Nota a Corte di Cassazione penale, sez. III, sentenza del 15/11/2019 n.1998

Corrado Spriveri[1]

Estratto:   “Il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti sussiste sia nell’ipotesi di inesistenza oggettiva dell’operazione, cioè quando non sia stata posta mai in essere nella realtà, sia in quella di inesistenza soggettiva, ossia quando l’operazione vi sia stata ma per quantitativi inferiori a quelli indicati in fattura, sia infine nel caso di sovrafatturazione qualitativa, nel quale la fattura attesti la cessione di beni e/o servizi aventi un prezzo maggiore di quelli forniti, in quanto oggetto di repressione penale è ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale”.

La Suprema Corte con la sentenza in commento[2], ha rigettato il ricorso del ricorrente, condannandolo altresì alla spese processuali, ritenendolo responsabile della fattispecie delittuosa di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, non rilevando il carattere “soggettivo” ovvero “oggettivo” dell’inesistenza.

Invero, l’art.2 del decreto legislativo n.74 del 2000[3], rubricato “Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”, punisce “con la reclusione da quattro a otto anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative alle suddette imposte, elementi passivi fittizi”, esponendo, in altri termini, costi o altre componenti negative del reddito del tutto disancorate rispetto alla realtà gestionale ovvero “esagerate” rispetto all’entità effettiva[4].

La previgente normativa penal-tributaria, all’art.4, comma 1, lett. d) del decreto legge n.429/1982, convertito nella legge n.516 del 1982, prevedeva la punibilità di chi emetteva o utilizzava fatture o altri documenti per operazioni in tutto o in parte inesistenti, o recanti l’indicazione dei corrispettivi o dell’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero emetteva o utilizzava fatture o altri documenti recanti l’indicazione di nomi diversi da quelli veri, in modo che risultasse impedita l’identificazione dei soggetti cui si riferivano.

L’ipotesi di dichiarazione fraudolenta mediante uso di falsa documentazione, invece, era oggetto di distinta disposizione normativa, indicata nell’art.4, comma 1, lett. f) del decreto legge n.429/1982, secondo la quale era punibile chi indicava, nella dichiarazione dei redditi ovvero nel bilancio o rendiconto ad essa allegato, al di fuori dei casi previsti dall’art.1 del decreto legge n.429/1982, ricavi, proventi o altri componenti positivi di reddito, ovvero spese od altri componenti negativi di reddito in misura diversa da quella effettiva, utilizzando documenti attestanti fatti materiali non corrispondenti al vero, oppure ponendo in essere altri comportamenti fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento di fatti materiali.

La novella del 2000 ha introdotto la nuova nozione di “frode fiscale”. Tale definizione consiste nella dichiarazione fraudolenta fondata su falsa documentazione, idonea a fornire una falsa rappresentazione contabile della situazione fiscale del contribuente.

Il secondo comma dell’art.2 del decreto legislativo n.74/2000 precisa che il fatto si considera commesso avvalendosi di “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” quando … “tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie o sono detenuti a fine di prova nei confronti dell’Amministrazione finanziaria”.

Invero, la fattispecie delittuosa in parola si considera integrata con la presentazione della dichiarazione[5], ai fini delle imposte sui redditi e/o dell’imposta sul valore aggiunto, in quanto il legislatore mira a reprimere penalmente le sole condotte direttamente correlate alla lesione degli interessi fiscali, rinunciando invece a perseguire quelle di carattere meramente preparatorio o formale (fatti prodromici alla effettiva lesione del bene giuridico protetto già sanzionati penalmente con la previgente normativa – legge n.516/1982 cd. “manette agli evasori” –).

Elemento costitutivo del reato è dunque, l’indicazione in una delle dichiarazioni (ai fini delle imposte sui redditi e/o dell’I.V.A.) di elementi passivi fittizi inesistenti, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.

La condotta antigiuridica viene definita “bifasica”: l’autore, dapprima raccoglie o riceve la documentazione non veritiera e del tutto disancorata dalla realtà, annotandola nelle scritture contabili obbligatorie, ovvero conservandola come prova da far valere contro l’Amministrazione finanziaria nell’eventualità di un accertamento.

Successivamente, presenta la dichiarazione ai fini delle imposte sui redditi o dell’imposta sul valore aggiunto nella quale è recepita la falsa rappresentazione di cui la documentazione fittizia rappresenta il supporto.

Soggetto attivo del reato è considerato colui che sottoscrive la dichiarazione anche se, di fatto, potrebbe non aver partecipato alla fase antecedente di acquisizione e registrazione delle fatture per operazioni inesistenti nelle scritture contabili obbligatorie.

Sia la dottrina che la giurisprudenza sono concordi nel ritenere la fattispecie delittuosa in parola un reato “proprio”: affinché possa dirsi configurato è richiesto, invero, che il suo autore si trovi in una particolare posizione soggettiva, giuridica o di fatto, recte sia titolare dell’obbligo di presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte sui redditi o dell’imposta sul valore aggiunto.

L’art.1, lett. c),  del decreto legislativo n.74 del 2000, dispone  che per “dichiarazione” si intendono anche le dichiarazioni presentate in qualità di amministratore, liquidatore o rappresentante di società, enti o persone fisiche.

L’art. 1, lett. a) del medesimo decreto, rubricato “Definizioni” chiarisce, invero, che per  “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”  …  si intendono le fatture o gli altri documenti aventi rilievo  probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di  operazioni non realmente effettuate in  tutto  o  in  parte  o  che  indicano  i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura  superiore  a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti  diversi da quelli effettivi”.

Secondo la Suprema Corte[6] la fattispecie delittuosa di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti si configura sia nell’ipotesi di inesistenza oggettiva dell’operazione, cioè quando non sia stata posta mai in essere nella realtà, oppure qualora l’operazione vi sia stata ma per quantitativi inferiori a quelli indicati in fattura, sia infine nell’ipotesi di sovrafatturazione qualitativa –  ossia quando la fattura attesti la cessione di beni e/o servizi aventi un prezzo maggiore di quelli forniti – sia in quella di inesistenza soggettiva, in quanto oggetto di repressione penale è ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale.

Relativamente all’inesistenza soggettiva, essa si configura allorquando la prestazione indicata nella fattura sia effettivamente eseguita ma da o a favore di un soggetto diverso da quello che risulta nel documento contabile[7].

In definitiva secondo il Supremo Collegio ai fini dell’integrazione della fattispecie criminosa in esame, ciò che rileva è l’indicazione di elementi passivi fittizi nella dichiarazione, avvalendosi di fatture per operazioni inesistenti, non rilevando il carattere “soggettivo” ovvero “oggettivo” dell’inesistenza.

Invero, la fattispecie delittuosa prevista dall’art.2 decreto legislativo n.74 del 2000, nel riferirsi all’uso di fatture o altri documenti concernenti operazioni inesistenti, non opera alcuna distinzione, né riconduce espressamente la rilevanza dell’inesistenza soggettiva esclusivamente alla dichiarazione fiscale ai fini dell’imposta sul valore aggiunto[8].

Con queste motivazioni, in buona sostanza, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del ricorrente condannandolo, altresì,  alle spese processuali.

IL CASO:

Con sentenza 18.01.2019, la Corte d’appello di Roma confermava la sentenza del GUP/tribunale di Roma del 17.07.2014, appellata dal ………, che era stato condannato alla pena di mesi 6 di reclusione, in esito al rito abbreviato richiesto e con il concorso di attenuanti generiche e dell’attenuante di cui al D.Lgs. n.74 del 2000, art. 13, e riconoscimento dei doppi benefici di legge, perché ritenuto colpevole del reato di utilizzazione di fatture per operazioni oggettivamente e soggettivamente inesistenti, per un ammontare pari ad euro 280.000 esclusa IVA pari ad Euro 56.000, in relazione al periodo di imposta 2010, in relazione a fatti accertati in data (OMISSIS) e commessi nell’(OMISSIS).

Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del difensore di fiducia, iscritto all’Albo speciale previsto dall’art. 613, c.p.p., articolando due motivi di ricorso, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art.173 disp. att. c.p.p..

Deduce, con il primo motivo, violazione di legge in relazione alla sussistenza del fatto ed alla data della sua eventuale commissione e correlato vizio di contraddittorietà ed assenza della motivazione. In sintesi, si sostiene che la Corte di Appello di Roma avrebbe omesso di considerare che, ai fini dell’integrazione del reato addebitato, prima ancora di ogni valutazione sulle fatture e sull’esistenza delle relative operazioni, sarebbe preliminare accertare il loro utilizzo nelle dichiarazioni fiscali presentate.

Sul punto, non sarebbe stata prodotta agli atti la dichiarazione fiscale presentata dalla società ………. S.r.l., poiché essa non risulterebbe tra gli allegati ai processi verbali redatti dal personale dell’Agenzia delle Entrate.

Non vi sarebbe pertanto alcuna prova documentale in ordine alla sussistenza del delitto, né in ordine alla data della sua eventuale commissione. Ciò si risolverebbe in una totale assenza di motivazione circa la ricorrenza di un elemento costitutivo del delitto, o comunque in una contraddittorietà della motivazione rispetto agli atti, mancando un documento probatorio che confermi un dato materiale implicitamente assunto per vero. Sarebbe, poi, stata violata anche la legge sostanziale, essendo stata pretermessa la rilevanza della dichiarazione ai fini della sussistenza del reato, il quale sarebbe stato ricostruito elidendo dalla fattispecie tipica l’elemento dell’utilizzazione delle fatture, anticipando la punibilità al ricorrere della mera detenzione delle stesse. Tale difetto documentale si ripercuoterebbe anche su un ulteriore elemento fondamentale ai fini della punibilità, ossia la data della commissione della condotta illecita. Nel capo di imputazione verrebbe genericamente ed apoditticamente fissata nell’(OMISSIS). Tuttavia già la mancanza del giorno farebbe comprendere come non vi sia stata alcuna precisa individuazione della data di presentazione della dichiarazione. Sarebbe dunque apodittica ed in implicito contrasto con gli atti anche l’individuata data di commissione del delitto, il che non consentirebbe di valutare l’eventuale decorso della prescrizione. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di assenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla inesistenza oggettiva delle prestazioni fatturate ed alla richiesta di assoluzione perché il fatto non sussiste.

In sintesi, si rileva come già nei motivi di appello si era evidenziato come affermare che la prestazione sia stata resa da un soggetto diverso rispetto a quello che ha emesso la fattura, implicherebbe che la prestazione è stata in effetti esistente.

La stessa Agenzia delle Entrate, all’esito del proprio accertamento e dopo le deduzioni della società, avrebbe considerato le prestazioni inesistenti soltanto dal punto di vista soggettivo, ed ammesso invece la loro esistenza sul piano oggettivo, rideterminando conseguentemente la quantificazione dell’imposta evasa.

La difesa aveva pertanto richiesto il riconoscimento dell’esistenza almeno oggettiva delle prestazioni, così da spostare l’accertamento sulla consapevolezza della società ……….. e del suo legale rappresentante pro tempore in ordine alla diversità tra il soggetto che effettuava la prestazione e quello che la fatturava.

Infatti, stante il rapporto fiduciario intercorrente con il consulente finanziario ………. (che aveva indicato quelle società per l’effettuazione delle prestazioni) la rapida crescita sul mercato della società ……….., il ruolo di raccordo e coordinamento del ……….. tra la realtà italiana e la struttura inglese e russa, che lo costringeva a costanti soggiorni fuori dall’Italia ed a delegare di fatto altri collaboratori per i contratti con i fornitori, sarebbe stato evidente il difetto di prova circa la consapevolezza del ricorrente che le prestazioni – effettivamente rese e retribuite dalla società ……….. – fossero state in realtà prestate da altro soggetto giuridico.

La Corte di Appello avrebbe tuttavia aggirato la questione, limitandosi a ricordare che, ai fini della rilevanza penale della fattispecie, importi indistintamente l’utilizzo di documenti fiscali “emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte … ovvero che riferiscano l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi”, affermando che, rilevata l’assenza di prova contraria, le operazioni erano sicuramente inesistenti sotto il profilo soggettivo e che “anche a non voler ritenere l’inesistenza della operazioni sotto il profilo oggettivo … il reato di dichiarazione fraudolenta … nel riferirsi all’uso di fatture o altri documenti concernenti operazioni inesistenti, non distingue tra quelle che sono tali dal punto di vista oggettivo o soggettivo”.

Il giudice di secondo grado avrebbe svilito il rilievo per cui la mancanza di prove in ordine all’inesistenza oggettiva rafforzi l’onere motivazionale circa l’individuazione dell’elemento psicologico del legale rappresentante della società relativamente all’identità del soggetto giuridico che ha effettuato le prestazioni.

Nel momento in cui si afferma che non si via prova dell’inesistenza oggettiva delle operazioni, diventerebbe stringente l’onere di provare che l’amministratore della società beneficiaria delle prestazioni fosse consapevole della diversità giuridica del soggetto che le ha rese.

Sarebbe dunque evidente che la Corte territoriale ha pretermesso di prendere in esame gli argomenti offerti sul punto nei motivi di appello, i quali non sarebbero neanche citati né ad essi sarebbe stata data risposta.

Sulla questione, la sentenza fornirebbe argomentazioni puramente di stile, manifestamente illogiche e disancorate dal caso concreto, nonché contraddette dagli atti. La decisione assume che l’imputato fosse ben a conoscenza di detta situazione, il che verrebbe dimostrato dal fatto che tutte le società fossero assistite dallo stesso studio di commercialisti, nonché dal fatto che le società fatturanti erano state proposte alla societù …………. dal titolare dello studio predetto.

La società ………. non avrebbe inoltre fornito alcuna documentazione attestante l’avvenuto integrale pagamento delle prestazioni. Tali argomentazioni sarebbero palesemente illegittime. Come già affermato in appello, sarebbe del tutto naturale che un cittadino straniero che avvii una attività imprenditoriale in Italia, in mancanza di una pregressa rete di relazioni, di contatti ed i fornitori di servizi, si affidi almeno inizialmente alle indicazioni provenienti dai pochi interlocutori ritenuti fidati.

In quest’ottica era stato spiegato come la segnalazione alla società …….S.r.l. di tali società da parte del commercialista, nonché i rapporti successivi, lungi dall’essere la prova del dolo in capo al ………., rappresentavano al contrario, dal punto di vista logico, esattamente la ragione per cui il ricorrente avrebbe in buona fede affidato tali mansioni proprio alla società …………., e non ad altre società.

Pertanto la Corte di Appello avrebbe, in modo illogico, considerato come un indizio a carico ciò che invece avrebbe piuttosto costituito la prova della buona fede del ricorrente. Relativamente all’assenza di documentazione commerciale in ordine alle prestazioni ricevute, la Corte territoriale non avrebbe preso in considerazione gli atti di causa da cui sarebbe emerso che nel corso delle indagini era stato ascoltato il Dott. ………, direttore commerciale della società ……….., che avrebbe riferito degli incontri con cadenza mensile con appartenenti alla società ………. e alla società ………….. (indicandone i nominativi), i quali avevano svolto indagini sul mercato, al fine di ottenere dettagliati resoconti sulle attività espletate. Nel corso della verifica fiscale, inoltre, sarebbero state prodotte tanto le lettere di conferimento dell’incarico alle due fatturanti, tanto i dettagliati resoconti, resi in forma scritta con riguardo alle prestazioni sottostanti agli importi presentati nelle relative fatture. Ne consegue che la sentenza sul punto sarebbe contraddittoria e del tutto apodittica, non corrispondendo al vero che la società ……….  non avrebbe fornito dimostrazione dell’effettività delle prestazioni, non confrontandosi la Corte con le deposizioni testimoniali e la documentazione agli atti, anche solo per smentirne la rilevanza. Il medesimo errore sarebbe stato commesso relativamente all’asserito mancato pagamento delle prestazioni fatturate, dal momento che nell’impugnazione sarebbero stati indicati gli atti di indagine da cui sarebbe emerso l’integrale pagamento delle prestazioni fatturate, a fronte di ogni fattura emessa. Ciò troverebbe conferma anche dalla posizione assunto sul punto dall’Agenzia delle Entrate, che non avrebbe mai ritenuto integralmente deducibile ai fini dell’IRES e dell’IRAP l’importo fatturato ove non le fosse chiaramente risultato a tutti gli effetti corrisposto. Nessuna risposta sarebbe stata fornita, inoltre, circa gli altri indicatori proposti dalla difesa per l’esclusione del dolo, ossia: i lunghi periodi di assenza dell’imputato e le sue esclusive funzioni propulsive e di raccordo con le altre società estere del gruppo; il compito assunto da alcuni suoi fidati collaboratori nel mantenere i rapporti con i responsabili delle società fatturanti; l’affidamento e la fiducia nel consulente ……….; il presumibile interesse dello stesso a non offrire in sede di verifica i doverosi chiarimenti che avrebbero potuto eventualmente scagionare il ricorrente ma portare ad una sua incriminazione. Ne deriverebbe che alcuna reale ed effettiva risposta sarebbe stata fornita ai motivi di appello in punto di integrazione dell’elemento soggettivo del reato addebitato.

MOTIVI DELLA DECISIONE:

Il ricorso è inammissibile. Il primo motivo è inammissibile. Ed invero, la violazione di legge lamentata non è stata dedotta nei motivi di appello, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 3. In ogni caso, indiscutibile è la presenza materiale della dichiarazione, il che si evince ex actis, ossia dagli accertamenti posti in essere dall’Amministrazione competente (richiesta di esibizione di documentazione da parte della società, includente la dichiarazione per l’anno 2010, dichiarazione che risulta essere stata esibita).

Anche il secondo motivo è inammissibile. Al fine di chiarire le ragioni di tale approdo occorre, peraltro, operare un adeguato approfondimento dei temi principali posti dal ricorrente con le doglianze svolte nel motivo in esame, ossia evidenziare, in relazione al D.Lgs. n.74 del 2000, art.2, gli elementi costitutivi della fattispecie, il tema dell’elemento psicologico normativamente richiesto ai fini della punibilità dell’agente nonché, ancora, la questione della c.d. inesistenza delle operazioni.

Orbene, la fattispecie della dichiarazione fraudolenta, di cui al D.Lgs. n.74 del 2000, art.2, si connota come quella più grave ontologicamente in quanto non solo l’agente dichiara il falso, ma supporta la propria condotta mediante un “impianto contabile”, o più genericamente documentale, diretto a sviare o ostacolare la successiva attività di accertamento dell’Amministrazione, avvalorando in modo artificioso l’inveritiera prospettazione di dati inseriti nella dichiarazione.

Tale fattispecie criminosa si configura come un reato di pericolo e di mera condotta, il quale si perfeziona nel momento in cui la dichiarazione è presentata agli uffici finanziari e prescinde dal verificarsi dell’evento di danno.

Ne consegue che, ai fini dell’individuazione della data di consumazione dell’illecito, non rileva l’effettività dell’evasione. Il reato è integrato con la presentazione della dichiarazione (Cass., S.U., n. 27/2000, n. 32348/2015), in quanto il legislatore mira a reprimere penalmente le sole condotte direttamente correlate alla lesione degli interessi fiscali, rinunciando invece a perseguire quelle di carattere meramente preparatorio o formale (fatti prodromici alla effettiva lesione del bene giuridico protetto).

Elemento costitutivo essenziale è dunque l’indicazione in una delle dichiarazioni di elementi passivi fittizi, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Dal momento che alla dichiarazione non vengono allegati documenti probatori, si chiarisce che si avvale della documentazione in questione chi li registra nelle scritture contabili obbligatorie o comunque li detiene al fine di prova nei confronti della Amministrazione.

La condotta si dice essere “bifasica”: l’autore, infatti, raccoglie o riceve la documentazione inveritiera e se ne avvale registrandola nelle scritture contabili obbligatorie o conservandola come prova da far valere contro l’Amministrazione nell’eventualità di un accertamento.

Successivamente, presenta la dichiarazione dei redditi o ai fini IVA nella quale è recepita la falsa rappresentazione di cui la documentazione fittizia rappresenta il supporto.

Soggetto responsabile è colui che sottoscrive la dichiarazione anche se lo stesso non ha partecipato alla fase antecedente di acquisizione e registrazione delle fatture relative ad operazioni inesistenti. Sia la dottrina che la giurisprudenza sono concordi nel ritenere il delitto in argomento un reato “proprio”: perché possa dirsi configurato è richiesto che il suo autore si trovi in una particolare posizione soggettiva, giuridica o di fatto, recte sia titolare dell’obbligo di presentazione della dichiarazione dei redditi o ai fini IVA.  

Il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, lett. c), dispone chiaramente che per “dichiarazione” si intendono anche le dichiarazioni presentate in qualità di amministratore, liquidatore o rappresentante di società, enti o persone fisiche, così escludendo ogni possibilità di far valere queste posizioni di sostanziale intermediazione come situazioni di estraneità rispetto alle responsabilità che con le dichiarazioni sono assunte.

Tale reato sussiste sia nell’ipotesi di inesistenza oggettiva dell’operazione, cioè quando non sia stata posta mai in essere nella realtà, che di inesistenza soggettiva, quindi qualora l’operazione vi sia stata ma per quantitativi inferiori a quelli indicati in fattura, sia infine nell’ipotesi di sovrafatturazione qualitativa (ossia quanto la fattura attesti la cessione di beni e/o servizi aventi un prezzo maggiore di quelli forniti) in quanto oggetto di repressione penale è ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e sua espressione documentale (Cass., Sez. III, 2 dicembre 2015, n. 51027).

 Sul piano dell’elemento psicologico è richiesto il dolo specifico. Qualora il contribuente affidi a terzi il compito di preparare e presentare la dichiarazione, è richiesto che il medesimo sia consapevole dell’artificiosità della dichiarazione, costruita su una documentazione atta a supportarne l’apparenza di verità.

La dottrina ritiene che la condotta fraudolenta finalizzata a conseguire l’evasione non appare conciliabile con la accettazione del rischio, che connota il dolo eventuale. Tuttavia, il dolo specifico richiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, rappresentato dal perseguimento della finalità evasiva, si aggiunge alla volontà di realizzare l’evento tipico (la presentazione della dichiarazione), potendosi affermare la compatibilità della fattispecie con il dolo eventuale: l’accettazione del rischio può, ovviamente, concernere gli altri elementi costitutivi della fattispecie, quale ad esempio l’essersi avvalso di fatture per operazioni inesistenti.

In dottrina è invece esclusa la possibilità che la finalità evasiva possa essere ricondotta nell’area del dolo eventuale, in considerazione della funzione di garanzia che tale elemento possiede nell’ambito dei reati tributari. Tuttavia all’opposta soluzione è giunta la recente giurisprudenza di questa Corte, ammettendosi la configurabilità del reato ove l’accettazione del rischio attenga alla possibilità di evadere le imposte dirette o l’IVA, mediante la presentazione della dichiarazione comprensiva di fatture per operazioni inesistenti. (Cass., Sez. III, 19 giugno 2018, n. 52411; Cass., Sez. III, 23.6.2015, n. 30492).

La dichiarazione inveritiera deve essere sorretta dalla piena conoscenza dell’insussistenza delle operazioni passive prese in considerazione per determinare il risultato finale esposto in essa, nonché dalla volontà di servirsene strumentalmente nel rappresentare quel falso risultato dichiarato come rispondente a una contabilità inappuntabile.

L’inesistenza delle operazioni deve essere stata non solo conosciuta ma soprattutto posta al servizio del risultato favorevole al quale l’agente mira mediante la dichiarazione fiscale. Il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, lett. e), precisa, inoltre, che nel caso di presentazione della dichiarazione ad opera di amministratori, liquidatori o rappresentanti di società o persone fisiche, il fine di evadere le imposte si intende riferito alla società, all’ente o alla persona fisica per conto della quale si agisce.

 Irrilevante è l’origine della fattura falsa: essa può essere stata emessa da un terzo ovvero autoprodotta dallo stesso soggetto che la utilizzerà successivamente in dichiarazione. In passato si era ritenuto che questa seconda ipotesi non potesse configurare la fattispecie penale, ricorrendo la stessa solo in presenza di falsità ideologica e non anche materiale.

Tale orientamento è stato superato dalla giurisprudenza che ha valorizzato l’importanza che assume ai fini della configurazione del reato la artificiosa creazione del costo, a prescindere dalla cooperazione di un terzo.

Per il significato di inesistenza deve aversi riguardo al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, lett. a). La dottrina ha declinato il significato della locuzione in tre ipotesi applicative: inesistenza oggettiva, giuridica e soggettiva.

Con la prima, si fa riferimento al caso paradigmatico di una rappresentazione della realtà del tutto o in parte difforme da quella effettiva, ad es. qualora venga enunciata come oggetto della fattura una prestazione mai eseguita o eseguita solo parzialmente, senza nessun corrispettivo ovvero dietro un corrispettivo diverso da quello indicato (fuoriesce dall’ambito applicativo il caso di sotto-fatturazione in cui il corrispettivo viene indicato in misura inferiore.

 In tal caso si realizza a favore del percettore un guadagno in nero, che nelle condizioni di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4 può integrare una ipotesi di dichiarazione infedele).

Si considera anche una inesistenza da sovrafatturazione, per il caso di fatture o documenti nei quali i dati vengano gonfiati (c.d. inesistenza qualitativa), o sia stata posta in essere una cessione di beni e/o servizi per un prezzo maggiore di quello realmente praticato.

Ciò sul presupposto che la categoria dell’inesistenza si verifica ogniqualvolta vi sia una divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale (Cass., Sez. III, 21maggio 2013, n. 28352).

Non vale ad escludere l’inesistenza della operazione il fatto che il corrispettivo venga pagato o che comunque figuri un flusso in uscita dalle casse del contribuente: il meccanismo tipico di formazione dei fondi neri passa proprio attraverso la contabilizzazione di fatture fittizie, accompagnata da pagamenti in favore di chi risulta come esecutore della prestazione ed emittente di fattura. A questo primo passaggio di denaro fa seguito una triangolazione, secondo una o più tappe intermedie, che conduce il flusso finanziario alla destinazione finale, normalmente sotto il controllo del primo disponente.

Un caso significativo è quello del dividend washing (operazione valida sul piano giuridico ma inesistente su quello economico). La fattura, al pari di tutti gli elementi equipollenti, deve contenere una rappresentazione veritiera di tutti gli elementi in grado di incidere su aspetti fiscalmente rilevanti, sicché assume rilevanza anche l’inesistenza giuridica, la quale si verifica ogniqualvolta la divergenza tra realtà e rappresentazione riguardi la natura della prestazione documentata in fattura (è il caso in cui l’oggetto del negozio giuridico indicato sia diverso da quello effettivamente realizzato) con ciò determinandosi una alterazione del contenuto del documento contabile. Relativamente all’inesistenza soggettiva, essa si ha allorché la prestazione indicata nella fattura sia effettivamente eseguita ma da o a favore di un soggetto diverso da quello che risulta nel documento contabile.

Sul punto, la Corte di Giustizia UE (sentenze n. 78/2003, cause C78/02, C-79/02 e causa C-566/07) ha sottolineato che l’avvenuta fatturazione di un’operazione con applicazione dell’Iva mediante addebito alla controparte, non è elemento assorbente per stabilire che il tributo resti definitivamente dovuto, in quanto tale effetto discende dalla ricorrenza delle condizioni oggettive e soggettive per l’applicazione dell’imposta medesima, rispetto alle quali l’addebito, isolatamente considerato, non ha che una valenza indicativa del comportamento tenuto dal soggetto passivo.

In altri termini, l’imposta si applica sulle operazioni che oggettivamente e soggettivamente sono comprese nella sfera di applicazione del tributo. Ne consegue che l’esposizione di dati fittizi anche solo soggettivamente implica la creazione delle premesse per un rimborso al quale non si ha diritto, e l’indicazione di un soggetto diverso da quello che ha effettuato la fornitura non è circostanza indifferente ai fini dell’Iva, dal momento che la qualità del venditore può incidere sulla misura dell’aliquota e, conseguentemente, sull’entità dell’imposta che l’acquirente può legittimamente detrarre.

Si precisa che, ai fini dell’integrazione della fattispecie criminosa in esame, ciò che rileva è l’indicazione di elementi passivi fittizi nella dichiarazione, avvalendosi di fatture per operazioni inesistenti, non rilevando il carattere soggettivo ovvero oggettivo dell’inesistenza.

Il reato previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art.2, infatti, nel riferirsi all’uso di fatture o altri documenti concernenti operazioni inesistenti, non opera alcuna distinzione (Cass., Sez. III, 18 ottobre 2018, n. 4236; Cass., Sez. III, 2 marzo 2018, n. 30874), né riconduce espressamente la rilevanza dell’inesistenza soggettiva esclusivamente alla dichiarazione fiscale ai fini IVA.

Tanto premesso, il motivo è inammissibile. Ed invero, come anticipato, la giurisprudenza di questa Corte ha sottolineato come la configurabilità della fattispecie di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art.2 non subisca alcuna distinzione a seconda dell’imposta evasa (sul reddito o Iva) e, conseguentemente, del carattere soggettivo ovvero oggettivo dell’inesistenza delle operazioni rappresentate nelle fatture (o nei documenti equivalenti). La sentenza impugnata si presenta dunque in linea con tale orientamento.

Altrettanto inammissibile è la censura afferente al difetto di motivazione in ordine all’elemento soggettivo. Il ricorrente propone sostanzialmente una diversa lettura del compendio probatorio sul quale il giudice di merito ha fondato la propria decisione. In sede di legittimità, deve escludersi che la Corte di Cassazione possa procedere ad una ulteriore valutazione delle risultanze istruttorie, dovendo il controllo della medesima limitarsi ad accertare la presenza materiale, la non contraddittorietà e logicità della motivazione, non anche la maggiore o minore persuasività della stessa.

Il giudice di secondo grado, al fine di sostenere la consapevolezza del ricorrente dell’inesistenza delle operazioni oggetto di fatturazione, risulta del resto testualmente aver valorizzato alcuni elementi quali: a) le strettissime interrelazioni tra i soggetti-persone fisiche riconducibili alle società emittenti le fatture, il soggetto che ha segnalato le società alla società …….. (il consulente fiscale …….) e l’imputato; b) la circostanza che la sede legale delle società coincida con quella della società ……….., ossia la sede dello studio “………..” del ………; c) il fatto che la società ………. abbia inviato le fatture emesse dalle società nonostante avesse già precedentemente dichiarato ai verificatori di non avere più la disponibilità della predetta documentazione.

Elementi, tutti, da cui indiziariamente, con motivazione del tutto immune dai denunciati vizi, è stata individuata la sussistenza dell’elemento psicologico normativamente richiesto in capo al ricorrente. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma, ritenuta adeguata, di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

In definitiva, con la sentenza n.1998/2019  la Suprema Corte ha sancito, in buona sostanza, che “Il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti sussiste sia nell’ipotesi di inesistenza oggettiva dell’operazione, cioè quando non sia stata posta mai in essere nella realtà, sia in quella di inesistenza soggettiva, ossia quando l’operazione vi sia stata ma per quantitativi inferiori a quelli indicati in fattura, sia infine nel caso di sovrafatturazione qualitativa, nel quale la fattura attesti la cessione di beni e/o servizi aventi un prezzo maggiore di quelli forniti, in quanto oggetto di repressione penale è ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale”.


[1] Avvocato.

Per un approfondimento sulla disciplina del diritto penale tributario: Corrado Spriveri, “Il sistema penale tributario in Italia. Dalla teoria alla prassi applicativa, alla luce delle novità  introdotte dal c.d. Decreto Fiscale (d.l. n. 124/2019 convertito con modificazioni dalla legge n. 157/2019)”, Bari, Cacucci, 2020.

[2] Corte di Cassazione, pen., sez. III, sentenza del 15 novembre  2019,  n.1998.

[3] Art. 2 del decreto legislativo n. 74/2000 avente ad oggetto: “Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”, così recita: “1. È punito con la reclusione da quattro a otto anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi. 2. Il fatto si considera commesso avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti quando tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie, o sono detenuti a fine di prova nei confronti dell’Amministrazione finanziaria. 2-bis. Se l’ammontare degli elementi passivi fittizi è inferiore a euro centomila, si applica la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni”. Testo in vigore dal 25 dicembre 2019.

[4] Commette, dunque, tale delitto il contribuente che una volta ricevute le fatture per operazioni inesistenti ne tiene poi conto ai fini della deducibilità delle imposte sui redditi e/o della detraibilità dell’I.V.A. in sede di dichiarazione annuale.

[5] Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza n.27/2000; Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza n. 32348/2015.

[6] Corte di Cassazione, Sez. III, sentenza 2 dicembre 2015, n.51027.

[7] Corte di Giustizia U.E., sentenze nn.78/2003, cause C78/02, C-79/02 e causa C-566/07. Sul punto la CGUE  ha sancito che l’avvenuta fatturazione di un’operazione con applicazione dell’Iva mediante addebito alla controparte, non è elemento assorbente per stabilire che il tributo resti definitivamente dovuto, in quanto tale effetto discende dalla ricorrenza delle condizioni oggettive e soggettive per l’applicazione dell’imposta medesima, rispetto alle quali l’addebito, isolatamente considerato, non ha che una valenza indicativa del comportamento tenuto dal soggetto passivo. In altri termini, l’imposta si applica sulle operazioni che oggettivamente e soggettivamente sono comprese nella sfera di applicazione del tributo. Ne consegue che l’esposizione di dati fittizi anche solo soggettivamente implica la creazione delle premesse per un rimborso al quale non si ha diritto, e l’indicazione di un soggetto diverso da quello che ha effettuato la fornitura non è circostanza indifferente ai fini dell’Iva, dal momento che la qualità del venditore può incidere sulla misura dell’aliquota e, conseguentemente, sull’entità dell’imposta che l’acquirente può legittimamente detrarre.

[8] Corte di Cassazione , Sez. III,  sentenza 18 ottobre 2018, n. 4236; Corte di Cassazione, Sez. III,  sentenza 2 marzo 2018, n. 30874.

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