federiciA cura del dott. Gabriele Pepe

Ricercatore di Diritto Amministrativo presso l’Università degli Studi Guglielmo Marconi 

L’arte della guerra e l’arte giuridica appartengono allo strumentario da lavoro delle caste e dei popoli dominanti. Del resto, la superiore capacità giuridica e l’abilità bellica rappresentano i tratti distintivi delle categorie più forti. Le classi e i popoli dominanti hanno, per l’appunto, a disposizione strumenti in grado di imporre le proprie scelte sociali, politiche ed economiche sia all’interno sia all’esterno della comunità di appartenenza. Le caste dominanti, nel perseguire tale obiettivo, si avvalgono di due officine, l’una per la produzione di mezzi giuridici e l’altra per forgiare mezzi bellici; una per usi pacifici, l’altra per usi violenti; una per gli utilizzi quotidiani, l’altra per quelli eccezionali.

La guerra e il diritto sono, quindi, per l’Autore i due mezzi operativi delle classi dominanti, tra loro alternativi, come il giorno e la notte. Si tratta di una tesi del tutto nuova. Entrambi i meccanismi rappresentano forme di continuazione della politica: il diritto è la continuazione della politica con mezzi leciti ed appropriati, mentre la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi secondo il noto insegnamento di von Clausewitz. Se si cerca un antesignano dell’Autore lo si ritrova, per l’appunto, in von Clausewitz e prima di lui in Cicerone, Sofocle, Platone, Hobbes, Rousseau, Kant e Marx. Tuttavia, nessuno di questi studiosi era stato così esplicito e puntuale.

Per l’Autore la funzione del diritto è quella di prevenire e risolvere le controversie: prevenire con il diritto sostanziale e risolvere con il diritto processuale. Quando il diritto fallisce quale criterio di prevenzione delle dispute ad esso subentra il criterio alternativo del ricorso al conflitto armato tra parti avverse (ad es. tra Stati, fazioni, singoli etc..). Ciascun belligerante, ritenendo di avere ragione, non accetta giudizi di terzi o accordi ma pretende di imporre la propria volontà con la forza delle armi. Allora è guerra, ribellione, rivoluzione ma non è diritto.

L’originale tesi sulla alternatività tra guerra e diritto trova, tuttavia, un serio ostacolo nella esistenza del c.d. diritto bellico che, viceversa, postula la compresenza di ambo i fenomeni. Un concetto tradizionalmente dato per pacifico che viene messo in discussione dall’Autore attraverso la demolizione dei suoi tre pilastri fondativi: lo jus ad bellum, lo jus in bello e lo jus post bellum.

Lo jus ad bellum affonda le sue radici nei riti sacrali della storia di Roma, riti poi ripresi nelle guerre di religione dei secoli XVI e XVII per distinguere gli atti di guerra dai comportamenti dei briganti e dei pirati. Era, infatti, convincimento diffuso che attraverso alcune procedure si potesse trasformare la guerra da feroce mezzo di offesa in legittimo strumento di giustizia. Nacque, così, l’equivoco legato ai concetti di guerra giusta e di guerra legittimamente posta in essere nell’osservanza di procedure legali e/o sacrali. Su tale equivoco venne costruita, a partire dal Medioevo, la tesi dell’esistenza di un diritto bellico. Gli istituti su cui tradizionalmente si fondava lo jus ad bellum erano l’ultimatum e la dichiarazione di guerra. Colui che decideva di aggredire uno Stato o un popolo doveva far precedere la dichiarazione di guerra dalla richiesta di riparazioni per l’affronto lamentato; solo a seguito di rifiuto alla domanda di risarcimento, si poteva dichiarare guerra e combattere. Tale meccanismo è venuto meno con l’avvento, nel 1945, delle Nazioni Unite che vietarono la guerra di aggressione considerandola un delitto nei confronti della Comunità Internazionale. Si credeva ingenuamente che senza aggressori non vi sarebbero state guerre. In realtà, dopo il 1945, vi furono molte guerre nel mondo, con la differenza che i nuovi conflitti, rispetto ai precedenti, non venivano dichiarati né erano preceduti da alcun ultimatum. Infatti, i contendenti erano soliti accusare i nemici di aggressione, ed in quanto aggrediti, si consideravano legittimati a difendersi dall’illecita prevaricazione dell’avversario. L’Autore dimostra, così, come il primo pilastro del diritto bellico risulti oggi crollato e superato dalla storia.

Venendo al secondo pilastro, costituito dallo jus in bello, va detto come esso raggruppi l’insieme delle regole da osservare durante i conflitti armati. Alcune di queste sono in uso da tempo, come le regole sulla separazione tra civili e combattenti; altre sono state codificate nei Trattati internazionali a partire dalla seconda metà del secolo XIX, quando iniziò ad affermarsi il c.d. diritto umanitario in tempo di guerra. Tale fenomeno si accompagnò alla nascita della Croce Rossa Internazionale, una associazione umanitaria deputata al soccorso dei feriti e dei prigionieri. A riguardo l’Autore si domanda se le regole da rispettare durante i conflitti armati abbiano carattere bellico o umanitario. Il diritto bellico si occuperebbe dei conflitti armati nella loro interezza, non altrettanto pretende di fare il diritto umanitario che, persegue il diverso obiettivo di mitigare e lenire gli aspetti più atroci del conflitto, non preoccupandosi di disciplinare lo scontro secondo regole simili ad un torneo o ad un duello. Le poche regole previste in tempo di guerra sono esclusivamente quelle a carattere umanitario (non uccidere i prigionieri e non ridurli in schiavitù, soccorrere i feriti, separare i civili dai combattenti, non utilizzare armi proibite etc..). Altre regole giuridiche non ve ne sono. La guerra, infatti, è una vicenda che il diritto non può regolare, in quanto si fonda su rapporti di forza, per natura insofferenti a qualsivoglia disciplina giuridica. Pertanto, lo jus in bello non è ammissibile, trovando viceversa applicazione nel corso dei conflitti le sole regole del diritto umanitario volte a regolare non già il conflitto ex se, ma talune sue appendici secondarie.

Il terzo pilastro, oggetto di confutazione, è lo jus post bellum. È opinione diffusa che la guerra crei il diritto che si stabilirà al termine del conflitto. L’Autore contesta tale assunto reputandolo erroneo in quanto, a ben vedere, il diritto non può mai essere frutto del non diritto. La guerra inizia quando le parti in conflitto non vogliono intavolare rapporti giuridici (o questi sono falliti), mentre si conclude con la vittoria dell’uno sull’altro oppure con un reciproco accordo circa il ritorno a metodi giuridici; in quest’ultimo caso si avviano, di solito, trattative che si concludono con la firma di un Trattato di Pace. Non esistono per l’Autore regole giuridiche che nascono dalla guerra. Il diritto segna una netta discontinuità con il conflitto precedente. È il ripristino dell’ordine sul caos, della luce sulle tenebre, delle regole giuridiche sui rapporti di forza. Il diritto è, quindi, autonomo sia dalla guerra sia della forza.

Le argomentazioni illustrate sono riuscite, così, a demolire i tre pilastri del diritto bellico, confermando la validità della tesi sulla alternatività tra guerra e diritto. Il volume è apprezzabile, poi, per la chiarezza espositiva, il rigore metodologico e l’approccio interdisciplinare. L’analisi ricostruttiva compiuta dall’Autore si rivela, infine, di palpitante attualità nell’odierno scenario mondiale caratterizzato dalle guerre di religione e dal terrorismo internazionale.

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