Nota a Cassazione Civile, Sez. III, Ordinanza n. 7757 del 08.04.2020
Dott. Lorenzo Mariani

Con l’Ordinanza n. 7757 del 08.04.2020 la Sezione III Civile della Suprema Corte di Cassazione ha confermato che, in materia di risarcimento del danno da diffamazione a mezzo della stampa, la verità dei fatti narrati, legittimante il diritto di cronaca e di critica, non è scalfita da inesattezze secondarie o marginali che non siano in grado di alterare la portata informativa dell’articolo rispetto al soggetto al quale sono riferibili.
Il giudizio sulla rilevanza giuridica di tali inesattezze, ossia sulla loro idoneità a diffamare, non costituisce accertamento in fatto ma giudizio di valore.

Il fatto

L’arresto in parola trae origine da un ricorso per cassazione proposto da tre attori: un giornalista, un noto quotidiano nazionale in persona del suo direttore, nonché il gruppo editoriale a cui la testata fa capo.  Nel giudizio di merito, i suddetti erano stati convenuti da un medico per due articoli on-line in cui egli veniva indicato come il responsabile della somministrazione di doping a un atleta. Nei pezzi in questione, il cronista aveva riferito infatti che il sanitario era stato radiato dalla Federazione sportiva ed era altresì stato condannato con sentenza definitiva dalla Corte di Appello a 14 mesi con la condizionale. Il medico, considerando diffamatorie tali attribuzioni sul suo conto, aveva così agito per il risarcimento del danno contro i soggetti in parola.
In primo grado, Il Tribunale aveva escluso la diffamazione, ritenendo che per gli articoli incriminati operasse l’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca e di critica.
La Corte di Appello aveva invece ritenuto non operante le esimenti in parola, in ragione di due inesattezze rinvenibili  nella narrazione della vicenda, le quali avrebbero reso non veritiero quanto narrato e avrebbero dimostrato che il giornalista non aveva eseguito un adeguato controllo sui fatti.
In primo luogo, infatti, non corrispondeva al vero che il medico fosse stato radiato dalla Federazione; al contrario, era  pacifico che egli si fosse dimesso prima della decisione disciplinare che di conseguenza si era conclusa con una archiviazione. In secondo luogo, il giornalista aveva asserito che il sanitario fosse stato condannato con sentenza definitiva della Corte di Appello a 14 mesi di reclusione. In realtà, la pronuncia in parola non era passata in giudicato ma era stata immediatamente impugnata per cassazione: solo allora la condanna era poi stata confermata.
Dopo aver dedotto da tali imprecisioni il dolo eventuale della diffamazione, la corte di merito aveva quindi pronunciato condanna al pagamento di un ammontare di € 5.000,00 a titolo di risarcimento del danno, assieme alla pubblicazione della sentenza per estratto sul quotidiano coinvolto e sul sito internet di quest’ultimo.
I soccombenti in appello ricorrevano quindi in Cassazione con sette motivi.
Con i primi due, di interesse per la presente analisi ed esaminati congiuntamente dai giudici,  i ricorrenti lamentavano che la Corte di Appello avesse ritenuto rilevanti le imprecisioni in parola al punto da escludere l’esimente del diritto di cronaca (primo motivo) e quello di critica (secondo motivo).

La decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte accoglieva i primi due motivi, ritenendo assorbiti tutti gli altri quali “censure a rationes decidendi conseguenti alla condanna, ossia alla ritenuta diffamatorietà delle imprecisioni ed inesattezze rilevate nell’articolo, compreso l’ordine di pubblicazione, di cui al settimo motivo, che ha una sua ragion d’essere solo in caso di condanna[1]
Nel ritenere fondato il ricorso, gli Ermellini specificavano che la presenza di imprecisioni nella narrazione giornalistica non può escludere di per sé l’operatività del diritto di critica e di cronaca quali esimenti della condotta del giornalista che narri fatti compromettenti per la reputazione altrui. Infatti, è compito del giudice di merito svolgere una valutazione sulla rilevanza di tali inesattezze, seguendo il criterio tratteggiato nell’ordinanza in esame, per cui: “(…) sono da considerarsi marginali quelle inesattezze che non mutano in peggio l’offensività della narrazione, e che, per contro, sono rilevanti le imprecisioni che stravolgono il fatto “vero” in maniera tale da renderne offensiva la sua attribuzione a taluno. Ove cioè si ritenga che il fatto “vero” non è offensivo ed è dunque da tale da rientrare, per la sua “verità”, nel diritto di cronaca, le inesattezze che lo riguardano, per avere rilevanza giuridica, devono essere tali da trasformare quel fatto da inoffensivo a diffamatorio.”[2]
Ancora, la valutazione sulla rilevanza delle inesattezze deve essere condotta non tenendo conto delle imprecisioni di per sé, ma sondando il peso che esse hanno sull’intero fatto narrato, “al fine di stabilire se siano idonee a rendere il fatto “falso”, e, oltre che tale, diffamatorio.”[3]
L’errore di ragionamento che i giudici di legittimità contestano alla corte di merito è, appunto, l’aver omesso un’effettiva verifica nei termini predetti e aver ritenuto che l’offensività – quindi il carattere diffamatorio – derivasse di per sé da tali inesattezze, dalle quali oltretutto il giudicante di secondo grado aveva desunto anche il mancato rispetto del c.d. “criterio di continenza.”

Osservazioni

La pronuncia in esame prosegue l’orientamento in materia già tenuto dalla Cassazione[4], nel generale contesto del bilanciamento tra il diritto all’informazione e gli altri interessi giuridicamente meritevoli di tutela che possono entrare in gioco con l’esercizio della professione di giornalista.
Non va infatti dimenticato che, come chiarito dalla giurisprudenza[5] e dalla dottrina[6], la libertà di informazione costituisce un diritto fondamentale in quanto presupposto fondativo della democrazia nonché condizione di esercizio di altre libertà. L’informazione è tutelata dall’art. 21 della Costituzione, il quale protegge anche “libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee o critiche su temi di interesse pubblico, dunque soprattutto sui modi d’esercizio del potere qualunque esso sia senza ingerenza da parte delle autorità pubbliche[7]. Ne deriva evidentemente[8] che tale libertà “non riguarda solo le informazioni e le opinioni considerate inoffensive, ma anche quelle che possono colpire negativamente essendo ciò richiesto dal pluralismo, dalla tolleranza e dallo spirito di apertura senza i quali non si ha una società democratica[9].
In particolare, il diritto di cronaca può essere definito quale diritto di raccontare tramite mezzi di comunicazione di massa accadimenti reali in considerazione dell’interesse che rivestono per la generalità dei consociati[10]. Esso rientra nella più vasta categoria dei diritti pubblici soggettivi, relativi alla libertà di pensiero ed al diritto dei cittadini di essere informati, onde poter effettuare scelte consapevoli nell’ambito della vita associata.[11]
Il diritto di critica, invece, si distingue da quello di cronaca poiché mentre quest’ultimo, “in quanto rivolto a trasmettere informazioni concernenti fatti di pubblico interesse, è ancorato alla più rigorosa obiettività, il diritto di critica, quale manifestazione della propria opinione, non può essere totalmente obiettivo e può manifestarsi anche con l’uso di un linguaggio colorito e pungente.”[12] Posto che un’opinione non possa essere né vera né falsa, specifica la giurisprudenza[13] che l’impossibilità di rispettare una obiettività assoluta, ovviamente, non esonera l’autore dal porre comunque a fondamento della propria opinione dei fatti reali[14]

Fermo l’indiscutibile valore della libertà d’espressione e di stampa in una società democratica, essa trova il proprio limite – in linea di principio – in attributi fondamentali della persona umana, altrettanto meritevoli di protezione, quali l’onore, la reputazione, l’immagine e l’identità personale.[15]      Dev’essere dunque il giudice a compiere il necessario bilanciamento tra i valori in parola[16].

Tale bilanciamento, come è noto, comporta la necessità di consentire una compressione dell’onore e della reputazione di un soggetto in favore dell’esercizio del diritto di cronaca, operando una valutazione attagliata al caso concreto ma pur sempre guidata da dei canoni generali di  riferimento.
Sul punto, è ormai storico il sistema tripartito a cui ricorre la giurisprudenza, tanto civile[17] quanto penale[18], per determinare se l’esercizio della libertà di stampa abbia configurato una lecita invasione nella sfera giuridica altrui. La seminale Sentenza n. 5259 del 18.10.1984, della Sezione I Civile della Corte di Cassazione, c.d. “sentenza decalogo del giornalista” ha infatti cristallizzato i notori tre criteri per la considerazione dell’esercizio del diritto di cronaca e di critica come esimenti della diffamazione a mezzo della stampa:
a) verità, oggettiva o anche soltanto putativa, ossia frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca e controllo del giornalista tanto sulla fonte quanto sulla verità sostanziale dei fatti, tenuto conto della gravità della notizia pubblicata;
b) continenza, cioè rispetto dei requisisti minimi formali che debbono caratterizzare la cronaca (da valutarsi tenendo conto di un insieme di elementi, quali il lessico impiegato, le modalità di presentazione e di titolazione della notizia). Si distingue la continenza formale e materiale. Mentre la continenza formale ha riguardo alle espressioni usate, alle modalità espositive, quella materiale concerne la natura e l’estensione delle notizie stesse offerte al pubblico[19];
c) interesse pubblico all’informazione, in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti, alla materia in discussione o altri caratteri del servizio giornalistico.[20]

Ebbene, l’ordinanza di Cassazione oggetto della nostra analisi, riprendendo precedente giurisprudenza di legittimità, svolge un ragionamento in perfetta coerenza con il “meccanismo” di complessi equilibri ideato in tema di diffamazione per mezzo della stampa.             Se, d’altronde, veridicità del fatto e offesa alla reputazione sono due elementi distinti di tale meccanismo, non essendo la prima sufficiente di per sé a giustificare la seconda, ne consegue che – di converso –  l’offesa non potrà derivare direttamente e inevitabilmente da qualsiasi difetto di veridicità.
Relativamente al criterio della verità nell’ambito della cronaca giudiziaria, è interessante la riflessione compiuta dalla giurisprudenza di merito milanese: qualora la narrazione dei fatti coinvolga un provvedimento giudiziario, essa è veritiera se si conforma al contenuto del provvedimento stesso, essendo pertanto sufficiente che l’articolo pubblicato corrisponda al contenuto degli atti e provvedimenti dell’autorità giudiziaria non potendo richiedersi al giornalista di dimostrare la fondatezza delle decisioni assunte in sede giudiziaria e dovendo il criterio della verità della notizia essere riferito agli sviluppi di indagine e istruttori quali risultano al momento della pubblicazione dell’articolo.[21]
Questa sembra, a tutti gli effetti, la posizione adottata dalla Suprema Corte nel censurare il giudizio di secondo grado, non avendo esso motivato  sul perché  le  imprecisioni da parte del ricorrente sarebbero state tanto profonde da compromettere la conformità della narrazione al procedimento disciplinare nei confronti del medico e – soprattutto – al contenuto del provvedimento della Corte d’Appello penale. Si rammenti, infatti, che i giudici di secondo grado civile hanno piuttosto (e incorrettamente) considerato tali imprecisioni sic et simpliciter come escludenti il criterio della verità, nonostante anche una veloce lettura critica delle stesse, alla luce del principio enunciato dagli Ermellini, avrebbe dovuto portare a non pochi dubbi sulla loro effettiva rilevanza, tenuto conto in particolare che il passaggio in giudicato di una sentenza (oltretutto poi confermata in Cassazione) di certo non può considerarsi parte del suo contenuto, né rientra nel concetto di sviluppo istruttorio. A parere di chi scrive, questa riflessione viene suggerita implicitamente dalla Cassazione stessa, pur ovviamente senza poter formulare un esplicito giudizio di valore riservato al solo giudice di merito.

[1] Cass. civ. sez. III, Ord. n. 7757 del 08.04.2020, p. 7.

[2] Cass. civ. sez. III, Ord. n. 7757 del 08.04.2020, p. 6

[3] Ibid.

[4] Ex multis, Cass. civ. sez. I, 18.05.2018, n.12370, il quale ha ritenuto integrante la diffamazione a mezzo stampa (e dunque esclusa le esimente del diritto di cronaca) l’aver usato l’espressione “imputato” per indicare una persona sottoposta a indagini, riferendo  altresì di un’avvenuta richiesta di rinvio a giudizio quando nella circostanza reale il soggetto era stato raggiunto da  notificazione dell’avviso di conclusioni delle indagini preliminari di cui all’art. 415-bis c.p.p. Infatti, quest’ultimo, a differenza del primo, non comporta esercizio dell’azione penale ed ha lo scopo di consentire all’indagato l’esercizio del diritto di difesa con la possibilità di un approfondimento delle stesse indagini.
Vedasi anche la nota alla sentenza in parola di I. Alagna, Diffamazione a mezzo stampa: è reato riferirsi a qualcuno chiamandolo imputato al posto di indagato, in Ridare.it 07.09.2018: “solo [la richiesta di rinvio a giudizio] essendo nota al pubblico dei non specialisti ed avendo essa un chiaro e maggior effetto diffamatorio. Per la Corte, inoltre, non si tratta di falsa notizia marginale o di mera imprecisione, essendo, anzi, l’articolo incentrato sulla persona dell’ambasciatore, ed avendo il cronista giudiziario confuso i due atti oppure omesso i dovuti controlli presso la fonte ufficiale. Violato il canone della verità oggettiva, o almeno putativa, resta irrilevante il profilo della continenza.”

[5] Trib. Milano, Sez. civ., 28.06.2012, n. 7936; Trib. Milano, Sez. civ., 28.02.2012, n. 2658.

[6] S. Peron, Diffamazione  tramite mass -media. un biennio di  giurisprudenza ambrosiana, su Responsabilità Civile e Previdenza, 6/2013, p 1839

[7] Trib. Milano, Sez. civ., 28.06.2012, n. 7936

[8] S. Peron, op. cit., p. 1840

[9] Trib. Milano, Sez. civ., 13.10.2011, n. 12187;  Corte EDU, 08.07.1986, Lingens c. Austria.

[10] Trib. Milano, Sez. civ., 06.09. 2011, n. 10836; Trib. Milano, Sez. civ., 07.06.2012, n. 6854

[11] Ex multis, Trib. Milano, Sez. civ., 13.02. 2012, n. 1667.

[12] Trib. Roma sez. I, 03.09.2019, n.16872, massima da Redazione Giuffrè 2019, in DeJure.

[13] Ex multis Cass. pen., 04.11.2014, n. 7715; Cass. pen., 27.09.2013, n. 40930

[14] S. Peron, Tutela della reputazione tra diritto di cronaca e di critica – T. Palermo 19.05.2016 n. 4198, in Persona e Danno, 27.05.2016.

[15] Si tratta, ovviamente, di un elenco puramente indicativo dei diritti della persona rinvenibili in quel notorio “catalogo aperto” di origine costituzionale (si pensi al valore innovativo dell’art. 2 Cost), giurisprudenziale domestica ed europea. Sul punto, si veda F. B. Caracciolo, la tutela della personalità in internet, in Il Diritto dell’Informazione e dell’Informatica, fasc.2, 1.4.2018, p. 201.

[16] Trib. Milano, Sez. civ., 03.01.2012, n. 47.

[17] Cfr. Trib. Milano, Sez. civ., 28 febbraio 2012, n. 2658; Trib. Verona, 27.01.2020, N. 859; Trib. Benevento, 30.01.2020, n. 234 il quale oltretutto conduce un’interessante analisi sul rapporto tra continenza del linguaggio e offesa alla dignità personale. “Invero perché un messaggio possa definirsi come avente un contenuto diffamatorio è necessario che lo stesso sia idoneo a distorcere, alterare, ovvero travisare il patrimonio intellettuale religioso politico sociale ideologico dell’individuo mediante l’offesa alla sua reputazione. A tal fine si afferma che anche le sole espressioni dubitative, specie nella forma della insinuazione, possono integrare l’intento diffamatorio in quanto, indipendentemente da qualunque forma grammaticale o sintattica utilizzata, ciò che conta è la concreta capacità di ledere o mettere in pericolo l’altrui reputazione. Quanto poi alla scriminante dell’esercizio del diritto di critica gli elementi caratterizzanti il necessario bilanciamento degli interessi in gioco vengono individuati nell’interesse sociale alla informazione, continenza del linguaggio e verità del fatto narrato. In particolare relativamente alla continenza si afferma che occorre tener conto del complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta, andando a verificare se i toni utilizzati dall’agente, pur se aspri o forti, non siano gravemente infamanti e gratuiti ma siano comunque pertinenti al tema di discussione, e che dunque è legittimo anche l’utilizzo di modalità espressive ironiche, irridenti o sarcastiche, purché non si trascenda in gratuiti attacchi personali.”;
Tribunale Roma sez. I, 05.02.2020, n.2541: “La divulgazione a mezzo stampa di notizie lesive dell’onore è scriminata per legittimo esercizio del diritto di cronaca se ricorrono: a) la verità oggettiva (o anche solo putativa, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca), la quale non sussiste quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano dolosamente o colposamente taciuti altri fatti, tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato, ovvero quando i fatti riferiti siano accompagnati da sollecitazioni emotive, sottintesi, accostamenti, insinuazioni, allusioni o sofismi obiettivamente idonei a creare nella mente del lettore false rappresentazioni della realtà; b) l’interesse pubblico all’informazione, cioè la cosiddetta pertinenza; c) la forma “civile” dell’esposizione e della valutazione dei fatti, cioè la cosiddetta continenza. A differenza del diritto di cronaca, il diritto di satira, quale modalità corrosiva e spesso impietosa del diritto di critica, è sottratto al parametro della verità, in quanto esprime, mediante il paradosso e la metafora surreale, un giudizio ironico su un fatto, ma, appunto per questo, ne ricorre l’esercizio solo se il fatto è espresso in modo apertamente difforme dalla realtà, sicché possa apprezzarsene subito l’inverosimiglianza e il carattere iperbolico.”(massima di Redazione Giuffrè, 2020, in DeJure)

[18] E pluribus, Cass. pen. sez. V, 13.02.2020, n.11755.

[19]M. Grande,  OSSERVAZIONI: Cass. Pen., Sez. Sez. V, data udienza Ud. 20 marzo 2019, data deposito (dep. 22 luglio 2019), n. 32829, in Cassazione Penale, fasc.2, 2020, pag. 614, il quale a sua volta cita V. Pezzella, La diffamazione, Utet, 2016, p. 336 ss.

[20] S. Peron, diffamazione tramite mass-media…cit., p. 1843.

[21] Trib. Milano, Sez. civ., 20.11.2012, n. 12842; S. Peron, op. cit., p.1845.

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