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Obbligo di mantenimento e modifiche delle condizioni separative e divorzili – Schema

La pandemia ha sicuramente acuito i problemi economici del Paese e delle famiglie e si è generalizzata una esigenza di ridurre gli importi degli assegni anche da parte del ceto medio (professionisti, piccoli imprenditori, commercianti, ecc.). Le ricadute sulla capacità reddituale delle famiglie sono state significative ed hanno inciso sul quantum che il giudice si è trovato a (ri)stabilire, valutando di volta in volta l’arco temporale, la concreta esigibilità dell’obbligazione e la transitorietà o meno della sua causa di riduzione.

La contrazione economica è da considerarsi fatto notorio ed è incontestabile (vedasi pronunce Cass. 1336/2020 e 975/2021, dei Tribunali di merito di Parma, Rimini. Ancona, Monza, Vicenza, Torino e Bari del 2020).

Ma sintetizziamo gli istituti alla base del fenomeno.

Il mantenimento reciproco tra coniugi ha la sua relazione giuridica nel dovere di assistenza morale e materiale a carico di ognuno degli sposi (art. 143 c.c.). La comunione di intenti e di beni, fondamento del matrimonio, caratterizza e diversifica questo istituto da qualsiasi altro accordo contrattuale.

Il dovere di mantenimento nei confronti dell’altro coniuge e della famiglia esiste in pendenza di vincolo matrimoniale, e l’erogazione dell’assegno di mantenimento a favore del coniuge separato privo di redditi ha il suo obbligo di legge nell’articolo 156 del codice civile.

Con la separazione personale, sia consensuale sia giudiziale, il vincolo matrimoniale non viene sciolto ma sospeso in modo transitorio, in attesa della sentenza di divorzio. La separazione si potrebbe anche non modificare e mai in una richiesta di divorzio e, si potrebbe anche interrompere avvenuta riconciliazione tra le parti che farebbe decadere i suoi effetti.

Lo status giuridico di coniuge resta inalterato mentre cambiano alcuni aspetti legati al matrimonio, ad esempio, l’obbligo di fedeltà e di convivenza.

Si congelano quei doveri di assistenza morale e di collaborazione, resta attivo il dovere di assistenza materiale che va a confluire nella determinazione dell’assegno di mantenimento per quel coniuge che ha bisogno di un sostentamento perché provo di redditi o con redditi insufficienti per adempiere alle sue necessità.

La condizione essenziale perché si generi questo onere a carico di uno dei due coniugi separati è la non titolarità di adeguati redditi propri.

Con la parola “adeguato” si intende quel reddito prodotto da una persona in modo autonomo e capace di consentirne il mantenimento del tenore di vita adottato in costanza di matrimonio.

La determinazione dell’assegno di mantenimento, che si fa anche se nessuna delle parti ha chiesto l’addebito, è molto legata all’individuazione della parte più svantaggiata a causa della sospensione del matrimonio se non dovesse essere in grado di garantire lo stesso tenore di vita del quale godeva in precedenza.

Il compito del giudice è mettere in equilibrio le reali capacità economiche della coppia separata stabilendo il giusto valore del mantenimento.

Se si dovesse verificare un inadempimento da parte del coniuge obbligato a corrispondere l’assegno, il giudice potrà disporre del sequestro dei beni o richiedere a terzi il versamento del denaro dovuto.

Modifiche condizioni separazione (presupposti —> non c’è automatismo, non vi è diritto a sospendere o ridurre autonomamente l’assegno, richiede l’intervento del giudice)

La modifica delle condizioni di separazione tra coniugi è un provvedimento emesso dal Tribunale, su richiesta di una delle due parti o in accordo tra entrambe, qualora siano mutate le condizioni – sia verso la prole che verso il coniuge – espresse nell’accordo di separazione consensuale o nella sentenza di separazione giudiziale.

Le modalità procedurali auspicabili per addivenire alla modificazione delle condizioni sono il raggiungimento di un accordo stragiudiziale oppure la proposizione di un ricorso giudiziale congiunto. In entrambi i casi, la decisione giudiziale, ex art. 710 codice di procedura civile (una volta passata in giudicato l’omologa della separazione), è assunta in camera di consiglio

Qualora risulti impossibile un’intesa in tal senso, il coniuge interessato alla variazione sarà tenuto a introdurre un apposito procedimento mediante ricorso ai sensi dell’art. 710 codice di procedura civile, con l’assistenza necessaria di un avvocato. 

Il giudice deve sentire entrambe le parti e può disporre l’assunzione di mezzi di prova o provvedere ad indagini al fine di accertare le reali esigenze di cambiamento. 

A tale domanda seguirà o l’emissione di un decreto – motivato ed immediatamente esecutivo – avente la natura di sentenza che, pertanto, conterrà specifica motivazione e sarà passibile di impugnazione con i mezzi espressamente previsti dall’ordinamento, oppure, nei casi di gravità e urgenza, l’adozione di un provvedimento modificatorio provvisorio, sempre revocabile e a sua volta modificabile (reclamabile ex art. 739 c.p.c. entro 10 giorni).


Presupposti/fatti nuovi (giustificati, documentati e gravi) per la modifica

  • il coniuge beneficiario del mantenimento inizi una stabile e duratura convivenza con un altro partner, avviando una famiglia di fatto;
  • il coniuge beneficiario del mantenimento ottenga un aumento della retribuzione o aumenti i suoi guadagni o inizi un’adeguata attività lavorativa o trovi una occupazione stabile;
  • il coniuge tenuto al pagamento del mantenimento abbia una nuova famiglia con nuovi figli abbia ovvero creato un nuovo nucleo familiare;
  • il coniuge tenuto al mantenimento subisca una invalidità o una consistente riduzione dello stipendio;
  • il coniuge tenuto al mantenimento perda il lavoro

in generale tutte le alterazioni dell’equilibrio economico

Assegno divorzile

La meritevolezza (e la prova della)

Prima della riforma l’assegno di divorzio veniva concesso in automatico, era sufficiente dimostrare la sproporzione tra i redditi dei due ex coniugi.

Adesso la giurisprudenza non si accontenta più e vuole la prova, da parte del richiedente, della sua impossibilità a mantenersi.

L’impossibilità  in questione, non deve dipendere da sua colpa.

Chi chiede gli alimenti deve dimostrare di non essere autosufficiente perché è molto anziano per cercare un lavoro (oltre i 45 anni circa),  oppure, è in condizioni di salute che non gli consentono di lavorare, oppure, di avere cercato un posto di lavoro non riuscendo nell’intento a causa del mercato occupazionale.

A questo proposito, dovrà dimostrare l’iscrizione ai centri per l’impiego, la partecipazione a bandi e concorsi, l’invio di curricula.

Oggi l’assegno divorzile richiede la meritevolezza e la prova la deve fornire chi pretende di essere mantenuto.

Al contrario, viene negato il mantenimento a chi è ancora giovane e/o ha una potenziale capacità lavorativa, perché possiede uno studio professionale o perché può vantare esperienze lavorative precedenti.

Il contributo proporzionato esclusivo per le casalinghe

Come scritto in precedenza, non c’è più proporzione tra il reddito del coniuge più benestante e l’assegno di divorzio, dovendo lo stesso garantire esclusivamente l’indipendenza economica.

Nel 2018 le Sezioni Unite della Suprema Corte dei Cassazione (Cass. sent. n. 18287/18) hanno evidenziato un’unica importante eccezione, relativa al coniuge che, avendo rinunciato al lavoro e a una sua carriera per badare agli impegni domestici e ai figli, ha in questo modo contribuito, con il suo lavoro casalingo, all’arricchimento dell’ex, consentendogli di concentrarsi sul lavoro.

Esclusivamente in presenza di simili circostanze, l’assegno di divorzio deve essere proporzionato alla ricchezza che l’altro coniuge ha potuto raggiungere.

Lo stesso, grazie a questo contributo, si è potuto dedicare di più al lavoro e alla carriera, vedendo incrementare la sua capacità di ricchezza.

La modificazione delle condizioni di divorzio è il provvedimento che viene emesso dal Tribunale competente su richiesta di uno dei coniugi divorziati qualora siano mutate in concreto le condizioni di cui alla sentenza di scioglimento del vincolo matrimoniale.
Per la modifica delle condizioni di divorzio, anziché rivolgersi al Tribunale, gli ex-coniugi possono ora trovare un accordo anche mediante la procedura di negoziazione assistita da avvocati, una delle maggiori novità previste dal DL 132/2014, così come modificato dalla relativa legge di conversione n. 162/2014. Gli avvocati che assistono gli ex-coniugi divorziati hanno l’obbligo di trasmettere la copia autenticata dell’accordo all’Ufficiale dello Stato Civile del Comune in cui il matrimonio fu iscritto o trascritto. Se non ci sono figli minorenni, incapaci o portatori di handicap gravi, occorrerà poi ottenere il nullaosta del Pubblico Ministero (ma non è previsto un termine entro il quale il nullaosta deve essere richiesto). Se invece ci sono figli minorenni, incapaci o portatori di handicap gravi, l’accordo deve essere trasmesso entro e non oltre 10 giorni al Pubblico Ministero, il quale potrà rilasciare la necessaria autorizzazione oppure, entro 5 giorni, ritrasmettere lo stesso accordo al Presidente del Tribunale, affinché si ordini la comparizione degli ex-coniugi.

Presupposti per la modificazione delle condizioni di divorzio

I presupposti per richiedere la modificazione delle condizioni di divorzio variano a seconda dei casi. In breve, secondo la Legge sul Divorzio consistono nella presenza di giustificati motivi sopravvenuti.

Con riferimento all’affidamento della prole, uno dei coniugi potrà richiedere l’affidamento esclusivo dei figli già affidati all’altro coniuge o l’affidamento condiviso, secondo l’interesse della prole stessa. Ad esempio, nell’ipotesi di affidamento dei figli a un solo genitore che impedisca il diritto di visita riconosciuto all’altro genitore o che fomenti l’astio dei figli nei confronti dell’altro coniuge, quest’ultimo potrà richiedere una revoca dell’affidamento all’ex coniuge.

Sul punto, si segnala che, per effetto del D.Lgs. 154/2013 in materia di filiazione, sono state introdotte nel Codice Civile alcune nuove disposizioni in tema di provvedimenti relativi ai figli e relativo affidamento, applicabili anche alle coppie divorziate (articoli da 337-bis a 337-octies cod. civ.). In questa sede, è opportuno menzionare in particolare quanto previsto dall’art. 337-quinquies cod. civ., secondo il quale la revisione delle disposizioni inerenti all’affidamento dei figli oppure la revisione dell’attribuzione della c.d. responsabilità genitoriale (che ha sostituito la precedente “potestà”) possono essere chieste in qualsiasi momento.

La revoca del provvedimento sull’affidamento della prole non presuppone sempre un comportamento “colpevole” da parte del genitore affidatario. Infatti, la revoca può essere chiesta anche per giustificati motivi, come ad esempio in caso di sopravvenuta malattia del coniuge affidatario qualora questa nuova situazione impedisca al malato di prendersi debitamente cura dei figli.

Con riferimento all’assegno divorzile o di mantenimento, può esserne richiesta la revisione – ossia l’aumento o la diminuzione – se le effettive condizioni economiche di uno dei coniugi sono cambiate; si può altresì richiedere semplicemente l’adeguamento dell’importo parametrato all’aumento dell’inflazione. Anche sotto questo profilo viene in rilievo il disposto, già citato, del nuovo art. 337-quinquies cod. civ., secondo il quale la modifica del contributo può essere chiesta in ogni tempo.

In caso di miglioramento delle condizioni economiche del coniuge avente diritto all’assegno divorzile, il coniuge tenuto al versamento non può decidere di sospendere l’erogazione della somma o di ridurne l’importo senza aver prima ottenuto una pronuncia favorevole da parte del Tribunale. In tal senso si è ritenuto che l’avvio di una convivenza da parte del coniuge avente diritto a percepire l’assegno divorzile può giustificare, da parte dell’altro coniuge, una richiesta di revisione dell’importo dell’assegno, come pure l’avvio di una convivenza da parte del coniuge obbligato a versare l’assegno divorzile all’altro coniuge può giustificare, da parte del primo coniuge, una richiesta di revisione dell’importo dell’assegno.

Nel caso in cui  la sentenza di divorzio non preveda il versamento di alcun assegno, secondo un’interpretazione si può avviare un procedimento per la modifica delle condizioni di divorzio allo scopo di richiedere l’assegno divorzile, purché si dimostrino le circostanze sopravvenute. La questione è comunque molto dibattuta e si deve dar conto dell’esistenza di un’interpretazione contraria, che esclude questa possibilità.

Procedimento

Si deve innanzitutto segnalare l’accennata importante novità contenuta nel D.L. 132/2014. Questa normativa prevede che gli ex-coniugi possano concordare una modifica delle loro condizioni di divorzio tramite una procedura facoltativa a quella giudiziale: la convenzione di negoziazione assistita da avvocati. La novità è entrata inizialmente in vigore dal 13 settembre 2014 ed è stata poi ulteriormente definita con la legge di conversione. Essa consiste nella possibilità di trovare un accordo per risolvere la controversia in via amichevole, grazie all’assistenza di avvocati (ciascuna delle due parti deve essere assistita da un legale e i due avvocati non devono appartenere allo stesso Studio Legale per evitare conflitti d’interesse). La negoziazione assistita inizia con l’invio di un invito a concludere la convenzione per la modifica delle condizioni di divorzio; la mancata risposta all’invito o il rifiuto sono elementi che potranno – in caso di successivo giudizio – essere tenuti in considerazione dal Giudice. L’accordo fra gli ex-coniugi deve essere raggiunto entro un termine prestabilito, comunque non inferiore a un mese dall’inizio della procedura di negoziazione assistita. L’accordo è sottoscritto dagli avvocati che assistono gli ex-coniugi. Nel sottoscrivere l’accordo, gli avvocati ne garantiscono la conformità «alle norme imperative ed all’ordine pubblico» e autenticano le sottoscrizioni apposte dagli ex-coniugi. Gli avvocati che assistono gli ex-coniugi divorziati hanno l’obbligo di trasmettere la copia autenticata dell’accordo all’Ufficiale dello Stato Civile del Comune in cui il matrimonio fu iscritto o trascritto.
Se non ci sono figli minorenni, incapaci o portatori di handicap gravi, occorrerà poi ottenere il nullaosta del Pubblico Ministero. La legge non prevede però un termine entro il quale il nullaosta deve essere richiesto.
Se invece ci sono figli minorenni, incapaci o portatori di handicap gravi, l’accordo deve essere trasmesso al Pubblico Ministero entro e non oltre 10 giorni. Esaminato l’accordo, il PM potrà quindi rilasciare la necessaria autorizzazione oppure, entro 5 giorni, ritrasmettere lo stesso accordo al Presidente del Tribunale, affinché si ordini la comparizione degli ex-coniugi. (Il procedimento relativo al rilascio da parte del Procuratore della Repubblica del nulla osta o dell’autorizzazione è esente dal contributo unificato di iscrizione a ruolo dovuto per ciascun grado di giudizio su richiesta di attività giurisdizionali delle parti interessate. Allo stesso modo è esente il procedimento davanti al Presidente del Tribunale).

Il D.L. 132/2014 prevede addirittura la possibilità di concordare una modifica delle condizioni di divorzio innanzi al Sindaco quale Ufficiale di Stato Civile, a condizione che in tali accordi non vi siano patti di trasferimento patrimoniale (ossia trasferimenti di beni immobili, mobili o somme di denaro – al momento non è chiaro, invece, se sia possibile inserire, nell’accordo concluso davanti all’ufficiale dello stato civile, anche la previsione di un obbligo di pagamento di una somma di denaro a titolo di assegno periodico: questa sembrava l’interpretazione dominante e più frequente nella prassi alla luce di quanto disposto dalla Circolare del Ministero degli Interni n. 6/2015, ma il TAR Lazio ha recentemente accolto un ricorso di nullità avverso tale Circolare, v. TAR Lazio, sezione I-ter, 7 luglio 2016 n. 7813) e che gli ex-coniugi non abbiano figli in comune che siano minorenni, incapaci o portatori di handicap gravi ovvero non autosufficienti dal punto di vista economico.
In tutti gli altri casi, il  coniuge interessato alla richiesta di modifica delle condizioni di divorzio relativa all’assegno o all’affidamento dei figli deve presentare ricorso al Tribunale competente, che provvede in camera di consiglio (ossia con un procedimento celere, “deformalizzato” e caratterizzato da maggior snellezza).
Nel procedimento instaurato per la revisione dei provvedimenti relativi ai figli è obbligatoria la presenza del Pubblico Ministero.
Nel corso della fase istruttoria i mezzi di prova utilizzabili sono i più disparati: prova testimoniale, consulenza tecnica d’ufficio, relazione degli assistenti sociali, indagini patrimoniali e accertamenti della Polizia Tributaria, ecc.
Il provvedimento conclusivo può essere oggetto di reclamo in Corte d’appello.

Diversamente, si potrà far leva sull’articolo 9 della legge sul divorzio che presuppone, per la proposizione dell’azione, l’esistenza – concreta e attuale – di “giustificati motivi” di natura economico patrimoniale.

Da un punto di vista strettamente processuale, il procedimento di revisione segue il rito camerale, e il decreto del tribunale è reclamabile alla Corte d’appello entro 10 giorni, revocabile in ogni tempo. I criteri con cui si individua la competenza del tribunale sono quelli di cui agli articoli 18 comma 1, 20 del c.p.c., 1182 comma 3 del c.c. e 12-quater della L. n. 898/70.

Il mantenimento reciproco tra coniugi ha la sua relazione giuridica nel dovere di assistenza morale e materiale a carico di ognuno degli sposi (art. 143 c.c.). La comunione di intenti e di beni, fondamento del matrimonio, caratterizza e diversifica questo istituto da qualsiasi altro accordo contrattuale.

Il dovere di mantenimento nei confronti dell’altro coniuge e della famiglia esiste in pendenza di vincolo matrimoniale, e l’erogazione dell’assegno di mantenimento a favore del coniuge separato privo di redditi ha il suo obbligo di legge nell’articolo 156 del codice civile.

Con la separazione personale, sia consensuale sia giudiziale, il vincolo matrimoniale non viene sciolto ma sospeso in modo transitorio, in attesa della sentenza di divorzio. La separazione si potrebbe anche non modificare e mai in una richiesta di divorzio e, si potrebbe anche interrompere avvenuta riconciliazione tra le parti che farebbe decadere i suoi effetti.

Lo status giuridico di coniuge resta inalterato mentre cambiano alcuni aspetti legati al matrimonio, ad esempio, l’obbligo di fedeltà e di convivenza.

Si congelano quei doveri di assistenza morale e di collaborazione, resta attivo il dovere di assistenza materiale che va a confluire nella determinazione dell’assegno di mantenimento per quel coniuge che ha bisogno di un sostentamento perché provo di redditi o con redditi insufficienti per adempiere alle sue necessità.

La condizione essenziale perché si generi questo onere a carico di uno dei due coniugi separati è la non titolarità di adeguati redditi propri.

Con la parola “adeguato” si intende quel reddito prodotto da una persona in modo autonomo e capace di consentirne il mantenimento del tenore di vita adottato in costanza di matrimonio.

La determinazione dell’assegno di mantenimento, che si fa anche se nessuna delle parti ha chiesto l’addebito, è molto legata all’individuazione della parte più svantaggiata a causa della sospensione del matrimonio se non dovesse essere in grado di garantire lo stesso tenore di vita del quale godeva in precedenza.

Il compito del giudice è mettere in equilibrio le reali capacità economiche della coppia separata stabilendo il giusto valore del mantenimento.

Se si dovesse verificare un inadempimento da parte del coniuge obbligato a corrispondere l’assegno, il giudice potrà disporre del sequestro dei beni o richiedere a terzi il versamento del denaro dovuto.

Modifiche condizioni separazione (presupposti —> non c’è automatismo, non vi è diritto a sospendere o ridurre autonomamente l’assegno, richiede l’intervento del giudice)

La modifica delle condizioni di separazione tra coniugi è un provvedimento emesso dal Tribunale, su richiesta di una delle due parti o in accordo tra entrambe, qualora siano mutate le condizioni – sia verso la prole che verso il coniuge – espresse nell’accordo di separazione consensuale o nella sentenza di separazione giudiziale.

Le modalità procedurali auspicabili per addivenire alla modificazione delle condizioni sono il raggiungimento di un accordo stragiudiziale oppure la proposizione di un ricorso giudiziale congiunto. In entrambi i casi, la decisione giudiziale, ex art. 710 codice di procedura civile (una volta passata in giudicato l’omologa della separazione), è assunta in camera di consiglio

Qualora risulti impossibile un’intesa in tal senso, il coniuge interessato alla variazione sarà tenuto a introdurre un apposito procedimento mediante ricorso ai sensi dell’art. 710 codice di procedura civile, con l’assistenza necessaria di un avvocato. 

Il giudice deve sentire entrambe le parti e può disporre l’assunzione di mezzi di prova o provvedere ad indagini al fine di accertare le reali esigenze di cambiamento. 

A tale domanda seguirà o l’emissione di un decreto – motivato ed immediatamente esecutivo – avente la natura di sentenza che, pertanto, conterrà specifica motivazione e sarà passibile di impugnazione con i mezzi espressamente previsti dall’ordinamento, oppure, nei casi di gravità e urgenza, l’adozione di un provvedimento modificatorio provvisorio, sempre revocabile e a sua volta modificabile (reclamabile ex art. 739 c.p.c. entro 10 giorni).


Presupposti/fatti nuovi (giustificati, documentati e gravi) per la modifica

  • il coniuge beneficiario del mantenimento inizi una stabile e duratura convivenza con un altro partner, avviando una famiglia di fatto;
  • il coniuge beneficiario del mantenimento ottenga un aumento della retribuzione o aumenti i suoi guadagni o inizi un’adeguata attività lavorativa o trovi una occupazione stabile;
  • il coniuge tenuto al pagamento del mantenimento abbia una nuova famiglia con nuovi figli abbia ovvero creato un nuovo nucleo familiare;
  • il coniuge tenuto al mantenimento subisca una invalidità o una consistente riduzione dello stipendio;
  • il coniuge tenuto al mantenimento perda il lavoro

in generale tutte le alterazioni dell’equilibrio economico

Assegno divorzile

La meritevolezza (e la prova della)

Prima della riforma l’assegno di divorzio veniva concesso in automatico, era sufficiente dimostrare la sproporzione tra i redditi dei due ex coniugi.

Adesso la giurisprudenza non si accontenta più e vuole la prova, da parte del richiedente, della sua impossibilità a mantenersi.

L’impossibilità  in questione, non deve dipendere da sua colpa.

Chi chiede gli alimenti deve dimostrare di non essere autosufficiente perché è molto anziano per cercare un lavoro (oltre i 45 anni circa),  oppure, è in condizioni di salute che non gli consentono di lavorare, oppure, di avere cercato un posto di lavoro non riuscendo nell’intento a causa del mercato occupazionale.

A questo proposito, dovrà dimostrare l’iscrizione ai centri per l’impiego, la partecipazione a bandi e concorsi, l’invio di curricula.

Oggi l’assegno divorzile richiede la meritevolezza e la prova la deve fornire chi pretende di essere mantenuto.

Al contrario, viene negato il mantenimento a chi è ancora giovane e/o ha una potenziale capacità lavorativa, perché possiede uno studio professionale o perché può vantare esperienze lavorative precedenti.

Il contributo proporzionato esclusivo per le casalinghe

Come scritto in precedenza, non c’è più proporzione tra il reddito del coniuge più benestante e l’assegno di divorzio, dovendo lo stesso garantire esclusivamente l’indipendenza economica.

Nel 2018 le Sezioni Unite della Suprema Corte dei Cassazione (Cass. sent. n. 18287/18) hanno evidenziato un’unica importante eccezione, relativa al coniuge che, avendo rinunciato al lavoro e a una sua carriera per badare agli impegni domestici e ai figli, ha in questo modo contribuito, con il suo lavoro casalingo, all’arricchimento dell’ex, consentendogli di concentrarsi sul lavoro.

Esclusivamente in presenza di simili circostanze, l’assegno di divorzio deve essere proporzionato alla ricchezza che l’altro coniuge ha potuto raggiungere.

Lo stesso, grazie a questo contributo, si è potuto dedicare di più al lavoro e alla carriera, vedendo incrementare la sua capacità di ricchezza.

La modificazione delle condizioni di divorzio è il provvedimento che viene emesso dal Tribunale competente su richiesta di uno dei coniugi divorziati qualora siano mutate in concreto le condizioni di cui alla sentenza di scioglimento del vincolo matrimoniale.
Per la modifica delle condizioni di divorzio, anziché rivolgersi al Tribunale, gli ex-coniugi possono ora trovare un accordo anche mediante la procedura di negoziazione assistita da avvocati, una delle maggiori novità previste dal DL 132/2014, così come modificato dalla relativa legge di conversione n. 162/2014. Gli avvocati che assistono gli ex-coniugi divorziati hanno l’obbligo di trasmettere la copia autenticata dell’accordo all’Ufficiale dello Stato Civile del Comune in cui il matrimonio fu iscritto o trascritto. Se non ci sono figli minorenni, incapaci o portatori di handicap gravi, occorrerà poi ottenere il nullaosta del Pubblico Ministero (ma non è previsto un termine entro il quale il nullaosta deve essere richiesto). Se invece ci sono figli minorenni, incapaci o portatori di handicap gravi, l’accordo deve essere trasmesso entro e non oltre 10 giorni al Pubblico Ministero, il quale potrà rilasciare la necessaria autorizzazione oppure, entro 5 giorni, ritrasmettere lo stesso accordo al Presidente del Tribunale, affinché si ordini la comparizione degli ex-coniugi.

Presupposti per la modificazione delle condizioni di divorzio

I presupposti per richiedere la modificazione delle condizioni di divorzio variano a seconda dei casi. In breve, secondo la Legge sul Divorzio consistono nella presenza di giustificati motivi sopravvenuti.

Con riferimento all’affidamento della prole, uno dei coniugi potrà richiedere l’affidamento esclusivo dei figli già affidati all’altro coniuge o l’affidamento condiviso, secondo l’interesse della prole stessa. Ad esempio, nell’ipotesi di affidamento dei figli a un solo genitore che impedisca il diritto di visita riconosciuto all’altro genitore o che fomenti l’astio dei figli nei confronti dell’altro coniuge, quest’ultimo potrà richiedere una revoca dell’affidamento all’ex coniuge.

Sul punto, si segnala che, per effetto del D.Lgs. 154/2013 in materia di filiazione, sono state introdotte nel Codice Civile alcune nuove disposizioni in tema di provvedimenti relativi ai figli e relativo affidamento, applicabili anche alle coppie divorziate (articoli da 337-bis a 337-octies cod. civ.). In questa sede, è opportuno menzionare in particolare quanto previsto dall’art. 337-quinquies cod. civ., secondo il quale la revisione delle disposizioni inerenti all’affidamento dei figli oppure la revisione dell’attribuzione della c.d. responsabilità genitoriale (che ha sostituito la precedente “potestà”) possono essere chieste in qualsiasi momento.

La revoca del provvedimento sull’affidamento della prole non presuppone sempre un comportamento “colpevole” da parte del genitore affidatario. Infatti, la revoca può essere chiesta anche per giustificati motivi, come ad esempio in caso di sopravvenuta malattia del coniuge affidatario qualora questa nuova situazione impedisca al malato di prendersi debitamente cura dei figli.

Con riferimento all’assegno divorzile o di mantenimento, può esserne richiesta la revisione – ossia l’aumento o la diminuzione – se le effettive condizioni economiche di uno dei coniugi sono cambiate; si può altresì richiedere semplicemente l’adeguamento dell’importo parametrato all’aumento dell’inflazione. Anche sotto questo profilo viene in rilievo il disposto, già citato, del nuovo art. 337-quinquies cod. civ., secondo il quale la modifica del contributo può essere chiesta in ogni tempo.

In caso di miglioramento delle condizioni economiche del coniuge avente diritto all’assegno divorzile, il coniuge tenuto al versamento non può decidere di sospendere l’erogazione della somma o di ridurne l’importo senza aver prima ottenuto una pronuncia favorevole da parte del Tribunale. In tal senso si è ritenuto che l’avvio di una convivenza da parte del coniuge avente diritto a percepire l’assegno divorzile può giustificare, da parte dell’altro coniuge, una richiesta di revisione dell’importo dell’assegno, come pure l’avvio di una convivenza da parte del coniuge obbligato a versare l’assegno divorzile all’altro coniuge può giustificare, da parte del primo coniuge, una richiesta di revisione dell’importo dell’assegno.

Nel caso in cui  la sentenza di divorzio non preveda il versamento di alcun assegno, secondo un’interpretazione si può avviare un procedimento per la modifica delle condizioni di divorzio allo scopo di richiedere l’assegno divorzile, purché si dimostrino le circostanze sopravvenute. La questione è comunque molto dibattuta e si deve dar conto dell’esistenza di un’interpretazione contraria, che esclude questa possibilità.

Procedimento

Si deve innanzitutto segnalare l’accennata importante novità contenuta nel D.L. 132/2014. Questa normativa prevede che gli ex-coniugi possano concordare una modifica delle loro condizioni di divorzio tramite una procedura facoltativa a quella giudiziale: la convenzione di negoziazione assistita da avvocati. La novità è entrata inizialmente in vigore dal 13 settembre 2014 ed è stata poi ulteriormente definita con la legge di conversione. Essa consiste nella possibilità di trovare un accordo per risolvere la controversia in via amichevole, grazie all’assistenza di avvocati (ciascuna delle due parti deve essere assistita da un legale e i due avvocati non devono appartenere allo stesso Studio Legale per evitare conflitti d’interesse). La negoziazione assistita inizia con l’invio di un invito a concludere la convenzione per la modifica delle condizioni di divorzio; la mancata risposta all’invito o il rifiuto sono elementi che potranno – in caso di successivo giudizio – essere tenuti in considerazione dal Giudice. L’accordo fra gli ex-coniugi deve essere raggiunto entro un termine prestabilito, comunque non inferiore a un mese dall’inizio della procedura di negoziazione assistita. L’accordo è sottoscritto dagli avvocati che assistono gli ex-coniugi. Nel sottoscrivere l’accordo, gli avvocati ne garantiscono la conformità «alle norme imperative ed all’ordine pubblico» e autenticano le sottoscrizioni apposte dagli ex-coniugi. Gli avvocati che assistono gli ex-coniugi divorziati hanno l’obbligo di trasmettere la copia autenticata dell’accordo all’Ufficiale dello Stato Civile del Comune in cui il matrimonio fu iscritto o trascritto.
Se non ci sono figli minorenni, incapaci o portatori di handicap gravi, occorrerà poi ottenere il nullaosta del Pubblico Ministero. La legge non prevede però un termine entro il quale il nullaosta deve essere richiesto.
Se invece ci sono figli minorenni, incapaci o portatori di handicap gravi, l’accordo deve essere trasmesso al Pubblico Ministero entro e non oltre 10 giorni. Esaminato l’accordo, il PM potrà quindi rilasciare la necessaria autorizzazione oppure, entro 5 giorni, ritrasmettere lo stesso accordo al Presidente del Tribunale, affinché si ordini la comparizione degli ex-coniugi. (Il procedimento relativo al rilascio da parte del Procuratore della Repubblica del nulla osta o dell’autorizzazione è esente dal contributo unificato di iscrizione a ruolo dovuto per ciascun grado di giudizio su richiesta di attività giurisdizionali delle parti interessate. Allo stesso modo è esente il procedimento davanti al Presidente del Tribunale).

Il D.L. 132/2014 prevede addirittura la possibilità di concordare una modifica delle condizioni di divorzio innanzi al Sindaco quale Ufficiale di Stato Civile, a condizione che in tali accordi non vi siano patti di trasferimento patrimoniale (ossia trasferimenti di beni immobili, mobili o somme di denaro – al momento non è chiaro, invece, se sia possibile inserire, nell’accordo concluso davanti all’ufficiale dello stato civile, anche la previsione di un obbligo di pagamento di una somma di denaro a titolo di assegno periodico: questa sembrava l’interpretazione dominante e più frequente nella prassi alla luce di quanto disposto dalla Circolare del Ministero degli Interni n. 6/2015, ma il TAR Lazio ha recentemente accolto un ricorso di nullità avverso tale Circolare, v. TAR Lazio, sezione I-ter, 7 luglio 2016 n. 7813) e che gli ex-coniugi non abbiano figli in comune che siano minorenni, incapaci o portatori di handicap gravi ovvero non autosufficienti dal punto di vista economico.
In tutti gli altri casi, il  coniuge interessato alla richiesta di modifica delle condizioni di divorzio relativa all’assegno o all’affidamento dei figli deve presentare ricorso al Tribunale competente, che provvede in camera di consiglio (ossia con un procedimento celere, “deformalizzato” e caratterizzato da maggior snellezza).
Nel procedimento instaurato per la revisione dei provvedimenti relativi ai figli è obbligatoria la presenza del Pubblico Ministero.
Nel corso della fase istruttoria i mezzi di prova utilizzabili sono i più disparati: prova testimoniale, consulenza tecnica d’ufficio, relazione degli assistenti sociali, indagini patrimoniali e accertamenti della Polizia Tributaria, ecc.
Il provvedimento conclusivo può essere oggetto di reclamo in Corte d’appello.

Diversamente, si potrà far leva sull’articolo 9 della legge sul divorzio che presuppone, per la proposizione dell’azione, l’esistenza – concreta e attuale – di “giustificati motivi” di natura economico patrimoniale.

Da un punto di vista strettamente processuale, il procedimento di revisione segue il rito camerale, e il decreto del tribunale è reclamabile alla Corte d’appello entro 10 giorni, revocabile in ogni tempo. I criteri con cui si individua la competenza del tribunale sono quelli di cui agli articoli 18 comma 1, 20 del c.p.c., 1182 comma 3 del c.c. e 12-quater della L. n. 898/70.

Mantenimento e modifiche degli accordi separativi e divorzili

Avv. Federica Federici

Il mantenimento reciproco tra coniugi ha la sua relazione giuridica nel dovere di assistenza morale e materiale a carico di ognuno degli sposi (art. 143 c.c.). La comunione di intenti e di beni, fondamento del matrimonio, caratterizza e diversifica questo istituto da qualsiasi altro accordo contrattuale.

Il dovere di mantenimento nei confronti dell’altro coniuge e della famiglia esiste in pendenza di vincolo matrimoniale, e l’erogazione dell’assegno di mantenimento a favore del coniuge separato privo di redditi ha il suo obbligo di legge nell’articolo 156 del codice civile.

Con la separazione personale, sia consensuale sia giudiziale, il vincolo matrimoniale non viene sciolto ma sospeso in modo transitorio, in attesa della sentenza di divorzio. La separazione si potrebbe anche non modificare e mai in una richiesta di divorzio e, si potrebbe anche interrompere avvenuta riconciliazione tra le parti che farebbe decadere i suoi effetti.

Lo status giuridico di coniuge resta inalterato mentre cambiano alcuni aspetti legati al matrimonio, ad esempio, l’obbligo di fedeltà e di convivenza.

Si congelano quei doveri di assistenza morale e di collaborazione, resta attivo il dovere di assistenza materiale che va a confluire nella determinazione dell’assegno di mantenimento per quel coniuge che ha bisogno di un sostentamento perché provo di redditi o con redditi insufficienti per adempiere alle sue necessità.

La condizione essenziale perché si generi questo onere a carico di uno dei due coniugi separati è la non titolarità di adeguati redditi propri.

Con la parola “adeguato” si intende quel reddito prodotto da una persona in modo autonomo e capace di consentirne il mantenimento del tenore di vita adottato in costanza di matrimonio.

La determinazione dell’assegno di mantenimento, che si fa anche se nessuna delle parti ha chiesto l’addebito, è molto legata all’individuazione della parte più svantaggiata a causa della sospensione del matrimonio se non dovesse essere in grado di garantire lo stesso tenore di vita del quale godeva in precedenza.

Il compito del giudice è mettere in equilibrio le reali capacità economiche della coppia separata stabilendo il giusto valore del mantenimento.

Se si dovesse verificare un inadempimento da parte del coniuge obbligato a corrispondere l’assegno, il giudice potrà disporre del sequestro dei beni o richiedere a terzi il versamento del denaro dovuto.

Modifiche condizioni separazione

La modifica delle condizioni di separazione tra coniugi è un provvedimento emesso dal Tribunale, su richiesta di una delle due parti o di entrambe, qualora siano mutate le condizioni espresse nell’accordo di separazione consensuale o nella sentenza di separazione giudiziale.

Le modalità procedurali auspicabili per addivenire alla modificazione delle condizioni sono il raggiungimento di un accordo stragiudiziale oppure la proposizione di un ricorso giudiziale congiunto. In entrambi i casi, la decisione giudiziale, ex art. 710 codice di procedura civile, è assunta in camera di consiglio

Qualora risulti impossibile un’intesa in tal senso, il coniuge interessato alla variazione sarà tenuto a introdurre un apposito procedimento mediante ricorso ai sensi dell’art. 710 codice di procedura civile, con l’assistenza necessaria di un avvocato. 

Il giudice deve sentire entrambe le parti e può disporre l’assunzione di mezzi di prova al fine di accertare le reali esigenze di cambiamento. 

A tale domanda seguirà o l’emissione di un decreto avente la natura di sentenza che, pertanto, conterrà specifica motivazione e sarà passibile di impugnazione con i mezzi espressamente previsti dall’ordinamento, oppure, nei casi di gravità e urgenza, l’adozione di un provvedimento modificatorio provvisorio, sempre revocabile e a sua volta modificabile.


Presupposti/fatti nuovi per la modifica

  • il coniuge beneficiario del mantenimento inizi una stabile e duratura convivenza con un altro partner, avviando una famiglia di fatto;
  • il coniuge beneficiario del mantenimento ottenga un aumento della retribuzione o aumenti i suoi guadagni o inizi un’adeguata attività lavorativa;
  • il coniuge tenuto al pagamento del mantenimento abbia una nuova famiglia con nuovi figli;
  • il coniuge tenuto al mantenimento subisca una invalidità o una consistente riduzione dello stipendio;
  • il coniuge tenuto al mantenimento perda il lavoro

Assegno divorzile

La meritevolezza

Prima della riforma l’assegno di divorzio veniva concesso in automatico, era sufficiente dimostrare la sproporzione tra i redditi dei due ex coniugi.

Adesso la giurisprudenza non si accontenta più e vuole la prova, da parte del richiedente, della sua impossibilità a mantenersi.

L’impossibilità  in questione, non deve dipendere da sua colpa.

Chi chiede gli alimenti deve dimostrare di non essere autosufficiente perché è molto anziano per cercare un lavoro (oltre i 45 anni circa),  oppure, è in condizioni di salute che non gli consentono di lavorare, oppure, di avere cercato un posto di lavoro non riuscendo nell’intento a causa del mercato occupazionale.

A questo proposito, dovrà dimostrare l’iscrizione ai centri per l’impiego, la partecipazione a bandi e concorsi, l’invio di curricula.

Oggi l’assegno divorzile richiede la meritevolezza e la prova la deve fornire chi pretende di essere mantenuto.

Al contrario, viene negato il mantenimento a chi è ancora giovane e/o ha una potenziale capacità lavorativa, perché possiede uno studio professionale o perché può vantare esperienze lavorative precedenti.

Il contributo proporzionato esclusivo per le casalinghe

Come scritto in precedenza, non c’è più proporzione tra il reddito del coniuge più benestante e l’assegno di divorzio, dovendo lo stesso garantire esclusivamente l’indipendenza economica.

Nel 2018 le Sezioni Unite della Suprema Corte dei Cassazione (Cass. sent. n. 18287/18) hanno evidenziato un’unica importante eccezione, relativa al coniuge che, avendo rinunciato al lavoro e a una sua carriera per badare agli impegni domestici e ai figli, ha in questo modo contribuito, con il suo lavoro casalingo, all’arricchimento dell’ex, consentendogli di concentrarsi sul lavoro.

Esclusivamente in presenza di simili circostanze, l’assegno di divorzio deve essere proporzionato alla ricchezza che l’altro coniuge ha potuto raggiungere.

Lo stesso, grazie a questo contributo, si è potuto dedicare di più al lavoro e alla carriera, vedendo incrementare la sua capacità di ricchezza.

La modificazione delle condizioni di divorzio è il provvedimento che viene emesso dal Tribunale competente su richiesta di uno dei coniugi divorziati qualora siano mutate in concreto le condizioni di cui alla sentenza di scioglimento del vincolo matrimoniale.
Per la modifica delle condizioni di divorzio, anziché rivolgersi al Tribunale, gli ex-coniugi possono ora trovare un accordo anche mediante la procedura di negoziazione assistita da avvocati, una delle maggiori novità previste dal DL 132/2014, così come modificato dalla relativa legge di conversione n. 162/2014. Gli avvocati che assistono gli ex-coniugi divorziati hanno l’obbligo di trasmettere la copia autenticata dell’accordo all’Ufficiale dello Stato Civile del Comune in cui il matrimonio fu iscritto o trascritto. Se non ci sono figli minorenni, incapaci o portatori di handicap gravi, occorrerà poi ottenere il nullaosta del Pubblico Ministero (ma non è previsto un termine entro il quale il nullaosta deve essere richiesto). Se invece ci sono figli minorenni, incapaci o portatori di handicap gravi, l’accordo deve essere trasmesso entro e non oltre 10 giorni al Pubblico Ministero, il quale potrà rilasciare la necessaria autorizzazione oppure, entro 5 giorni, ritrasmettere lo stesso accordo al Presidente del Tribunale, affinché si ordini la comparizione degli ex-coniugi.

Presupposti per la modificazione delle condizioni di divorzio

I presupposti per richiedere la modificazione delle condizioni di divorzio variano a seconda dei casi. In breve, secondo la Legge sul Divorzio consistono nella presenza di giustificati motivi sopravvenuti.

Con riferimento all’affidamento della prole, uno dei coniugi potrà richiedere l’affidamento esclusivo dei figli già affidati all’altro coniuge o l’affidamento condiviso, secondo l’interesse della prole stessa. Ad esempio, nell’ipotesi di affidamento dei figli a un solo genitore che impedisca il diritto di visita riconosciuto all’altro genitore o che fomenti l’astio dei figli nei confronti dell’altro coniuge, quest’ultimo potrà richiedere una revoca dell’affidamento all’ex coniuge.

Sul punto, si segnala che, per effetto del D.Lgs. 154/2013 in materia di filiazione, sono state introdotte nel Codice Civile alcune nuove disposizioni in tema di provvedimenti relativi ai figli e relativo affidamento, applicabili anche alle coppie divorziate (articoli da 337-bis a 337-octies cod. civ.). In questa sede, è opportuno menzionare in particolare quanto previsto dall’art. 337-quinquies cod. civ., secondo il quale la revisione delle disposizioni inerenti all’affidamento dei figli oppure la revisione dell’attribuzione della c.d. responsabilità genitoriale (che ha sostituito la precedente “potestà”) possono essere chieste in qualsiasi momento.

La revoca del provvedimento sull’affidamento della prole non presuppone sempre un comportamento “colpevole” da parte del genitore affidatario. Infatti, la revoca può essere chiesta anche per giustificati motivi, come ad esempio in caso di sopravvenuta malattia del coniuge affidatario qualora questa nuova situazione impedisca al malato di prendersi debitamente cura dei figli.

Con riferimento all’assegno divorzile o di mantenimento, può esserne richiesta la revisione – ossia l’aumento o la diminuzione – se le effettive condizioni economiche di uno dei coniugi sono cambiate; si può altresì richiedere semplicemente l’adeguamento dell’importo parametrato all’aumento dell’inflazione. Anche sotto questo profilo viene in rilievo il disposto, già citato, del nuovo art. 337-quinquies cod. civ., secondo il quale la modifica del contributo può essere chiesta in ogni tempo.

In caso di miglioramento delle condizioni economiche del coniuge avente diritto all’assegno divorzile, il coniuge tenuto al versamento non può decidere di sospendere l’erogazione della somma o di ridurne l’importo senza aver prima ottenuto una pronuncia favorevole da parte del Tribunale. In tal senso si è ritenuto che l’avvio di una convivenza da parte del coniuge avente diritto a percepire l’assegno divorzile può giustificare, da parte dell’altro coniuge, una richiesta di revisione dell’importo dell’assegno, come pure l’avvio di una convivenza da parte del coniuge obbligato a versare l’assegno divorzile all’altro coniuge può giustificare, da parte del primo coniuge, una richiesta di revisione dell’importo dell’assegno.

Nel caso in cui  la sentenza di divorzio non preveda il versamento di alcun assegno, secondo un’interpretazione si può avviare un procedimento per la modifica delle condizioni di divorzio allo scopo di richiedere l’assegno divorzile, purché si dimostrino le circostanze sopravvenute. La questione è comunque molto dibattuta e si deve dar conto dell’esistenza di un’interpretazione contraria, che esclude questa possibilità.

Procedimento

Si deve innanzitutto segnalare l’accennata importante novità contenuta nel D.L. 132/2014. Questa normativa prevede che gli ex-coniugi possano concordare una modifica delle loro condizioni di divorzio tramite una procedura facoltativa a quella giudiziale: la convenzione di negoziazione assistita da avvocati. La novità è entrata inizialmente in vigore dal 13 settembre 2014 ed è stata poi ulteriormente definita con la legge di conversione. Essa consiste nella possibilità di trovare un accordo per risolvere la controversia in via amichevole, grazie all’assistenza di avvocati (ciascuna delle due parti deve essere assistita da un legale e i due avvocati non devono appartenere allo stesso Studio Legale per evitare conflitti d’interesse). La negoziazione assistita inizia con l’invio di un invito a concludere la convenzione per la modifica delle condizioni di divorzio; la mancata risposta all’invito o il rifiuto sono elementi che potranno – in caso di successivo giudizio – essere tenuti in considerazione dal Giudice. L’accordo fra gli ex-coniugi deve essere raggiunto entro un termine prestabilito, comunque non inferiore a un mese dall’inizio della procedura di negoziazione assistita. L’accordo è sottoscritto dagli avvocati che assistono gli ex-coniugi. Nel sottoscrivere l’accordo, gli avvocati ne garantiscono la conformità «alle norme imperative ed all’ordine pubblico» e autenticano le sottoscrizioni apposte dagli ex-coniugi. Gli avvocati che assistono gli ex-coniugi divorziati hanno l’obbligo di trasmettere la copia autenticata dell’accordo all’Ufficiale dello Stato Civile del Comune in cui il matrimonio fu iscritto o trascritto.
Se non ci sono figli minorenni, incapaci o portatori di handicap gravi, occorrerà poi ottenere il nullaosta del Pubblico Ministero. La legge non prevede però un termine entro il quale il nullaosta deve essere richiesto.
Se invece ci sono figli minorenni, incapaci o portatori di handicap gravi, l’accordo deve essere trasmesso al Pubblico Ministero entro e non oltre 10 giorni. Esaminato l’accordo, il PM potrà quindi rilasciare la necessaria autorizzazione oppure, entro 5 giorni, ritrasmettere lo stesso accordo al Presidente del Tribunale, affinché si ordini la comparizione degli ex-coniugi. (Il procedimento relativo al rilascio da parte del Procuratore della Repubblica del nulla osta o dell’autorizzazione è esente dal contributo unificato di iscrizione a ruolo dovuto per ciascun grado di giudizio su richiesta di attività giurisdizionali delle parti interessate. Allo stesso modo è esente il procedimento davanti al Presidente del Tribunale).

Il D.L. 132/2014 prevede addirittura la possibilità di concordare una modifica delle condizioni di divorzio innanzi al Sindaco quale Ufficiale di Stato Civile, a condizione che in tali accordi non vi siano patti di trasferimento patrimoniale (ossia trasferimenti di beni immobili, mobili o somme di denaro – al momento non è chiaro, invece, se sia possibile inserire, nell’accordo concluso davanti all’ufficiale dello stato civile, anche la previsione di un obbligo di pagamento di una somma di denaro a titolo di assegno periodico: questa sembrava l’interpretazione dominante e più frequente nella prassi alla luce di quanto disposto dalla Circolare del Ministero degli Interni n. 6/2015, ma il TAR Lazio ha recentemente accolto un ricorso di nullità avverso tale Circolare, v. TAR Lazio, sezione I-ter, 7 luglio 2016 n. 7813) e che gli ex-coniugi non abbiano figli in comune che siano minorenni, incapaci o portatori di handicap gravi ovvero non autosufficienti dal punto di vista economico.
In tutti gli altri casi, il  coniuge interessato alla richiesta di modifica delle condizioni di divorzio relativa all’assegno o all’affidamento dei figli deve presentare ricorso al Tribunale competente, che provvede in camera di consiglio (ossia con un procedimento celere, “deformalizzato” e caratterizzato da maggior snellezza).
Nel procedimento instaurato per la revisione dei provvedimenti relativi ai figli è obbligatoria la presenza del Pubblico Ministero.
Nel corso della fase istruttoria i mezzi di prova utilizzabili sono i più disparati: prova testimoniale, consulenza tecnica d’ufficio, relazione degli assistenti sociali, indagini patrimoniali e accertamenti della Polizia Tributaria, ecc.
Il provvedimento conclusivo può essere oggetto di reclamo in Corte d’appello.

Diversamente, si potrà far leva sull’articolo 9 della legge sul divorzio che presuppone, per la proposizione dell’azione, l’esistenza – concreta e attuale – di “giustificati motivi” di natura economico patrimoniale.

Da un punto di vista strettamente processuale, il procedimento di revisione segue il rito camerale, e il decreto del tribunale è reclamabile alla Corte d’appello entro 10 giorni, revocabile in ogni tempo. I criteri con cui si individua la competenza del tribunale sono quelli di cui agli articoli 18 comma 1, 20 del c.p.c., 1182 comma 3 del c.c. e 12-quater della L. n. 898/70.

La fideiussione – schema

La fideiussione è un’obbligazione personale che un soggetto, il fideiussore, assume nei confronti di un creditore per garantire l’adempimento di un’obbligazione a carico di un terzo soggetto (debitore principale). In tale forma di garanzia, predomina l‘elemento personale ed è molto diffusa nella prassi bancaria. La fideiussione non necessità di forma scritta né esistono per essa forme specifiche: affinché la fideiussione sia valida, è sufficiente che il fideiussore esprima in modo chiaro la volontà di prestare la garanzia in favore del debitore. La fideiussione è un contratto bilaterale, a cui il debitore garantito è estraneo e, sovente, nella prassi, neppure è a conoscenza dell’esistenza della garanzia: ciò al fine di evitare che il debitore garantito non si impegni a fondo nell’adempimento, facendo affidamento sulla fideiussione. Per la fideiussione vige il principio dell’accessorietà, per cui la fideiussione è valida se è valida l’obbligazione principale, e sussiste il c.d. beneficium escussionis, per il quale il creditore deve preventivamente tentare l’escussione preventiva dell’obbligato principale e, in caso di insuccesso, chiedere il  pagamento al fideiussore. In questo caso, il fideiussore può surrogarsi al creditore principale ed esercitare l’azione di regresso contro l debitore principale, anche se questi non fosse a conoscenza dell’esistenza del garante. La fideiussione che prevede il beneficium escussionis è chiamata garanzia di seconda istanza o sussidiaria. La fideiussione bancaria si caratterizza per una serie di clausole vessatorie perché sono molto onerose per il garante e rappresentano le eccezioni alla disciplina codicistica.

La fideiussione bancaria si caratterizza per la frequente presenza, fra le altre, delle seguenti clausole:

–        contrariamente a quanto stabilito dalla disciplina ordinaria, il fideiussore risulta obbligato anche per le somme erogate, pur in mancanza di validità dell’obbligazione principale;

–        il garante deve pagare alla banca nel termine da questa indicata, anche se il debitore principale ha proposto eccezioni ed opposizioni;

–        la banca non ha l’onere di agire contro il debitore e il coobbligato nel termine di 6 mesi.

Fidejussione e contratto autonomo di garanzia

In caso di contratto autonomo di garanzia che non consente al garante di opporre eccezioni opponibili dal debitore è ammissibile il ricorso alla tutela cautelare atipica soltanto quando ricorra, con assoluta evidenza, la malafede del creditore.

Trib. Milano 17 luglio 2003: è consentito inibire su istanza del debitore ordinante in forza di provvedimento ex art. 700 c.p.c., il pagamento della somma di cui a una lettera di credito non potendo estendersi, anche per motivi di ordine pubblico, l’irrevocabilità dell’apertura di credito e l’indipendenza della medesima rispetto al rapporto causale sottostante sino a coprire il dolo, la frode o la malafede.

Avv. Federica Federici

 

NE BIS IN IDEM

NE BIS IN IDEM

 a cura dell’Avv. Antonio Giuffrida

L’effetto tipico del giudicato penale, inteso come aspetto sostanziale di pronuncia definitiva (in contrapposizione all’aspetto formale della pronuncia che attiene invece alla sua irrevocabilità), è costituito dalla preclusione della possibilità che nei confronti di un soggetto giudicato possa instaurarsi un procedimento penale per lo stesso fatto, preclusione che viene solitamente indicata col brocardo latino ne bis in idem.

Il ne bis in idem non riceve copertura costituzionale ma la trova invece nelle fonti internazionali di tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e precisamente all’art. 4 § 1 del VII Prot. C.E.D.U. e all’art. 14 § 7 del Patto Internazionale relativo ai diritti civili e politici.

Invero, l’esigenza di impedire che un soggetto sia processato più volte per il medesimo fatto è avvertita in maniera assai pregnante in ambito internazionale e, in particolare, europeo: qui la problematica del ne bis in idem si colloca all’interno del processo volto alla creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia attraverso gli strumenti dell’armonizzazione e del mutuo riconoscimento.

Sul piano della legislazione ordinaria il principio de quo trova riconoscimento all’art. 649 c.p.p. che, sotto la rubrica “Divieto di un secondo giudizio”, enuncia testualmente:

“1. L’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze, salvo quanto disposto dagli articoli 69 comma 2 e 345.

2. Se ciò nonostante viene di nuovo iniziato procedimento penale, il giudice in ogni stato e grado del processo pronuncia sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, enunciandone la causa nel dispositivo.”

La regola in questione opera sul piano processuale ed ha una portata diversa rispetto a quella dell’art. 15 c.p., per cui nessuno può essere punito più volte per uno stesso fatto regolato da più norme penali: prescrizione, quest’ultima, che non varrebbe da sola ad impedire né il moltiplicarsi dei giudizi né la reiterazione delle condanne.

Inoltre occorre rilevare che l’art. 649, nel vietare la ripetizione del giudizio, si limita a precludere una nuova persecuzione penale della persona per il medesimo fatto: ma nulla impedisce al giudice di riconsiderlo ai fini della prova di un diverso reato o in relazione alla posizione di altri imputati.

Il primo presupposto necessario per l’operatività del ne bis in idem è costituito dalla irrevocabilità della decisione: tale caratteristica assiste certamente le sentenze dibattimentali di condanna o di proscioglimento, i decreti penali di condanna, le sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti, quelle pronunciate in esito al giudizio abbreviato e quelle predibattimentali di proscioglimento ex art. 469. Evidente è invece l’impossibilità di applicare l’art. 649 ai decreti e alle ordinanze di archiviazione, la cui adozione non impedisce che nei confronti della stessa persone siano svolte ulteriori indagini e sia formulata l’imputazione, in quanto gli stessi non costituiscono decisioni sull’azione penale; mentre controversa è la questione relativa alle sentenze di non luogo a procedere, stante la prescrizione di cui all’art. 669 c. 9 c.p.p. che in caso di successiva sentenza di condanna ne impone la revoca.

In proposito occorre sottolineare che, con sentenza 34655/2005, le Sezioni Unite della Cassazione si sono pronunciate sul contrasto di giurisprudenza insorto riguardo l’applicabilità dell’art. 649 c.p.p. alle sentenze non ancora passate in giudicato.

La giurisprudenza di legittimità, già sotto l’imperio dell’art. 90 del previgente codice di procedura penale, il cui contenuto è riprodotto dall’art. 649 codice di procedura vigente, rimanendo ferma sul dettato testuale della norma, ha ritenuto imprescindibile il requisito della previa sentenza passata in giudicato per l’applicazione del divieto del ne bis in idem.

L’orientamento minoritario, espresso da Cass. Sez. V, 10/07/95, pur tenendo presente il dato testuale dell’art. 649 c.p.p., esclude che possa tuttavia procedersi più volte nei confronti della stessa persona per il medesimo fatto, dovendosi pertanto applicare l’art. 649 c.p.p. oltre il suo tenore letterale.

Un ulteriore orientamento giurisprudenziale ha individuato nella disciplina codicistica dettata per risolvere i casi di litispendenza risultanti dalla contemporanea instaurazione di più processi per il medesimo fatto, contro la medesima persona, innanzi a giudici diversi. Muovendo dal disposto dell’art. 28, c. 1 lett. b, c.p.p. diverse pronunce, sin dalla vigenza del vecchio codice di rito, hanno statuito che, quando pendono più procedimenti in fasi diverse contro lo stesso imputato e per il medesimo fatto, è competente il giudice del processo che si trova nella fase più avanzata, disponendosi l’unificazione dei procedimenti mediante assorbimento, così applicando il criterio della progressione.

Tale orientamento è stato censurato dalla presente pronuncia della Cassazione, rilevandosi come la disciplina di cui agli artt. 28 segg. c.p.p. è dettata per regolare i casi di contemporanea pendenza di identici procedimenti innanzi a sedi diverse, e non già in fasi o gradi diversi (o giudici) della medesima sede giudiziaria. Neppure è applicabile il c. 2 dell’art. 28 c.p.p., che mira a risolvere i conflitti, soggettivamente o oggettivamente analoghi, che diano luogo a situazioni di contrasto tra giudici tali da determinare una stasi dell’attività processuale.

Nessuna di queste situazioni ricorre nel caso in esame, che vede invece la pendenza contemporanea di identici processi nei confronti degli stessi imputati, in fasi o gradi diversi (Tribunale e Corte di Appello) della medesima sede.

La Corte censura altresì la prassi, insorta in tali casi, di frenare il corso del primo processo di modo che, una volta pervenuto l’altro nella stessa fase e grado, si possa disporne la riunione, atteso che l’art. 3 c.p.p. elenca tassativamente le ipotesi di sospensione del processo, non consentendone applicazione analogica.

In conclusione, la Corte individua la soluzione nel principio di preclusione processuale.

Va ricordato come il giudicato penale si caratterizza per l’indifferenza del contenuto della decisione rispetto al prodursi della sua efficacia. La cosa giudicata penale non ha ad oggetto l’accertamento positivo o negativo del reato; non si identifica con l’efficacia regolamentare della decisione, che è invece tipica del giudicato civile, ex art. 2909 c.c., ancorato all’accertamento contenuto nella sentenza, ma con la sentenza (penale) in sé e per sé, che rileva pertanto come fatto giuridico in senso stretto. Autorevole dottrina (Carnelutti), infatti, ritiene che il significato della sentenza penale sta nel “vietare o comandare che il processo continui, passando dalla fase di cognizione a quella di esecuzione”; l’efficacia puramente processuale della sentenza invita a parlare, anziché di giudicato, di preclusione, che dal giudicato si distingue perché non assicura un bene della vita, ma risolve la questione dedotta in maniera irrevocabile e definitiva.

Seguendo l’articolato ragionamento della Cassazione, la preclusione si manifesta in forma differenti, tra cui la consumazione del potere di azione penale nonché, parallelamente, il potere di “ius dicere” da parte del giudice investito della cognizione della medesima res iudicanda; l’ufficio del P.M. non potrà pertanto reiterare l’azione penale contro la stessa persona per il medesimo reato; il Giudice non potrà pronunciarsi per la seconda volta sul medesimo fatto.

Le Sezioni Unite formulano così il principio di diritto:

Le situazioni di litispendenza, non riconducibili nell’ambito dei conflitti di competenza di cui all’art. 28 c.p.p., devono essere risolte dichiarando nel secondo processo, pur in mancanza di una sentenza irrevocabile, l’impromovibilità dell’azione penale in applicazione della preclusione fondata sul principio generale del ne bis in idem, semprechè i due processi abbiano ad oggetto il medesimo fatto attribuito alla stessa persona, siano stati instaurati ad iniziativa dello stesso ufficio del pubblico ministero e siano devoluti, anche se in fasi o in gradi diversi, alla cognizione di giudici della stessa sede giudiziaria”.

In sostanza le SS.UU., in una prospettiva implicitamente rivolta alla salvaguardia dell’economia processuale, posto il principio dell’irretrattabilità e non reiterabilità dell’azione penale affermano che è impromovibile l’azione penale c.d. “doppione” di un processo pendente presso la stessa sede: ciò non tanto perché l’art. 649 c.p.p. dev’essere letto estensivamente (e quindi applicato anche in assenza di una decisione irrevocabile) ma perché invece deve darsi atto della sussistenza di un principio generale, immanente nel nostro sistema processuale penale (appunto il principio del ne bis in idem) di cui la norma in questione rappresenta solo una specificazione e che ha come conseguenza la consumazione del potere di esercitare l’azione penale quando è già stato fatto per la prima volta.

Ulteriore presupposto necessario perché operi l’effetto preclusivo di cui all’art. 649 è che si tratti del medesimo fatto: al riguardo non rileva il mutamento del titolo del reato (dolo, colpa, preterintenzione) né tantomeno il grado (reato tentato o consumato) o le circostanze (aggravanti o attenuanti); ciò che rileva è infatti il “nucleo storico” del fatto, da intendersi come identità della condotta e, nei reati materiali, dell’oggetto fisico su cui la condotta è caduta. Mentre la dottrina non ritiene quindi necessaria la corrispondenza di tutti gli elementi costitutivi del reato, la giurisprudenza dominante ritiene invece coperto dal ne bis in idem solo il fatto sovrapponibile in tutti i suoi elementi (condotta, evento, nesso causale, circostanze).

Come recita l’ultima parte del c. 1 dell’art. 649 nessuna preclusione opera con riferimento alle ipotesi di sentenza ex art. 129 adottata sul presupposto della morte dell’imputato erroneamente dichiarata (art. 69 c. 2) e quella di sopravvenienza di una condizione di procedibilità la cui mancanza aveva prima giustificato il proscioglimento (art. 345).

Con riguardo all’ipotesi di violazione del divieto del bis in idem e quindi quando viene iniziato un nuovo procedimento penale nei confronti di un soggetto già giudicato il c. 2 dell’art. 649 prevede che il giudice, in ogni stato e grado del processo, pronunci sentenza di proscioglimento (in dibattimento) ovvero di non luogo a procedere (in udienza preliminare); mentre se l’improcedibilità non viene rilevata e si giunge quindi ad una nuova pronuncia si dovranno applicare le regole sul conflitto pratico di giudicati, ispirate al principio del favor rei.

Ambito applicativo dell’art. 348 c.p.- Abusivo esercizio di una professione

di Antonella Martucci

 

Inquadramento: L’art. 348 c.p. è inserito del titolo II, capo II, relativo ai delitti dei privati contro la pubblica amministrazione.  Tale disposizione punisce chi esercita abusivamente una professione per il cui esercizio lo Stato prevede una speciale abilitazione.

La  ratio della norma consiste nella tutela dell’interesse generale a che una determinata professione, che richieda determinate competenze tecniche e qualità morali, sia esercitata dopo aver conseguito una specifica abilitazione amministrativa.

Bene giuridico: l’interesse a che determinate attività siano poste in essere da soggetti dichiarati idonei per aver conseguito l’abilitazione richiesta dalla legge.

Soggetto attivo: chiunque si trovi sprovvisto dei requisiti richiesti per l’esercizi della professione; ovvero, pur possedendo i suddetti requisiti sotto il profilo sostanziale, non abbia conseguito l’abilitazione formale.

Soggetto passivo: è lo Stato. Ciò determina due conseguenze:

  1. Non può essere considerata scriminante l’eventuale consenso da parte del destinatario della prestazione professionale abusiva;
  2. Non è ammessa la costituzione come parte civile nel processi penali da parte degli ordini professionali. Ciò in quanto il loro danneggiamento è solo riflesso e mediato.

Elemento soggettivo: il dolo. Consapevolezza e volontà di compiere uno o più atti relativi ad una professione senza essere in possesso dei requisiti formali richiesti.

Condotta: consiste nell’esercizio abusivo della professione. Quindi, la professione deve essere esercitata abusivamente, inteso con ciò, a livello generale, l’esercizio dell’attività senza essere in possesso dei requisiti richiesti dalla legge. Vi è un indirizzo generalmente seguito in dottrina e giurisprudenza (recentemente avvallato delle S.U.)secondo cui la capacità di esercizio della professione non è limitato al solo possesso della speciale abilitazione, ma riconosce che tale capacità può essere connessa ad altri requisiti, quale l’iscrizione in appositi albi.

Consumazione: nel momento e luogo in cui è posto in essere il primo atto d’esercizio.

Tentativo: è configurabile.

 

Aspetti peculiari: La norma in esame è considerata una norma penale in bianco. Secondo giurisprudenza costante, detta norma necessità d’integrazione da parte di altre fonti con riferimento:

  • All’attività oggetto di abilitazione statale;
  • All’abusività del loro esercizio.

Sul punto si è inoltre precisato che possono essere considerate fonti integrative non solo quelle che determinano la disciplina dei vari ordinamenti professionali, ma tutte le normative rilevanti allo scopo.

Più in particolare, nel 2007 i giudici di legittimità avevano rilevato che l’integrazioni da parte di norme di rango primario può riguardare le condizioni oggettive e soggettive in mancanza delle quali vi è un esercizio abusivo della professione. Diversamente, l’integrazione da parte di norme di rango secondario dove limitarsi a indicare regole tecniche in grado di specificare elementi già contenuti nel precetto penale.

A fronte di tale orientamento, vi è una diversa tesi di dottrina e Corte Costituzionale, secondo cui l’art. 348 c.p. delinea in maniera esauriente gli elementi costitutivi della fattispecie, senza che i contenuti  e i limiti di ciascuna abilitazione confluiscano nel fatto tipico.

Al di là dei contrapposti orientamenti illustrati, è pacifico che la fattispecie oggetto di studio presenti una formulazione eccessivamente astratta in cui l’eterointegrazione da parte di norme extrapenali assume un ruolo determinante nella determinazione dell’area penalmente rilevante. Tale rilevanza diventa massima in caso integrazione da parte di una normativa dell’Unione Europea, che può condurre, in alcuni casi, alla disapplicazione dell’art. 348 c.p.

Ambito applicativo: l’argomento è stato oggetto di una querelle giurisprudenziale recentemente risolta dalle Sezioni Unite. In particolare, ci si è posti il problema di quali atti debbano rientrare nel campo applicativo dell’articolo in questione. Al riguardo si sono sviluppati due diverse linee di pensiero:

1)      orientamento tradizionale: gli atti rilevanti ex l’art. 348 c.p. sono quelli attribuiti in via esclusiva ad una determinata professione. Tale orientamento si basa sul principio di libertà economica ex art. 41, co. 1 Cost., oltre che sulla considerazione che altrimenti vi sarebbe un’applicazione analogica della legge penale e la violazione del principio di tassatività. In particolare, il principio di tassatività richiede che la fonte esterna individui in modo preciso gli atti specifici di quella professione, al fine di evitare confusione con professioni limitrofe. Ed è proprio tale considerazione che rappresenta un punto di debolezza per tale orientamento. Al riguardo, si è, infatti, osservato come le varie normative di settore siano carenti di chiarezza ed univocità circa l’indicazione degli atti attributi esclusivamente ad una determinata professione;

2)      orientamento recente: parte dal concetto di “esercizio di una professione”, inteso come il compimento di atti caratteristici della stessa. Più nello specifico la professione è “un’attività umana caratterizzata da continuità e svolta a fine lucrativo e con autonomia da un soggetto con un adeguato corredo di cognizione tecnico scientifico”. Pertanto, secondo tale orientamento, tutti gli atti caratteristici di una professione assumono rilevanza ex art. 348 c.p. Nello specifico, tale tesi effettua una distinzione tra:

  • atti attribuiti in via esclusiva ad una professione, il cui compimento determina la realizzazione del reato anche mediante la realizzazione in via occasionale e gratuita;
  • atti relativamente liberi, strumentalmente connessi all’esercizio di una professione, e che risultano protetti se svolti con continuità, organizzazione e  remunerazione.

Inoltre, tale filone giurisprudenziale ha evidenziato che l’estensione dell’incriminazione anche agli atti relativamente liberi si rende necessario per la tutela del legittimo affidamento che un cittadino ripone nella circostanza che un professionista, in quanto abbia superato un esame di abilitazione e sia soggetto a determinate regole, possa incorrere in sanzioni disciplinari in caso di violazioni delle stesse.

Come già in precedenza accennato, sulla questione sono intervenute le S.U. (Cass. Pen. Sez. Un, 23 marzo 2012, n. 11545). Con tale sentenza gli ermellini, aderendo sostanzialmente all’interpretazione estensiva, hanno ritenuto che vi sia abusivo esercizio di una professione anche nel caso in cui vengono posti in essere atti relativamente liberi. I giudici di legittimità hanno, infatti, sostenuto che gli atti caratteristici di una professione, seppur non esclusivi, servono comunque a qualificarla se svolti con un certo tipo di organizzazione, in modo continuativo e remunerativo.

Con tale sentenza, però, le S.U. hanno apportato un correttivo alla suddetta interpretazione estensiva. Nello specifico gli ermellini hanno rilevato che non rientrano tra gli atti di esercizio di una professione quelli individuati in modo generico dalla stessa normativa di settore. Più in particolare, nel rispetto del principio di tassatività, che opera, oltre che per le disposizioni penale, anche per fonti integrative del precetto, gli atti relativamente liberi debbono essere qualificati nelle varie normativa di settore, attraverso una previsione puntuale e non generica, come di specifica o particolare competenza di quella professione.  Muta, quindi, l’oggetto della tipicità, non più riferibile al singolo atto, ma alle modalità di esercizio delle attività.

Ambito applicativo dell’art. 348 c.p.- Abusivo esercizio di una professione.

a cura della D.ssa Antonella Martucci

 

Inquadramento: L’art. 348 c.p. è inserito del titolo II, capo II, relativo ai delitti dei privati contro la pubblica amministrazione.  Tale disposizione punisce chi esercita abusivamente una professione per il cui esercizio lo Stato prevede una speciale abilitazione.

La  ratio della norma consiste nella tutela dell’interesse generale a che una determinata professione, che richieda determinate competenze tecniche e qualità morali, sia esercitata dopo aver conseguito una specifica abilitazione amministrativa.

Bene giuridico: l’interesse a che determinate attività siano poste in essere da soggetti dichiarati idonei per aver conseguito l’abilitazione richiesta dalla legge.

Soggetto attivo: chiunque si trovi sprovvisto dei requisiti richiesti per l’esercizi della professione; ovvero, pur possedendo i suddetti requisiti sotto il profilo sostanziale, non abbia conseguito l’abilitazione formale.

Soggetto passivo: è lo Stato. Ciò determina due conseguenze:

  1. Non può essere considerata scriminante l’eventuale consenso da parte del destinatario della prestazione professionale abusiva;
  2. Non è ammessa la costituzione come parte civile nel processi penali da parte degli ordini professionali. Ciò in quanto il loro danneggiamento è solo riflesso e mediato.

Elemento soggettivo: il dolo. Consapevolezza e volontà di compiere uno o più atti relativi ad una professione senza essere in possesso dei requisiti formali richiesti.

Condotta: consiste nell’esercizio abusivo della professione. Quindi, la professione deve essere esercitata abusivamente, inteso con ciò, a livello generale, l’esercizio dell’attività senza essere in possesso dei requisiti richiesti dalla legge. Vi è un indirizzo generalmente seguito in dottrina e giurisprudenza (recentemente avvallato delle S.U.)secondo cui la capacità di esercizio della professione non è limitato al solo possesso della speciale abilitazione, ma riconosce che tale capacità può essere connessa ad altri requisiti, quale l’iscrizione in appositi albi.

Consumazione: nel momento e luogo in cui è posto in essere il primo atto d’esercizio.

Tentativo: è configurabile.

 

Aspetti peculiari: La norma in esame è considerata una norma penale in bianco. Secondo giurisprudenza costante, detta norma necessità d’integrazione da parte di altre fonti con riferimento:

  • All’attività oggetto di abilitazione statale;
  • All’abusività del loro esercizio.

Sul punto si è inoltre precisato che possono essere considerate fonti integrative non solo quelle che determinano la disciplina dei vari ordinamenti professionali, ma tutte le normative rilevanti allo scopo.

Più in particolare, nel 2007 i giudici di legittimità avevano rilevato che l’integrazioni da parte di norme di rango primario può riguardare le condizioni oggettive e soggettive in mancanza delle quali vi è un esercizio abusivo della professione. Diversamente, l’integrazione da parte di norme di rango secondario dove limitarsi a indicare regole tecniche in grado di specificare elementi già contenuti nel precetto penale.

A fronte di tale orientamento, vi è una diversa tesi di dottrina e Corte Costituzionale, secondo cui l’art. 348 c.p. delinea in maniera esauriente gli elementi costitutivi della fattispecie, senza che i contenuti  e i limiti di ciascuna abilitazione confluiscano nel fatto tipico.

Al di là dei contrapposti orientamenti illustrati, è pacifico che la fattispecie oggetto di studio presenti una formulazione eccessivamente astratta in cui l’eterointegrazione da parte di norme extrapenali assume un ruolo determinante nella determinazione dell’area penalmente rilevante. Tale rilevanza diventa massima in caso integrazione da parte di una normativa dell’Unione Europea, che può condurre, in alcuni casi, alla disapplicazione dell’art. 348 c.p.

Ambito applicativo: l’argomento è stato oggetto di una querelle giurisprudenziale recentemente risolta dalle Sezioni Unite. In particolare, ci si è posti il problema di quali atti debbano rientrare nel campo applicativo dell’articolo in questione. Al riguardo si sono sviluppati due diverse linee di pensiero:

1)      orientamento tradizionale: gli atti rilevanti ex l’art. 348 c.p. sono quelli attribuiti in via esclusiva ad una determinata professione. Tale orientamento si basa sul principio di libertà economica ex art. 41, co. 1 Cost., oltre che sulla considerazione che altrimenti vi sarebbe un’applicazione analogica della legge penale e la violazione del principio di tassatività. In particolare, il principio di tassatività richiede che la fonte esterna individui in modo preciso gli atti specifici di quella professione, al fine di evitare confusione con professioni limitrofe. Ed è proprio tale considerazione che rappresenta un punto di debolezza per tale orientamento. Al riguardo, si è, infatti, osservato come le varie normative di settore siano carenti di chiarezza ed univocità circa l’indicazione degli atti attributi esclusivamente ad una determinata professione;

2)      orientamento recente: parte dal concetto di “esercizio di una professione”, inteso come il compimento di atti caratteristici della stessa. Più nello specifico la professione è “un’attività umana caratterizzata da continuità e svolta a fine lucrativo e con autonomia da un soggetto con un adeguato corredo di cognizione tecnico scientifico”. Pertanto, secondo tale orientamento, tutti gli atti caratteristici di una professione assumono rilevanza ex art. 348 c.p. Nello specifico, tale tesi effettua una distinzione tra:

  • atti attribuiti in via esclusiva ad una professione, il cui compimento determina la realizzazione del reato anche mediante la realizzazione in via occasionale e gratuita;
  • atti relativamente liberi, strumentalmente connessi all’esercizio di una professione, e che risultano protetti se svolti con continuità, organizzazione e  remunerazione.

Inoltre, tale filone giurisprudenziale ha evidenziato che l’estensione dell’incriminazione anche agli atti relativamente liberi si rende necessario per la tutela del legittimo affidamento che un cittadino ripone nella circostanza che un professionista, in quanto abbia superato un esame di abilitazione e sia soggetto a determinate regole, possa incorrere in sanzioni disciplinari in caso di violazioni delle stesse.

Come già in precedenza accennato, sulla questione sono intervenute le S.U. (Cass. Pen. Sez. Un, 23 marzo 2012, n. 11545). Con tale sentenza gli ermellini, aderendo sostanzialmente all’interpretazione estensiva, hanno ritenuto che vi sia abusivo esercizio di una professione anche nel caso in cui vengono posti in essere atti relativamente liberi. I giudici di legittimità hanno, infatti, sostenuto che gli atti caratteristici di una professione, seppur non esclusivi, servono comunque a qualificarla se svolti con un certo tipo di organizzazione, in modo continuativo e remunerativo.

Con tale sentenza, però, le S.U. hanno apportato un correttivo alla suddetta interpretazione estensiva. Nello specifico gli ermellini hanno rilevato che non rientrano tra gli atti di esercizio di una professione quelli individuati in modo generico dalla stessa normativa di settore. Più in particolare, nel rispetto del principio di tassatività, che opera, oltre che per le disposizioni penale, anche per fonti integrative del precetto, gli atti relativamente liberi debbono essere qualificati nelle varie normativa di settore, attraverso una previsione puntuale e non generica, come di specifica o particolare competenza di quella professione.  Muta, quindi, l’oggetto della tipicità, non più riferibile al singolo atto, ma alle modalità di esercizio delle attività.

Dolo eventuale e colpa cosciente

DIFFERENZA TRA DOLO EVENTUALE E COLPA COSCIENTE.

ASPETTI DI UNA RESPONSABILITA’ DOLOSA NEI DELITTI CARATTERIZZATI  DA COLPA CON PREVISIONE.

* * * * * *

di Nicola Nicodemo Damiano

in collaborazione con Armando Dello Iacovo

 

L’ordinamento penale attuale contiene alcune norme che individuano l’elemento psicologico del reato nonché il criterio di attribuzione della responsabilità in capo al soggetto agente.

L’art. 42 c.p., intitolato “Responsabilità per dolo o per colpa o per delitto preterintenzionale”, contiene la previsione del requisito subiettivo minimo, ovvero gli elementi base di connessione fra l’agire dell’uomo e la sua soggettività.

Già l’art. 42 c.p. enuncia in termini assoluti la necessità delle categorie soggettive, stabilendo che nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta come reato se non l’ha commessa con coscienza e volontà.

Come affermava un’autorevole voce della dottrina: “ Un’azione umana può appartenere ad un dato soggetto, solo quando è riferita ad egli come persona”  (Antonlisei).

Aspetti utili da approfondire sono:

1)    Concetto di dolo;

2)    Il dolo eventuale;

3)    La colpa cosciente;

4)    Resp. Dolosa nelle ipotesi di eventi conseguenti a violazione delle norme sulla circolazione stradale.

Nell’origine dell’uomo sono realizzate azioni determinate, volute dalla persona, le quali hanno la peculiarità di provocare eventi e modificazioni del mondo esterno, percepibili nella realtà.

Il legame che esiste tra l’agire dell’uomo e le modificazioni della realtà circostante, è denominato RESPONSABILITA’. Ciò che viene realizzato o modificato nella realtà circostante è frutto dell’azione dei soggetti.

L’elemento psicologico del reato rappresenta, invece, il grado di appartenenza dell’evento determinato all’azione del soggetto agente.

L’evento può “appartenere in tutto e per tutto” alla condotta e all’agire del soggetto agente, ovvero può appartenere in misura ridotta ed affievolita, in quanto condizionata da alcuni fattori esterni.

L’art. 43 c.p. nel delineare l’elemento psicologico del reato distingue tre  ipotesi: delitto doloso; delitto colposo; e delitto preterintenzionale.

Il delitto è doloso quando sussistono la previsione e la volontà dell’evento, in tale caso è già implicita la coscienza dell’azione, si esige la  previsione e volontà dell’evento, quale ulteriore requisito soggettivo.

Ciò significa che il soggetto deve rappresentarsi mentalmente il risultato finale del proprio agire, vederlo prima che esso si realizzi. In tale ipotesi il soggetto ha creato prima nella propria mente l’evento da portare a termine, poi ha realizzato materialmente quella data azione al fine di raggiungere l’obiettivo che si era prefigurato di realizzare.

Il dolo viene distinto in varie figure, tutte appartenenti alla categoria generale della responsabilità dolosa.

La classificazione prevede: DOLO INTENZIONALE, (vedi art. 323 c.p. per il reato di abuso d’ufficio) quando l’evento voluto è conforme a quello che il soggetto desiderava che si verificasse; DOLO EVENTUALE, detto anche indiretto, che si ha quando l’evento è soltanto accettato dall’agente, non è proprio desiderato (o sperato) ma il responsabile lo accetta volentieri, difatti l’evento realizzato non è coincidente con il fine particolare dell’azione del soggetto e perciò non può essere esclusivo; DOLO ALTERNATIVO, che si verifica quando colui che agisce si rappresenta la possibilità di realizzare più eventi voluti e spera che almeno uno di essi si realizzi in concreto; DOLO SPECIFICO, quando la norma indica il particolare fine che ha mosso il soggetto ad agire.

Se il fine è specificato dalla norma (di qui il nome DOLO SPECIFICO) bisogna accertare che il fine perseguito era proprio quello specificato nella descrizione della fattispecie. Nel codice il legislatore usa termini singolari come ad esempio “al fine di cagionare. . ; – chiunque allo scopo di. . .”; proprio per evidenziare la specifica volizione del soggetto agente. Se  risulta diverso non potrebbe dirsi che il fatto sia stato commesso con dolo.

Altre categorie sono rappresentate dal DOLO GENERICO (non specificato dalla norma e che si contrappone a quello specifico), e la PREMEDITAZIONE, intesa quale forma di dolo con maggiore e diversa intensità (il progetto criminale viene coltivato in un intervallo di tempo che raffigura il proposito criminale del soggetto agente, il quale prepara con scrupolosità l’esecuzione del reato ipotizzato).

Per quanto concerna la COLPA, è lo stesso art. 43 c.p. a mettere in evidenza i criteri per individuare tale elemento psicologico del reato, stabilendo che: “il delitto è colposo o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline”.

Dal tenore della norma si desume, a rigor di logica,  che la colpa è posta in netta contrapposizione con la figura del dolo, in quanto l’espressione usata dal legislatore è molto chiara a riguardo, difatti viene usata la parola “CONTRO” riferita all’intenzionalità del delitto. Analizzando nel dettaglio la previsione normativa si può notare che viene poi aggiunto “ quando l’evento, anche se preveduto, NON E’ VOLUTO DALL’AGENTE”. Questo significa che l’intenzione del legislatore è di escludere a priori qualsiasi forma di intenzionalità nel delitto colposo, il quale si verifica non per volontà dell’agente, ma per sua negligenza o imprudenza ovvero imperizia. Manca proprio l’elemento volitivo dell’evento cagionato, che viene attribuito al responsabile per la sua trascuratezza e per il suo  comportamento superficiale.

Quando una persona agisce con poca cura e con negligenza, risponderà delle azione causate a titolo di colpa. La dottrina e la stessa giurisprudenza individuano diverse figure di colpa, quella generica, la colpa specifica ed anche la colpa professionale a seconda delle varie modalità di estrinsecazione.

La colpa punibile, ai sensi dell’art. 43 c.p., si realizza non solo nella inosservanza di obblighi imposti da leggi e regolamenti, ma anche in un comportamento negligente ed imprudente, violatore di regole fondamentali di condotta, che si dimostri tale da aver determinato un evento delittuoso estraneo alla volontà del soggetto, da intendere nel senso che se detta condotta fosse stata regolare l’evento dannoso non si sarebbe verificato.

Fatte queste doverose premesse, bisogna individuare gli elementi di differenza tra il dolo eventuale e la colpa cosciente.

Come precisato innanzi il dolo eventuale si caratterizza per una volontà espressa dal soggetto agente in maniera diversa da quella poi realizzata nel concreto, nel senso che il soggetto accetta l’evento realizzato dalla sua azione, anche se non era proprio quello desiderato. Si parla in questi casi di DOLO INDIRETTO, in quanto il soggetto non ha il proposito di cagionare l’evento delittuoso, ma si rappresenta la probabilità, o la possibilità, che esso si verifichi e ne accetta il rischio (sul punto CASSAZ.  Sez. Unite sent. 3428 del 25-3-1992).

La colpa cosciente si realizza quando il soggetto è consapevole che deve agire con cura e diligenza nel compiere una determinata azione, ma per sua  imprudenza, trascura quelle accortezze e quelle forme di cautela che il caso di specie richiede.

Il soggetto sa di dover agire con una determinata prudenza, quindi è cosciente del rischio che incombe in quella determinata attività, la quale richiede un’attenzione maggiore, ma ciò nonostante si comporta con negligenza.

In questi casi manca comunque l’elemento della volontà e della previsione dell’evento dannoso, nel senso innanzi specificato, ovvero il soggetto non ha voluto il verificarsi dell’evento dannoso, ma questo si è realizzato per una sua negligenza, senza volontarietà nel danno arrecato al bene protetto.

Risponde il soggetto responsabile per una sua mancata prudenza nel compimento della sua azione, ma senza imputare ad  esso una volontà nella causazione dell’evento dannoso.

A tale proposito esistono alcune teorie elaborate dalla dottrina.

La prima tesi è quella denominata del “Dolus Generalis”, secondo la quale sussiste l’elemento del dolo in tutte le conseguenze di un’azione umana, sia quella posta come principale, si quelle azioni minori che sono realizzate in quanto collegate alla condotta principale. Non ci sarebbe spazio per la colpa cosciente in situazioni di tale genere, contraddistinte dall’elemento volitivo dell’azione.

A tale tesi si è affiancata quella elaborata dalla dottrina minoritaria nota con il nome di “Formula di Frank”, la quale pone l’accento sulla questione del comportamento dell’agente, analizzando la domanda: “Cosa avrebbe fatto il soggetto attivo del reato se si fosse rappresentato l’evento come certo e sicuro?”.

Tali tesi dottrinarie sono state criticate dalla giurisprudenza recente, per alcuni aspetti poco chiari e poco pertinenti, nonché  per la difficile applicazione pratica delle stesse.

L’elemento di discrimine tra dolo eventuale e colpa cosciente è dato dalla volizione e previsione dell’evento in quanto nella colpa  cosciente il soggetto ipotizza solo astrattamente l’evento, ma non vuole la sua  realizzazione ed è sicuro di escludere l’evento in base alla propria attività, mentre nel dolo eventuale il soggetto, si prefigura l’evento dannoso, sa che quel dato evento è  possibile che venga a realizzarsi, di conseguenza accetta consapevolmente il grave rischio della realizzazione dell’evento, comportandosi in modo da poterlo determinare,  in sostanza sa che la sua condotta volontaria porterà con ogni probabilità all’evento dannoso.

Proprio perchè si tratta di dolo, anche se indiretto, significa che l’intenzionalità del responsabile sussiste, mentre nella colpa cosciente non vi è traccia di volontà offensiva.

Secondo gli ultimi orientamenti giurisprudenziali il fondamento del dolo eventuale risiede nella rappresentazione e nella conseguente accettazione della concreta possibilità di realizzazione dell’evento accessorio allo scopo perseguito in via primaria dal soggetto agente.

Il reo compie un’azione precisa accettando il rischio del verificarsi dell’evento  che, nella sua rappresentazione psichica, non è direttamente voluto, ma appare possibile. La COLPA COSCIENTE si verifica, invece, quando l’agente agisce nonostante la previsione dell’ evento, escludendo nella sua mente la possibilità della verificazione di tale evento pericoloso, poiché convinto di poter dominare la sua azione.

La Suprema Corte, nel 2011, chiamata ad affrontare una questione inerente il criterio di qualificazione dell’ elemento soggettivo in una ipotesi di colpa con previsione al limite con il dolo eventuale, ha affermato che : “nel dolo eventuale il rischio deve essere accettato a seguito di una deliberazione con la quale l’agente subordina consapevolmente un determinato bene ad un altro. L’autore del reato, che si prospetta chiaramente il fine da raggiungere e coglie la correlazione che può sussistere tra il soddisfacimento dell’interesse perseguito ed il sacrificio di un bene diverso, effettua in via preventiva una valutazione comparata tra tutti gli interessi in gioco (il suo e quelli altrui) ed attribuisce prevalenza ad uno di essi.

L’obiettivo intenzionalmente perseguito per il soddisfacimento  di tale interesse preminente attrae l’evento collaterale, che viene dall’agente posto coscientemente in relazione con il conseguimento dello scopo perseguito”. (Cassazione Penale Sez. V ;  sentenza  n.°10411/2011 )

Non è quindi sufficiente la previsione della concreta possibilità di verificazione dell’evento lesivo, ma è indispensabile l’accettazione, anche se in forma eventuale, del danno che costituisce “ il prezzo da pagare per il conseguimento di un determinato risultato”.

A tale riguardo la Corte spiega che per configurarsi l’elemento del dolo eventuale, non basta solo la previsione concreta della verificazione dell’evento, ma occorre anche la consapevole e lucida accettazione del rischio eventuale e del conseguente danno che può verificarsi con elevata possibilità, ciò per raggiungere l’obiettivo prefissato in partenza.

Sembra così essere demarcata la linea di confine tra dolo indiretto e colpa con previsione.

All’uopo è doveroso fare un richiamo alla norma dettata dall’art. 61 c.p., il quale disciplina le circostanze aggravanti comuni.  Tale articolo nell’elencazione delle varie ipotesi che aggravano il reato, quali circostanze comuni, prevede al  numero 3 la circostanza relativa ai delitti colposi.  La norma in esame sancisce il verificarsi dell’aggravamento del delitto colposo quando il soggetto ha agito “nonostante la previsione dell’evento”.

Questa norma dimostra che il delitto colposo rimane tale anche nell’ipotesi in cui il soggetto agente abbia previsto l’evento dannoso. Si evince la differenza con il delitto doloso, nel caso di dolo eventuale, nel quale l’elemento psicologico è diverso, in quanto caratterizzato da una minima volontà che ha accettato il verificarsi dell’evento.

Per dare una risposta alla domanda se è configurabile una responsabilità dolosa negli eventi conseguenti alla violazione della norma sulla circolazione stradale, bisogna verificare quali sono le ipotesi che il codice disciplina a tale riguardo.

Il codice penale nel disciplinare le ipotesi di omicidio colposo, prevede espressamente all’art. 589 2° comma, l’omicidio colposo commesso, con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale, precisando al comma 3, un aggravamento della pena nei casi in cui la violazione alle norme stradali è commessa da soggetto in stato di ebbrezza alcolica, ovvero di persone sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope.

L’art. 590 c.p., disciplina, invece, l’ipotesi di lesioni personali colpose, stabilendo al 3° comma che se i fatti delittuosi sono commessi con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale la pena per le lesioni gravi è della reclusione da tre mesi ad un anno, ovvero della multa da €.500/00 ad €.2.000/00, mentre per le lesioni gravissime la pena è aumentata fino a tre anni.

Anche in tale articolo è  previsto l’aggravamento del delitto per il soggetto agente in stato di ebbrezza alcolica o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti.

Come si evince dalla lettura delle norme, le ipotesi disciplinate nel codice riguardano esclusivamente delitti di tipo colposo, inerenti fatti connessi con la violazione delle norme stradali.

Non sono previste fattispecie inerenti delitti dolosi conseguenti alla violazione delle norme sulla circolazione stradale.  Da quanto esposto si deduce che il legislatore abbia inserito una sorta di presunzione di mera colpa nei delitti conseguenti alle violazioni delle norme stradali, ammettendo una disciplina che configuri una responsabilità dolosa in tali casi. Forse si tratta di una scelta di politica criminale, legata a precedenti momenti storici.

Ad ogni buon conto non è da escludere il fatto che una persona possa commettere con ferma intenzione un delitto utilizzando un veicolo a motore, in tal caso, una volta accertato il dolo del responsabile, esso risponderà sicuramente per delitto di tipo doloso.

Certamente è possibile in astratto che un automobilista per motivi diversi possa investire volontariamente un pedone, proprio con la previsione ovvero l’intenzione di ferire o uccidere tale persona.

La giurisprudenza a riguardo afferma la possibilità di una responsabilità del conducente a titolo di dolo eventuale quando dalla ricostruzione dei fatti e dalla dinamica dell’evento mortale si evince che il soggetto agente ha posto in essere la sua azione accettando il rischio della morte di qualcuno, agendo secondo i suoi propositi anche a costo di determinare l’evento letale.

Si evidenzia la circostanza che il soggetto prevedendo il “grave rischio” non si “ferma, non arresta la propria azione delittuosa”, omettendo di modificare la propria condotta, anzi persiste nel su comportamento illecito, anche a costo di cagionare l’evento mortale possibile “in concreto”.

Nel caso sottoposto al vaglio della Suprema Corte, veniva esaminata la grave condotta  di un soggetto che, alla guida di un furgone risultato rubato, si lanciava a forte velocità in fuga tra le vie dell’abitato di Roma, inseguito tra l’altro da una volante della Polizia. Episodio finito in tragedia poiché il furgone dopo attraversato a folle velocità alcuni incroci principali, giunto ad un grosso incrocio con segnale semaforico rosso, attraversava il crocevia urtando violentemente alcune auto che transitavano in quel frangente. Nella collisione perdeva la vita uno dei passeggeri dell’auto travolta, mentre molti altri soggetti rimanevano seriamente feriti.

La Suprema Corte, investita del caso, rielabora alcune tesi ricorrenti sostenute dai giudici di merito, al fine di accertare l’imputabilità del fatto lesivo, con ciò ribadendo la centralità del comportamento doloso, quale azione orientata finalisticamente insieme ai fattori della realtà verso la realizzazione di uno scopo, specificando che esso “ attrae nell’ambito della volontà l’intero processo che determina il risultato perseguito”.

I Giudici della Corte sostengono che “nell’agire il soggetto orienta  deliberatamente il proprio comportamento verso la realizzazione del fatto “modellando la propria condotta in modo da realizzare il fatto tipico che  può considerarsi voluto proprio perché la persona ha deciso di agire in modo non lecito al fine di determinarlo”, accettando ogni tipo di rischio.

La cassazione enuncia i presupposti sui quali basare il criterio distintivo tra colpa cosciente e dolo eventuale, indicandone le modalità.

L’accettazione del rischio si verifica non solo quando il dubbio è superato, ma anche quando il soggetto accantona il dubbio per vincere le remore ad agire. Nel dolo eventuale occorre che la realizzazione del fatto sia stata accettata dal soggetto, nel senso che egli avrebbe agito anche se avesse avuto la certezza del verificarsi del fatto.

Viceversa, nella colpa con previsione, la certa rappresentazione del verificarsi dell’evento avrebbe trattenuto l’agente. Tali aspetti si ritrovano in alcune elaborazioni dottrinali note come “formula di Frank”. Altro elemento d’indagine dei giudici è quello relativo al bilanciamento degli interessi contrapposti. Il soggetto coglie la correlazione che può sussistere tra il soddisfacimento del proprio interesse perseguito ed il sacrificio di un bene diverso, nella sua condotta compie una valutazione comparata tra tutti gli interessi in gioco ed attribuisce prevalenza ad uno di essi.

La Corte sostiene: “Non è quindi sufficiente la previsione della concreta possibilità di verificazione dell’evento lesivo, ma è indispensabile l’accettazione, sia pure in forma eventuale del danno che costituisce il prezzo da pagare per il conseguimento di un determinato risultato”.

In ultimo la Suprema Corte evidenzia l’ulteriore aspetto della “speranza ragionevole”, presente solo nella colpa con previsione e totalmente assente nel dolo in forma eventuale, in quanto l’auspicio prospettato dall’agente nella propria sfera psichica deve essere improntato alla ragionevolezza, ovvero la speranza del “NON Verificarsi” dell’evento dannoso deve essere ragionevole e fondata su elementi concreti. I giudici sostengono che deve essere fondata su ragioni valide e concrete. Questo può essere evidente nel caso di un soggetto “esperto pilota” il quale, sicuro della sua guida spericolata, è certo di dominare la sua condotta.

In conclusione è possibile la configurabilità di un delitto doloso conseguente alla violazione delle norme stradali, ciò nel caso in cui il responsabile, nonostante la previsione dei possibili eventi letali legati alla sua condotta, abbia portato ugualmente a termine la sua azione illecita, cagionando un evento dannoso, ovvero provocando un delitto diverso.

In tale ipotesi, qualora  venga accertata, per la dinamica degli accadimenti e per le modalità della condotta lesiva, che il soggetto abbia agito con dolo eventuale, egli dovrà rispondere per delitto di omicidio volontario e lesioni gravi di tipo doloso.

 

AZIONE REVOCATORIA – ART. 2901 COD. CIV.

I PRESUPPOSTI DELL’AZIONE REVOCATORIA ART 2901 C.C. DI UN ATTO DI COMPRAVENDITA

a cura della D.ssa Filomena Agnese Chionna

 

ART 2901 C.C.
 

Il creditore, anche se il credito è soggetto   a condizione o a termine, può domandare che siano dichiarati inefficaci nei   suoi confronti gli atti di disposizione del patrimonio coi quali il debitore   rechi pregiudizio alle sue ragioni, quando concorrono le seguenti condizioni:

1) che il debitore conoscesse il pregiudizio   che l’atto arrecava alle ragioni del creditore o, trattandosi di atto   anteriore al sorgere del credito, l’atto fosse dolosamente preordinato al   fine di pregiudicarne il soddisfacimento;

2) che, inoltre, trattandosi di atto a   titolo oneroso, il terzo fosse consapevole del pregiudizio e, nel caso di   atto anteriore al sorgere del credito, fosse partecipe della dolosa   preordinazione.

Agli effetti della presente norma, le   prestazioni di garanzia, anche per debiti altrui, sono considerate atti a   titolo oneroso, quando sono contestuali al credito garantito.

Non è soggetto a revoca l’adempimento di un   debito scaduto .

L’inefficacia dell’atto non pregiudica i   diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede, salvi gli   effetti della trascrizione della domanda di revocazione.

 

ESISTENZA DEL CREDITO
 

Condizione per l’esercizio dell’azione   revocatoria di cui all’art. 2901 c.c. è l’esistenza di un valido rapporto di   credito tra il creditore che agisce in revocatoria e il debitore disponente.   L’anteriorità del credito deve essere riscontrato in base al momento in cui il   credito stesso insorge, e non a quello eventualmente successivo, in cui venga   accertato con sentenza.

Il credito deve considerarsi anteriore   all’atto di compravendita, se sorto in virtù di un lungo contenzioso   giudiziario, sicché risulta agevole dimostrare il dolo specifico inteso quale   consapevolezza, al momento della stipulazione della compravendita, del   pregiudizio che l’atto avrebbe arrecato al futuro credito.

 

ATTO DI DISPOSIZIONE
 

È senza dubbio qualificabile come atto di   disposizione l’atto di compravendita.

L’art 2700 c.c. statuisce: “l’atto pubblico fa piena prova, fino a   querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che   lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che   il pubblico ufficiale attesta avvenuti    in sua presenza o da lui compiuti.”

 

PERICULUM DAMNI
 

L’azione revocatoria di cui all’art 2901   c.c. ha la finalità di ricostruire la garanzia generica assicurata al   creditore dal patrimonio del debitore, la cui consistenza, per effetto   dell’atto di disposizione posto in essere dal debitore, si sia ridotta al   punto pregiudicare la realizzazione del diritto del ceditore con l’azione   espropriativa (Cass. 14.06.2007 n. 13927).

Tale azione assicura uno stato di maggiore   fruttuosità e speditezza dell’azione esecutiva diretta a far valere detta   garanzia; tuttavia il riconoscimento dell’eventus damni non presuppone una   valutazione sul pregiudizio arrecato alle ragioni del creditore istante, ma   richiede soltanto la dimostrazione da parte di quest’ultimo della   pericolosità dell’atto impugnato, in termini di una possibile, quanto   eventuale, infruttuosità della futura esecuzione sui beni del debitore (Cass.   09.03.2006 n. 5105).

Alla stregua di tale presupposto sarà   revocabile l’atto di disposizione che renda più difficile o onerosa la   realizzazione del credito. Il danno può consistere non solo in una variazione   quantitativa del patrimonio del debitore, ma anche in una variazione   qualitativa. Infatti, il requisito del “periculum   damni” deve ritenersi sussistente ogni qualvolta l’atto dispositivo renda   più incerto o difficile, il soddisfacimento del credito, e quindi anche in   presenza di una mera riduzione della garanzia patrimoniale che esponga il   credito al pericolo dell’infruttuosità di una futura azione esecutiva (Cass.   15.02.2007 n. 3470).

 

CONSILIUM FRAUDIS
 

La prova della consapevolezza di arrecare   pregiudizio agli interessi dei creditori può essere fornita anche mediante   presunzioni. Gravi precisi e concordanti presunzioni è considerata la sproporzione   tra il prezzo di vendita di un immobile e il loro valore accertato, il grado   di parentela fra il debitore e l’acquirente (Cass. 05.03.2009 n. 5359; Cass.   21.04.2006 n. 9376).

La lesione della garanzia patrimoniale si ha   in seguito al compimento da parte del debitore dell’atto traslativo, e nella   ricorrenza in capo al debitore ed eventualmente al terzo, della   consapevolezza che, con l’atto disposizione, venga a diminuire la consistenza   delle garanzie spettanti ai creditori.

L’azione revocatoria ha finalità cautelare e   conservativa del diritto di credito essendo diretta a conservare nella sua   integrità la garanzia generica assicurata al creditore dal patrimonio del   debitore. In coerenza con tale sua funzione l’azione predetta determina   l’inefficacia dell’atto nei soli confronti del creditore che l’abbia esperita   per consentire allo stesso di esercitare sul bene oggetto dell’atto, l’azione   esecutiva per la realizzazione del credito (Cass.08.04.2003 n. 5455)

 

Il funzionario di fatto

di Antonella Martucci

  • Nei vari organi (o anche        uffici) della p.a. vi sono i funzionari, soggetti titolari dell’organo        stesso che esercitano la potestà pubblica mediante regolare investitura.
  • Figura particolare: c.d.        funzionari di fatto. Non vi è una definizione specifica, dottrina e        giurisprudenza maggioritaria nozione ampia: colui che privo di valida        legittimazione compie attività riferibile alla p.a.
  • Tale figura può derivare:        mancanza del titolo di legittimazione, oppure vizio del titolo stesso.
  • Analisi dei singoli casi.  Mancanza        del titolo di legittimazione: si verifica nel caso in cui il        soggetto è privo sin dall’inizio dell’atto di preposizione all’ufficio.
  •  Differenza con la figura        dell’usurpatore pubbliche funzioni, che differisce dal funzionario di        fatto perché: persegue fini contrari alla p.a., e lo fa con dolo.        Diversamente, funzionario: non persegue fini personali, ma per il        prevalente interesse pubblico, ed in caso di necessità.
  • Vizio del titolo di legittimazione:        può essere un vizio sopravvenuto od originario.  Vizio originario: titolo è        originariamente invalido perché nullo o inefficace. Ciò può derivare da cause naturali, intese come una svista        della stessa p.a., oppure da manomissione        fraudolenta dei requisiti legali da parte dello stesso funzionario.
  • Vizio  sopravvenuto: attiene        alla validità dell’investitura nel tempo. Cause: perdita dei requisiti essenziali, investitura scaduta, ovvero prorogatio. Quest’ultima in        particolare si ha quando il funzionare eccede, nel compiere gli atti, i        limiti posti dalla legge, ovvero, quando scaduto esercita le funzioni        oltre il termine di 45gg.  
  • Cenno ai diversi orientamenti        in merito all’imputabilità degli atti del funzionario fatto alla p.a.        Quindi, teoria del fatto compiuto (per assicurare continuità all’azione        amministrativa); teoria dell’affidamento dei terzi (si tutelano i terzi        in buona fede che hanno fatto incolpevolmente affidamento sulla        situazione apparente). Entrambe le teorie sono assistite dal principio        di conservazione.
  • Introduzione problema della        sorte degli atti posti in essere dal funzionario di fatto. Distinzione atti        favorevoli per i terzi ed atti pregiudizievoli per gli        stessi. Alcun problema per atti favorevoli, essi sono imputabili alla        p.a. sulla base del principio del legittimo affidamento dei terzi.        Invece, per i provvedimenti pregiudizievoli è opportuno effettuare una        serie di distinzioni.
  • Atti inefficaci/inesistenti sin dall’origine: non        è possibile loro imputazione alla p.a. Ad essi sono assimilati provvedimenti pregiudizievoli        emanati dopo annullamento atto di nomina.
  • Al riguardo si sono sviluppati        due orientamenti: vi è nullità, per carenza in astratto di potere        (manca la norma che attribuisce il potere), conseguentemente non è        necessario impugnare nei termini di decadenza; giudice adito è il        giudice ordinario, entro i termini di prescrizione, anche per l’azione        di risarcimento.   
  • Teoria dell’annullabilità:        vi è una carenza in concreto di potere (vi è la norma che attribuisce il        potere, ma si difetta del presupposto, titolo d’investitura ). E’ adito        il giudice amministrativo nei termini di decadenza.
  • Riferimento alla l. n.15/05,        introdotto nella 241/90, gli artt. 21septies        e 21octies. Fautore della        teoria della nullità hanno visto nell’art. 21septies una conferma del loro orientamento, in quanto in        detto articolo si fa riferimento al difetto assoluto di attribuzione.        Critica: il 21septies fa        riferimento ai casi di carenza in astratto di potere, quando si è in        presenza di carenza in concreto siamo nell’ambito della mera violazione  di legge, quindi, rientra nell’ambito        del 21octies con        annullabilità.
  • Diverso è il caso in cui l’atto di nomina non è stato        annullato al momento dell’emanazione dell’atto pregiudizievole. Due        ipotesi: l’atto di nomina non è        stato annullato: In tale caso, si analizza la questione relativa al        se, scaduto il temine per impugnazione atto nomina, questo debba        essere impugnato congiuntamente al provvedimento lesivo successivo. Sul        punto si è espresso il supremo Consesso: non vi è una relazione univoca        tra i due atti. L’impugnazione congiunta solo nel caso in cui vi è un        nesso procedimentale, quando l’organo è stato nominato per emanazione di        un atto specifico, e vi è trasmissibilità vizio atto nomina al        successivo provvedimento lesivo. Quindi atto nomina è un atto        infraprocedimentale. Non vi è doppia impugnazione in caso di competenza        generale, atto nomina può essere impugnato solo nel termine di decadenza        da chi ha interesse alla nomina.
  • Analogamente, nel caso in cui        termine d’impugnazione non è scaduto, l’impugnazione congiunta dei        due atti non è necessaria se non vi è un nesso procedimentale.
  • L’atto di nomina è stato annullato dopo il provvedimento        lesivo: due orientamenti. Il primo: annullabilità, 21octies,        per incompetenza o violazione di legge (violata legge che individua        soggetto legittimato all’esercizio del potere). Secondo orientamento: nullità, art. 21septies, per acompetenza organo        emanante. Efficacia retroattiva dell’annullamento implicherebbe la        carenza di potere dell’organo all’emanazione dell’atto lesivo. Quindi,        dalla nullità deriverebbe l’impossibilità di imputare gli atti agli        enti, in quanto la caducazione dell’investitura recide il rapporto        organico. Diverse critiche alla teoria dell’acompetenza.

 

  • Sulla base delle varie critiche        la dottrina elabora: teoria        nullità, in caso di inefficacia originaria dell’investitura o già        consacrata al momento di adozione dell’atto; annullabilità, per incompetenza o violazione di legge, in        caso di investitura efficace al momento di adozione atto, essendo lo        stesso annullata solo in epoca successiva.
  • Sul piano dell’impugnazione ne        deriva: Nullità: il privato        ha interesse a ricorre verso la sola nomina illegittima, entro 60gg        dalla notifica o piena conoscenza dell’atto, in quanto l’annullamento        dell’atto di nomina priverebbe di effetti anche l’atto pregiudizievole.
  • Annullabilità: doppia impugnazione congiunta        sia dell’atto di nomina, sia del provvedimento pregiudizievole, in        quanto il semplice annullamento comporta l’efficacia del provvedimento        sino all’eliminazione. Naturalmente, impugnazione congiunta necessaria        in caso di organo a competenza generale e si escluda l’effetto caducante        automatico dell’eliminazione dell’atto di nomina rispetto agli atti        adottati prima della caducazione, mentre se l’organo è stato costituito        per l’emanazione di atto specifico, l’annullamento della nomina        determina invalidità derivata con effetto caducante dell’atto a valle.        In tal caso non necessaria la doppia impugnazione.