Rilevanza penale del labiale ai fini della consumazione del delitto di ingiuria: riflessioni a margine dei principi del diritto penale.

di Piera Iacurto

 

Massima

Le dichiarazioni afone lesive dell’onore altrui sono suscettibili di punibilità ai sensi dell’art 594 cp, in quanto dotate di una componente offensiva del bene giuridico tutelato dall’ordinamento giuridico.

 

Norme di riferimento

594 cp co. 1 e 2, “Chiunque offende l’onore o il decoro di una persona presente è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a lire un milione.

Alla stessa pena soggiace chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa”.

 

Il fatto

Il Tribunale di Lecce confermava la pronuncia con la quale il Giudice di Pace aveva condannato la C.E. al pagamento della multa, al risarcimento dei danni, nonché delle spese, per il delitto di ingiuria commesso in danno della Ca. Ma., verso la quale l’agente aveva rivolto degli epiteti espressi attraverso modalità afone.

Ricorreva la C.E. dinanzi alla Suprema Corte per ottenere la cassazione della sentenza emessa in proprio sfavore, in quanto sprezzante non solo delle norme processual-penalistiche vigenti in materia di acquisizione della prova, ma anche per una scorretta valutazione della scriminante della provocazione, determinata dall’aggressione fisica attuata dalla parte offesa nei riguardi della ricorrente.

 

Il quesito giuridico

L’uso del labiale integra una condotta materiale offensiva di un bene giuridicamente protetto?

 

Nota esplicativa

La sentenza in commento ha ad oggetto la consumazione del delitto di ingiuria nel caso in cui l’agente utilizzi il labiale per offendere l’onore altrui.

Essa, infatti, si propone di chiarire quale sia la rilevanza penale delle dichiarazioni afone ai fini della configurabilità dell’illecito, valutando, in particolare, se l’uso del labiale sia ossequioso dei principi fondamentali del sistema penale, quali il principio di materialità e di offensività della condotta.

Il principio della materialità, espresso dal brocardo latino cogitationis poenam nemo patitur, considera punibili solo quelle condotte che trovano realizzazione nella realtà concreta, cioè solo quei comportamenti umani che siano percepibili dai sensi.

Ciò comporta che non possano considerarsi reati i fatti sorretti da un atteggiamento criminoso  meramente interno, un’intenzione meramente dichiarata ma non materialmente realizzata, né un mero tratto caratteriale della persona.

La delimitazione delle condotte penalmente rilevanti non si esaurisce, però, nella materialità delle stesse, poiché il sistema penale richiede anche l’idoneità lesiva dell’azione/omissione a ledere o porre in pericolo il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice.

L’offensività costituisce, invero, una caratteristica obiettiva della condotta, che consente di individuare l’unità minima che giustifichi, nella frammentarietà di altri movimenti considerati leciti, la comminazione della sanzione penale.

Ciò è coerente con la scelta legislativa di circoscrivere l’applicazione della sanzione penale ai soli casi in cui non possa regolarsi la fattispecie con altre norme dell’ordinamento giuridico.

Tale esigenza traspare più agevolmente ove si consideri la maggiore incisività del diritto penale nella sfera personale e patrimoniale della persona e, di converso, l’urgenza di garantire all’individuo il diritto di svolgere la propria personalità nei modi leciti che ritiene più adeguati a soddisfare i propri bisogni.

Dall’applicazione dei principi anzidetti discende, così, che sono punibili solo quelle condotte materiali che ledono o mettono in pericolo dei beni giuridici considerati meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento penale.

Delineati succintamente i contenuti del principio di materialità e di offensività, e’ necessario procedere con una breve trattazione della fattispecie criminosa dell’ingiuria, al fine di valutare se anche le dichiarazioni espresse mediante modalità afone possano considerarsi penalmente rilevanti in quanto dichiarazioni materialmente percepibili e lesive di interessi giuridici protetti.

L’art 594 cp disciplina la fattispecie l’ingiuria, prevedendo, al co. 1 e 2, che “Chiunque offende l’onore o il decoro di una persona presente è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a lire un milione.

Alla stessa pena soggiace chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa”.

La norma è contenuta nel titolo dei “delitti contro la persona” e posta a presidio dell’onore e del decoro dell’individuo.

La tutela di tali beni giuridici trova la propria ragion d’essere nell’art 3 Cost. che, riconoscendo ad ogni cittadino pari dignità sociale, vieta qualsiasi atteggiamento pregiudizievole dello stesso, chiamando, peraltro, lo Stato ad intervenire attivamente per rimuovere e scoraggiare comportamenti lesivi del valore sociale della persona.

L’importanza dell’interesse da tutelare, nonché l’impossibilità di individuare a priori le condotte ingiuriose, hanno indotto il Legislatore ad elaborare una struttura dell’illecito a forma libera, ossia un delitto per il quale non sono previste specifiche modalità della condotta, tanto da persuadere la giurisprudenza e la dottrina a ritenere che i comportamenti ingiuriosi possano constare di dichiarazioni verbali, di fatti commissivi e di atteggiamenti omissivi.

Con espresso riferimento alle dichiarazioni verbali, la valutazione della materialità e dell’offensività della condotta riposerebbe sul contenuto della frase pronunciata, ossia sul significato inequivocabilmente lesivo delle parole, senza tener conto delle intenzioni inespresse dal reo e delle sensazioni puramente soggettive che la frase può aver provocato nell’offeso (Cass 21.2.2007 n. 7157).

Quanto, invece, a comportamenti ingiuriosi attuati di fatto, essi comprenderebbero condotte suscettibili di mettere in ridicolo la vittima, attraverso simboli (atti, immagini od oggetti) che per il loro significato, comprensibile da tutti, offendono l’altrui onore, ovvero attraverso omissioni, ad es. il rifiuto ostentato e reiterato di dare una mano ad una persona.

Tali osservazioni indurrebbero, così, a considerare le offese, compiute a mezzo del labiale, come comportamenti che di fatto sono dotati di materialità ed offensività tale da essere considerati riprovevoli e, perciò, punibili dall’ordinamento.

A conforto della rilevanza giuridica del labiale, peraltro, potrebbe soggiungersi la valenza della dichiarazione afona come una dichiarazione tacita, rilevante secondo la teoria del negozio giuridico.

Detto orientamento dottrinario, muovendo dalla considerazione della volontà come elemento fondamentale di ogni atto che abbia valenza giuridica, afferma che l’interprete debba considerare giuridicamente rilevante ogni dichiarazione lesiva sorretta da volontà non solo nell’intenzione dell’azione, bensì anche nel momento effettuale.

Ne discende che, in ambito privatistico, la dichiarazione resa da un soggetto sia giuridicamente rilevante e produca effetti giuridici solo ove la volontà sia manifestata all’esterno, anche mediante un gesto (ad es. anche un cenno del capo) al quale ricollegare uno specifico significato/effetto coerente con la volontà di chi lo compie, ovvero anche attraverso un comportamento tacito al quale attribuire un significato inequivoco.

La dichiarazione tacita verrebbe, infatti, a caratterizzarsi rispetto ad un mero silenzio, legalmente irrilevante, non già per l’atteggiamento silente, bensì per il comportamento al quale il silenzio si accompagna come fatto accessorio.

Tali considerazioni, applicate al caso concreto, indurrebbero a concludere per la rilevanza giuridica delle dichiarazioni afone, in quanto il labiale rappresenta il modo attraverso il quale l’agente ha materialmente manifestato la propria volontà di offendere l’altrui onore.

Le osservazioni sin qui riportate, pertanto, sono coerenti con quanto affermato dalla Suprema Corte che ritiene consumata l’ingiuria anche nel caso in cui siano rivolti alla vittima, in sua presenza, degli epiteti offensivi mediante delle dichiarazioni afone: poiché l’agente “ha compiuto movimenti labiali, espressivi di una delle parole usualmente utilizzate, per esporre in maniera volgare e diretta, nei confronti di destinatario di sesso femminile, un giudizio negativo sulla eticità di un suo comportamento o del suo stile di vita”.

Né vale ad attenuare la rilevanza penale delle offese arrecate mediante labiale il ricorso all’esimente della provocazione, determinata dall’aggressione subita dal C.E. per via di conflitti tra le parti processuali, sui quali altra Autorità giudiziaria si era già pronunciata in altro autonomo processo.

Oggetto del giudizio, della sentenza che si commenta, è, difatti, un singolo episodio conflittuale.

Quanto, invece, alle censure relative all’ambito probatorio, la Corte si è espressa per l’infondatezza della questione relativa al mancato rispetto dell’ordine fissato dal codice di procedura penale per ciascuna parte, in quanto detto ordine è regolato da disposizioni di natura ordinatoria (non perentoria), alla cui violazione non consegue nullità o inutilizzabilità delle prove.

Infine, riguardo all’erronea valutazione da parte del giudice del merito delle dichiarazioni rese dall’offeso in sede processuale, la Cassazione ribadisce il proprio ruolo di Giudice della legittimità, cioè di giudice chiamato a decidere sulle sole questioni di diritto, per verificare la corretta applicazione delle norme di diritto, sostanziale e processuale, da parte del giudice di merito.

 

Sentenza

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza 13.1.2011, il tribunale di Lecce, sezione distaccata di Gallipoli, ha confermato la sentenza 14.10.09 del giudice di pace di Gallipoli, con la quale C.E. è stata condannata alla pena di Euro 200 di multa, al risarcimento dei danni, alla rifusione delle spese, in favore della parte civile, perchè ritenuta colpevole del reato di ingiuria in danno di Ca.Ma., proferendo gli epiteti faccia di troia, faccia di puttana.

Il difensore ha presentato ricorso per i seguenti motivi:

1. violazione di legge, in riferimento all’art. 150 disp. Att. c.p.p., artt. 208, 493 e 503 c.p.p., in quanto l’esame dell’imputata è stato seguito da quello della persona offesa. Nessuna parte aveva chiesto l’esame della Ca., al momento della presentazione della lista o della richiesta di ammissione delle prove, mentre la querelante, che è avvocato, ha chiesto il proprio esame per ultimo, sottacendo che non era stato ammesso in precedenza. Il giudice di pace non ha poi consentito all’imputata di fornire alcuna prova contraria, costituita da documenti allegati a una memoria ex art. 121 c.p.p., da contrapporre alla prova nuova, costituita dall’esame della persona offesa.

Il giudice di pace ha dato come giustificazione la chiusura dell’istruttoria dibattimentale, avvenuta all’udienza 11.3.09, differendo il processo ad altra udienza per la discussione finale.

Questo argomento è smentito dal p.v. dell’udienza 14.10.09, da cui risulta che “Il giudice di pace esaurita la discussione dichiara chiuso il dibattimento e si ritira per deliberare”; quindi i documenti potevano essere acquisiti.

2. vizi di motivazione sulla ricostruzione dei comportamenti dell’imputata e della persona offesa, nonchè sulla valutazione della credibilità dei testi di accusa e dei testi di difesa. La corte non ha fatto riferimento alle situazioni oggettive di inattendibilità e di interesse della persona offesa/parte civile. In particolare nella sentenza non si richiama la sentenza del tribunale di Lecce,sezione di Gallipoli, confermata dalla corte di appello. Con tale sentenza S.P. e Ca.An.Pa. (rispettivamente fratello e padre della persona offesa) sono stati riconosciuti colpevoli dei reati ex artt. 110, 393, 582 e 585 c.p., in danno di C.G..

3. violazione di legge, in riferimento all’art. 599 c.p., vizio di motivazione:

nell’impugnata sentenza nulla si dice sull’esimente, costituita dall’aggressione fisica subita dalla C. e da suo nipote, ad opera di familiari, nonché comproprietari e soci della persona offesa.

Nella comparsa di risposta, depositata dalla persona offesa nel giudizio civile avente ad oggetto azioni di recinzione e confinamento su terreni confinanti, sono formulate accuse, nei confronti dell’imputata e della sorella fortemente denigratorie. Questo comportamento costituisce un fatto ingiusto, idoneo a integrare l’esimente della provocazione.

Con memoria depositata il 23.11.2011, la ricorrente ha ulteriormente formulato critiche sulla credibilità della persona offesa sulla illogicità e carenza argomentativa della motivazione.

I motivi del ricorso sono infondati.

Quanto alla censura di carattere processuale, si osserva che dagli atti emerge che il giudice, “terminata l’acquisizione delle prove” (art. 523 c.p.p.) all’udienza 11.3.09, non ha ritenuto – secondo una valutazione non sindacabile e non censurabile in sede di giudizio di legittimità – la sussistenza di un “caso di assoluta necessità” legittimante “l’assunzione di nuove prove”, ex art. 507 c.p.p..

Questa situazione di assoluta necessità non è stata ritenuta sussistente dal giudice di primo grado, neanche nella successiva udienza, programmata per la discussione finale, per cui, esaurita la discussione medesima, ex art. 524 c.p.p., ha dichiarato chiuso il dibattimento.

Il mancato rispetto dell’ordine fissato dal codice di rito per ciascuna parte nella esposizione delle proprie ragioni, è garantito a pena di nullità solo nell’ambito dello svolgimento della discussione, laddove l’art. 523 c.p.p., comma 5, stabilisce che “In ogni caso l’imputato e il difensore devono avere, a pena di nullità, la parola per ultimi se la domandano”. Correttamente il tribunale ha rilevato che le norme che stabiliscono l’ordine di assunzione delle prove hanno natura ordinatoria e per la loro violazione non è prevista alcuna ipotesi di nullità o di inutilizzabilità. La correttezza della decisione sul punto dei giudici di merito ha trovato conferma nella stesura del processo verbale dell’udienza 11.3.09, in cui non è rinvenibile alcuna traccia di eccezione sollevata dalla difesa dell’imputata. Dallo svolgimento e dall’esito del giudizio di appello non risulta alcuna rilevanza e, tanto meno la decisività delle prove documentali non acquisite dal giudice di appello.

Quanto al secondo motivo, espresso con ampia e talvolta ripetitiva argomentazione, va rilevato che la motivazione della sentenza impugnata ha espresso le sue valutazioni in maniera coerente sul piano logico,previa un’esauriente analisi delle risultanze processuali Non può essere ritenuta viziata, sol perchè ha disatteso una valutazione che, ad avviso di una delle parti, potrebbe dar luogo ad una diversa decisione. La conclusione della sentenza impugnata non è soggetta quindi ad alcun giudizio critico in sede di legittimità.

Come è ampiamente noto, il sindacato della S.C. ha un orizzonte circoscritto, dovendo essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di effettuare una “rilettura” degli elementi di fatto posti a suo fondamento, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito.

Quanto alle critiche sulla credibilità della testimonianza della persona offesa, va rilevato che questa prova dichiarativa, al pari di tutte le testimonianze, deve essere sottoposta al generale controllo sulle capacità percettive e mnemoniche del dichiarante, nonchè sulla corrispondenza al vero della sua rievocazione dei fatti, desunta dalla linearità logica della sua esposizione e dall’assenza di risultanze processuali incompatibili,caratterizzate da pari o prevalente spessore di credibilità. Le dichiarazioni della p.o. costituita p.c. sono ugualmente valutabili e utilizzabili ai fini della tesi di accusa, poichè, a differenza di quanto previsto nel processo civile, circa l’incapacità a deporre del teste che abbia la veste di parte, il processo penale risponde all’interesse pubblicistico di accertare la responsabilità dell’imputato, e non può essere condizionato dall’interesse individuale rispetto ai profili privatistici, connessi al risarcimento del danno provocato dal reato, nonchè da inconcepibili limiti al libero convincimento del giudice.

Il controllo, nei confronti della Ca., è stato effettuato in maniera esaustiva dalla sentenza del giudice di appello e pertanto le logiche conclusioni che ne ha tratto in merito alla responsabilità dell’imputata non sono meritevoli di alcuna censura in sede di legittimità. I contrasti indicati dalla ricorrente non hanno una rilevanza tale da ledere in maniera decisiva il compatto intreccio probatorio formato dalle dichiarazioni della querelante e dell’avvocato Apollonio, che ha consentito la ricostruzione delle offese formulate dall’imputato. Costei ha compiuto movimenti labiali, espressivi di una delle parole usualmente utilizzate, per esporre in maniera volgare e diretta, nei confronti di destinatario di sesso femminile, un giudizio negativo sulla eticità di un suo comportamento o del suo stile di vita. Nell’identico contesto della controversia civile tra le due famiglie e del suo sviluppo in sede penale, la C. ha ribadito il giudizio negativo, precedentemente formulato in maniera afona, con espressione formulata a voce immediatamente percepibile dalla persona e dal teste, la cui credibilità, razionalmente è stata riconosciuta dai giudici di merito. Ai fini della ricostruzione e della valutazione delle condotte offensive della C., logicamente non hanno ricevuto alcuna rilevanza l’ordine temporale della pronuncia nonchè la precisa identità delle parole di uguale significato e di pari diffusione nel linguaggio corrente.

Va inoltre considerato che i giudici del presente processo sono stati chiamati a giudicare questo singolo episodio di conflittualità tra le due protagoniste,sorto nel contesto di un più ampio conflitto in corso tra i nuclei familiari, proprietari di terreni confinanti.

Comunque non merita considerazione il tentativo della ricorrente di far confluire nel presente processo tutto questo conflitto, a cui segue il tentativo di richiamare, a fini di esimente, un precedente storico- già oggetto di altra sentenza penale – per auto investirsi del ruolo di difensore dell’onore della famiglia e della incolumità fisica dei familiari, nonchè di vendicatrice contro chi abbia leso questi beni. Ancor meno gli atti del giudizio dinanzi al giudice civile possono essere inseriti e valutati a giustificazione dell’illecita offesa, precedentemente formulata in maniera afona. La fondatezza di questi atti, rientra esclusivamente nel perimetro valutativo del giudice civile.

La censure sulla ricostruzione sulla valutazione delle prove nella loro reiterazione e nella loro inammissibile dilatazione mantengono costante il carattere della totale infondatezza.

Il ricorso va quindi rigettato con condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Di admin

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