequestro e la confisca dei proventi, in altri termini, sono opponibili al fisco purché intervengano nel medesimo periodo in cui si è verificato il presupposto imponibile, dal momento che solo in questa ipotesi detti provvedimenti ablatori determinano, dal punto di vista fiscale e in relazione al principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., una riduzione del reddito. Per converso, nessuna rilevanza assume l’apposizione di tali vincoli qualora sia disposta, come nel caso di specie, contestualmente alla sentenza di condanna di primo grado, come ulteriore conseguenza sanzionatoria del reato di dichiarazione infedele imposta dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12-bis, a notevole distanza di tempo dalla consumazione del reato (ex plurimis, Cass. civ., Sez. 5, n. 28375 del 05/11/2019, Rv. 655895; Cass. civ., Sez. 5, n. 28519 del 20/12/2013, Rv. 629332; Cass. pen., Sez. 5, n. 7411 del 19/11/2009, Rv. 246095).

Il secondo motivo, con il quale si deduce l’insussistenza del reato di appropriazione indebita, è parimenti inammissibile perché formulato in termini non specifici. Deve, infatti, ricordarsi che sono inammissibili per genericità i motivi che riproducono e reiterano gli stessi rilievi prospettati con l’atto di appello, motivatamente respinti in secondo grado, e non si confrontano criticamente con le argomentazioni utilizzate nel provvedimento impugnato, limitandosi a lamentare una presunta carenza o illogicità della motivazione (ex plurimis, Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, Rv. 276970). Nel caso di specie, il giudice di secondo grado giunge ad affermare che, seppure si ipotizzasse come verosimile la tesi difensiva della natura non delittuosa dei proventi corrisposti all’imputato dalla (OMISSIS) come rimborsi elettorali, tali somme potrebbero essere al più qualificate come compensi di fatto percepiti dall’imputato per il suo operato; con la conseguenza che, in ogni caso, l’eventuale accertamento circa tale diversa provenienza del denaro non avrebbe fatto venir meno la configurabilità del reato di dichiarazione infedele, consistente, nel caso per cui si procede, nell’omessa dichiarazione di elementi attivi di reddito conseguiti nel corso dell’anno 2011. Né tantomeno tale eventuale diversa qualificazione – come ben evidenziato nell’impugnata pronuncia – viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza, che va valutato in relazione all’identità del fatto contestato e sempre nell’ottica di garantire l’esercizio del diritto di difesa da parte del ricorrente, comunque pienamente assicurato nel caso di specie. Deve rilevarsi, del resto, che il ricorrente, a fronte del coerente e logico percorso motivazionale seguito dal giudice di secondo grado, si limita a formulare censure meramente ipotetiche, senza mai indicare il presunto titolo che legittimerebbe il percepimento delle somme o, per converso, la circostanza del loro mancato percepimento.

Il terzo motivo, con il quale si lamentano l’erronea applicazione dell’aliquota massima nonché il mancato superamento della soglia di punibilità ex D.Lgs. n.74 del 2000, art. 4, è inammissibile, perché incentrato su elementi nuovi, non dedotti nel giudizio di appello. Infatti, il rilievo concernente la determinazione della percentuale di tassazione cui sottoporre il reddito percepito dall’imputato – su cui si basa la prospettazione di parte ricorrente – è stato proposto per la prima volta nel giudizio di legittimità. Le deduzioni difensive risultano, comunque, del tutto destituite di fondamento, dal momento che la somma oggetto di dichiarazione dei redditi dell’imputato per l’anno di imposta 2011 era pari ad Euro 175.884,00 e che per il reddito riconducibile all’ultimo scaglione, il cui ammontare sia quindi superiore ad Euro 75.000,00, trova comunque applicazione un’aliquota IRPEF pari al 43%, con conseguente superamento della soglia di punibilità.

Il quarto motivo, con il quale si deducono l’inattendibilità dei documenti contabili nonché l’insufficiente valutazione delle relazioni peritali, è inammissibile in quanto genericamente riferito a profili fattuali. Il ricorrente, infatti, pur attraverso una formale denuncia di violazione di legge e vizio di motivazione, mira ad ottenere una rivalutazione delle risultanze peritali che costituisce giudizio di fatto, incensurabile dinnanzi alla Corte di cassazione, se logicamente e congruamente motivato, come nel caso di specie. Ed invero, dall’accertamento da parte dei periti dell’esistenza in cassa di un saldo negativo di Euro 327.789, ritenendo non plausibile l’impiego di somme di denaro in eccedenza rispetto a quelle effettivamente disponibili, la Corte d’appello ha ragionevolmente desunto la totale inattendibilità delle annotazioni di cassa riguardanti la gestione contabile dei fondi della (OMISSIS). Sulla base di tali considerazioni ha ritenuto di escludere dai redditi non dichiarati tutte le somme di denaro delle quali non è stato possibile accertare l’impiego a favore dell’imputato stesso o di terzi, così rideterminando, e riducendo proporzionalmente, l’ammontare dell’imposta evasa dall’imputato. E lo stesso ricorrente, nell’invocare l’omessa valutazione, da parte dei giudici di secondo grado, del contenuto delle relazioni tecniche, ammette e sostiene l’assoluta inattendibilità dei conti di cassa la quale, facendo emergere una discrasia tra il dichiarato e ciò che è stato realmente percepito e determinando, di conseguenza, un’obiettiva situazione di incertezza in ordine alle rappresentazione delle somme ivi contabilizzate, costituisce indizio rilevante del reato di dichiarazione infedele.

Il ricorso, per tali motivi, deve essere dichiarato inammissibile. Alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art.616 c.p.p., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 2.000,00.

In definitiva, con la sentenza n.18575/2020 la Suprema Corte ha statuito che  “il  delitto  di  dichiarazione infedele sussiste anche qualora l’evasione di imposta riguardi redditi di derivazione illecita, salvo che i relativi proventi siano stati assoggettati  alla misura cautelare del sequestro preventivo, ovvero alla confisca penale, nel medesimo periodo d’imposta in cui si è verificato il presupposto impositivo, dal momento che solo in tale ipotesi i provvedimenti ablatori determinano, in relazione al principio della capacità contributiva di cui all’art.53 della Costituzione, una riduzione del reddito imponibile”.          

   

[1] Avvocato.

Per un approfondimento sulla disciplina del diritto penale tributario: Corrado Spriveri, “Il sistema penale tributario in Italia. Dalla teoria alla prassi applicativa, alla luce delle novità  introdotte dal c.d. Decreto Fiscale (d.l. n. 124/2019 convertito con modificazioni dalla legge n. 157/2019)”, Bari, Cacucci, 2020.

[2] Corte di Cassazione, pen., sez. III, sentenza del 19 giugno 2020, n.18575.

[3] L’art.4 del decreto legislativo n. 74 del 2000 rubricato: “Dichiarazione infedele”, prevede che “1. Fuori dei casi previsti dagli articoli 2 e 3, è punito con la reclusione da due a quattro anni e sei mesi chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti, quando, congiuntamente: a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro centomila; b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, è superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a euro due milioni. 1-bis. Ai fini dell’applicazione della disposizione del comma 1, non si tiene conto della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali. 1-ter. Fuori dei casi di cui al comma 1-bis, non danno luogo a fatti punibili le valutazioni che complessivamente considerate, differiscono in misura inferiore al 10 per cento da quelle corrette. Degli importi compresi in tale percentuale non si tiene conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità previste dal comma 1, lettere a) e b”. Testo in vigore dal 25 dicembre 2019.

[4] Ci si riferisce all’art.53 della Costituzione “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.  Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Il dovere di concorrere a sostenere la spesa statale è espressione di un generale dovere di solidarietà – art.2  della Costituzione -, cioè dell’obbligo di contribuire ad assicurare eguaglianza  – art. 3 della Costituzione –  ed a creare un sistema in grado di prevedere dei servizi per tutti, anche i meno abbienti. Proprio per questo il legislatore  stabilì che tale dovere dovesse essere adempiuto sulla base di criteri di progressività.

[5]L’art.14, comma 4 della legge n.537 del 1993 dispone che “nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con cit. D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale”.

[6] Corte di Cassazione, civ., sez. V, sentenza 5 novembre 2019, n.28375; Corte di Cassazione, civ., sez. V, sentenza 20 dicembre 2013,  n.28519; Corte di Cassazione, pen., sez. V, sentenza 19  novembre 2009, n.7411.

[7] L’art.12-bis del decreto legislativo n.74 del 2000 rubricato “Confisca” prevede che “Nel caso di condanna o di applicazione della pena  su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura  penale per uno dei delitti previsti dal presente decreto, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto  o  il  prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato,  ovvero,  quando essa non è possibile, la confisca di beni,  di  cui  il  reo  ha  la disponibilità,  per  un  valore  corrispondente  a  tale  prezzo  o profitto.    2. La confisca non opera  per  la  parte  che  il  contribuente  si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro. Nel caso di mancato versamento la confisca è sempre disposta”.

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