TAR Campania Napoli sezione IV sentenza 15 marzo 2012 n 1290
Studente, Università, decadenza, termine, deroga, illegittimità, risarcimento

T.A.R.
Campania – Napoli
Sentenza 15 marzo 2012, n. 1290

N. 01290/2012 REG.PROV.COLL.
N. 00846/2011 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania
(Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente sentenza

sul ricorso numero di registro generale 846 del 2011, proposto
da:
Antonio S., rappresentato e difeso dall’avv. Filomena Zirpolo,
domiciliato in Napoli presso, la Segreteria del Tar Campania;
contro Università degli Studi Federico II di Napoli,
rappresentata e difesa dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato
di Napoli, domiciliata per legge in Napoli, via Diaz, 11; Ministero
dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca;
UNIVERSITÀ: ACCERTAMENTO DELL’ILLEGITTIMITA’ DELLA
DICHIARAZIONE DI DECADENZA DALLA QUALITÀ DI STUDENTE
DELLA FACOLTÀ DI MEDICINA CONTENUTA NEL CERTIFICATO
RILASCIATO DALLA SEGRETERIA DEGLI STUDI DI NAPOLI
FEDERICO II IL 22/9/2010 E RISARCIMENTO DEL DANNO
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Universita’ degli Studi
Federico II di Napoli;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 25 gennaio 2012 il
dott. Fabrizio D’Alessandri e uditi per le parti i difensori come
specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Parte ricorrente, iscritto all’Università degli studi Federico II di
Napoli alla facoltà di Medicina e Chirurgia, riceveva in data
31.5.2008 una comunicazione di avvio di procedimento di
decadenza dagli studi universitari per non aver sostenuto
esami per cinque anni consecutivi.
Con Decreto Rettorile n. 2319 del 7.7.2008 (che parte ricorrente
non dà conto di aver ricevuto), veniva poi dichiarato
decaduto dalla qualità di studente.
Partecipava, quindi, nel settembre 2010, al concorso per
l’iscrizione al corso di studi universitari della facoltà di Medicina
e Chirurgia presso la Seconda Università di Napoli superando i
test per l’iscrizione.
Recatosi nella segreteria dell’Università degli studi Federico II di
Napoli per ritirare un certificato storico degli esami sostenuti,
otteneva un certificato che dava conto dell’intervenuta
decadenza dalla qualità di studente, riportando una dicitura
secondo cui la decadenza sarebbe stata dovuta al “non aver
sostenuto esami per cinque anni consecutivi… ai sensi dell’art.
149 del T.U. 31.8.1933 n. 1592”.
Con atto notificato il 18.1.2011, parte ricorrente proponeva
ricorso chiedendo che, previo accertamento dell’illegittimità
del provvedimento di decadenza dagli studi universitari,
l’Università degli studi Federico II di Napoli venisse condannata
al risarcimento dei danni quantificati in euro 500.000,00 o nella
diversa somma ritenuta di giustizia.
Deduceva come motivi di ricorso:
1) Violazione e falsa applicazione dell’art. 149 del T.U. 31.8.1933
n. 1592 che espressamente prevede che la decadenza dagli
studi universitari intervenga dopo un periodo di otto anni
consecutivi (e non cinque) senza aver sostenuto esami;
2) Violazione degli artt. 2, 9, 33 e 34 Cost.
L’atteggiamento tenuto dall’Università degli studi Federico II
risulterebbe, a detta di parte ricorrente, lesivo del diritto allo
studio costituzionalmente specificamente garantito dagli artt.
33 e 34 della Costituzione.
Si costituiva in giudizio l’Università degli studi Federico II di
Napoli, a mezzo dell’Avvocatura dello Stato, deducendo che
la decadenza sarebbe stata comminata non in forza dell’art.
149 del T.U. 31.8.1933 n. 1592, bensì ai sensi dell’art. 25 del
Decreto Rettoriale n. 2319 del 7.7.2008 (Regolamento Didattico d’Ateneo) che, nell’ambito dell’autonomia riservata
dall’ordinamento alle Università, avrebbe fissato in cinque anni
il termine trascorso il quale interviene la decadenza per non
aver sostenuto esami.
Parte ricorrente sollevava delle eccezioni procedurali in ordine
alla validità della costituzione della parte pubblica ed al
deposito tardivo di documenti, deducendo, nel merito, che la
decadenza sarebbe stata applicata in esecuzione dell’art. 149
del T.U. 31.8.1933 n. 1592 ed, in ogni caso, il richiamato art. 25
del Decreto Rettoriale n. 2319 del 7.7.2008, non avrebbe
potuto porsi in contrasto con una disposizione di fonte statale
primaria, quale il citato art. 149, dettando requisiti più restrittivi
ai fini della decadenza.
La causa veniva chiamata all’udienza pubblica del 25.1.2012 e
trattenuta in decisione.

DIRITTO
1) In via preliminare il Collegio deve affrontare la questione
delle contestazioni in ordine all’ammissibilità della costituzione
in giudizio dell’Università degli studi Federico II di Napoli
sollevate da parte ricorrente che ha dedotto: (ii) il difetto di
procura, in quanto conferita, a suo dire, all’Avvocatura dello
Stato in una nota a firma del Rettore senza alcuna generalità
alle qualità del conferente mandato e priva dell’autentica di
firma; (ii) la tardività della costituzione avvenuta oltre il
sessantesimo giorno dalla notifica del ricorso e del deposito dei
documenti di causa.
Le sollevate eccezioni sono da disattendere.
1.1) Da disattendere è l’eccezione relativa al difetto di procura
in quanto, come da affermato dalla giurisprudenza della Corte
di Cassazione (Sez. Lav., 29 luglio 2008, n. 20582) la
rappresentanza in giudizio dell’Università da parte
dell’Avvocatura dello Stato non necessita di apposito
mandato.
Allo stesso modo, la giurisprudenza amministrativa ha ribadito
sussistere una rappresentanza in giudizio ope legis delle
università da parte dell’Avvocatura dello Stato (Cons. Stato,
sez. VI, 9 settembre 2005, n. 4669)
In particolare, alle Università, dopo la riforma introdotta dalla L.
9 maggio 1989, n. 168, non può essere riconosciuta la qualità di
organi dello Stato, ma quella di ente pubblico autonomo, con
la conseguenza che, ai fini della rappresentanza e difesa da

parte dell’Avvocatura dello Stato, non opera il patrocinio
obbligatorio disciplinato dal R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, artt.
da 1 a 11.
Si applica però, in virtù del R.D. 31 agosto 1933, n. 1592, art. 56,
non abrogato dalla L. n. 168 del 1989, la disciplina sul
patrocinio autorizzato disciplinato dal R.D. n. 1611 del 1933, art.
43, come modificato dalla L. 3 aprile 1979, n. 103, cit. R.D. art.
11 e art. 45, che ha tra i suoi effetti quello di escludere la
necessità del mandato per la rappresentanza da parte
dell’Avvocatura dello Stato e la facoltà di non avvalersi di
quest’ultima previa apposita e motivata delibera (Corte di
Cassazione, Sez. Lav., 29 luglio 2008, n. 20582).
1.2) Da disattendere è, altresì’, l’eccezione di inammissibilità
della costituzione e del deposito dei documenti per tardività.
Com’è noto, la previsione del termine di 60 giorni dalla notifica
del ricorso contenuta nell’art. 46 del c.p.a. non rende
inammissibile la costituzione dell’Amministrazione oltre tale
termine.
Nel processo amministrativo, difatti, sia nella vigenza della
disciplina contenuta nella legge n. 1034/1971, che ai sensi di
quanto stabilito dal D.Lgs. n. 104/2010, deve ritenersi che,
attesa la natura ordinatoria del termine per la costituzione in
giudizio delle parti intimate, la costituzione tardiva
dell’Amministrazione non incorre in alcuna decadenza,
avendo la sola conseguenza di intervenire allo stato in cui il
procedimento si trova (T.A.R. Lazio Roma, sez. I, 7 aprile 2011, n.
3108).
Quanto alla produzione documentale, l’art. 73, comma 1,
c.p.a., prescrive che le parti possano “produrre documenti fino
a quaranta giorni liberi prima dell’udienza, memorie fino a
trenta giorni liberi e presentare repliche fino a venti giorni liberi”
e tali termini risultano essere stati rispettati dall’Amministrazione
universitaria.
2) Venendo al merito del ricorso, il provvedimento di
decadenza è stato pronunciato dall’Amministrazione
Universitaria ai sensi dell’art. 25 Decreto Rettoriale n. 2319 del
7.7.2008 (Regolamento Didattico d’Ateneo), per non aver lo
studente universitario sostenuto esami nell’arco di cinque anni,
come si evince chiaramente dal provvedimento stesso e non
ai sensi dell’art. 149 del T.U. 31.8.1933, n. 1592, che prevede un
termine di otto anni. A tale riguardo, a fronte del palese tenore del provvedimento
di decadenza, non ha difatti rilievo l’indicazione normativa
dell’art. 149 del T.U. 31.8.1933, n. 1592, riportata nel certificato
sugli esami effettuati rilasciato allo studente dall’università
(dove comunque si riporta come causa di decadenza il
mancato superamento di esami per cinque anni), frutto di
mero errore materiale e, comunque, contenuta in un atto
certificativo, privo di effetti autoritativi dispositivi.
Il provvedimento di decadenza non è stato formalmente
impugnato nemmeno nel ricorso in esame, che si è limitato a
chiederne l’accertamento dell’illegittimità dell’atto, a fini
risarcitori, ma non il suo annullamento.
In ogni caso, peraltro, qualsiasi impugnativa per annullamento
in questa sede si sarebbe rivelata tardiva e, di conseguenza,
inammissibile.
Al riguardo, difatti, indipendentemente dalla prova o meno
della notifica di tale provvedimento in capo al ricorrente, che
non appare contenuta in atti, risulta chiaramente come
quest’ultimo fosse a conoscenza sia dell’instaurazione di un
procedimento di dichiarazione di decadenza (per averne
avuto notifica dall’Amministrazione) sia del suo esito, tant’è
che lo stesso ha successivamente partecipato, per sua stessa
ammissione, alle prove concorsuali per essere ammesso alla
medesima facoltà di altre università (Napoli e Bologna) e nel
settembre 2010 ha superato le prove di ammissione
all’iscrizione al corso di studi universitari della facoltà di
Medicina e Chirurgia presso la Seconda Università di Napoli.
Risulta evidente, quindi, come parte ricorrente fosse venuto a
conoscenza del provvedimento di decadenza dalla qualità di
studente presso l’Università degli studi Federico II di Napoli
diverso tempo prima della notifica del presente ricorso,
intervenuta il 18.1.2011.
La pretesa ha, quindi, valenza esclusivamente risarcitoria e
l’accertamento dell’illegittimità dell’atto di declaratoria della
decadenza viene effettuato dal Collegio solo a quest’ultimo
fine.
3) Nel merito la questione decisiva è la possibilità da parte
delle disposizioni dettate dagli organi Universitari di derogare
alla disciplina legislativa, in forza della peculiare posizione di
autonomia conferita dall’ordinamento dello stato agli istituti
universitari, in materia di decadenza dalla qualità di studente
e, nello specifico, se il Regolamento Didattico d’Ateneo fosse in grado di derogare in senso restrittivo all’art. 149 del T.U.
31.8.1933, n. 1592, prevedendo un lasso di tempo inferiore (5
anni) rispetto a quello (8 anni) dettato dalla disciplina statale.
Ritiene il Collegio che ciò non sia possibile e nel contrasto
debba prevalere per questa specifica materia la disciplina
statale, con disapplicazione di quella dettata dall’Università,
senza bisogno di una sua impugnativa, trattandosi di contrasto
tra differenti fonti normative di diverso livello.
L’art. 149, comma 2, del R.D. 31.8.1933, n. 1592, invocato da
parte ricorrente prevede “coloro i quali, pure avendo
adempiuto a tale obbligo, non sostengano esami per otto anni
consecutivi, debbono rinnovare l’iscrizione ai corsi e ripetere le
prove già superate”.
In senso difforme l’art. 25 del Regolamento Didattico d’Ateneo
prevede, al comma 5, che lo studente decada “dal suo status
qualora non abbia superato esami per cinque anni
accademici consecutivi dall’ultimo esame superato”.
La difesa dell’Università ha evidenziato l’ambito di autonomia
riconosciuto dall’ordinamento dello Stato alle università anche
a livello costituzionale espressamente richiamando l’art. 6 della
legge n. 168/89, che, ai comma 1 e 2, prevede “le università
sono dotate di personalità giuridica e, in attuazione
dell’articolo 33 della Costituzione, hanno autonomia didattica,
scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile; esse si danno
ordinamenti autonomi con propri statuti e regolamenti.
Nel rispetto dei principi di autonomia stabiliti dall’articolo 33
della Costituzione e specificati dalla legge, le università sono
disciplinate, oltre che dai rispettivi statuti e regolamenti,
esclusivamente da norme legislative che vi operino espresso
riferimento….”.
Altra norma richiamata nel senso dell’autonomia universitaria
risulta essere l’art. 11 della legge 19.11.1990, n. 341, che
prevede la formazione di un regolamento didattico di ateneo,
approvato dal Ministro, indicando, al comma 2, che i “consigli
delle strutture didattiche determinano, con apposito
regolamento, in conformità al regolamento didattico di
ateneo e nel rispetto della libertà di insegnamento….le
modalità degli obblighi di frequenza anche in riferimento alla
condizione degli studenti lavoratori, i limiti delle possibilità di
iscrizione ai fuori corso”.
A livello regolamentare, la difesa dell’Amministrazione
richiama, infine, l’art. 5 del D.M. 3.11.1999, n. 509, che disciplinando i crediti formativi universitari contempla, al
comma 6, che i regolamenti didattici di ateneo possano
“prevedere forme di verifica periodica dei crediti acquisiti, al
fine di valutarne la non obsolescenza dei contenuti conoscitivi,
e il numero minimo di crediti da acquisire da parte dello
studente in tempi determinati, diversificato per studenti
impegnati a tempo pieno negli studi universitari o
contestualmente impegnati in attività lavorative”.
Da quest’ultima previsione normativa si trarrebbero, secondo
la difesa dell’Amministrazione, ulteriori argomenti a sostegno
della legittimazione del Regolamento didattico di Ateneo a
dettare una disciplina sulla decadenza della qualità di
studente in deroga a quella disposta dal più volte citato art.
149 del T.U. 31.8.1933, n. 1592.
Osserva al riguardo il Collegio come è indubbio che alle
università sia stata attribuita una potestà ordinamentale e
statutaria ed un ambito di autonoma, il cui principio si rinviene
nello stesso art. 33 della Costituzione, che l’art. 6, secondo
comma, legge n. 168 del 1989 ha ribadito e puntualizzato.
Tale autonomia va però contenuta nei “limiti stabiliti dalle leggi
dello Stato” (art. 33, comma 5, Cost.), dovendosi coordinare
con le norme di rango superiore sia antecedenti che
successive alla legge n. 168 del 1989 (Cons. Stato, Sez. VI,
5.6.2006, n. 3341).
In tal senso difatti, i regolamenti universitari presentano pur
sempre una valenza sub – primaria, in quanto il diritto per le
istituzioni universitarie sussiste unicamente nel rispetto dei limiti
stabiliti dalle leggi statali (Cons. Stato, sez. VI, 24 gennaio 2011,
n. 467).
Ai sensi dell’art. 6 legge n. 168 del 1989, l’autonomia
universitaria si esplica e trova attuazione (a mezzo della
potestà statutaria – regolamentare) nei limiti indicati dalla
legge ed in quegli ambiti che non siano coperti da riserva di
legge (T.A.R. Campania Napoli, sez. IV, 4 novembre 2010, n.
2679).
Per quanto riguarda la decadenza dalla qualità di studente,
c’è una precisa disposizione normativa di fonte primaria ed il
termine di otto anni fissato dall’art. 149, comma 2, del R.D.
31.8.1933, n. 1592, che non può evidentemente essere
derogata in peius né in sede di normativa specifica dell’Ente,
trattandosi di un limite posto all’autonomia organizzativa delle
singole Università.

Né si può dire che un potere derogatorio a tale fonte primaria
sia stato attribuito da altra specifica fonte legislativa
successiva.
In tal senso, difatti, è insufficiente a conferire potere normativo
potenzialmente in deroga l’art. 11 della legge 19.11.1990, n.
341, che si limita a prevedere che le Università possano
disciplinare, con proprio regolamento, anche “i limiti delle
possibilità di iscrizione ai fuori corso”.
La possibilità di disciplinare tali aspetti non comprende la
possibilità di derogare alla disciplina statale sulla decadenza
dalla facoltà di studente, perché i limiti delle possibilità di
iscrizione ai fuori corso appaiono materia diversa e più ristretta
rispetto alla perdita della qualità di studente, che comporta la
necessità di “rinnovare l’iscrizione ai corsi e ripetere le prove già
superate”, ponendo legalmente nel nulla l’iter formativo
universitario seguito.
Tale conseguenza di ampia portata, peraltro, incide
fortemente sul diritto allo studio, comprimendo fortemente la
posizione dello studente, privandolo, lo ripetiamo, dei risultati
ottenuti nel corso degli studi ed, in tal senso, la materia esula
dall’ambito dell’autonomia organizzativa, gestionale e
contabile riservata all’autonomia universitaria, andando ad
impingere direttamente sui diritti soggettivi dello studente,
connessi al diritto allo studio, che richiedono una disciplina
unitaria sull’intero ambito nazionale affidata alla normativa
primaria di fonte statale e che non possono essere lasciati
all’autonomia delle singole università.
Per quanto riguarda, infine, l’art. 5 del D.M. 3.11.1999, n. 509, la
circostanza che quest’ultimo preveda la possibilità da parte
dei regolamenti didattici di ateneo di contemplare “forme di
verifica periodica dei crediti acquisiti, al fine di valutarne la
non obsolescenza dei contenuti conoscitivi, e il numero minimo
di crediti da acquisire da parte dello studente in tempi
determinati”, non attribuisce la possibilità di derogare in pejus,
con una disposizione regolamentare generale, al limite degli
otto anni, in primo luogo perché il citato D.M. costituisce fonte
normativa secondaria rispetto alla fonte primaria costituita dal
citato art. 149.
Inoltre il suddetto art. 5 contempla la possibilità degli organi
universitari di prevedere una specifica e puntuale verifica
rispetto al livello di obsolescenza di specifici contenuti
conoscitivi di determinate discipline e non conferisce la potestà di emanare una disciplina generale ed indistinta di
decadenza senza prendere in esame specifiche discipline.
Inoltre, l’art. 5, limitandosi in generale a prevedere la fissazione
dei crediti da acquisire in tempi determinati, non contempla la
possibilità di prevedere in via autonoma una disciplina
derogatoria di quella legislativamente fissata, comportante la
grave conseguenza della decadenza dalla qualità di studente
che ha il peculiare effetto di porre nel nulla l’intero corso degli
studi conseguiti, facendo venir meno l’efficacia degli esami
fatti.
4) Acclarata l’illegittimità del provvedimento di declaratoria di
decadenza, si deve passare al consequenziale scrutinio della
domanda risarcitoria inerente ai danni prodotti dal suddetto
provvedimento.
A parere del Collegio sussistono, in linea teorica, tutti i
presupposti per il riconoscimento di una responsabilità per
danni da parte dell’Amministrazione universitaria.
Trattasi, difatti, di responsabilità contrattuale, in quanto
l’Università è incorsa nella violazione di un obbligo sorto
nell’ambito di un rapporto specifico istaurato tra la stessa e lo
studente, a seguito dell’iscrizione al corso d studi.
Tale osservazione implica, quindi, l’inutilità di qualsiasi ulteriore
indagine specificamente rivolta a verificare l’esistenza della
colpa della pubblica amministrazione (T.A.R. Campania
Napoli, Sez. VIII, 16.12.2011, n. 5863).
Viene, però, in rilievo la circostanza che parte ricorrente non
ha tempestivamente impugnato il provvedimento di
decadenza e, di conseguenza, si pone la questione
dell’applicabilità del generale principio previsto nell’art. 1227
cod. civ., secondo cui non è dovuto il risarcimento che la
parte avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza,
ormai legislativamente consacrato per il processo
amministrativo dall’art. 30, comma 3, del c.p.a.
Non si pone difatti un problema di ammissibilità della
domanda risarcitoria, in quanto, ormai sopite le dispute
giurisprudenziali e dottrinali sulla questione della pregiudizialità
della domanda di annullamento, si è riconosciuta la natura
autonoma delle due azioni e l’esperibilità dell’actio damni
indipendentemente da quella per l’annullamento (Cons. Stato,
Ad. Plen., sentenza 23 marzo 2011 n. 3; T.A.R. Lombardia
Milano, sez. II, 23 giugno 2010, n. 2212; Cons. giust. amm. Sicilia,
sez. giurisd., 14 dicembre 2009 n. 1188). Al riguardo, come indicato dall’Adunanza Plenaria, sentenza
23 marzo 2011 n. 3, il legislatore, con il codice del processo
amministrativo, ha mostrato di non condividere la tesi della
pregiudizialità pura di stampo processuale al pari di quella
della totale autonomia dei due rimedi, approdando ad una
soluzione che, non considerando l’omessa impugnazione
quale sbarramento di rito, aprioristico ed astratto, valuta detta
condotta come fatto concreto da apprezzare, nel quadro del
comportamento complessivo delle parti, per escludere il
risarcimento dei danni evitabili per effetto del ricorso per
l’annullamento. E tanto sulla scorta di una soluzione che
conduce al rigetto, e non alla declaratoria di inammissibilità,
della domanda avente ad oggetto danni che l’impugnazione,
se proposta nel termine di decadenza, avrebbe consentito di
scongiurare.
La mancata promozione della domanda impugnatoria, quindi,
non pone un problema di ammissibilità della domanda
risarcitoria ma è idonea ad incidere sulla fondatezza della
stessa.
L’art. 30, comma 3, del codice del processo amministrativo, nel
prevedere che nel determinare il risarcimento, “il giudice
valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento
complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento
dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria
diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di
tutela previsti”, pur non evocando in modo esplicito il disposto
dell’art. 1227, comma 2, del codice civile, afferma che
l’omessa attivazione degli strumenti di tutela previsti costituisce,
nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato
valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del
principio di solidarietà, ai fini dell’esclusione o della mitigazione
del danno evitabile con l’ordinaria diligenza. Di qui la rilevanza
sostanziale, sul versante prettamente causale, dell’omessa o
tardiva impugnazione come fatto che preclude la risarcibilità
di danni che sarebbero stati presumibilmente evitati in caso di
rituale utilizzazione dello strumento di tutela specifica
predisposto dall’ordinamento a protezione delle posizioni di
interesse legittimo onde evitare la consolidazione di effetti
dannosi.
La regola della non risarcibilità dei danni evitabili con
l’impugnazione del provvedimento e con la diligente
utilizzazione e degli altri strumenti di tutela previsti dall’ordinamento, oggi sancita dall’art. 30, comma 3, del
codice del processo amministrativo, è ricognitiva di principi già
evincibili alla stregua di una interpretazione evolutiva del
capoverso dell’articolo 1227 c.c.
Tale regola è applicabile pertanto anche alle azioni risarcitorie
proposte prima dell’entrata in vigore del codice del processo
amministrativo, essendo espressione, sul piano teleologico, del
più generale principio di correttezza nei rapporti bilaterali,
mirando a prevenire comportamenti opportunistici che
intendano trarre occasione di lucro da situazioni che hanno
leso in modo marginale gli interessi dei destinatari tanto da non
averli indotti ad attivarsi in modo adeguato onde prevenire o
controllare l’evolversi degli eventi (cfr., per ulteriori applicazioni
del principio di causalità ipotetica, artt. 1221, comma 1 e 1805,
comma 2 c.c., 369 cod. nav.).
La scelta di non avvalersi della forma di tutela specifica e non
(comparativamente) complessa che, grazie anche alle misure
cautelari previste dall’ordinamento processuale, avrebbe
plausibilmente (ossia più probabilmente che non) evitato, in
tutto o in parte il danno, integra violazione dell’obbligo di
cooperazione, che spezza il nesso causale e, per l’effetto,
impedisce il risarcimento del danno evitabile.
Detta omissione, apprezzata congiuntamente alla successiva
proposizione di una domanda tesa al risarcimento di un danno
che la tempestiva azione di annullamento avrebbe
scongiurato, rende configurabile un comportamento
complessivo di tipo opportunistico che viola il canone della
buona fede e, quindi, in forza del principio di auto-

responsabilità cristallizzato dall’art. 1227, comma 2, c.c.,
implica la non risarcibilità del danno evitabile.
Nel caso di specie la tempestiva impugnativa del
provvedimento di decadenza illegittimo avrebbe avuto
l’effetto, unitamente con la richiesta di una misura cautelare,
se non di eliminare totalmente il danno quantomeno di
ridimensionarlo fortemente.
Sarebbero stati ragionevolmente evitati i pesanti pregiudizi
dedotti da parte ricorrente nella perdita dell’intera carriera
universitaria, con necessità di affrontare nuovamente i test
d’ingresso e ricominciare da capo il corso di studi in Medicina
e Chirurgia presso la Seconda Università degli studi di Napoli e
la compromissione della chance di conseguire prima un
diploma di laurea universitario. A quest’ultimo proposito il Collegio evidenzia come parte
ricorrente abbia effettivamente poi continuato il suo iter di
studi universitari sostenendo (o meglio probabilmente
risostenendo) diversi esami del primo anno, per cui si deve
ragionevolmente presumere che la stessa avrebbe continuato
il suo percorso universitario anche presso l’Università resistente.
Ciò anche tenuto conto che in senso contrario depone,
invece il basso numero di esami sostenuti (sette) nei precedenti
sette anni di iscrizione.
La tempestiva impugnativa avrebbe evitato, quindi, il danno
patrimoniale derivante dalla perdita di quanto corrisposto per
le iscrizioni al vecchio ed al nuovo corso di studi e dalla perdita
di chance valutata dal punto di vista prettamente economico,
così come avrebbe presumibilmente evitato, in gran parte, il
danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. (comprensivo del
danno morale ed esistenziale) derivante dalla decadenza
della carriera universitaria e la necessità di iniziare da capo gli
studi perdendo la validità degli esami sostenuti e dovendosi
reiscrivere ad una nuova università.
Residua però una parte di danno non patrimoniale (nel senso
indicato) che non sarebbe stata plausibilmente evitata
neanche con l’impugnativa del provvedimento gravato e che
il Collegio ritiene di poter risarcire, stante l’attinenza della
situazione giuridica lesa con il diritto allo studio
costituzionalmente garantito, quantificandolo equitativamente
ai sensi dell’art. 1226 cod. civ. in euro 5.000,00 (cinquemila).
Alla luce di quanto precede, il ricorso va accolto nei sensi di
quanto suindicato.
5) In considerazione della peculiarità della vicenda e
dell’accoglimento limitato nel quantum dell’istanza risarcitoria,
il Collegio ritiene sussistano eccezionali motivi per disporre la
compensazione parziale delle spese di giudizio che per il resto
vengono poste a carico dell’Amministrazione resistente.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania (Sezione
Quarta), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in
epigrafe proposto, lo accoglie nei termini indicati in
motivazione e, per l’effetto, condanna l’Universita’ degli Studi
Federico II di Napoli al risarcimento del danno non patrimoniale a favore del ricorrente quantificato in euro
5.000,00 (cinquemila).

Compensa parzialmente le spese di lite e per la parte restante,
liquidata nella somma complessiva di euro 1.000,00 (mille) oltre
I.V.A. e C.P.A., le pone a carico della resistente Università degli
Studi Federico II di Napoli.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità
amministrativa.

Così deciso in Napoli nella camera di consiglio del giorno 25
gennaio 2012 con l’intervento dei magistrati:
Leonardo Pasanisi, Presidente FF
Guglielmo Passarelli Di Napoli, Consigliere
Fabrizio D’Alessandri, Referendario, Estensore
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 15/03/2012
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

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