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Obbligo confermativo sopravvenuto e salvezza dei provvedimenti amministrativi

Commento alla sentenza del TAR Lazio, Roma, sez. IV, 15.12.2022 n. 16925

Avv. Linda Giovanna Vacchiano

ABSTRACT: Nelle procedure di concorso, in attuazione del principio di conservazione degli atti amministrativi, l’effetto conformativo sopravvenuto non determina l’annullamento dell’atto, ma una rettifica dello stesso secondo le prescrizioni contenute nel provvedimento cui debba conformarsi.

Oggetto del presente giudizio è l’impugnazione, ai fini dell’annullamento, del provvedimento adottato dal Ministero della Giustizia mediante il quale è stata disposta l’assunzione, a mezzo scorrimento di graduatoria, di soggetti idonei non vincitori del concorso per l’assunzione del profilo GIURI ECO per vari distretti di Corte d’appello nell’ambito della procedura relativa al concorso pubblico finalizzato al reclutamento a tempo determinato di n. 8171 unità di personale non dirigenziale dell’area funzionare terza, fascia economica F1, profilo di addetto all’Ufficio per il processo.

La questione di diritto di cui alla suddetta pronuncia è stata sollevata da un partecipante alla selezione di cui sopra, risultato idoneo non vincitore, al quale non era stato consentito di partecipare allo scorrimento della graduatoria ai fini dell’assunzione.

E’ da premettere che questi aveva già promosso ricorso avverso il provvedimento di approvazione della graduatoria finale che lo vedeva collocato al 514 posto, con punteggio complessivo di 21,375, stante il mancato riconoscimento dl possesso del titolo di Laurea magistrale, come proseguimento della laurea triennale quale titolo di studio chiesto per la partecipazione al concorso. Nelle more del ricorso sopra menzionato, il Ministero della Giustizia avviava lo scorrimento della suddetta graduatoria affinché gli idonei non vincitori potessero scegliere, ai fini dell’assunzione, tra le sedi rimaste disponibili. Tale procedura veniva avviata dal Ministero prima che venisse riconosciuto al ricorrente idoneo il maggior punteggio di cui questi lamentava l’attribuzione con ricorso all’epoca ancora pendente.

In sostanza, in considerazione dell’invarianza della graduatoria, sub iudice, il ricorrente idoneo non vincitore non partecipava alla scelta della sede ai fini dell’assunzione.

Con sentenza n. 5831 del 10.05.2022 il TAR Lazio accoglieva il ricorso promosso dal ricorrente non idoneo, finalizzato all’attribuzione dei n. 2 ulteriori punti da sommare a quelli riconosciuti, conseguentemente ritrovandosi questi nella posizione utile per poter essere assunto in virtù della procedura di scorrimento, nel frattempo già espletata.

Si poneva, dunque, a questo punto il problema della sussistenza di una pronuncia che riconosceva al soggetto idoneo il diritto di partecipare allo scorrimento che, tuttavia, nel frattempo era già avvenuto in favore di soggetti che, di fatto, non ne avrebbero avuto diritto. La soluzione prospettata da parte ricorrente era quella di procedere all’annullamento dell’intera procedura di scorrimento e conseguente assunzione, ai fini del riconoscimento in favore dello stesso dei propri diritti.

Con la pronuncia di cui all’oggetto, il TAR Lazio, tuttavia, ha deciso di adottare un’altra strada. I giudici di primo grado hanno, comunque, deciso favorevolmente il ricorso promosso dal soggetto idoneo non vincitore del concorso di cui in premessa, statuendo in modo innovativo la salvezza dell’atto amministrativo.

Secondo il TAR Lazio, infatti, la richiesta dell’idoneo sarebbe da ritenersi fondata e da accogliere, tenendo conto della pronuncia del TAR Lazio n. 5831 del 10.05.2022 di riconoscimento degli ulteriori punteggi allo stesso negati ai fini del posizionamento in graduatoria. Tuttavia, essendo tale pronuncia sopravvenuta rispetto all’avviso della procedura di scoramento della graduatoria, ne consegue che: 1) la procedura stessa non è da ritenersi viziata e, dunque, passibile di annullamento; 2) la procedura di scorrimento  e, dunque, l’atto conclusivo della stessa, andrebbe soltanto “rettificata” in considerazione dell’obbligo confermativo gravante sull’Amministrazione procedente in virtù della pronuncia sopra menzionata.

Nel bilanciamento degli interessi in gioco, il TAR Lazio ha ritenuto di dover agire nel senso di “salvare”, per quanto possibile, l’esercizio del potere della P.A., comportando una semplificazione del procedimento a tutale della posizione giuridica soggettiva del privato cittadino di fronte all’esercizio del potere che, seppur errato, andrebbe dunque corretto e non “eliminato” mediante l’annullamento. Tale semplificazione comporta, in sostanza, una maggior considerazione e valorizzazione del privato cittadino e dei suoi interessi e, stante i tempi frenetici dell’agire umano, consente anche una “velocizzazione” delle tutele allo stesso dovute. Nel caso di specie, si configura una ipotesi di salvezza dell’atto che, tuttavia, vede dall’altro lato della medaglia il configurarsi di una ipotesi di “limitazione” e “maggior superficialità” della tutela del privato stesso. Questi, infatti, pur vedendo tutelati i propri diritti ed interessi viene, di fatto, privato della possibilità di riconoscimento di un’ulteriore ed eventuale tutela (anche risarcitoria) a mezzo dell’unica azione promossa, che si conclude invece con l’ordine per la P.A. procedente di “rettificare” il provvedimento impugnato, e, dunque, di raddrizzare il tiro con riferimento al potere già esercitato (!), con la conseguenza che qualsivoglia ulteriore ed eventuale azione andrà promossa ex novo, con tutto ciò che da tanto ne consegua anche in termini di valutazione di opportunità della stessa per la tutela delle posizioni giuridiche soggettive messe a confronto.

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Benefici dei sei scatti stipendiali sul Trattamento di Fine Servizio in favore del personale militare, appartenente alle Forze di Polizia ad Ordinamento militare

Sulla corretta applicazione del combinato disposto di cui agli artt.6-bis decreto legge n.387/1987, comma 2 e 1911 decreto legislativo n.66 del 2010 (Codice Ordinamento Militare) – sei scatti stipendiali sul Trattamento di Fine Servizio – in favore del personale militare appartenente alle Forze di Polizia ad Ordinamento militare collocato a riposo, “a domanda”, che abbia maturato, alla data di presentazione della domanda 55 anni di età – “requisito anagrafico” – e 35 anni di servizio utile – “requisito previdenziale” –.

(Nota a C.G.A.R.S. , sez. I, n.776 del 16.6.2022, pubblicata il 29.6.2022)

Avv. Corrado Spriveri

Con la sentenza n.776/2022 pubblicata il 29 giugno 2022, resa nell’ambito di un giudizio in appello tendente ad ottenere i benefici dei sei scatti stipendiali sul calcolo del Trattamento di Fine Servizio, il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana – Sezione Giurisdizionale – ha definitivamente sancito il diritto all’applicazione dei benefici previsti dal combinato disposto previsto dagli artt.6-bis, comma 2 decreto legge n.387/1987 e 1911 decreto legislativo n.66 del 2010 (Codice Ordinamento Militare) – in favore del personale militare appartenente alla Forze di Polizia a Ordinamento militare collocato a riposo che vantava, alla data di presentazione della domanda, 55 anni di età – “requisito anagrafico” – e 35 anni di servizio utile – “requisito previdenziale” –, a prescindere dal fatto che l’istanza di collocamento in quiescenza sia presentata oltre il termine del 30 giugno dell’anno in cui siano maturate le predette anzianità anagrafiche e di servizio.

L’art.6-bis, comma 1 decreto legge n.387/1987, nella sua attuale formulazione derivante dalle modifiche introdotte dall’art.21, comma 1 della legge n.232/1990, dispone che “Al personale della Polizia di Stato appartenente ai ruoli dei commissari, ispettori, sovraintendenti, assistenti e agenti, al personale appartenente ai corrispondenti ruoli professionali dei sanitari e del personale della Polizia di Stato che espleta attività tecnico-scientifica o tecnica ed al personale delle forze di polizia con qualifiche equiparate, che cessa dal servizio per età o perché divenuto permanentemente inabile al servizio o perché deceduto, sono attribuiti ai fini del calcolo della base pensionabile e della liquidazione dell’indennità di buonuscita, e in aggiunta a qualsiasi altro beneficio spettante, sei scatti ciascuno del 2,50 per cento da calcolarsi sull’ultimo stipendio ivi compresi la retribuzione individuale di anzianità e i benefici stipendiali di cui agli articoli 30 e 44 della legge 10 ottobre 1986, n. 668, all’articolo 2, commi 5, 6 e 10 e all’articolo 3, commi 3 e 6 del presente decreto”.

Il comma 2 del decreto in parola prevede, inoltre, che “Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche al personale che chieda di essere collocato in quiescenza a condizione che abbia compiuto i 55 anni di età e trentacinque anni di servizio utile; la domanda di collocamento in quiescenza deve essere prodotta entro e non oltre il 30 giugno dell’anno nel quale sono maturate entrambe le predette anzianità; per il personale che abbia già maturato i 55 anni di età e trentacinque anni di servizio utile alla data di entrata in vigore della presente disposizione, il predetto termine è fissato per il 31 dicembre 1990”.

L’art.1911, comma 3 decreto legislativo n.66/2010 rubricato “Attribuzione dei sei aumenti periodici di stipendio ai fini del trattamento di fine servizio”, dispone infine che “… Al personale delle Forze di polizia a ordinamento militare continua ad applicarsi l’articolo 6-bis, del decreto legge 21 settembre 1987, n.387, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 1987, n.472”.

Alla luce di quanto sopra meglio esposto, ai sensi del combinato disposto degli artt.6-bis decreto legge n.387/1987 e 1911, comma 3 decreto legislativo n.66/2010 (Codice Ordinamento Militare), detti benefici si applicano a tutto il personale (anche in ruoli non apicali) della Polizia di Stato, della Polizia Penitenziaria, dell’Arma dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, ecc.

Invero, in base a dette disposizioni, i sei scatti stipendiali devono essere computati nel calcolo dell’indennità di buonuscita quando la cessazione dal servizio avviene:

1) “per il raggiungimento del limite di età”;

2) “per permanente inabilità al servizio”;

3) “per decesso”;

4) “a domanda, qualora al momento della stessa siano stati compiuti i 55 anni di età e trentacinque anni di servizio utile”.

Segnatamente, secondo un corretto criterio ermeneutico, letterale e sistematico l’art.6-bis decreto legge n.387/1987 va interpretato nel senso di includere nella relativa base di calcolo dei sei scatti stipendiali anche gli appartenenti alle Forze di Polizia ad Ordinamento militare, cessati dal servizio “a domanda”, a condizione che all’atto della data di presentazione della medesima istanza abbiano maturato 55 anni di età – “requisito anagrafico” – e 35 anni di servizio utile – “requisito previdenziale” –, a prescindere dal fatto che l’istanza di collocamento in quiescenza sia presentata oltre il termine del 30 giugno dell’anno in cui siano maturate le predette anzianità anagrafiche e di servizio.

A supporto di quanto meglio sopra detto, il Consiglio di Stato1, con una recente pronuncia, ha chiarito che l’applicazione dei sei scatti al Trattamento di Fine Servizio (T.F.S.) debba avvenire anche qualora la domanda di collocamento in quiescenza sia stata presentata oltre il termine del 30 giugno dell’anno in cui sono maturate le predette anzianità anagrafiche e di servizio (55 anni di età e 35 anni di servizio utile) giacché “l’ambiguità della disposizione non consente di far discendere, dal mancato rispetto del termine di presentazione della domanda di collocamento in quiescenza di cui al citato art.6-bis, comma 2, secondo periodo D.L. n. 387/1987, alcuna conseguenza decadenziale, la quale presuppone evidentemente la chiarezza e perspicuità dei relativi presupposti”.

A sostegno di quanto sopra esposto, la recentissima giurisprudenza amministrativa2 ha espressamente riconosciuto i benefici di cui all’art.6-bis, comma 2, secondo periodo D.L. n.387/1987 al personale appartenente alle Forze di Polizia ad Ordinamento civile (Polizia di Stato), ad Ordinamento militare (Arma dei Carabinieri, Corpo della Guardia di Finanza), cessati dal servizio “a domanda”, a condizione che all’atto della data di presentazione della medesima istanza abbiano maturato 55 anni di età – “requisito anagrafico” – e 35 anni di servizio utile – “requisito previdenziale” –, a prescindere dal fatto che l’istanza di collocamento in quiescenza sia presentata oltre il termine del 30 giugno dell’anno in cui siano maturate le predette anzianità anagrafiche e di servizio.

Con la pronuncia che qui si annota3, il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, respingendo tutte le eccezioni mosse dall’ente previdenziale (difetto di legittimazione passiva; inammissibilità di un ricorso collettivo; decadenza termine del 30 giugno) ha statuito, definitivamente, che i benefici di cui al combinato disposto degli artt.6-bis decreto legge n.387/1987 e 1911, comma 3 decreto legislativo n.66/2010 (Codice Ordinamento Militare) si applichino anche agli appartenenti alle Forze di Polizia ad Ordinamento militare, cessati dal servizio “a domanda”, a condizione che all’atto della data di presentazione della medesima istanza abbiano maturato 55 anni di età – “requisito anagrafico” – e 35 anni di servizio utile – “requisito previdenziale” –, a prescindere dal fatto che l’istanza di collocamento in quiescenza sia presentata oltre il termine del 30 giugno dell’anno in cui siano maturate le predette anzianità anagrafiche e di servizio.

Invero, sulla assunta decadenza del diritto al riconoscimento dei benefici dei sei scatti stipendiali paventata dall’Istituto Nazionale Previdenza Sociale, il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, con la sentenza in commento, ha stabilito che <<Il termine del 30 giugno non è un termine di decadenza ma rappresenta un onere per l’interessato, che incide sulla tempistica di soddisfazione dell’aspettativa di collocamento a riposo del medesimo. Né può ammettersi una diversa interpretazione di detto termine, riferito espressamente alla domanda di collocamento a riposo. Invero, il rispetto del termine del 30 giugno non può essere considerato una condizione la cui inottemperanza impedisce il collocamento a riposo a domanda (nel senso quindi di ritenere che il collocamento a riposo a domanda sia ammissibile solo se richiesto nel periodo immediatamente seguente al verificarsi delle due condizioni predette). Il già richiamato comma 3 lascia intendere infatti che il collocamento a riposo a domanda possa avvenire anche in anni successivi, dipendendo esclusivamente dalla data di presentazione dell’istanza. Neppure può considerarsi che la presentazione della domanda di collocamento a riposo entro il 30 giugno incida esclusivamente sull’attribuzione dei sei scatti ai fini del calcolo dell’indennità di buonuscita, dal momento che non si rinviene una ragionevole giustificazione della diversità di trattamento che sarebbe riservata a coloro che presentano la domanda di collocamento a riposo entro il 30 giugno dell’anno nel quale sono maturate entrambe le condizioni di anzianità, che si gioverebbero dell’attribuzione dei sei scatti, rispetto a coloro che la presentano nelle annualità successive (essendo quindi collocati a riposo entro il successivo primo gennaio), che non si gioverebbero di detta attribuzione. Sicché solo una norma chiara nel senso della natura decadenziale del termine potrebbe fondare una diversità di trattamento non passibile di interpretazione costituzionalmente orientata, atteso che “le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali” (Corte cost., sentenza 22 ottobre 1996 n. 356 e ordinanza 19 giugno 2019 n. 151). Quindi, anche a ritenere (soltanto) ambigua la disposizione sul termine del 30 giugno, detta ambiguità “non consente di far discendere, dal mancato rispetto del termine di presentazione della domanda di collocamento in quiescenza di cui al citato art. 6-bis comma 2 del d.l. n. 387 del 1987, alcuna conseguenza decadenziale, la quale presuppone evidentemente la chiarezza e perspicuità dei relativi presupposti determinanti” (Cons. St. sez. III, 22 febbraio 2019 n. 1231)>>.

In definitiva, secondo quanto sancito dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana con la pronuncia in commento4, in tema d Trattamento di Fine Servizio, i benefici dei sei scatti stipendiali previsti all’art.6-bis, comma 2, secondo periodo D.L. n.387/1987 vanno riconosciuti al personale militare appartenente alle Forze di Polizia ad Ordinamento militare (Arma dei Carabinieri, Corpo della Guardia di Finanza), cessati dal servizio “a domanda”, a condizione che all’atto della data di presentazione della medesima istanza abbiano maturato 55 anni di età – “requisito anagrafico” – e 35 anni di servizio utile – “requisito previdenziale” –, a prescindere dal fatto che l’istanza di collocamento in quiescenza sia presentata oltre il termine del 30 giugno dell’anno in cui siano maturate le predette anzianità anagrafiche e di servizio.

1 Consiglio di Stato, sentenza n.1231/2019 (pubblicata il 22.02.2019).

2Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, Ordinanza n.34/2022; Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, sentenza n.770/2022; Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia – sez distaccata Catania sentenze nn.1568/2022; 1104/2022; 1100/2022; 920/2022; 756/2022; Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli Venezia Giulia, sentenze nn.124/2021; 133/2021; Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, sentenza n.1184/2021.

3 Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, sentenza n.777/2022.

4 Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, sentenza n. 776/2022.

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La cessione dei crediti deteriorati attraverso le operazioni di cartolarizzazioni

Commento a Cass. Civ., Sez. III, 2.5.2022 n. 13735

Avv. Andrea Ravelli

La Suprema Corte di Cassazione, attraverso il provvedimento n. 13735 reso lo scorso 2/05/2022, riprende la complessa materia delle operazione di cessioni di crediti deteriorati attraverso operazioni di cartolarizzazioni ai sensi della Legge n. 130/1999.

La Cassazione ribadisce l’esigenza della “segregazione patrimoniale” dei crediti a favore degli investitori, di modo che i relativi incassi siano destinati in via esclusiva al pagamento dei titoli ABS (ossia titoli obbligazionari remunerati e rimborsati esclusivamente con gli incassi di uno o più portafogli di crediti generati dal cedente) per tutta la vita dell’operazione. 

La normativa di riferimento (la succiata Legge n. 130/1999) prevede che una operazione di cartolarizzazione abbia il seguente impianto giuridico: la SPV eroga un finanziamento all’Originator reperendo la provvista necessaria tramite l’emissione di titoli ABS. Il finanziamento, e di riflesso i titoli ABS, sono remunerati e rimborsati esclusivamente (o in via principale) attraverso gli incassi di uno o più portafogli crediti dell’Originator di cui tuttavia questi mantiene la titolarità.

In ragione delle disposizioni di cui all’art. 3, comma 2 della suddetta normativa, i crediti costituiscono un vero e proprio “patrimonio separato” rispetto a quello della società veicolo. 

L’impostazione riportata al richiamato articolato, comporta l’impossibilità di aggressione del patrimonio segregato da soggetti diversi dai portatori dei titoli emessi per finanziare l’acquisto del credito che costituisce quel patrimonio. Il principio della segregazione viene chiaramente spiegato dalla norma nel modo seguente: su ciascun patrimonio non sono ammesse azioni da parte di creditori diversi dai portatori dei titoli emessi per finanziare l’acquisto dei crediti stessi. Come previsto dall’art. 1, comma 1, lett. b) della legge sulle cartolarizzazioni, tale patrimonio è a destinazione vincolata, in via esclusiva, al soddisfacimento dei diritti incorporati nei titoli ed al pagamento dei costi dell’operazione. 

È possibile affermare, quindi, che ciascuna vicenda di cartolarizzazione è da intendersi nettamente distinta da tutte le altre, in quanto il singolo patrimonio non è aggredibile, né da parte dei creditori cosiddetti personali della società cessionaria/emittente, né da parte di coloro che eventualmente vantino crediti nei confronti di un diverso patrimonio, anche se amministrato dalla stessa società.

L’incasso dei crediti, come detto, è funzionale, esclusivamente, al rimborso dei titoli, al pagamento degli interessi pattuiti e dei costi dell’operazione; pertanto, al debitore ceduto sono precluse le eccezioni di compensazione o le domande giudiziali verso il cessionario fondate su crediti nascenti da vicende relative al rapporto con esso intercorso.

Consentire al debitore ceduto la proposizione di simili eccezioni o domande giudiziali significherebbe infatti incidere sul patrimonio separato, con potenziali conseguenze negative per il pubblico dei risparmiatori. 

Viceversa, i medesimi investitori possono essere esposti unicamente al rischio del mancato incasso dei crediti cartolarizzati attraverso tipiche azioni di recupero, ma non anche al rischio di vedere ridotto il patrimonio separato a beneficio di altri creditori.

Per completezza, si aggiunge, che la segregazione si estende ad ogni eventuale ulteriore garanzia che i debitori della società cedente abbiano rilasciato alla stessa e che questa abbia “girato” alla società per la cartolarizzazione in occasione della cessione pro-soluto.

Testo della Sentenza

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La responsabilità dell’ente non esclude automaticamente quella delle persone fisiche

La responsabilità dell’ente non esclude automaticamente quella delle persone fisiche 

Data di pubblicazione: 27/09/2011

Depositata il 21 settembre 2011 la Cassazione è intervenuta a chiarire i presupposti della responsabilità degli enti prevista dal D.Lgs. 231/2001 in materia penale e, segnatamente, dei funzionari e dei dipendenti che lavorano al suo interno.

Il primo punto statuito della Corte, che con la sentenza in parola ha censurato il ragionamento fatto dal GUP di Catanzaro, è il seguente: un’eventuale responsabilità della società non comporta automaticamente l’esclusione di una possibile responsabilità delle persone fisiche per il reato di associazione per delinquere, «essendo tali diverse tipologie di responsabilità del tutto compatibili fra di loro, dal momento che non può negarsi, in ipotesi, che i reati-fine posti in essere dai componenti dell’associazione fossero realizzati anche nell’interesse della società».
In particolare, (e qui giungiamo al secondo punto affermato dalla Cassazione) per integrare il reato di associazione per delinquere, laddove questa sia finalizzata alla realizzazione di reati contro la pubblica amministrazione non è necessario che vi facciano parte anche funzionari pubblici o in genere soggetti ha appartengono all’amministrazione, potendo sicuramente ipotizzarsi un apporto del pubblico ufficiale, non intraneo all’organizzazione delittuosa, nei reati contro la pubblica amministrazione, compreso il delitto di abuso di ufficio, costituenti il programma criminoso.

Sulle illegittime proroghe ex lege delle concessioni demaniali marittime

Commento alle Sentenze Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 17 e 18 del 2021

A cura dell’Avv. Matteo Manconi e dell’Avv. Matteo Malagoli

Le Pronunce dell’Adunanza Plenaria, in data 9 novembre n. 17/2021 e n. 18/202120291 rappresentano un punto di svolta nell’annosa e dibattuta questione dei rinnovi automatici ex lege delle concessioni demaniali.

Negli ultimi anni la tematica delle concessioni demaniali ha rivestito un ruolo molto importante per i titolari degli stabilimenti balneari e in generale di tutti quegli imprenditori che lavorano a contatto con il demanio marittimo, settore nella più totale incertezza normativa.

Le aziende, realtà economiche di medio piccole dimensioni e strettamente legate al territorio, fino a quando potranno andare avanti in questa situazione, senza poter effettuare una programmazione degli investimenti a lungo termine?

In questo particolare momento storico, oltre alle incertezze regolamentative dettate dalla normativa Bolkestein si è aggiunta la confusione derivante dai Decreti Anti-Covid che ne rendono sempre più complicata la gestione.

La direttiva europea 2006/123, cd. “Legge Bolkestain” matrice di questo, cambiamento che impone la liberalizzazione e l’apertura dei mercati interni anche a tutti gli operatori comunitari, fissa principalmente negli articoli che vanno dall’art. 9 all’art. 15 quelli che sono i criteri e le logiche europeistiche di apertura dei mercati interni agli operatori comunitari.

In questo quadro normativo alla sezione denominata “Libertà di stabilimento dei prestatori, sezione 1 Autorizzazioni” vengono determinati quelli che sono i “Regimi di autorizzazione”, le “Condizioni di rilascio dell’autorizzazione”, la “Durata di validità dell’autorizzazione”, la “Selezione tra diversi candidati”, le “Procedure di autorizzazione”, i “Requisiti vietati” ed infine i “Requisiti da valutare”.

Di tali aspetti, quelli che maggiormente interessano la presente trattazione, sono le “Condizioni di rilascio dell’autorizzazione“, o meglio, la scelta dei criteri di selezione che deve sempre rispondere ai requisiti dettati dall’art. 10, c.2, e pertanto essere “a) non discriminatori; b) giustificati da un motivo imperativo di interesse generale; c) commisurati all’obiettivo di interesse generale; d) chiari e inequivocabili; e) oggettivi; f) resi pubblici preventivamente; g) trasparenti e accessibili”, al fine di garantire il rispetto di quanto stabilito dalla direttiva comunitaria e allo stesso tempo garantire agli operatori economici l’effettivo accesso alle opportunità economiche offerte dalle concessioni.

Ulteriormente, non di secondaria importanza, all’art. 12 “Selezione tra diversi candidati” vengono rinvenuti i principali criteri di selezione in grado di veicolare la discrezionalità del legislatore, imponendo, che “[…] una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento.

2. Nei casi di cui al paragrafo 1 l’autorizzazione è rilasciata per una durata limitata adeguata e non può prevedere la procedura di rinnovo automatico né accordare altri vantaggi al prestatore uscente o a persone che con tale prestatore abbiano particolari legami.

3. Fatti salvi il paragrafo 1 e gli articoli 9 e 10, gli Stati membri possono tener conto, nello stabilire le regole della procedura di selezione, di considerazioni di salute pubblica, di obiettivi di politica sociale, della salute e della sicurezza dei lavoratori dipendenti ed autonomi, della protezione dell’ambiente, della salvaguardia del patrimonio culturale e di altri motivi imperativi d’interesse generale conformi al diritto comunitario”.

L’Adunanza Plenaria, come già rilevato dalla Corte di giustizia, Grande Sezione, 30 gennaio 2018, C360/15 e C31/16, al punto 104, ha evidenziato che la ormai nota direttiva 2006/123, cd. “Bolkestein”, deve essere considerata una direttiva di liberalizzazione, tesa ad eliminare gli ostacoli alla libertà di stabilimento e di servizio, garantendo in tal modo l’implementazione del mercato interno e del principio concorrenziale ad esso sotteso e in altri termini “fissa disposizioni generali volte ad eliminare le restrizioni alla libertà di stabilimento dei prestatori di servizi negli Stati membri e alla libera circolazione dei servizi tra i medesimi, al fine di contribuire alla realizzazione di un mercato interno dei servizi libero e concorrenziale” a seguito della definizione dei criteri di gara, in tale sede, potranno essere valutate politiche sociali e ambientali oltre che economici, valutando altresì caso per caso, come rilevato dalla Corte di Giustizia nella sentenza “PromoImpresa” del 14 luglio 2016, se vi siano investimenti ancora da ammortizzare di cui tener conto in sede di valutazione dei potenziali candidati e, ove ne ricorrano i presupposti, valutare il riconoscimento di un indennizzo a tutela degli eventuali investimenti effettuati dai concessionari uscenti, essendo tale meccanismo indispensabile per tutelare l’affidamento degli stessi.

La sentenza in esame ha affermato, l’illegittimità delle proroghe automatiche delle concessioni demaniali marittime ed in estrema sintesi, come ripreso dall’Adunanza plenaria, ha ribadito i seguenti principi riportati nella direttiva 2006/123: “a) l’articolo 12, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno, deve essere interpretato nel senso che essa osta a una misura nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che prevede la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico‑ricreative, in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati; 2) l’articolo 49 TFUE dev’essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che consente una proroga automatica delle concessioni demaniali pubbliche in essere per attività turistico‑ricreative, nei limiti in cui tali concessioni presentano un interesse transfrontaliero certo”.

La Corte di giustizia ha constatato che “gli Stati membri possono tener conto, nello stabilire le regole della procedura di selezione, di considerazioni legate a motivi imperativi d’interesse generale”, precisando che si possa tenere conto di tali considerazioni “solo al momento di stabilire le regole della procedura di selezione dei candidati potenziali e fatto salvo, in particolare, l’articolo 12, paragrafo 1, di tale direttiva” e che comunque necessiti al riguardo “una valutazione caso per caso che consenta di dimostrare che il titolare dell’autorizzazione poteva legittimamente aspettarsi il rinnovo della propria autorizzazione e ha effettuato i relativi investimenti” (sentenza Promoimpresa).

La Corte di giustizia, Grande Sezione, 30 gennaio 2018, C360/15 e C31/16, ai successivi punti 105, 106 e 107, ha constatato che “105. Orbene, la piena realizzazione del mercato interno dei servizi richiede anzitutto che vengano soppressi gli ostacoli incontrati dai prestatori per stabilirsi negli Stati membri, a prescindere dal fatto che si tratti del proprio Stato membro o di un altro, e che sono tali da pregiudicare la loro capacità di fornire servizi a destinatari che si trovano in tutta l’Unione.

106. Al fine di attuare un autentico mercato interno dei servizi, l’approccio scelto dal legislatore dell’Unione nella direttiva 2006/123 si basa, come enunciato al suo considerando 7, su un quadro giuridico generale, formato da una combinazione di misure diverse destinate a garantire un grado elevato d’integrazione giuridica nell’Unione per mezzo, in particolare, di un’armonizzazione vertente su precisi aspetti della regolamentazione delle attività di servizio.

107. Di conseguenza, a costo di pregiudicare l’efficacia pratica dello specifico ambito giuridico che il legislatore dell’Unione ha inteso istituire adottando la direttiva 2006/123, si deve ammettere, contrariamente a quanto sostenuto in udienza dal governo tedesco, che la portata di tale direttiva è tale da estendersi, se del caso, al di là di ciò che prevedono in senso stretto le disposizioni del Trattato FUE relative alla libertà di stabilimento e alla libera circolazione dei servizi, fatto salvo l’obbligo per gli Stati membri, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 3, della suddetta direttiva, di applicare le disposizioni della medesima conformemente alle norme di tale Trattato (v., in tal senso, sentenza del 16 giugno 2015, Rina Services e a., C-593/13, EU:C:2015:399, punti 39 e 40).

Successivamente alle sentenze della Corte di Giustizia, l’Italia con, l’art. 1, c. 682 e 683, l. 30 dicembre 2018 n. 145, Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021(legge di Bilancio 2019), sulla proroga di quindici anni, sino al dicembre 2033, della durata delle concessioni demaniali marittime con finalità turistico-ricreative vigenti alla data di entrata in vigore della legge, (cd. “Legge Centinaio”), evidenzia che la ratio della proroga concessa con la Legge è anche quella di “di garantire la tutela e la custodia delle coste italiane affidate in concessione, quali risorse turistiche fondamentali del Paese” e di “tutelare l’occupazione ed il reddito delle imprese in grave crisi per i danni subiti dai cambiamenti climatici e dai conseguenti eventi calamitosi”.

Tale norma sopra riportata aveva la ratio di individuare un periodo transitorio nel quale gli imprenditori potessero programmare i loro investimenti, ammortizzare quelli già fatti e prepararsi per l’applicazione della normativa di matrice europeistica.

In periodo emergenziale, legato al Coronavirus, nel Decreto LEGGE 19 maggio 2020, n. 34 recante “Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19” convertito con modifiche dalla Legge 17 luglio 2020, n. 77 ha affrontato anche il tema delle concessioni demaniali.

La principale misura ha riguardato la sospensione dei procedimenti amministrativi volti alla nuova assegnazione delle concessioni demaniali marittime o alla riacquisizione delle aree demaniali.

L’art. 182, comma 2, così come convertito, affronta il tema dell’estensione delle concessioni fino al 2033, così come già previsto dalla Legge di Bilancio 2019.

Il comma 2, dell’art. 182 del Decreto Rilancio, fa espresso richiamo dell’art. 1, comma 682 e seguenti della Legge 30 dicembre 2018, n. 145, impedendo alla Pubblica amministrazione di avviare o proseguire, a carico dei concessionari che intendono proseguire la propria attività mediante l’uso di beni di beni del demanio marittimo, lacuale e fluviale, i procedimenti amministrativi per la devoluzione delle opere non amovibili (ex art. 49 del codice della navigazione), per il rilascio o per l’assegnazione, con procedure di evidenza pubblica, delle aree oggetto di concessione.

In particolare, la Legge di Bilancio 2019 prevedeva che le concessioni demaniali per lo svolgimento di attività turistico ricreative fossero prorogate per una durata di 15 anni dall’entrata in vigore della già menzionata Legge, perseguendo il fine di garantire la tutela e la custodia delle coste italiane affidate in concessione, quali risorse turistiche fondamentali del Paese e di tutelare l’occupazione e il reddito delle imprese, da un altro punto di vista ha previsto che le concessioni demaniali avranno scadenza il 31 dicembre 2033, penalizzando possibili nuovi concessionari.

In questo contesto spiccano alcune realtà del territorio Ligure che possono considerarsi virtuose, avendo anticipato sia i tempi sia le tematiche affrontate dal Consiglio di Stato o avendo assunto comportamenti prudenziali.

Regione Liguria, nel lontano 2017, aveva già previsto, agli artt. 6 e seguenti della Legge Regionale n.26 del 10 novembre 2017, un procedimento con i parametri di determinazione dell’estensione, i requisiti di partecipazione ed infine i criteri di comparazione delle istanze per il rilascio o rinnovo delle concessioni demaniali.

Infatti, negli articoli nn. 6 e 9 di tale norma è racchiuso il nucleo di ciò che è stato anche ribadito dal Consiglio di Stato.

All’art. 6, rubricato “Procedimento di selezione per l’assegnazione delle concessioni demaniali marittime e parametri di determinazione per l’estensione della durata delle concessioni”, si prevede che “1. L’assegnazione delle concessioni su aree disponibili avviene in conformità alle previsioni del Progetto di utilizzo comunale delle aree demaniali marittime di cui all’articolo 11 bis della legge regionale 28 aprile 1999, n. 13 (Disciplina delle funzioni in materia di difesa della costa, ripascimento degli arenili, protezione e osservazione dell’ambiente marino e costiero, demanio marittimo e porti) e successive modificazioni e integrazioni e senza pregiudizio per il legittimo affidamento degli imprenditori balneari titolari di concessioni attualmente in essere ovvero rilasciate anteriormente al 31 dicembre 2009.

2. Il procedimento per il rilascio di nuove concessioni demaniali marittime su aree disponibili è avviato dal Comune, in conformità ai principi di derivazione europea, con bando pubblico d’iniziativa propria o a seguito di una specifica richiesta proveniente dal soggetto interessato all’utilizzo del bene.

3. Con atto della Giunta regionale sono approvate le disposizioni che individuano le fasi del procedimento che i comuni devono seguire nell’assegnazione delle concessioni demaniali marittime, il peso da attribuire ai parametri di cui all’articolo 5, i criteri per determinare la durata delle concessioni in rapporto al loro valore e i parametri di determinazione per l’estensione della durata delle concessioni di cui all’articolo 2.

Il successivo art. 9, rubricato “Criteri di comparazione delle istanze per il rilascio o rinnovo di concessione demaniale marittima”, prevede che “1. Nella scelta comparativa tra più domande di concessione demaniale marittima costituiscono validi parametri di valutazione, rispondenti a quanto disposto dall’articolo 37 del Codice della Navigazione:

a) utilizzo di attrezzature non fisse e completamente amovibili;

b) professionalità ed esperienza maturate nel settore delle attività turistico ricreative;

c) capacità economico finanziaria;

d) offerta di tariffe ridotte per specifiche categorie di utenza;

e) servizi accessori offerti all’utenza;

f) qualità di impianti e manufatti e utilizzo di fonti di energia rinnovabile;

g) personale impiegato nell’esercizio della concessione;

h) impegno alla gestione diretta delle attività per l’intera durata della concessione o per un determinato periodo di tempo;

i) ogni ulteriore elemento utile alla valutazione comparativa, rispondente ai parametri di cui all’articolo 37 del Codice della Navigazione.

2. I suddetti parametri saranno dettagliati e ponderati dal Comune nel bando pubblico di cui all’articolo 6 volta per volta in relazione alle specifiche peculiarità di ciascuna concessione messa a bando.

3. Lo stesso soggetto non può essere titolare o contitolare a qualsiasi titolo di più di una concessione nell’ambito dello stesso Comune”.

Nell’incertezza applicativa dettata dalla varietà normativa che regolamenta il settore, come visto per la Regione Liguria, si sono susseguite diverse sentenza dei Tribunale amministrativi che in tutta Italia si sono trovati di fronte all’annoso tema del rilascio delle concessioni demaniali.

Il Consiglio di Stato con la sentenza n.7874, in data 18 novembre 2019, vertente proprio su una controversia che riguardava il rilascio di una concessione demaniale nel Comune di Santa Margherita Ligure, ha ribadito che “per completezza d’esame, ritiene di dover dare conto  della circostanza che la più volte citata sentenza della Corte di Giustizia Europea , sebbene abbia dichiarato che le disposizioni nazionali che consentono la proroga generalizzata ed automatica delle concessioni demaniali fino al 31 dicembre 2020 contrastano con l’ordinamento comunitario, ha nel contempo però precisato che una proroga di una concessione demaniale è giustificata laddove sia finalizzata a tutelare la buona fede del concessionario, ovverosia qualora questi abbia ottenuto una determinata concessione in un periodo in cui non era ancora stato dichiarato che i contratti aventi un interesse transfrontaliero certo avrebbero potuto essere soggetti a obblighi di trasparenza”.

Inoltre, il Consiglio di Stato ha osservato che, la giurisprudenza ha già sostenuto in passato la necessità dell’esperimento “della selezione pubblica nel rilascio delle concessioni demaniali marittime, derivante dall’esigenza di applicare le norme conformemente ai principi comunitari in materia di libera circolazione di servizi, di imparzialità e di trasparenza”.

Nella sentenza del novembre 2019, il Consiglio di Stato, ha ribadito che “per completezza d’esame, ritiene di dover dare conto della circostanza che la più volte citata sentenza della Corte di Giustizia Europea, sebbene abbia dichiarato che le disposizioni nazionali che consentono la proroga generalizzata ed automatica delle concessioni demaniali fino al 31 dicembre 2020 contrastano con l’ordinamento comunitario, ha nel contempo però precisato che una proroga di una concessione demaniale è giustificata laddove sia finalizzata a tutelare la buona fede del concessionario, ovverosia qualora questi abbia ottenuto una determinata concessione in un periodo in cui non era ancora stato dichiarato che i contratti aventi un interesse transfrontaliero certo avrebbero potuto essere soggetti a obblighi di trasparenza”. Infatti, la stessa disciplina europea (si rinvia per una disamina più completa ad altra sede per l’eccessiva estensione) consente alcune deroghe alle procedure, prevedendo una normativa a tutela delle tradizioni economiche, culturali e sociali dei singoli territori, con una particolare attenzione al fondamentale tessuto economico costituto dalle PMI, che per loro natura tutelano e valorizzano i territori in cui operano dando fondamentali posti di lavoro e spinta produttiva all’economia del territorio.

Il TAR Puglia con la sentenza n. 1321 in data 27 novembre 2020 analizzando la proroga disposta dalla Legge Centinaio ha affermato che “la norma nazionale risulta vincolante per la pubblica amministrazione e, nel caso in esame, per il dirigente comunale che sarà tenuto ad osservare la norma di legge interna ed adottare provvedimenti conformi e coerenti con la norma di legge nazionale. […] La disapplicazione vincolata ed automatica disposta dalle singole pubbliche amministrazioni determinerebbe una situazione caotica ed eterogenea, nonché caratterizzata, in ipotesi, da disparità di trattamento tra gli operatori a seconda del comune di riferimento”.

In tempi ancora più recenti la sezione Quinta del Consiglio di Stato, con sentenza n. 7837, del 9 dicembre 2020, ha rilevato che: “La sentenza n. 688/2017 ha affermato che non sussiste un obbligo di legge di procedere all’affidamento delle concessioni demaniali marittime nelle forme tipiche della procedura a evidenza pubblica prevista per i contratti d’appalto della pubblica amministrazione, e che l’applicabilità del principio della previa definizione dei criteri di valutazione delle offerte alla stessa materia, perché avente a oggetto beni demaniali economicamente contendibili (Cons. Stato, Ad. plen., 25 febbraio 2013, n. 5), va valutata alla luce della norma speciale di cui all’art. 37 del Codice della navigazione, che non la prevede. Ha osservato che l’assenza di un obbligo per l’amministrazione di indire una tipica procedura a evidenza pubblica risiede nella fondamentale circostanza che l’art. 37 del Codice della navigazione contempla l’ipotesi di una domanda che perviene dal mercato privato, al contrario dell’ipotesi tipica dei contratti pubblici, in cui è invece l’amministrazione a rivolgersi a quest’ultimo”.

In altri termini, “la concomitanza di domande di concessione prevista dall’art. 37 determina già di per sé una situazione concorrenziale che preesiste alla volontà dell’amministrazione di stipulare un contratto e […] pertanto non richiede le formalità proprie dell’evidenza pubblica”, sicché “la fissazione dei criteri in questo caso non assolverebbe alla sua funzione tipica di assicurare un confronto competitivo leale, perché verrebbe fatta quando le proposte di affidamento sono già state presentate”. Con la conseguenza, prosegue la decisione in commento, di dare continuità all’indirizzo espresso in materia di concessioni del demanio marittimo da questo Consiglio di Stato (VI, 26 giugno 2009, n. 5765), secondo cui “gli obblighi di trasparenza, imparzialità e rispetto della par condicio imposti all’amministrazione, anche a livello europeo, sono soddisfatti da un efficace ed effettivo meccanismo pubblicitario preventivo sulle concessioni in scadenza, in vista del loro rinnovo in favore del miglior offerente, e ciò all’evidente fine di stimolare il confronto concorrenziale tra più aspiranti; e da un accresciuto onere istruttorio in ambito procedimentale, nonché motivazionale in sede di provvedimento finale, da parte delle amministrazioni concedenti, rivelatore degli incombenti adempiuti dalla amministrazione ai fini di rendere effettivo il confronto delle istanze in comparazione (e quindi anche sul piano degli adempimenti pubblicitari preventivi), e da cui emergano in modo chiaro, alla luce delle emergenze istruttorie, le ragioni ultime della opzione operata in favore del concessionario prescelto, in applicazione del criterio-guida della più proficua utilizzazione del bene per finalità di pubblico interesse”.

Di fronte a questa incertezza, la più grande preoccupazione per gli operatori dei settori interessati dalla direttiva Bolkestein, che dovrebbe essere anche quella della PA, rimane quella della grande incertezza nel caso in cui alcune P.A. decidano di disapplicare la norma nazionale a favore della normativa Europea.

Infatti, ad oggi le Amministrazioni Comunali che concedono proroghe alle concessioni demaniali lo fanno sulla scorta del complicato quadro normativo accennato ed in base anche all’art. 165 del codice dei contratti pubblici denominato “Rischio ed equilibrio economico-finanziario nelle concessioni”, comma 6, che impone il riequilibrio delle condizioni delle concessioni in caso si verifichino “fatti non riconducibili al concessionario che incidono sull’equilibrio del piano economico e finanziario”.

Tuttavia, pur avendo un quadro legislativo interno rafforzato da norme tra loro coerenti, rimane il netto contrasto con la normativa europea e tale questione, ad oggi irrisolta, crea grande incertezza sul futuro degli attuali concessionari e delle stesse concessioni demaniali per via dei noti obblighi per lo Stato Membro di applicazione delle Direttive dell’Unione Europea.

La stessa disciplina europea consentirebbe deroghe alle procedure, dovrebbe comunque prevedere una normativa a tutela delle tradizioni economiche, culturali e sociali dei singoli territori, con una particolare attenzione al fondamentale tessuto economico costituto dalle PMI, che per loro natura tutelano e valorizzano i territori in cui operano, offrendo fondamentali posti di lavoro e spinta produttiva all’economia del territorio.

La Corte Costituzionale con sentenza del 21 novembre 2018 si era già espressa sulla nota e complessa vicenda delle proroghe ope legis delle concessioni demaniali marittime, rilevando che se è vero che la proroga delle concessioni balneari non può essere disposta dal legislatore regionale, perché materia riservata alla competenza esclusiva statale, ma non si può non rilevare che con una lettura normativa orientata secondo la disciplina comunitaria non verrebbe tollerata alcuna proroga, poiché andrebbe ad incidere sulla parità di trattamento tra le imprese europee, ammettendo deroghe estremamente marginali e residuali valutate caso per caso e giustificate singolarmente.

Le recenti pronunce dall’Adunanza Plenaria del Consiglio costituiscono una vera e propria svolta nella giurisprudenza amministrativa vertente sulle concessioni balneari sul territorio italiano oltre sotto il fondamentale aspetto del rapporto tra il diritto nazionale e il diritto dell’Unione finalizzata ad “assicurare certezza e uniformità di applicazione del diritto da parte delle amministrazioni interessate nonché uniformità di orientamenti giurisprudenziali”.

Nelle sentenze in oggetto l’Adunanza Plenaria ha evidenziato che la direttiva 2006/123, (cd. “Bolkestein”), deve essere valutata in chiave europeistica, e deve pertanto essere considerata una direttiva di liberalizzazione, tesa ad eliminare gli ostacoli alla libertà di stabilimento e di servizio, garantendo in tal modo l’implementazione del mercato interno e del principio concorrenziale ad esso sotteso e in altri termini “fissa disposizioni generali volte ad eliminare le restrizioni alla libertà di stabilimento dei prestatori di servizi negli Stati membri e alla libera circolazione dei servizi tra i medesimi, al fine di contribuire alla realizzazione di un mercato interno dei servizi libero e concorrenziale” (Corte di giustizia, Grande Sezione, 30 gennaio 2018, C360/15 e C31/16, punto 104).

Nelle motivazioni delle sentenze in esame il Consiglio di Stato ha rilevato l’incompatibilità comunitaria della legge nazionale che ha disposto la proroga automatica ex lege delle concessioni demaniali producendo come effetto, la decadenza della concessione in conseguenza della non applicazione della disciplina interna e pertanto l’incompatibilità delle proroghe concesse attraverso l’art. 1, commi 682 e 683 della l. 30 dicembre 2018, n. 145 ed attraverso l’art. 182, comma 2, d.l. 34 del 2020.

Pertanto, dopo la data, per molti concessionari nefasta, del 31 dicembre 2023, le eventuali proroghe legislative del termine di scadenza delle concessioni attualmente in essere dovranno naturalmente considerarsi non più valide con la conseguenza che oltre tale termine, tutte le concessioni demaniali in essere dovranno considerarsi prive di effetto, indipendentemente che un soggetto subentrante nella concessione.

Entro il 31 dicembre 2023 le amministrazioni dovranno intraprendere le operazioni funzionali all’indizione di procedure di gara.

Procedura di gara che verrà facilitata dal nuovo censimento delle concessioni demaniali sancito e istituito dal DDL concorrenza.

L’ Adunanza Plenaria continua nella sua motivazione rilevando che oggi è ancor più necessario che il legislatore intervenga con l’ormai più volte annunciata normativa di riordino del settore, individuando i criteri che dovranno seguire lo svolgimento delle gare e delle conseguenti aggiudicazioni.

Il Legislatore dovrà intervenire, pertanto, individuando i criteri di selezione rispondendo ai requisiti dettati dall’art. 10 c.2, e pertanto essere “a) non discriminatori; b) giustificati da un motivo imperativo di interesse generale; c) commisurati all’obiettivo di interesse generale; d) chiari e inequivocabili; e) oggettivi; f) resi pubblici preventivamente; g) trasparenti e accessibili”, al fine di garantire il rispetto di quanto stabilito dalla direttiva comunitaria e allo stesso tempo garantire agli operatori economici l’effettivo accesso alle opportunità economiche offerte dalle concessioni.

I criteri di valutazione e selezione che verranno individuati dal Legislatore nazionale e utilizzati dalle P.A. dovranno prevedere altresì una valutazione complessiva riguardante la capacità tecnica, professionale, finanziaria ed economica degli operatori, oltre alla mera offerta economica, senza tuttavia tralasciare una valutazione sugli investimenti effettuati dal concessionario, e se tali sono stati ammortizzati o ancora in via di ammortamento, prevedendo ove en ricorrano i presupposti, un eventuale indennizzo che ristori il mancato ammortamento completo (come stabilito anche dalla nota sentenza Promoimpresa).

Nell’ambito delle valutazioni effettuate dalla P.A. potranno essere individuati criteri che, in modo comparativo, valorizzino l’esperienza professionale, il know-how acquisito da chi ha già svolto attività di gestione di beni analoghi, la promozione del territorio ed il servizio-supporto al sistema turistico-ricettivo locale.

Infine, va sottolineato che la nuova Legge di riordino del settore, oltre ai criteri di selezione di cui sopra, dovrà disciplinare anche la durata delle stesse concessioni, sulla base di valutazioni tecniche, economiche e finanziarie, al fine di evitare la preclusione dell’accesso al mercato, commisurandola altresì al valore della concessione e alla sua complessità organizzativa concedendo il periodo di tempo ragionevolmente necessario al recupero degli investimenti, insieme ad una remunerazione del capitale investito.

Con la residuale e paradossale conseguenza che, in caso di inerzia e inattività del Legislatore, siano gli Enti concessionari a trovarsi a fronteggiare il problema di doversi attivare per predisporre tali gare in conformità ai requisiti previsti dalla Direttiva europea cd. “Bolkestein”.

Solo dopo il via libera del Consiglio dei Ministri al DDL Concorrenza, è arrivata la sentenza del Consiglio di Stato, imponendo allo Stato di indire delle gare per l’assegnazione delle concessioni demaniali marittime.

Nella bozza del DDL Concorrenza, si nota come nei prossimi sei mesi si debba concludere un processo di mappatura delle concessioni demaniali marittime. Il provvedimento prevederebbe una delega al Governo per costituire un sistema informativo di rilevazione delle concessioni di beni, al fine di «promuovere la massima pubblicità e trasparenza dei principali dati e delle informazioni relativi a tutti i rapporti concessori». Il decreto legislativo che ne seguirà dovrà, tra l’altro, individuare lungo tutto il territorio nazionale il numero e la tipologia di concessioni balneari, l’entità dei canoni e la storicità dei titoli: la rilevazione dovrà includere «tutti gli atti, i contratti e le convenzioni che comportano l’attribuzione a soggetti privati o pubblici dell’utilizzo in via esclusiva del bene pubblico» e «prevedere la piena conoscibilità della durata, dei rinnovi in favore di un medesimo concessionario, di una società controllata dal concessionario o di un suo familiare diretto, del canone, dei beneficiari, della natura della concessione, dell’ente proprietario e, se diverso, dell’ente gestore, nonché di ogni altro dato utile a verificare la persistenza in favore del medesimo soggetto delle concessioni e la proficuità dell’utilizzo economico del bene in una prospettiva di tutela e valorizzazione del bene stesso nell’interesse pubblico».[1]


[1] Spiagge, decreto concorrenza: gare rinviate, ma governo avvia mappatura concessioni, di Alex Giuzio, 05 novembre 2021, Fonte: MondoBalneare.com

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Sulla sussistenza del delitto di “indebita compensazione”, anche nell’ipotesi di indebita compensazione di debiti di natura non tributaria

Nota a Corte di Cassazione, sez. III, sentenza  (ud. 08/07/2021) 31/08/2021, n.32389

Corrado Spriveri[1]

Estratto:   “Il  delitto  di  indebita compensazione  sussiste anche qualora l’indebito risparmio di imposta, che la norma incriminatrice tende a colpire, non sia limitato al mancato versamento delle imposte dirette o dell’Iva, ma coinvolge necessariamente anche le somme dovute a titolo previdenziale e assistenziale, il cui mancato pagamento, attraverso lo strumento della compensazione effettuata utilizzando crediti inesistenti o non spettanti, determina per il contribuente infedele un analogo risparmio di imposta”.

La Suprema Corte con la sentenza che qui si annota[2] ha ritenuto inammissibile il ricorso proposto dall’imputato affermando, in buona sostanza,  che la fattispecie delittuosa di “Indebita compensazione”, ex art.10-quater decreto legislativo n.74 del 2000[3], sussiste anche qualora l’indebito risparmio di imposta non sia limitato al mancato versamento delle imposte dirette o dell’IVA, ma coinvolge anche le somme dovute a titolo previdenziale e assistenziale, il cui mancato pagamento, attraverso lo strumento della compensazione effettuata utilizzando crediti inesistenti o non spettanti, determina per il contribuente infedele un analogo risparmio di imposta.

La fattispecie delittuosa di “Indebita compensazione”, viene collocata dal legislatore nel novero dei “Delitti in materia di pagamento delle imposte”, poiché la condotta di chi omette il versamento di somme dovute, avvalendosi dell’istituto della compensazione, si traduce esclusivamente in un omesso versamento, non presupponendo alcuna violazione riferita ai contenuti della dichiarazione[4].

Sotto il profilo sanzionatorio la condotta incriminata si realizza attraverso l’omesso versamento di somme dovute avvalendosi dell’istituto della compensazione, in modo scorretto, per un importo superiore a euro cinquantamila – soglia di punibilità –  per ciascun periodo d’imposta; precisamente opponendo in compensazione crediti “inesistenti” ovvero “non spettanti”.

Tale condotta si perfeziona al momento della presentazione del modello di versamento cd. “F24” il quale rileva, tra l’altro, anche ai fini dell’individuazione del giudice competente per territorio, ex art.18 decreto legislativo n.74/2000.

Secondo l’orientamento di una parte della dottrina[5], si tratta di un reato dove può essere assolutamente carente l’intenzione della frode fiscale e, con riferimento al quale, la soglia di punibilità fissata dal legislatore in cinquantamila euro per anno d’imposta (e non modificata con la legge 19 dicembre 2019, n.157) appare francamente troppo bassa.

Come ben precisato dalla Circolare dell’Agenzia delle Entrate n.28/E del 4 agosto 2006, nel caso in cui nel corso di uno stesso periodo d’imposta siano state effettuate compensazioni con crediti “non spettanti” o “inesistenti”, per importi inferiori alla soglia di punibilità, il delitto si perfeziona alla data in cui si procede nel medesimo periodo d’imposta alla compensazione di un ulteriore importo di crediti “non spettanti” o “inesistenti” che, sommato agli importi già utilizzati in compensazione, sia superiore a cinquantamila euro.

L’elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice è il “dolo generico” che si realizza attraverso l’omesso versamento di somme dovute a motivo dell’utilizzazione in compensazione di crediti “non spettanti” o “inesistenti”.

Nel caso di specie, la giurisprudenza di legittimità[6], superando una isolata pronuncia[7], ha, con orientamento oramai consolidato, sancito che “il reato di indebita compensazione di cui al D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10-quater  riguarda  l’omesso versamento di somme di denaro attinente a debiti, sia tributari, sia di altra natura, per il cui pagamento debba essere utilizzato il modello di versamento unitario”.

In buona sostanza, con la sentenza che qui si commenta si è chiarito che in considerazione dell’ampliamento delle ipotesi di compensazione in ambito tributario previste dall’art.17 del decreto legislativo  n.241 del 1997 – a norma del quale i contribuenti che devono eseguire versamenti unificati di imposte, di contributi previdenziali e assistenziali, di premi INAIL e di altre somme a favore dello Stato, delle Regioni, delle Province, dei Comuni e di altri enti possono utilizzare in compensazione i crediti risultanti dalle dichiarazioni fiscali o dalle denunce periodiche contributive –, il reato di indebita compensazione possa configurarsi sia in caso di compensazione “verticale”, riguardante crediti e debiti afferenti alla medesima imposta, sia in caso di compensazione “orizzontale”, concernente crediti e debiti di imposta di natura diversa, in quanto può avere ad oggetto tutte le somme dovute che possono essere inserite nell’apposito modello di versamento F24, incluse quelle relative ai contributi previdenziali e assistenziali[8].

Invero, la Suprema Corte con la pronuncia in commento ravvisa la ratio della disposizione in esame, nella necessità di punire tutti quei comportamenti che si concretizzano, in realtà, nell’omesso versamento del dovuto e nel conseguimento di un indebito risparmio di imposta mediante l’indebito ricorso al meccanismo della compensazione tributaria, ossia attraverso la materiale redazione di un documento ideologicamente falso idoneo a prospettare una compensazione che non avrebbe potuto avere luogo, o per la non spettanza o per l’inesistenza del credito.

Da qui l’irrilevanza della natura dei debiti compensati dall’imputato che possono, ai fini della rilevanza penale,  essere anche di natura previdenziale oltre che di natura tributaria.

IL CASO:

Con sentenza del 15 ottobre 2020, la Corte d’appello di Campobasso in parziale riforma della sentenza

del Tribunale di Larino, in accoglimento dell’appello del Procuratore generale, ha disposto l’applicazione delle pene accessorie di cui al D.lgs. 10 marzo 2000, n.74, art.12, ed ha confermato la sentenza del Tribunale di Larino di condanna dell’imputato, alla pena di anni uno e mesi tre di reclusione, in relazione ai reati di cui al D.lgs. 10 marzo 2000, n.74, art.10 quater (capi a) e b) per avere, quale legale rappresentante della Marina S.r.l. omesso di versare somme dovute utilizzando in compensazione, ai sensi del D.lgs. n.241 del 1997, art.17, crediti inesistenti per un ammontare complessivo pari a Euro 131.238,00 per l’anno 2011 e Euro 129.068,00 per l’anno 2012 e di cui al D.lgs. 10 marzo 2000, n.74, art.10 (capo d) per avere occultato le scritture contabili e i documenti di cui è obbligatoria la conservazione in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi, al fine di evadere le imposte, accertato il 21/01/2014.

Avverso la sentenza di condanna ha presentato ricorso l’imputato, a mezzo del difensore di fiducia, e ne ha chiesto l’annullamento deducendo i seguenti motivi di ricorso:

  • violazione di cui all’art.606 c.p.p., comma 1, lett. b) in relazione all’erronea applicazione della legge penale segnatamente il D.lgs. 10 marzo 2000, n.74, art.10 quater.  

La corte territoriale avrebbe ritenuto sussistente il reato contestato sull’unico presupposto della ricorrenza di alcune fatture di importi notevoli che avrebbero generato operazioni in contestazione, fatture che in sede di verifica fiscale non venivano adeguatamente dimostrate con altra documentazione contabile.

Tale conclusione si porrebbe in contrasto con le pronunce della corte di legittimità laddove ha espresso il principio secondo cui l’indebita compensazione deve risultare dal mod. F24 di cui nel caso in esame non vi è prova che fosse stato effettivamente compilato e presentato e ciò in quanto è la compensazione che esprima la componente decettiva o di frode insista nella fattispecie in questione.

  • violazione di cui all’art.606 c.p.p., comma 1, lett. e) in relazione alla contraddittorietà della motivazione della corte territoriale rispetto a quella del Tribunale che aveva ritenuto che i crediti portati in compensazione erano crediti Iva, mentre la corte territoriale ha ritenuto che la compensazione riguardasse debiti previdenziali e assicurativi.
  • violazione di cui all’art.606 c.p.p., comma 1, lett. b) in relazione all’erronea applicazione della legge penale segnatamente il D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10.

La corte territoriale avrebbe reso una motivazione insufficiente limitandosi a ribadire la responsabilità penale dell’imputato limitandosi a rilevare il mancato reperimento nella sede legale della documentazione contabile, senza provare che la documentazione contabile, di cui si assume l’occultamento o la distruzione, sia stata istituita.

  • violazione di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) in relazione alla violazione del canone della condanna al di là del ragionevole dubbio.

MOTIVI DELLA DECISIONE:

Il ricorso è inammissibile per la proposizione di censure generiche e comunque meramente ripetitive di

quelle già devolute al giudice dell’impugnazione e da quel giudice disattese con motivazione congrua, il che costituisce causa di inammissibilità.

Deve, in primo luogo, rammentarsi il principio secondo il quale quando le sentenze di primo e secondo grado concordano nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complessivo corpo argomentativo, sicché è possibile, sulla base della motivazione della sentenza di primo grado colmare eventuali lacune della sentenza di appello (Sez.4, n.15227 del 14/02/2008, Rv. 239735).

Il ricorso non si confronta con la sentenza impugnata che, sulla scorta della deposizione testimoniale del dipendente dell’Agenzie delle Entrare di Termoli, che aveva effettuato gli accertamenti nei confronti dell’imputato compendiati nel verbale di constatazione in data 20/02/2014, verbale acquisito su accordo delle parti dopo l’assunzione della testimonianza del collega accertatore I., ha ritenuto dimostrato che l’imputato, legale rappresentate della Marina S.r.l., aveva utilizzato in compensazione a debiti derivanti da fatture e debiti Irap della società, crediti Iva superiori a Euro 7.500,00 negli anni di imposta 2011 e 2012, limitandosi a produrre solo alcune fatture di acquisto e di vendita e omettendo di esibire i registri Iva e tutta la restante documentazione prevista dalla legge ai sensi del d.P.R. n.600 del 1973, art.14 e riteneva dimostrata l’inesistenza di siffatti crediti sul rilievo dell’inesistenza della documentazione contabile non prodotta e sul fatto che all’indirizzo indicato come sede sociale della società emittente vi era una stalla e la società risultava in liquidazione.

Ora il ricorrente ripropone la censura già devoluta mettendo in dubbio la stessa esistenza del mod. F24, censura che non coglie nel segno dal momento che il controllo dell’Agenzia delle Entrate era stato proprio, e necessariamente, effettuato su tale modello nel quale era stata rilevata la compensazione di debiti con crediti Iva inesistenti, né il ricorrente deduce il travisamento della prova. Da cui la manifesta infondatezza del motivo.

Anche il secondo motivo è inammissibile. La giurisprudenza di legittimità, superando una isolata pronuncia (n.380342/2019), ha, con orientamento oramai consolidato, affermato che il reato di indebita compensazione di cui al D.lgs. 10 marzo 2000, n.74, art.10-quater riguarda l’omesso versamento di somme di denaro attinente a debiti, sia tributari, sia di altra natura, per il cui pagamento debba essere utilizzato il modello di versamento unitario (Sez. 3, n.389 del 18/09/2020) Rv. 280776 – 01).

Si è chiarito che in considerazione dell’ampliamento delle ipotesi di compensazione in ambito tributario previste dal D.lgs. n.241 del 1997, art.17 – a norma del quale i contribuenti che devono eseguire versamenti unificati di imposte, di contributi previdenziali e assistenziali, di premi INAIL e di altre somme a favore dello Stato, delle Regioni, delle Province, dei Comuni e di altri enti possono utilizzare in compensazione i crediti risultanti dalle dichiarazioni fiscali o dalle denunce periodiche contributive – l’orientamento prevalente di questa Corte, richiamato come tale anche nella sentenza n.35 del 2018 della Corte costituzionale, ha ritenuto che il reato di indebita compensazione possa configurarsi sia in caso di compensazione “verticale”, riguardante crediti e debiti afferenti alla medesima imposta, sia in caso di compensazione “orizzontale”, concernente crediti e debiti di imposta di natura diversa, in quanto può avere ad oggetto tutte le somme dovute che possono essere inserite nell’apposito modello F24, incluse quelle relative ai contributi previdenziali e assistenziali.

Tale giurisprudenza ravvisa la ratio della disposizione in esame nella necessità di punire tutti quei comportamenti che si concretizzano in realtà nell’omesso versamento del dovuto e nel conseguimento di un indebito risparmio di imposta mediante l’indebito ricorso al meccanismo della compensazione tributaria, ossia attraverso la materiale redazione di un documento ideologicamente falso idoneo a prospettare una compensazione che non avrebbe potuto avere luogo, o per la non spettanza o per l’inesistenza del credito.

Ed è evidente che, in questa prospettiva, l’indebito risparmio di imposta che la norma incriminatrice tende a colpire non può essere limitato al mancato versamento delle imposte dirette o dell’Iva, ma coinvolge necessariamente anche le somme dovute a titolo previdenziale e assistenziale, il cui mancato pagamento, attraverso lo strumento della compensazione effettuata utilizzando crediti inesistenti o non spettanti, determina per il contribuente infedele un analogo risparmio di imposta (ex plurimis, Sez. 3 n. 13149 del 03/03/2020, Rv. 279118; Sez.3, n. 5934 del 12/09/2018, Rv. 275833; Sez.3, n. 8689 del 30/10/2018, Rv. 275015; 4/02/2015, n. 5177; Sez.3, n. 15236 del 16/01/2015).

Da qui l’irrilevanza della natura dei debiti compensati che possono essere anche di natura previdenziale

oltre che di natura tributaria e della diversa indicazione contenuta nella sentenza impugnata sulla natura dei crediti rispetto alla sentenza di primo grado (pag. 3), essendo tutti debiti compensati con crediti inesistenti.

Infine, di carattere generico è il terzo motivo di ricorso non confrontandosi con la decisione impugnata nella parte in cui ha dato atto che era predisposta una qualche documentazione contabile, circostanza, peraltro, confermata dalla sentenza di primo grado dal momento che erano state prodotte dall’imputato alcune fatture di acquisito e di vendita (pag. 3). La censura che genericamente si appunta sulla mancata

motivazione sul presupposto dell’istituzione della documentazione contabile, di cui si assume l’occultamento o la distruzione, è inammissibile.

È noto che la condotta del reato de quo non può sostanziarsi in un mero comportamento omissivo, ossia il non avere tenuto le scritture in modo tale che sia stato obbiettivamente più difficoltosa – ancorché non impossibile – la ricostruzione ex aliunde ai fini fiscali della situazione contabile, ma richiede, per l’integrazione della fattispecie penale, un quid pluris a contenuto commissivo consistente nell’occultamento ovvero nella distruzione di tali scritture.

Nel caso in esame, contrariamente a quanto assume il ricorrente, la Corte territoriale è pervenuta all’affermazione della responsabilità penale in ordine al delitto di cui all’art.10 cit. con motivazione logica, aderente al dato probatorio e giuridicamente corretta alla luce dell’interpretazione della norma incriminatrice di cui sopra.

La sentenza impugnata dà rilievo all’accertata circostanza dell’esistenza di fatture attive e passive e della mancata produzione in sede di accertamento, da cui l’affermazione della responsabilità penale al di là del ragionevole dubbia come genericamente sostenuto nell’ultimo motivo di ricorso che è, anch’esso, inammissibile per genericità.

Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali ai sensi dell’art.616 c.p.p.

Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n.186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

In definitiva, con la sentenza che qui si annota la Suprema Corte con motivazione logica aderente al dato probatorio e alla luce dell’interpretazione della norma incriminatrice, come meglio ut supra  descritta, ha statuito, in buna sostanza, che  “Il  delitto  di  indebita compensazione  sussiste anche qualora l’indebito risparmio di imposta, che la norma incriminatrice tende a colpire, non sia limitato al mancato versamento delle imposte dirette o dell’Iva, ma coinvolge necessariamente anche le somme dovute a titolo previdenziale e assistenziale, il cui mancato pagamento, attraverso lo strumento della compensazione effettuata utilizzando crediti inesistenti o non spettanti, determina per il contribuente infedele un analogo risparmio di imposta”.


[1] Avvocato.

Per un approfondimento sulla disciplina del diritto penale tributario: Corrado Spriveri, “Il sistema penale tributario in Italia. Dalla teoria alla prassi applicativa, alla luce delle novità  introdotte dal c.d. Decreto Fiscale (d.l. n. 124/2019 convertito con modificazioni dalla legge n. 157/2019)”, Bari, Cacucci, 2020.

[2] Corte di Cassazione, sez. III, sentenza  31/08/2021, n. 32389.

[3] L’art.10-quater del decreto legislativo n. 74/2000, rubricato: “Indebita compensazione”, prevede che “1. È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti non spettanti, per un importo annuo superiore a cinquantamila euro. 2. È punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti inesistenti per un importo annuo superiore ai cinquantamila euro”. Testo normativo con le modifiche introdotte dal decreto legislativo n. 158/2015, in vigore dal 22 ottobre 2015.

[4] N. Pollari F. Loria, “Elementi di diritto repressivo tributario”, pag..54.

[5] R. Fanelli, “Sanzioni fiscali, previdenziali e societarie”, pag..814.

[6] Corte di Cassazione, sez. III, sentenza 18/09/2020, n.389.

[7]  Corte di Cassazione, sentenza  n. 380342/2019.

[8] Si veda in proposito: Corte Costituzionale,  sentenza n.35 del 2018.

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Sulla sussistenza del delitto di dichiarazione infedele anche nell’ipotesi in cui l’evasione d’imposta riguardi redditi di derivazione illecita

NOTA A  SENTENZA

Corte di Cassazione, penale, sez. III, sentenza del 14/02/2020 (ud. 14/02/2020, dep. 19/06/2020) n.18575

Corrado Spriveri[1]

Estratto:   “Il  delitto  di  dichiarazione infedele sussiste anche qualora l’evasione di imposta riguardi redditi di derivazione illecita, salvo che i relativi proventi siano stati assoggettati  alla misura cautelare del sequestro preventivo, ovvero alla confisca penale, nel medesimo periodo d’imposta in cui si è verificato il presupposto impositivo, dal momento che solo in tale ipotesi i provvedimenti ablatori determinano, in relazione al principio della capacità contributiva di cui all’art.53 della Costituzione, una riduzione del reddito imponibile”     

La Suprema Corte con la sentenza in commento[2] ha ritenuto inammissibile il ricorso proposto dal ricorrente affermando che la fattispecie delittuosa di “Dichiarazione infedele”, ex art.4 decreto legislativo n.74 del 2000[3], sussiste anche nel caso in cui l’evasione d’imposta riguardi redditi di derivazione illecita,salvo che i relativi proventi siano stati assoggettati alla misura cautelare del sequestro preventivo, ovvero alla confisca penale, nel medesimo periodo d’imposta in cui si è verificato il presupposto impositivo, nella considerazione che solo in tale ipotesi i provvedimenti ablatori determinano, in relazione al principio della capacità contributiva[4], una riduzione del reddito imponibile.

La difesa dell’imputato ritiene, invece, che la Corte d’appello non avrebbe considerato che l’art.36, comma 34-bis del decreto legge n.223 del 2006, ha ampliato la nozione di “reddito diverso” di cui all’art.14, comma 4 della legge n.537 del 1993,  ricomprendendovi i proventi derivanti da illecito, ma ha lasciato inalterata la restante disciplina del citato comma 4, che contempla, quale presupposto della sottoposizione ad imposta dei redditi diversi provenienti da illecito, che gli stessi non siano stati sottoposti a sequestro o a confisca penale[5].

Ora, poiché il reddito indebitamente percepito dal ricorrente è stato oggetto di sequestro e di confisca penale mancherebbe, secondo la difesa dell’imputato, il presupposto per la tassazione del reddito stesso come proveniente da delitto e non sussisterebbe, di conseguenza, il reato fiscale.

Secondo la Suprema Corte[6], invece, fermo restando che a mente dell’art.14, comma 4 della legge n.537/1993, potrà ritenersi integrato il reato di “dichiarazione infedele”, ex art.4 d.lgs. n.74/2000, qualora l’evasione di imposta riguardi redditi di derivazione illecita; la seconda parte del citato articolo individua una condizione negativa di imponibilità nell’ipotesi di spossessamento dei proventi illeciti che avvenga per effetto di sequestro o  confisca penale.

Invero, secondo il Supremo Collegio la  non imponibilità dei redditi di derivazione illecita è subordinata alla circostanza che il provvedimento ablatorio sia intervenuto nello stesso periodo di imposta cui il provento si riferisce.

In altri termini, il sequestro e la confisca dei proventi sono opponibili al fisco purché intervengano nel medesimo periodo in cui si è verificato il presupposto imponibile, dal momento che solo in questa ipotesi detti provvedimenti determinano, dal punto di vista fiscale e in relazione al principio della capacità contributiva di cui all’art.53 della Costituzione, una riduzione del reddito.

Viceversa, il sequestro o  confisca penale non assumono alcuna rilevanza qualora siano disposti, come nel caso di specie, contestualmente alla sentenza di condanna di primo grado, come ulteriore conseguenza sanzionatoria della fattispecie delittuosa di “dichiarazione infedele” imposta, ai sensi dell’art.12-bis  del decreto legislativo n.74/2000[7], a notevole distanza di tempo dalla consumazione del reato.

IL CASO:

Con sentenza del 17 luglio 2017, il Tribunale di Genova ha condannato l’imputato alla pena – condizionalmente sospesa –  di mesi dieci di reclusione, per il reato di cui al D.Lgs. n.74 del 2000, art.4, per avere omesso di indicare, nella dichiarazione dei redditi relativa all’anno 2011, elementi attivi di reddito pari a Euro 1.301.704,00 provenienti dai delitti di cui all’art.646 c.p. ai danni del partito “(OMISSIS)”, con un’imposta IRPEF evasa di Euro 559.732,00, disponendo la confisca per equivalente fino alla concorrenza dell’ammontare dell’imposta evasa.

Con sentenza del 15 febbraio 2019, la Corte d’appello di Genova, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale, rideterminando in Euro 649.787,67 gli elementi attivi di reddito e in Euro 279.408,70 l’imposta IRPEF evasa, ha ridotto a tale somma la confisca disposta con la precedente sentenza e a nove mesi di reclusione la pena inflitta all’imputato.

Avverso la sentenza della Corte d’appello l’imputato, tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.

Con una prima doglianza, si deducono la violazione del D.L. n. 223 del 2006, art. 36, comma 34-bis e L. n.537 del 1993, art.14, nonché vizi di motivazione relativamente alla determinazione del reddito imponibile.

A parere della difesa, la Corte d’appello non avrebbe considerato che il D.L. n.223 del 2006, art. 36, comma 34-bis, ha ampliato la nozione di “reddito diverso” di cui alla L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4, ricomprendendovi i proventi derivanti da illecito, ma ha lasciato inalterata la restante disciplina del citato comma 4, che contempla, come presupposto della sottoposizione ad imposta dei redditi diversi provenienti da illecito, che gli stessi non siano stati sottoposti a sequestro o a confisca penale.

Nel caso di specie, dal momento che il reddito indebitamente percepito dall’imputato è stato oggetto di sequestro e di confisca, mancherebbe il presupposto per la tassazione del reddito stesso come proveniente da delitto e non sussisterebbe, di conseguenza, il reato fiscale.

Con un secondo motivo di ricorso, si lamentano la violazione dell’art.522 c.p.p. e il vizio di motivazione con riferimento alla provenienza della somma oggetto dell’imputazione, in quanto il giudice di secondo grado avrebbe eluso l’argomentazione difensiva, volta a evidenziare la mancanza di prova della condotta di appropriazione indebita, e avrebbe violato il principio di correlazione tra accusa e sentenza, nella parte in cui ha affermato che l’eventuale esclusione della provenienza delittuosa delle somme oggetto di evasione fiscale non ostacola la configurazione del reato di dichiarazione infedele.

La decisione sarebbe altresì contraddittoria dal momento che il giudice, dopo avere formulato tale dichiarazione di principio, avrebbe dato per presupposta l’illecita provenienza delle somme di denaro percepite dall’imputato, riconducendole alla categoria di “redditi diversi”, piuttosto che verificarne in concreto la natura e i limiti di assoggettabilità a imposizione fiscale.

In terzo luogo, si deducono la violazione di legge in ordine alla determinazione dell’aliquota applicabile al reddito oggetto di evasione fiscale e il vizio di motivazione, dal momento che i giudici di secondo grado, piuttosto che applicare l’aliquota reale, corrispondente a quella che il contribuente avrebbe pagato ove il reddito fosse stato ricompreso nella dichiarazione, si sarebbero limitati ad applicare la percentuale di tassazione prevista dallo scaglione di reddito più alto (il 43%).

Inoltre – sostiene la difesa – andrebbero scorporate dall’importo complessivo presuntivamente evaso dall’imputato, le seguenti somme di denaro, non oggetto di condotte appropriative da parte dello stesso: a) Euro 60.000,00 come pagamento dell’avv. Scovazzi, avendo quest’ultimo percepito la diversa somma di Euro 6.000,00; b) Euro 51.000,00, non oggetto della dichiarazione dei redditi relativa all’anno 2011 perché in realtà riferiti all’anno 2010; c) Euro 100.000,00, impiegati per un investimento del partito e già riconsegnati. Cosicché, tenendo conto di tali detrazioni e applicando l’aliquota reale, l’ammontare dell’imposta evasa dal contribuente sarebbe stato al di sotto della soglia di punibilità di Euro 150.000,00 prevista dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, comma 1, lett. a).

Con una quarta doglianza, si lamentano la violazione di legge in relazione al calcolo del reddito imponibile e il vizio di motivazione, sul rilievo che la totale inattendibilità dei documenti contabili denunciata dalla difesa con l’atto di appello – e dimostrata dall’anomala presenza nella cassa del partito di un saldo negativo di Euro 327.789,00 – impediva di avere contezza delle somme oggetto di appropriazione indebita tassabili, secondo la normativa fiscale, quali redditi diversi. Inoltre, sarebbe stata pretermessa dalla Corte d’appello la circostanza emersa negli accertamenti peritali di C. e M. relativa all’esistenza in cassa di un saldo positivo di Euro 338.000,00, che avrebbe imposto, in ogni caso, di procedere nuovamente al calcolo degli importi oggetto di appropriazione indebita. Per la difesa, infatti, scomputando tale somma dall’ammontare ritenuto oggetto di illecita appropriazione (Euro 649.787,67) e applicando al ricavato il coefficiente del 43%, l’importo evaso (Euro 134.068,69) risulterebbe inferiore alla soglia di punibilità di cui al D.Lgs. n.74 del 2000, art. 4, e ciò non consentirebbe di configurare l’illecito penale.

MOTIVI DELLA DECISIONE:

Il ricorso è inammissibile, risultando le censure sollevate in parte generiche e in parte manifestamente infondate. Il primo motivo, con il quale si deduce l’impossibilità di sottoporre a tassazione, ai sensi della L. n.537 del 1993, art. 14, comma 4, il reddito che sia stato confiscato o sequestrato, è inammissibile, avendo ad oggetto violazioni di legge non dedotte nei motivi di appello.

La circostanza che nelle precedenti sedi processuali non era stato formulato alcun rilievo concernente il sequestro e la confisca dei proventi, conferisce, infatti, alla censura carattere assolutamente nuovo e ne preclude l’esame in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 2. In ogni caso, tale deduzione risulta manifestamente infondata. Deve rilevarsi, sul punto, che la L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4, dispone che, “nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con cit. D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale”.

Fermo restando, dunque, che potrà ritenersi integrato il reato di dichiarazione infedele di cui al D.Lgs. n.74 del 2000, art.4 qualora l’evasione di imposta riguardi redditi di derivazione illecita, la seconda parte del citato articolo individua una condizione negativa di imponibilità nell’ipotesi di spossessamento dei proventi illeciti che avvenga per effetto di sequestro o confisca. L’operatività di tale meccanismo, secondo l’interpretazione data alla norma dalla costante giurisprudenza di legittimità, è tuttavia subordinata alla circostanza che il provvedimento ablatorio sia intervenuto nello stesso periodo di imposta cui il provento si riferisce. Il sequestro e la confisca dei proventi, in altri termini, sono opponibili al fisco purché intervengano nel medesimo periodo in cui si è verificato il presupposto imponibile, dal momento che solo in questa ipotesi detti provvedimenti ablatori determinano, dal punto di vista fiscale e in relazione al principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., una riduzione del reddito. Per converso, nessuna rilevanza assume l’apposizione di tali vincoli qualora sia disposta, come nel caso di specie, contestualmente alla sentenza di condanna di primo grado, come ulteriore conseguenza sanzionatoria del reato di dichiarazione infedele imposta dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12-bis, a notevole distanza di tempo dalla consumazione del reato (ex plurimis, Cass. civ., Sez. 5, n. 28375 del 05/11/2019, Rv. 655895; Cass. civ., Sez. 5, n. 28519 del 20/12/2013, Rv. 629332; Cass. pen., Sez. 5, n. 7411 del 19/11/2009, Rv. 246095).

Il secondo motivo, con il quale si deduce l’insussistenza del reato di appropriazione indebita, è parimenti inammissibile perché formulato in termini non specifici. Deve, infatti, ricordarsi che sono inammissibili per genericità i motivi che riproducono e reiterano gli stessi rilievi prospettati con l’atto di appello, motivatamente respinti in secondo grado, e non si confrontano criticamente con le argomentazioni utilizzate nel provvedimento impugnato, limitandosi a lamentare una presunta carenza o illogicità della motivazione (ex plurimis, Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, Rv. 276970). Nel caso di specie, il giudice di secondo grado giunge ad affermare che, seppure si ipotizzasse come verosimile la tesi difensiva della natura non delittuosa dei proventi corrisposti all’imputato dalla (OMISSIS) come rimborsi elettorali, tali somme potrebbero essere al più qualificate come compensi di fatto percepiti dall’imputato per il suo operato; con la conseguenza che, in ogni caso, l’eventuale accertamento circa tale diversa provenienza del denaro non avrebbe fatto venir meno la configurabilità del reato di dichiarazione infedele, consistente, nel caso per cui si procede, nell’omessa dichiarazione di elementi attivi di reddito conseguiti nel corso dell’anno 2011. Né tantomeno tale eventuale diversa qualificazione – come ben evidenziato nell’impugnata pronuncia – viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza, che va valutato in relazione all’identità del fatto contestato e sempre nell’ottica di garantire l’esercizio del diritto di difesa da parte del ricorrente, comunque pienamente assicurato nel caso di specie. Deve rilevarsi, del resto, che il ricorrente, a fronte del coerente e logico percorso motivazionale seguito dal giudice di secondo grado, si limita a formulare censure meramente ipotetiche, senza mai indicare il presunto titolo che legittimerebbe il percepimento delle somme o, per converso, la circostanza del loro mancato percepimento.

Il terzo motivo, con il quale si lamentano l’erronea applicazione dell’aliquota massima nonché il mancato superamento della soglia di punibilità ex D.Lgs. n.74 del 2000, art. 4, è inammissibile, perché incentrato su elementi nuovi, non dedotti nel giudizio di appello. Infatti, il rilievo concernente la determinazione della percentuale di tassazione cui sottoporre il reddito percepito dall’imputato – su cui si basa la prospettazione di parte ricorrente – è stato proposto per la prima volta nel giudizio di legittimità. Le deduzioni difensive risultano, comunque, del tutto destituite di fondamento, dal momento che la somma oggetto di dichiarazione dei redditi dell’imputato per l’anno di imposta 2011 era pari ad Euro 175.884,00 e che per il reddito riconducibile all’ultimo scaglione, il cui ammontare sia quindi superiore ad Euro 75.000,00, trova comunque applicazione un’aliquota IRPEF pari al 43%, con conseguente superamento della soglia di punibilità.

Il quarto motivo, con il quale si deducono l’inattendibilità dei documenti contabili nonché l’insufficiente valutazione delle relazioni peritali, è inammissibile in quanto genericamente riferito a profili fattuali. Il ricorrente, infatti, pur attraverso una formale denuncia di violazione di legge e vizio di motivazione, mira ad ottenere una rivalutazione delle risultanze peritali che costituisce giudizio di fatto, incensurabile dinnanzi alla Corte di cassazione, se logicamente e congruamente motivato, come nel caso di specie. Ed invero, dall’accertamento da parte dei periti dell’esistenza in cassa di un saldo negativo di Euro 327.789, ritenendo non plausibile l’impiego di somme di denaro in eccedenza rispetto a quelle effettivamente disponibili, la Corte d’appello ha ragionevolmente desunto la totale inattendibilità delle annotazioni di cassa riguardanti la gestione contabile dei fondi della (OMISSIS). Sulla base di tali considerazioni ha ritenuto di escludere dai redditi non dichiarati tutte le somme di denaro delle quali non è stato possibile accertare l’impiego a favore dell’imputato stesso o di terzi, così rideterminando, e riducendo proporzionalmente, l’ammontare dell’imposta evasa dall’imputato. E lo stesso ricorrente, nell’invocare l’omessa valutazione, da parte dei giudici di secondo grado, del contenuto delle relazioni tecniche, ammette e sostiene l’assoluta inattendibilità dei conti di cassa la quale, facendo emergere una discrasia tra il dichiarato e ciò che è stato realmente percepito e determinando, di conseguenza, un’obiettiva situazione di incertezza in ordine alle rappresentazione delle somme ivi contabilizzate, costituisce indizio rilevante del reato di dichiarazione infedele.

Il ricorso, per tali motivi, deve essere dichiarato inammissibile. Alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art.616 c.p.p., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 2.000,00.

In definitiva, con la sentenza n.18575/2020 la Suprema Corte ha statuito che  “il  delitto  di  dichiarazione infedele sussiste anche qualora l’evasione di imposta riguardi redditi di derivazione illecita, salvo che i relativi proventi siano stati assoggettati  alla misura cautelare del sequestro preventivo, ovvero alla confisca penale, nel medesimo periodo d’imposta in cui si è verificato il presupposto impositivo, dal momento che solo in tale ipotesi i provvedimenti ablatori determinano, in relazione al principio della capacità contributiva di cui all’art.53 della Costituzione, una riduzione del reddito imponibile”.          

   

[1] Avvocato.

Per un approfondimento sulla disciplina del diritto penale tributario: Corrado Spriveri, “Il sistema penale tributario in Italia. Dalla teoria alla prassi applicativa, alla luce delle novità  introdotte dal c.d. Decreto Fiscale (d.l. n. 124/2019 convertito con modificazioni dalla legge n. 157/2019)”, Bari, Cacucci, 2020.

[2] Corte di Cassazione, pen., sez. III, sentenza del 19 giugno 2020, n.18575.

[3] L’art.4 del decreto legislativo n. 74 del 2000 rubricato: “Dichiarazione infedele”, prevede che “1. Fuori dei casi previsti dagli articoli 2 e 3, è punito con la reclusione da due a quattro anni e sei mesi chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti, quando, congiuntamente: a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro centomila; b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, è superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a euro due milioni. 1-bis. Ai fini dell’applicazione della disposizione del comma 1, non si tiene conto della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali. 1-ter. Fuori dei casi di cui al comma 1-bis, non danno luogo a fatti punibili le valutazioni che complessivamente considerate, differiscono in misura inferiore al 10 per cento da quelle corrette. Degli importi compresi in tale percentuale non si tiene conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità previste dal comma 1, lettere a) e b”. Testo in vigore dal 25 dicembre 2019.

[4] Ci si riferisce all’art.53 della Costituzione “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.  Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Il dovere di concorrere a sostenere la spesa statale è espressione di un generale dovere di solidarietà – art.2  della Costituzione -, cioè dell’obbligo di contribuire ad assicurare eguaglianza  – art. 3 della Costituzione –  ed a creare un sistema in grado di prevedere dei servizi per tutti, anche i meno abbienti. Proprio per questo il legislatore  stabilì che tale dovere dovesse essere adempiuto sulla base di criteri di progressività.

[5]L’art.14, comma 4 della legge n.537 del 1993 dispone che “nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con cit. D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale”.

[6] Corte di Cassazione, civ., sez. V, sentenza 5 novembre 2019, n.28375; Corte di Cassazione, civ., sez. V, sentenza 20 dicembre 2013,  n.28519; Corte di Cassazione, pen., sez. V, sentenza 19  novembre 2009, n.7411.

[7] L’art.12-bis del decreto legislativo n.74 del 2000 rubricato “Confisca” prevede che “Nel caso di condanna o di applicazione della pena  su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura  penale per uno dei delitti previsti dal presente decreto, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto  o  il  prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato,  ovvero,  quando essa non è possibile, la confisca di beni,  di  cui  il  reo  ha  la disponibilità,  per  un  valore  corrispondente  a  tale  prezzo  o profitto.    2. La confisca non opera  per  la  parte  che  il  contribuente  si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro. Nel caso di mancato versamento la confisca è sempre disposta”.

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La decisione di pagare prima gli stipendi non esclude per l’imprenditore l’accusa di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto

Nota a Corte di Cassazione penale, Sez. III, sentenza 28/01/2020 n. 8519

Sulla responsabilità dell’imprenditore che concluda di pagare prima gli stipendi ai propri dipendenti anziché versare l’imposta sul valore aggiunto in violazione all’art.10-ter del decreto legislativo n.74/2000

Corrado Spriveri[1]

Secondo la Suprema Corte l’imprenditore che decida di pagare prima gli stipendi ai propri dipendenti non può essere esonerato dalla responsabilità dell’omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, ex art. 10-ter decreto legislativo n.74/2000[2].

Invero, l’omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto non può essere giustificato, ai sensi dell’art.51 c.p., dal pagamento degli stipendi dei lavoratori dipendenti, posto che l’ordine di preferenza in tema di crediti prededucibili, che impone l’adempimento prioritario dei crediti da lavoro dipendente – ex art.2777 c.c. – rispetto ai crediti erariali – ex art. 2778 c.c. –, vige nel solo ambito delle procedure esecutive e fallimentari e non può essere richiamato in contesti diversi, ove non opera il principio della “par condicio creditorum”, al fine di escludere l’elemento soggettivo del reato[3].

In conseguenza di ciò, non rileva quale causa di forza maggiore per il legale rappresentante di un’impresa lo stato di dissesto imputabile alla precedente gestione, quando risulta che l’agente al momento del suo subentro nella carica aveva la consapevolezza della crisi di liquidità e non era nell’impossibilità a lui non ascrivibile di intraprendere alcuna iniziativa per fronteggiare tale situazione[4].

Ragion per cui, nel reato di “omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto”, ed ai fini dell’esclusione dell’elemento soggettivo (dolo generico), è irrilevante la crisi di liquidità del debitore alla scadenza del termine fissato per il pagamento, a meno che non venga dimostrato che siano state adottate tutte le iniziative per provvedere alla corresponsione del tributo[5].

Secondo il Supremo Collegio, la causa di forza maggiore sussiste solo e in tutti quei casi in cui la realizzazione dell’evento stesso o la consumazione della condotta antigiuridica è dovuta all’assoluta ed incolpevole impossibilità dell’agente di uniformarsi al comando, e non può quindi ricollegarsi in alcun modo ad un’azione od omissione cosciente e volontaria dell’agente.

In definitiva, nei reati omissivi integra la causa di forza maggiore l’assoluta impossibilità e non la semplice difficoltà di porre in essere il comportamento omesso[6].

IL CASO:

Con sentenza del 30 maggio 2019 la Corte di Appello di Milano ha confermato la sentenza del 3 ottobre 2018 del Tribunale di Lodi, in forza della quale C.U., nella qualità di legale rappresentante della s.r.l. (OMISSIS) corrente in (OMISSIS), è stato condannato – unitamente alle sanzioni accessorie – alla pena, sospesa, di mesi quattro di reclusione per il reato di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10-ter, in relazione all’annualità 2010, per un ammontare complessivo di Euro 486.689 di imposta non versata.

Avverso la predetta decisione è stato proposto ricorso per cassazione articolato su quattro motivi di impugnazione ed un motivo aggiunto (col quale peraltro è stata modificata nel 27 giugno 2019, in luogo dell’erronea indicazione del 27 maggio 2019, la data dell’eccepita prescrizione, questione già proposta in via preliminare in sede di impugnazione).

Col primo motivo il ricorrente ha dedotto l’illogicità della motivazione in merito alla sussistenza dell’elemento intenzionale della condotta. In particolare, non contestata ovviamente la piena conoscenza del debito Iva, la scelta di pagare i dipendenti – aventi grado poziore rispetto al credito fiscale – era stata dettata dal tentativo di non fermare l’attività e quindi di non avere la possibilità di pagare i debiti pregressi, mentre la scelta del mancato accantonamento avrebbe dovuto semmai essere addebitata al precedente amministratore.

Col secondo motivo, quanto alla violazione di legge in ordine all’accettazione del rischio dell’evento, poteva al più sostenersi che il ricorrente avesse il dubbio, al momento dell’accettazione della carica, di non essere in grado di fare fronte al debito, ma non poteva essere affermato che egli avesse certezza dell’evento accettandone il rischio. Sì che l’imputato doveva essere assolto perché il fatto non costituiva reato.

Col terzo motivo è stata dedotta la mancanza di motivazione circa il rilievo che il reato contestato richiedeva, in tal modo aderendo al prospettato evento, l’effettiva volontà di omettere il versamento dell’Iva dovuta.

Col quarto motivo è stata dedotta l’erronea applicazione della legge penale, atteso il dubbio sulla sussistenza di possibili alternative rispetto all’affermazione dell’elemento intenzionale. Al contrario, il provvedimento impugnato non aveva considerato se la sussistenza dell’elemento intenzionale fosse certa oltre ogni ragionevole dubbio, non argomentando al riguardo.

Il Procuratore generale ha concluso nel senso dell’inammissibilità del ricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE:

Il ricorso è inammissibile. In via preliminare, va in sé condiviso il rilievo contenuto nel motivo aggiunto, sì che in effetti il termine di prescrizione del reato andava correttamente fissato nel 27 giugno 2019. In concreto, peraltro, la correzione è ininfluente ai fini del giudizio (v. infra).

Per quanto riguarda l’impugnazione complessivamente proposta (i cui motivi possono essere esaminati congiuntamente stante la loro sostanziale sovrapponibilità), e tenuto conto che non vi è naturalmente questione circa il mancato tempestivo pagamento dell’imposta dovuta, già la Corte territoriale aveva osservato che risponde altresì del reato di omesso versamento di IVA, quantomeno a titolo di dolo eventuale, il soggetto che, subentrando ad altri nella carica di amministratore o liquidatore di una società di capitali dopo la presentazione della dichiarazione di imposta e prima della scadenza del versamento, omette di versare all’Erario le somme dovute sulla base della dichiarazione medesima, senza compiere il previo controllo di natura puramente contabile sugli ultimi adempimenti fiscali, in quanto attraverso tale condotta lo stesso si espone volontariamente a tutte le conseguenze che possono derivare da pregresse inadempienze (Sez. 3, n. 34927 del 24/06/2015, Alfieri, Rv. 264882; Sez. 3, n. 38687 del 04/06/2014, Decataldo, Rv. 260390; Sez. 3, n. 3636 del 09/10/2013, dep. 2014, Stocco, Rv. 259092). In specie, a maggior ragione, all’odierno ricorrente risale anzi la stessa presentazione della dichiarazione fiscale, e quindi ben conosciuto doveva essere l’obbligo fiscale (nè, per vero, il ricorrente lo ha inteso disconoscere in sé).

Tra l’altro, per completezza va altresì osservato che ai fini della configurabilità del reato di omesso versamento di Iva non assume neppure rilevanza, nè sul piano dell’elemento soggettivo, nè su quello della esigibilità della condotta, la mera presentazione della domanda di ammissione al concordato preventivo, perché essa non impedisce il pagamento dei debiti tributari che vengano a scadere successivamente alla sua presentazione ma prima dell’adozione di provvedimenti da parte del tribunale (Sez. 3, n. 39310 del 17/05/2019, Lolli, Rv. 277171; Sez. 3, n. 49795 del 23/05/2018, G., Rv. 274199). Tutto ciò in quanto la colpevolezza del contribuente non è esclusa dalla crisi di liquidità del debitore alla scadenza del termine fissato per il pagamento, a meno che non venga dimostrato che siano state adottate tutte le iniziative per provvedere alla corresponsione del tributo e, nel caso in cui l’omesso versamento dipenda dal mancato incasso dell’Iva per altrui inadempimento, non siano provati i motivi che hanno determinato l’emissione della fattura antecedentemente alla ricezione del corrispettivo (Sez. 3, n. 23796 del 21/03/2019, Minardi, Rv. 275967).

Contrariamente ai rilievi del ricorrente, poi, l’omesso versamento dell’Iva non può essere giustificato, ai sensi dell’art.51 c.p., dal pagamento degli stipendi dei lavoratori dipendenti, posto che l’ordine di preferenza in tema di crediti prededucibili, che impone l’adempimento prioritario dei crediti da lavoro dipendente (art. 2777 c.c.) rispetto ai crediti erariali (art. 2778 c.c.), vige nel solo ambito delle procedure esecutive e fallimentari e non può essere richiamato in contesti diversi, ove non opera il principio della par condicio creditorum, al fine di escludere l’elemento soggettivo del reato (Sez. 3, n. 52971 del 06/07/2018, Moffa, Rv. 274319).

In conseguenza di ciò, in definitiva non rileva quale causa di forza maggiore per il legale rappresentante di un’impresa lo stato di dissesto imputabile alla precedente gestione, quando risulta che l’agente al momento del suo subentro nella carica aveva la consapevolezza della crisi di liquidità e non era nell’impossibilità a lui non ascrivibile di intraprendere alcuna iniziativa per fronteggiare tale situazione (Sez. 3, n. 43599 del 09/09/2015, Mondini, Rv. 265262). Sì che, nel reato di omesso versamento di Iva, ed ai fini dell’esclusione della colpevolezza, è irrilevante la crisi di liquidità del debitore alla scadenza del termine fissato per il pagamento, a meno che non venga dimostrato che siano state adottate tutte le iniziative per provvedere alla corresponsione del tributo (Sez. 3, n. 2614 del 06/11/2013, dep. 2014, Saibene, Rv. 258595).

Alla stregua dei rilievi che precedono, pertanto, perdono del tutto consistenza i profili di censura azionati.

Da un lato, infatti, è pacifico che siano state operate scelte diverse, magari anche teoricamente tese al rilancio aziendale, rispetto a quella di adempiere al debito fiscale. Non vi è peraltro questione sul fatto che esse sono rimaste estranee al sistema e quindi irrilevanti ai fini della verifica della responsabilità penale, attesa la piena consapevolezza di violare il precetto omettendo il pagamento dovuto.

Ai fini infatti della sussistenza del reato non è richiesto il fine di evasione, tantomeno l’intima adesione del soggetto alla volontà di violare il precetto, il dolo del reato in questione essendo integrato dalla condotta omissiva posta in essere nella consapevolezza della sua illiceità, non richiedendo la norma, quale ulteriore requisito, un atteggiamento anti-doveroso di volontario contrasto con il precetto violato.

D’altro canto, quanto al preteso dubbio circa la sussistenza di una “forza maggiore” impeditiva di differenti determinazioni, essa si configura come un evento, naturalistico o umano, che fuoriesce dalla sfera di dominio dell’agente e che è tale da determinarlo incoercibilmente (vis maior cui resisti non potest) verso la realizzazione di una determinata condotta, attiva od omissiva, la quale, conseguentemente, non può essergli giuridicamente attribuita (in questa direzione Sez. 5, n. 23026 del 03/04/2017, Mastrolia, Rv. 270145).

In particolare, occorre la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse economiche e finanziarie necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, tra l’altro in presenza di un’improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad allo stesso non imputabili.

In altre parole, la forza maggiore sussiste solo e in tutti quei casi in cui la realizzazione dell’evento stesso o la consumazione della condotta antigiuridica è dovuta all’assoluta ed incolpevole impossibilità dell’agente di uniformarsi al comando, e non può quindi ricollegarsi in alcun modo ad un’azione od omissione cosciente e volontaria dell’agente.

In tal modo è stato sempre escluso, quando la specifica questione è stata posta, che le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente possano integrare la forza maggiore penalmente rilevante (Sez. 3, n. 4529 del 04/12/2007, Cairone, Rv. 238986; Sez. 1, n. 18402 del 05/04/2013, Giro, Rv. 255880; Sez. 3, n. 24410 del 05/04/2011, Bolognini, Rv. 250805; Sez. 3, n. 9041 del 18/09/1997, Chiappa, Rv. 209232; Sez. 3, n. 643 del 22/10/1984, Bottura, Rv. 167495; Sez. 3, n. 7779 del 07/05/1984, Anderi, Rv. 165822).

Nei reati omissivi integra pertanto la causa di forza maggiore l’assoluta impossibilità, non la semplice difficoltà di porre in essere il comportamento omesso (Sez. 6, n. 10116 del 23/03/1990, Iannone, Rv. 184856). Sì che: a) il margine di scelta esclude sempre la forza maggiore perchè non esclude la suitas della condotta; b) la mancanza di provvista necessaria all’adempimento dell’obbligazione tributaria penalmente rilevante non può pertanto essere addotta a sostegno della forza maggiore quando sia comunque il frutto di una scelta politica imprenditoriale volta a fronteggiare una crisi di liquidità; c) non si può invocare la forza maggiore quando l’inadempimento penalmente sanzionato sia stato con-causato dai mancati accantonamenti e dal mancato pagamento alla singole scadenze mensili e dunque da una situazione di illegittimità; d) l’inadempimento tributario penalmente rilevante può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore, che non ha potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico.

Il provvedimento impugnato ha così evocato la realizzazione di altre scelte imprenditoriali.

D’altronde le vicissitudini lamentate appaiono legate all’ineludibile rischio d’impresa (cfr. Sez. 3, n. 20266 del 08/04/2014, Zanchi, Rv. 259190; cfr. altresì, ad es., Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, dep. 2015, Schirosi, Rv. 263128).

Del tutto correttamente, pertanto, la Corte territoriale ha così richiamato le differenti scelte imprenditoriali compiute, legate in particolare al pagamento dei dipendenti, nonchè la piena consapevolezza dell’omissione e l’opzione altresì di emettere fatture pur senza avere ricevuto il corrispettivo (v. anche supra), infine sottolineando come non fossero state neppure allegate eventuali iniziative idonee al reperimento delle risorse necessarie a fare fronte al debito erariale.

La manifesta infondatezza dell’impugnazione, che in realtà neppure si confronta appieno col contenuto argomentativo della sentenza (cfr. Sez. 4, n. 38202 del 07/07/2016, Ruci, Rv. 267611), comporta pertanto la mancata instaurazione del rapporto processuale, e quindi l’inammissibilità del ricorso.

Ne consegue pertanto l’irrilevanza (v. supra) dell’eventuale maturazione medio tempore della prescrizione del reato.

Tenuto infine conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., l’onere delle spese del procedimento nonchè quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 2.000,00.

In conclusione con la sentenza n.8519/2020 la Suprema Corte ha sancito, in buona sostanza, che: <<La decisione di pagare prima gli stipendi non esclude per l’imprenditore l’accusa di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto>>.


[1] Avvocato.

Per un approfondimento sulla disciplina del diritto penale tributario: Corrado Spriveri, “Il sistema penale tributario in Italia. Dalla teoria alla prassi applicativa, alla luce delle novità  introdotte dal c.d. Decreto Fiscale (d.l. n. 124/2019 convertito con modificazioni dalla legge n. 157/2019)”, Bari, Cacucci, 2020.

[2] L’art. 10-ter decreto legislativo n.74/2000 rubricato “Omesso Versamento di IVA” prevede che “ E’ punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo, l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore a euro duecentocinquantamila per ciascun periodo d’imposta”.

[3] Corte di Cassazione, sez. III, sentenza del 06/07/2018 n.52971.

[4] Corte di Cassazione, sez. III, sentenza del 09/09/2015 n.43599.

[5] Corte di Cassazione, sez. III, sentenza del 06/11/2013 n.2614.

[6]  Corte di Cassazione, sez. VI, sentenza del 23/03/1990, n. 10116. Secondo la Suprema Corte: “Sì che a) il margine di scelta esclude sempre la forza maggiore perché non esclude la suitas della condotta; b) la mancanza di provvista necessaria all’adempimento dell’obbligazione tributaria penalmente rilevante non può pertanto essere addotta a sostegno della forza maggiore quando sia comunque il frutto di una scelta politica imprenditoriale volta a fronteggiare una crisi di liquidità; c) non si può invocare la forza maggiore quando l’inadempimento penalmente sanzionato sia stato con-causato dai mancati accantonamenti e dal mancato pagamento alla singole scadenze mensili e dunque da una situazione di illegittimità; d) l’inadempimento tributario penalmente rilevante può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore, che non ha potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico”.

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Sulle misure anti-COVID-19 per gli istituti penitenziari e gli istituti penali per i minorenni

Corte Costituzionale, Sentenza n. 57/2021

Leonardo Ercoli

La questione giuridica sottesa alla pronuncia in esame concerne gli eventuali profili di incostituzionalità dei colloqui a distanza con i figli minorenni negati ai detenuti in espiazione di pena sottoposti allo speciale regime di detenzione ai sensi dell’art. 41-bis, ord. penit.

Prima di procedere alla disamina della pronuncia in commento, giova preliminarmente operare talune, seppur brevi, premesse di carattere generale in ordine al cosiddetto ‘carcere duro’ nonché alle forti limitazioni previste dall’art. 41-bis co. 2-quarter, lett. b) ord. penit. in materia di colloqui con i propri cari.

L’art. 41-bis della legge n.354/1975[1] fu introdotto all’interno dell’ordinamento italiano all’indomani delle stragi di Capaci e di via D’Amelio ad opera del Decreto Legge n. 306/1992[2]  il quale, agli artt. 19 e 29, ne ha previsto, sin dalla sua prima formulazione, un regime detentivo connotato da una forte riduzione delle opportunità di contatto della persona detenuta con l’esterno, differenziando tale sistema da quello ordinario. La ratio dell’istituto è da ricercarsi, senz’altro, nella risposta che lo Stato in quegli anni è stato chiamato a dare ad una fortissima quanto mai travolgente ondata di criminalità che aveva messo in luce l’incapacità della pena detentiva ordinaria – tratteggiata per tutti i detenuti ad opera della legge n.354/1975 – di neutralizzare la pericolosità di taluni detenuti che, proprio in virtù dei forti legami con le associazioni criminali di appartenenza, continuavano dall’interno del carcere ad esercitare il loro potere, impartendo ordini e direttivi agli associati che si trovavano al di fuori delle mura carcerarie[3].

Le prescrizioni originariamente previste per il regime del ‘carcere duro’ oltre a ridurre drasticamente le opportunità del detenuto di avere contatti con il mondo esterno, circoscrivono considerevolmente la libertà personale già fortemente limitata dall’incarcerazione in sé.

Ebbene, benché il fine ultimo del regime detentivo speciale si presenti del tutto legittimo così come affermato non solo dalla stessa Costituzione ma anche, e soprattutto, dalla giurisprudenza della CEDU la quale ha affermato l’obbligo per lo Stato italiano di adottare misure adeguate per la protezione della collettività dai soggetti le cui condotte sono connotate da ingente pericolosità[4], bisogna tuttavia dare atto di come l’ingente afflittività della misura in commento, consequenziale sia alla rigida restrizione a cui i medesimi detenuti sono sottoposti sia dalla durata tendenzialmente indeterminata della stessa[5], dà luogo a notevoli interrogativi di ordine costituzionale circa l’effettivo rispetto dei diritti fondamentali della persona, la cui tutela rappresenta, in ogni caso, un obbligo inderogabile dello Stato di diritto anche laddove si abbia a che fare, come nel caso del regime speciale, con soggetti altamente pericolosi per l’efferatezza dei crimini commessi[6].

In tal senso, vale la pena evidenziare che il regime di cui all’art.41-bis ord. penit., si presenta quale modalità esecutiva della reclusione o dell’ergastolo e, quindi, ripete le funzioni tradizionali assegnate alla pena nel nostro ordinamento quali quella retributiva, general-preventiva e special-preventiva[7].

Ciò posto, giova in tal sede soffermarsi ad analizzare il relativo co. 2-quater il quale tipizza una serie di prescrizioni che, da un lato, incidono sui rapporti tra detenuti all’interno dell’istituto e, dall’altro, limitano le comunicazioni tra detenuti e l’esterno.

All’interno della prima categoria rientra, ai sensi della lett. d) della norma in commento, l’esclusione dalle rappresentanze dei detenuti e degli internati oltre che la limitazione della permanenza all’aperto per cui il tempo massimo viene fissato in due ore (lett. f). Per effetto di questa ultima restrizione, dunque, il regime del ‘carcere duro’ viene a caratterizzarsi nella sostanza quale forma di isolamento e ciò induce a dubitare della compatibilità della disciplina legislativa con i principi costituzionali a tutela dei diritti fondamentali della persona, ed in particolare con il diritto alla salute e con il divieto di trattamenti inumani e degradanti di cui all’art. 27 co.3 Cost. e art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, quanto meno nei casi di applicazioni prolungate nel tempo[8]

All’interno della seconda categoria di prescrizioni di cui si è detto, invece, vi rientrano le grosse limitazioni nei colloqui, nelle telefonate e nella corrispondenza.

Invero, tra le varie regole alle quali un detenuto in regime speciale deve attenersi, un ruolo di notevole rilevanza – per ciò che rileva ai fini della trattazione – è senz’altro rivestito dalla disciplina, derogatoria rispetto a quella ordinaria, in materia di colloqui.

In particolare, l’art. 41-bis co. 2-quarter, lett. b) ord. penit. prevede delle forti limitazioni in materia, stabilendo che il provvedimento del ministro della giustizia che – ai sensi del co.1 – sospende le normali regole del trattamento allorquando vi ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica congruamente verificati, può determinare la diminuzione dei colloqui in un numero non inferiore ad uno e non superiore a due al mese – diversamente dai detenuti “comuni” per i quali sono previsti sei colloqui al mese, più eventuali altri colloqui che possono essere richiesti in presenza di particolari circostanze familiari[9] – da svolgersi ad intervalli di tempo regolari. Siffatti colloqui, prescrive la norma, si svolgono, in ogni caso, all’interno di locali attrezzati in modo tale da impedire il passaggio di oggetti[10] restando, comunque, vietati – salvo casi del tutto eccezionali – i colloqui con persone diverse dai familiari sino al terzo grado e dai conviventi[11] in modo non riservato[12],  trovandosi il detenuto dietro un vetro attraverso il quale può vedere il solo familiare senza potersi avvicinare e senza avervi contatti fisici. Si tenga, altresì, conto che il colloquio è comunque sottoposto a controllo auditivo e videoregistrazione, fatta salva la necessità di un’autorizzazione giudiziale per la registrazione dell’audio. La rigidità di tali previsioni viene, tuttavia, attenuata in presenza di figli o nipoti infra-dodicenni, con i quali il detenuto sottoposto a regime speciale può avere il colloquio senza vetro divisorio, benché il lasso di tempo previsto sia piuttosto ridotto[13]. Quanto ai colloqui telefonici, al detenuto a regime del ‘carcere duro’ è riconosciuto, non prima dei sei mesi, il diritto ad una sola telefonata al mese – comunque registrata – dalla durata di dieci minuti sostitutiva del colloquio personale[14]

Conclusivamente sul punto, ulteriore limitazione prescritta dalla normativa in commento concerne la corrispondenza tanto in entrata quanto in uscita che, previa autorizzazione giudiziale, è sottoposta a visto di controllo, «salvo quella con i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia» (art. 41-bis, co.2 quater, lett. e).

In realtà, giova sottolineare come la tipizzazione delle restrizioni contenute nella norma in parola viene vanificata da quanto previsto dalla lett. a) del comma in esame il quale attribuisce all’amministrazione penitenziaria il potere di adottare «misure di elevata sicurezza interna ed esterna». Dello stesso tenore è poi la previsione contenuta nella lett. f), secondo cui «saranno adottate tutte le necessarie misure di sicurezza, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti e cuocere cibi»[15].

Chiariti, dunque, i termini generali della questione in esame è d’uopo rilevare in tal sede come nell’attuale momento storico, contrassegnato dalla pandemia nota come COVID-19 e provocata dal virus SARS-CoV-2 e per il cui contenimento ogni Stato ha adottato misure restrittive delle libertà personali, anche i normali rapporti dei detenuti con i propri familiari attraverso il contatto personale e diretto, hanno subito notevoli restrizioni e modifiche. Ebbene, non vi è chi non veda come la questione pone a confronto differenti valori tutti meritevoli di tutela giacché costituzionalmente garantiti quali quello della tutela della salute da un lato, e quello della tutela della famiglia e dell’infanzia dall’altro, che appaiono in conflitto nel contesto esaminato, in quanto non possono trovare piena espressione e piena tutela contestualmente e che esigono di essere sottoposti ad un’opera di bilanciamento in quanto non possono essere compressi.

In verità, la totale assenza di una normativa d’emergenza sulla situazione sanitaria ha causato la privazione dell’esercizio della genitorialità da parte dei detenuti ristretti al 41- bis ord. penit. i quali sono stati completamente esclusi da qualsivoglia deroga alla disciplina dei colloqui telefonici e visivi. Solamente con la nota del D.A.P. del 21 marzo 2020, si è precisato che i familiari della persona ristretta al 41-bis ord. penit., in assenza della possibilità di effettuare il colloquio visivo – come detto uno al mese – avrebbero potuto accedere alla telefonata, che si sarebbe effettuata o presso il comando dei carabinieri o presso la struttura penitenziaria più vicina al luogo di residenza del familiare, per evitare spostamenti ulteriori al di fuori della regione. Ad ogni buon conto, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (D.A.P.), con successiva nota del 27 marzo 2020, ha voluto precisare che «la concessione di un ulteriore colloquio telefonico, in aggiunta a quello sostitutivo spettante per i detenuti, sottoposti al regime speciale di cui all’art. 41-bis, co. 2 c.p.» sia da intendersi per il numero massimo di due familiari per colloquio, con esclusione della presenza dei figli minori. Una simile previsione ha, irrimediabilmente, compromesso il rapporto genitori-figli dal momento che gli stessi minori per un anno non hanno avuto contatti né fisici né visivi con il genitore dando seguito così ad un acceso dibattito.

Ad alimentare l’anzidetto dibattito ha contribuito, a distanza di qualche mese, il D.l. 10 maggio 2020, n. 29 recante “Misure urgenti in materia di detenzione domiciliare o differimento dell’esecuzione della pena, nonché in materia di sostituzione della custodia cautelare in carcere con la misura degli arresti domiciliari, per motivi connessi all’emergenza sanitaria da COVID-19, di persone detenute o internate per delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso, terroristico e mafioso, o per delitti di associazione a delinquere legati al traffico di sostanze stupefacenti o per delitti commessi avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione mafiosa, nonché di detenuti e internati sottoposti al regime previsto dall’articolo 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, nonché, infine, in materia di colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i condannati, gli internati e gli imputati”[16]trasfuso nell’art. 2-quinquies del decreto legge n. 28 del 2020, così come convertito con le modifiche della legge di conversione n. 70 del 2020 – il quale, all’art. 4 rubricato Misure urgenti anti-COVID 19 per gli istituti penitenziari e gli istituti penali per i minorenni”, ha statuito, proprio al fine di prevenire il rischio di diffusione del COVID-19, che negli istituti penitenziari e negli istituti penali per minorenni, dal 19 maggio 2020 e sino al 30 giugno 2020, i colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i detenuti possono essere svolti a distanza, mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria e minorile o mediante corrispondenza telefonica, che può essere autorizzata oltre i limiti stabiliti dalla normativa vigente escludendo, ancora una volta, da tale regolamentazione i detenuti sottoposti al regime del ‘carcere duro’.

            Ebbene, la pronuncia in commento trae origine proprio dalla presunta illegittimità costituzionale della disposizione derogatoria di cui all’art. 4 D.l. 29/2020, sollevata ad opera del Tribunale per i Minori di Reggio Calabria che – con due ordinanze di analogo contenuto[17] – nell’ambito di un procedimento concernente i colloqui tra un detenuto a regime speciale e la propria figlia di cinque anni ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 27, co.3, 30, 31, co.2, 32 e 117, co.1, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 3 e 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU)[18], questioni di legittimità costituzionale:

« a) dell’art. 4 del decreto-legge 10 maggio 2020, n. 29 (Misure urgenti in materia di detenzione domiciliare o differimento dell’esecuzione della pena, nonché in materia di sostituzione della custodia cautelare in carcere con la misura degli arresti domiciliari, per motivi connessi all’emergenza sanitaria da COVID-19, di persone detenute o internate per delitti di criminalità organizzata di tipo terroristico o mafioso, o per delitti di associazione a delinquere legati al traffico di sostanze stupefacenti o per delitti commessi avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione mafiosa o con finalità di terrorismo, nonché di detenuti e internati sottoposti al regime previsto dall’articolo 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, nonché, infine, in materia di colloqui con i congiunti o con altre persone cui hanno diritto i condannati, gli internati e gli imputati), «nella parte in cui non prevede che i colloqui cui hanno diritto i detenuti o gli internati sottoposti al regime speciale di cui all’art. 41-bis della L. 26 luglio 1975, n. 354 possono essere svolti a distanza con i figli minorenni mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria e minorile»;

b) dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera b), terzo periodo, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), «nella parte in cui non prevede che i colloqui sostitutivi con i figli minorenni possono essere autorizzati a distanza, in alternativa a quelli telefonici, con modalità audiovisive».

Dal testo della sentenza in commento, ad avviso dell’organo rimettente, si evince come la norma emergenziale denunciata violerebbe l’art. 3 Cost., determinando una disparità di trattamento fra i figli minorenni dei detenuti sottoposti al regime speciale e i figli minorenni dei detenuti in regime ordinario, non giustificabile con le finalità proprie del cosiddetto ‘carcere duro’, le quali – secondo il giudice a quo – non possono legittimare, in ogni caso, misure che, in virtù del loro contenuto, non siano riconducibili a concrete esigenze di ordine e sicurezza; invero, si legge nel corpo del testo,  il divieto indiscriminato dei colloqui audiovisivi a distanza che prescinde da un effettivo controllo della sussistenza di esigenze di sicurezza sprovvisto, peraltro, di possibili adattamenti regolati sulle peculiarità dei singoli casi, rappresenterebbe una misura sproporzionata.

 Ad essere altresì violati, sempre ad avviso dell’organo rimettente, sarebbero poi gli artt. 2 e 30 Cost. in virtù della compressione del diritto inviolabile del minore a mantenere rapporti affettivi con il padre detenuto e del reciproco diritto fondamentale di quest’ultimo al mantenimento delle relazioni familiari; nonché l’art. 31 co.2 Cost il quale obbliga la Repubblica a garantire la protezione dell’infanzia e l’art. 32 Cost. posto che, l’impossibilità di fruire per un lungo lasso di tempo di contatti audiovisivi con il genitore detenuto – proprio in virtù degli ostacoli conseguenziali ai colloqui in presenza dovuti all’emergenza epidemiologica da COVID-19 – determinerebbe un pregiudizio per l’integrità psico-fisica del minore; e, ancora, l’art. 27 co.3 Cost. nella parte in cui la pena non può contrastare con il senso di umanità e deve tendere al recupero sociale del reo, per il quale il mantenimento dei rapporti familiari e genitoriali, in specie, è di estrema rilevanza.

Viene, inoltre, denunciata la violazione del disposto di cui all’art. 117 co.1 Cost in relazione agli artt. 3 e 8 della CEDU i quali, rispettivamente, precludono l’irrogazione di pene inumane e degradanti garantendo e tutelando il diritto al rispetto alla vita familiare del detenuto.

In ultimo, il giudice a quo – come anticipato – amplia tali censure anche all’art. 41-bis, co. 2-quater, lett. b), terzo periodo, ord. penit., nella parte in cui non prevede che i colloqui sostitutivi del colloquio visivo tra il detenuto in regime speciale e i figli minorenni possano svolgersi – alternativamente alla corrispondenza telefonica – nella forma del colloquio audiovisivo a distanza. La possibilità di usufruire di colloqui sostitutivi audiovisivi, secondo l’organo rimettente, assumerebbe notevole pregio soprattutto se si considera che il problema della tutela dei minorenni nei giudizi in questione si continuerebbe a porre, così come effettivamente si è poi posto, anche a seguito del termine finale di operatività dell’art. 4 del d.l. n. 29 del 2020 e cioè oltre il 30 giugno 2020 stante il protrarsi  dell’emergenza epidemiologica che, di fatto, avrebbe peraltro reso rischiosi gli spostamenti sul territorio nazionale – soprattutto avuto riguardo della patologia di cui era affetto uno dei minori minori coinvolti nel procedimento di cui all’ordinanza r.o. n. 144 del 2020 -. A ciò si aggiunga – sempre ad avviso della Corte rimettente – che a prescindere dal ‘rischio contagio’ una simile misura avrebbe di fatto offerto la possibilità di scongiurare una serie ulteriore di problematiche connesse sia alle spese di trasferte per i colloqui visivi non facilmente sostenibili sia i problemi legati alle assenze scolastiche dei minori, tenuto conto del fatto che i penitenziari ospitanti i detenuti in regime speciale sono collocati quasi tutti nel Nord, nel Centro dell’Italia e in Sardegna.

In punto di diritto, la Consulta, chiamata a pronunciarsi quella questione sollevata, in via del tutto preliminare ed assorbente, il 9 marzo 2021 ha ritenuto che l’esame della questione di legittimità costituzionale, nel merito, fosse precluso dall’inammissibilità della medesima per difetto di competenza del giudice a quo. Per come si legge dal corpus della sentenza, nella fattispecie ricorrerebbe – ad avviso del giudice delle leggi – l’ipotesi per cui, secondo un orientamento giurisprudenziale ormai pacifico e costante[19], «[…] l’autonomia del giudizio di costituzionalità rispetto a quello dal quale la questione proviene, il difetto di competenza del Giudice rimettente – al pari del difetto di giurisdizione – determina l’inammissibilità della questione, per irrilevanza, solo quando sia palese, ossia riscontrabile ictu oculi ( […]».

Per come osservato dalla Consulta, infatti, l’organo rimettente è un Tribunale per i minorenni investito di giudizi civili de potestate, che lo hanno portato a dichiarare decaduti dalla responsabilità dei genitori due detenuti in regime speciale, condannati a perduranti pene per reati di stampo mafioso, e ad impartire una serie di disposizioni a tutela del benessere psico-fisico e del corretto sviluppo della personalità dei loro figli minori. In tale ambito, il giudice a quo si trova investito di istanze con le quali i due detenuti al ‘carcere duro’ domandavano di essere autorizzati allo svolgimento di colloqui audiovisivi a distanza con i figli minori, avvalendosi della strumentazione informatica; tuttavia – osserva la Corte -il Tribunale rimettente risulta essere palesemente privo di qualsivoglia competenza in materia di autorizzazione dei colloqui dei detenuti che prescinde da quella per la dichiarazione di decadenza dalla responsabilità dei genitori, la cui competenza – come detto – è rimessa, ai sensi dell’art. 38 r.d. n. 318/1942 rubricato ‘Disposizioni per l’attuazione del Codice civile e disposizioni transitorie’, al Tribunale per i minori.

Ed infatti, proprio sulla scorta di quanto disposto dalla legge penitenziaria e, in particolare, dagli artt. 18 co.10 ord. penit. e art. 37 co.1 e 2, D.P.R. 230/2000, al pari della corrispondenza telefonica e degli altri tipi di comunicazione anche i colloqui dei detenuti sono autorizzati, fino alla sentenza di primo grado, ad opera dell’autorità giudiziaria procedente mentre, a seguito dell’anzidetta sentenza per i condannati in via definitiva – come nel caso degli istanti – dal direttore dell’istituto, i cui provvedimenti sono suscettibili di reclamo dinanzi al magistrato di sorveglianza.

Al riguardo, alcun rilievo, è stato dunque riconosciuto all’assunto ragionamento in base al quale “la preclusione dei colloqui audiovisivi a distanza, posta dalle norme censurate nei confronti dei detenuti in regime speciale, sarebbe, per così dire, “bivalente”: inciderebbe, cioè, non solo sui diritti del detenuto (la cui tutela spetta alla magistratura di sorveglianza), ma anche sui diritti del minore, la cui tutela – che assumerebbe, anzi, un rilievo preminente, alla luce di note indicazioni delle fonti sovranazionali – resterebbe affidata al tribunale per i minorenni, quale “giudice naturale de potestate”.

Di talché, la Consultaneldichiarare inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4 del decreto-legge 10 maggio 2020, n. 29 ha ritenuto, nella specie, che l’eventuale previsione di una competenza concorrente sul punto riconducibile a due differenti autorità in rapporto al medesimo provvedimento si porrebbe in antitesi con la logica sottesa al sistema stesso rischiando, peraltro, di incorrere in decisioni contrastanti.

Conclusivamente, sul punto, a parere di chi scrive giova evidenziare come a rimanere irrisolta sia una questione di illegittimità di non poco conto. Invero, il divieto indiscriminato di autorizzare colloqui a distanza che prescinda da una concreta verifica della sussistenza di esigenze di sicurezza e dalla facoltà di operare adattamenti regolati sulla scorta della particolarità dei casi, appare oltremodo lesivo del diritto inviolabile del minore a tenere rapporti affettivi con il genitore[20] detenuto al regime di 41-bis ord. penit. nonché del vicendevole diritto fondamentale di quest’ultimo al conservare le relazioni familiari. Il dibattito non può ritenersi del tutto concluso, soprattutto se si considera che il protrarsi dell’emergenza epidemiologica ha negato e continua a negare a molti bambini l’abbraccio seppur virtuale di un genitore già troppo assente.


[1] Cfr. GREVI V., Premessa, in AA.VV. L’Ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenze, a cura di GREVI V., Padova,1994, pp. 3 e ss.

[2] Più in particolare, il co.2 dell’art. 41-bis ord. penit. fu inserito dal decreto legge n. 306/1992 – poi convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356 – agli artt. 19 e 29 quale norma ad efficacia temporalmente limitata a tre anni allo scadere dei quali fu poi prorogata fino al 31 dicembre 1999 dall’art. 1 della legge 16 febbraio 1995, n. 36. La sua definitiva stabilizzazione si ebbe nel 2002 allorquando, la legge 279/2002, ne ha rimodellato radicalmente la disciplina riconducendola entro gli termini di costituzionalità individuati ad opera della Corte Costituzionale mediante una serie di importanti pronunce interpretative di rigetto, rese nei primi dieci anni di applicazione dell’istituto. Successivamente, nel 2009 con la legge 15 luglio 2009, n. 94 il legislatore intervenne apportando notevoli modifiche in senso restrittivo ad alcuni profili della disciplina del 41-bis.

[3] SCAGLIONE, Il regime processuale e penitenziario differenziato per fatti di terrorismo, www.csm.it ricerche 2007.

[4] Cfr. Corte EDU, Maiorano c. Italia, 15.12.2009, § 103-104.

[5] Cfr. DELLA BELLA A., Il “Carcere duro”, tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali – presente e futuro del regime detentivo speciale ex art.41 bis o.p., Giuffrè, 2016, p. 372.

[6] Cfr. sul punto, PUGIOTTO A., Quattro interrogativi (e alcune considerazioni) sulla compatibilità costituzionale del 41-bis, in CORLEONE F. – PUGIOTTO A. (a cura di), Volti e maschere della pena, Napoli, 2013. Si veda, peraltro, sul punto, Corte Cost. n. 376/1997, che dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis comma 2, e dell’art. 14-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 13, 24, 25, 27, secondo e terzo comma, e 113 della Costituzione, con ordinanze emesse il 18 marzo 1996 dal Tribunale di sorveglianza di Napoli ed il 6 giugno 1996 (n. 2 ordinanze) del Tribunale di Sorveglianza di Firenze.

[7] Cfr. FIANDACA G. – MUSCO E., Diritto Penale – Parte Generale, BOLOGNA,2014, p. 754

[8] Si veda CEDU, Sez. I, sent. 25 settembre 2018, Provenzano c. Italia, ric. 55080/13.

[9] Si vedano gli artt. 18 ord. penit. e 37 del D.P.R. n. 230 del 2000.

[10] Cfr. DELLA BELLA A., Il “Carcere duro”, tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali – presente e futuro del regime detentivo speciale ex art.41 bis o.p., op.cit., p. 371.

[11] Si tratta dei soggetti indicati all’art.14-quater ord. penit. ossia il coniuge il convivente i figli i genitori e i fratelli; tuttavia la Circolare D.A.P. n.3676/6126 del 2 ottobre 2017 al punto 16 ha esteso la legittimazione ai colloqui ai familiari entro il terzo grado di parentela o affinità, adottando così una regola già in vigore per i detenuti di categoria AS.

[12] In base all’art. 41-bis co.2 quater lett. b) “i colloqui vengono sottoposti a controllo auditivo ed a registrazione, previa motivata autorizzazione dell’autorità giudiziaria competente” e precisamente di quella indicata nel secondo comma dell’art. 11 della Legge 354/1975. Sulla base della medesima norma inoltre “i colloqui sono comunque video- registrati”; l’uso del termine “comunque” sembrerebbe significare che la videoregistrazione può effettuarsi anche nel caso in cui il giudice abbia negato l’autorizzazione per la registrazione dell’audio. Cfr. DELLA BELLA A., Il “Carcere duro”, tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali – presente e futuro del regime detentivo speciale ex art.41 bis o.p., op.cit., p. 239.

[13] Si veda Circolari D.a.p. n. 3592 del 9.10.2002 e n. 0101491 del 12.3.2012. 

[14] Sul punto si veda Corte Cost. 17.6.2013, n. 143 con la quale la Corte ha dichiarato incostituzionale la disposizione che limitava il numero dei colloqui e delle telefonate con il difensore che, ad oggi, non sono più soggetti a restrizione. Per un approfondimento cfr. MANES V. – NAPOLEONI V., Incostituzionali le restrizioni ai colloqui difensivi dei detenuti in regime di carcere duro: nuovi tracciati della Corte in tema di bilanciamento dei diritti fondamentali, in Dir. pen. cont., 2013, fasc. 4.

[15] Sul punto, lla Corte cost. con sentenza del 26 settembre 2018, (dep. 12 ottobre 2018), n. 186 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis, co. 2-quater, lett. f), laddove prevede il divieto, per i detenuti sottoposti al regime differenziato, di cuocere cibi, dichiarando la norma incostituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost. Non è la prima volta che vengono sollevati dubbi di legittimità del divieto in parola: in una passata occasione, la Corte ha, però, dichiarato la questione inammissibile per difetto di rilevanza (Cfr. Corte cost. ord. 18 febbraio 2011, n. 56).

[16] In Gazz. Uff. del 10 maggio 2020, n. 119.

[17] Ord. del 16 giugno 2020 (r.o. n. 144 del 2020) e del 23 giugno 2020 (r.o. n. 124 del 2020).

[18] Firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848

[19] Cfr., ex plurimis, Corte Cost. n. 136/2008, n. 144/2011 e n. 318/2010.

[20] Sancito dall’art. 3 della Convenzione sui diritti del fanciullo, redatta a New York il 20 novembre1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, e dall’art. 24, § 2, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007), e la cui tutela risulterebbe affidata al giudice civile minorile, «quale giudice naturale de potestate (art. 25 Cost.)».

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Sull’obbligo di disporre la confisca, anche per equivalente, dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo del reato, anche in caso di sentenza con applicazione della pena su richiesta delle parti, ex art. 444 c.p.p.

Corte di Cassazione, penale,  sez. III,  sentenza del  12/02/2020 n.11281

Corrado Spriveri[1]

Estratto:  La confisca, anche per equivalente deve essere disposta anche in caso di sentenza con applicazione della pena su richiesta delle parti, ex art. 444 c.p.p.

Con la pronuncia in commento la Suprema Corte[2] ha correttamente annullato con rinvio, la sentenza  emessa dal giudice di prime cure per non aver disposto la misura della confisca del profitto del reato o di beni o valori a questo equivalenti; pronuncia accessoria e a contenuto predeterminato, che va disposta anche nel caso di definizione del procedimento ai sensi dell’art.444 c.p.p. (cd. patteggiamento).

Invero, il giudice di primo grado pur avendo pronunciato la sentenza, ex art.444 c.p.p.,  in data successiva all’introduzione dell’art.12-bis decreto legislativo n.74 del 2000[3]ha omesso, senza spiegarne le ragioni, di provvedere sulla misura della confisca – “diretta” o “per equivalente” – relativamente al profitto del reato, da individuarsi, salvo il caso di pagamenti (anche parziali), in importo commisurato alla “imposta evasa” a seguito della mancata presentazione della dichiarazione, ai fini delle imposte sui redditi e dell’imposta sul valore aggiunto.

Difatti, l’art. 12-bis del decreto legislativo n.74 del 2000, rubricato “Confisca”,  dispone che “Nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale per uno dei delitti previsti dal presente decreto, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto”.

Il testuale contenuto della suindicata norma prevede, per l’appunto, l’applicazione della confisca per equivalente, anche,  in ipotesi di sentenza di applicazione della pena ex art.444 c.p.p.; l’applicazione di tale misura discende altresì, dalla natura sanzionatoria ad essa, indiscutibilmente, riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità.

Secondo il Supremo Collegio, difatti,  la confisca anche per equivalente prevista dall’art.12-bis decreto legislativo n.74/2000  opera “oltre che in caso di condanna, anche, in virtù del testuale contenuto della norma, in ipotesi di sentenza di applicazione della pena ex art.444 c.p.p., va poi applicata, tanto più in quanto, come precisato, obbligatoria, pur laddove la stessa non abbia costituito oggetto dell’accordo delle parti”[4].

La Suprema Corte inoltre, riguardo alla previgente disposizione normativa contenuta dal combinato disposto dell’art.1, comma 143 legge n.244/2007 e art.322-ter c.p., aveva  già affermato che l’obbligatorietà della confisca discende “sia dal dato testuale della norma, ove si prevede (…) che la confisca sia “sempre ordinata”, sia dalla natura sanzionatoria ad essa incontestabilmente riconosciuta  dalla giurisprudenza; attraverso di essa, infatti, si è inteso privare l’autore del reato di un qualunque beneficio economico derivante dall’attività criminosa, anche di fronte all’impossibilità di aggredire l’oggetto principale, nella convinzione della capacità dissuasiva e disincentivante di tale strumento, che assume, così, i tratti distintivi di una vera e propria sanzione, non commisurata né alla colpevolezza dell’autore del reato, né alla gravità della condotta”[5].

Con queste motivazioni il Supremo Collegio ha annullato con rinvio la sentenza  emessa dal giudice di prime cure per non aver disposto la misura della confisca, anche per equivalente,  nella pronuncia  di condanna con applicazione della pena su richiesta delle parti, ex art.444 c.p.p. (cd. patteggiamento).

IL CASO:

Con sentenza del 3 aprile 2019, il Tribunale di Messina, decidendo ai sensi dell’art.444 c.p.p., ha applicato nei confronti  di ………… la pena dal medesimo richiesta in ordine all’art.5 decreto legislativo 10 marzo 2000, n.74[6],  per aver omesso la presentazione della dichiarazione relativa a dette imposte, per l’anno 2014, realizzando un’evasione d’imposta pari a euro 121.999,00.

Avverso la suddetta pronuncia  ha proposto appello il Procuratore generale presso la Corte d’appello di Messina, lamentando l’omessa confisca del profitto del reato o di beni o valori a questo equivalenti, pronuncia accessoria e a contenuto predeterminato – allega l’impugnante – che va disposta anche nel caso di definizione del procedimento ai sensi dell’art. 444 c.p.p.

MOTIVI DELLA DECISIONE:

Questa Corte ha già affermato il principio – peraltro consolidato – secondo cui, in materia di reati tributari, la confisca, anche per equivalente, dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo di uno dei delitti previsti dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, deve essere sempre disposta nel caso di condanna o di sentenza di applicazione concordata della pena, stante l’identità della lettera e la piena continuità normativa tra la disposizione di cui all’art. 12-bis, comma 2, del predetto decreto (introdotta dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158 ed applicabile nel caso di specie ratione temporis) e la previgente fattispecie prevista dall’art. 322-ter c.p., richiamato dalla L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 1, comma 143, abrogata dal citato D.Lgs. n. 158 del 2015, art. 14 (Sez. 3, n. 50338 del 22/09/2016, Lombardo, Rv. 268386).

Con riguardo all’identica previsione risultante dal combinato disposto della L. n.244 del 2007, art. 1, comma 143 e art. 322 ter c.p., si era affermato che l’obbligatorietà della confisca discende “sia dal dato testuale della norma, ove si prevede (…) che la confisca sia “sempre ordinata”, sia dalla natura sanzionatoria ad essa incontestabilmente riconosciuta dalla giurisprudenza; attraverso di essa, infatti, si è inteso privare l’autore del reato di un qualunque beneficio economico derivante dall’attività criminosa, anche di fronte all’impossibilità di aggredire l’oggetto principale, nella convinzione della capacità dissuasiva e disincentivante di tale strumento, che assume, così, i tratti distintivi di una vera e propria sanzione, non commisurata nè alla colpevolezza dell’autore del reato, nè alla gravità della condotta” (Sez. 3, n. 44445 del 09/10/2013, Cruciani, Rv. 257616, in motivazione).

La citata decisione aggiunge che la confisca per equivalente, operante, “oltre che in caso di condanna, anche, in virtù del testuale contenuto della norma, in ipotesi di sentenza di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., va poi applicata, tanto più in quanto, come precisato, obbligatoria, pur laddove la stessa non abbia costituito oggetto dell’accordo delle parti (cfr. Sez. 2, n. 20046 del 04/02/2011) (…) Né è necessario, per l’assenza di norme che dispongano in senso contrario, che la confisca per equivalente sia preceduta dal sequestro preventivo dei beni oggetto della stessa (Sez. 3, n. 17066 del 04/02/2013, Volpe e altri, Rv. 255113)” (Sez. 3, n. 44445/2013).

La doglianza proposta, poi, è ammissibile anche a seguito della “novella”  attuata con L.23 giugno 2017, n. 103, art.1, comma 50, che ha introdotto l’art. 448 c.p.p., comma 2-bis, a norma del quale contro la sentenza di patteggiamento può essere proposto ricorso per cassazione “solo per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena o della misura di sicurezza”.

Scrutinando vicende analoghe a quella di specie, questa Corte ha già ritenuto che, in tema di patteggiamento, è ammissibile il ricorso per cassazione del pubblico ministero, ex art. 448 c.p.p., comma 2-bis, volto a denunciare l’omessa applicazione della confisca obbligatoria prevista dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 12-bis, nonostante la ricorrenza dei relativi presupposti, in quanto tale omissione determina una illegalità sul piano quantitativo delle statuizioni conseguenti alla realizzazione del reato per il quale detta confisca è prevista come obbligatoria (Sez. 3, n. 29428 del 08/05/2019, Scarpulla, Rv. 275896) e, trattandosi di questione che non aveva formato oggetto di accordo tra le parti, quest’orientamento trova conferma in una recente pronuncia adottata da questa Corte nella sua più autorevole composizione (S.U., sent. 26/09/2019, Savin).

Venendo al merito, osserva il Collegio come il ricorso sia indubbiamente anche fondato. Il giudice, pur avendo pronunciato sentenza di applicazione pena per reato tributario – peraltro consumato, come detto, in data successiva all’introduzione del D.Lgs. n.74 del 2000, art.12-bis – ha infatti omesso, senza spiegarne le ragioni, di provvedere sulla confisca (diretta o per equivalente) relativamente al profitto dello stesso, da individuarsi, salvo il caso di pagamenti (anche solo parziali), in importo commisurato all’imposta evasa a seguito della mancata presentazione della dichiarazione dei redditi, vale a dire, si legge imputazione, in Euro 121.999,00. La sentenza impugnata va pertanto in parte qua annullata con rinvio al Tribunale di Messina affinché provveda in applicazione dei citati principi di diritto.

In conclusione con la sentenza n.11281/2020 la Suprema Corte ha sancito, in buona sostanza, che  “La confisca, anche per equivalente deve essere disposta anche in caso di sentenza con applicazione della pena su richiesta delle parti, ex art. 444 c.p.p”.


[1] Avvocato.

Per un approfondimento sulla disciplina del diritto penale tributario:  Corrado Spriveri, “Il sistema penale tributario in Italia. Dalla teoria alla prassi applicativa, alla luce delle novità  introdotte dal c.d. Decreto Fiscale (d.l. n. 124/2019 convertito con modificazioni dalla legge n. 157/2019)”, Bari, Cacucci, 2020.

[2] Corte di Cassazione, pen.,  sez. III,  sentenza del  12/02/2020,  n.11281.

[3] Si rammenta che l’art. 12-bis del decreto legislativo n.74/200 è stato introdotto con  il decreto legislativo n.158/2015… “Nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 c.p.p. per uno dei delitti previsti dal presente decreto, è sempre ordinata la confisca”.

[4] Corte di Cassazione, sez. II, sentenza del 04/02/2011 n. 20046.

[5] Corte di Cassazione, sez. III,  sentenza del 09/10/2013 n.44445, Cruciani, Rv. 257616.

[6] L’art.5 del decreto legislativo n.74/2000 rubricato “Omessa dichiarazione”,  prevede una sanzione di carattere penale  nei confronti  di  “ …  chiunque  al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni relative a dette imposte, quando l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte ad euro cinquantamila”.

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