Sentenza Corte Costituzionale 14 febbraio 2020, n. 18

Avv. Rosaria Multari

Corte Costituzionale n. 18 del 14 febbraio 2020, red. M. Cartabia: è incostituzionale l’art. 47-quinquies, comma 1, L. ord. Pen. (L. n. 354/1975), nella parte in cui non prevede la possibilità di concedere la detenzione domiciliare speciale alle detenute madri di figli affetti da grave disabilità, ai sensi della L. n. 104/1992, in quanto deve ritenersi che le esigenze di cura del figlio disabile sono preminenti rispetto all’esigenza di contrasto alla criminalità e che le relazioni umane, specie il rapporto familiare madre – figlio, sono fattori determinanti per il pieno sviluppo e la tutela affettiva delle persone più fragili.

 

Premessa: la detenzione domiciliare speciale, art. 47 quinquies, comma 1, L. n. 354/1975

La sentenza in commento – scritta dalla penna, come sempre delicata e fine, della dott.ssa Caparbia (per chi non lo ricordasse, la prima donna nominata alla presidenza della Corte Costituzionale; leggendo il testo della sentenza, direi che non si hanno dubbi sul perché) – interviene su un argomento in generale ancora spinoso e che suscita “divisioni”, ovvero quello del diritto di un condannato per gravi delitti (come quelli di associazione di stampo mafioso), a determinate condizioni, di usufruire di misure penitenziarie alternative alla detenzione e così scontare parte della pena fuori dal carcere. In particolare, nel caso trattato dalla sentenza e su cui è intervenuta la pronuncia di illegittimità costituzionale, il diritto in questione è contestualizzato nel diritto della detenuta, che sta espiando una pena detentiva di lunga durata o per reati gravi, ad usufruire dell’istituto della detenzione domiciliare speciale di cui all’art. 47 – quinquies L. n. 354/1975, in quanto madre di un figlio affetto da grave disabilità, riconosciuta ai sensi della L. n. 104/1992, da dover assistere. Come noto, infatti, la detenzione domiciliare speciale – così come anche la figura ordinaria di cui all’art. 47 – ter n. 354/1975, che si applica per pene detentive brevi e per reati non gravi – non contempla tra i casi per cui può ammettersi la sua applicazione quello della necessità di assistere un figlio disabile. La norma, di contro, nel testo censurato di incostituzionalità, limita l’operatività della detenzione domiciliare speciale alle sole ipotesi in cui il figlio da assistere sia minore di 10 anni. Dunque, prevede uno sbarramento automatico e rigido, legato all’età del figlio (non avere più di 10 anni), che preclude l’ammissione della misura nel caso in cui il figlio disabile grave da assistere abbia un’età maggiore di quella prescritta (10 anni). Un evidente limite alla tutela dei soggetti affetti da gravi disabilità, che, alla luce dei diritti fondamentali della persona – tutelati, prima che in Convenzioni internazionali (soprattutto Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006, New York), nella nostra bellissima Costituzione – il giudice delle Leggi non poteva non notare e rimuovere. Perché se è vero che in una realtà complessa come quella italiana, l’esigenza di assicurare l’effettività della pena e la repressione dei fenomeni criminali di maggiore allarme e pericolo sociale, è sempre costante e imponente, è ancor di più vero che rispetto a tali esigenze punitive diventa preminente il bisogno di assicurare una piena assistenza e cura alla persona disabile, in particolare assicurare che quella cura sia garantita dalla persona che per natura è predisposta a farlo: la propria madre. È pur vero, cioè, che – come qualcuno ha scritto e detto da qualche parte – i figli non sono tenuti a scontare le pene dei padri, o delle madri. Questi i concetti semplici – quasi elementari, per quanto dovrebbero essere scontati e naturali – su cui si poggia la sentenza n. 18 del 14 febbraio 2020, sentenza che chi qui scrive intende, più che commentare, riprodurre, senza nulla aggiungere, nelle sue espressioni centrali e più significative, che richiedono solo di essere lette, assorbite, metabolizzate e condivise spontaneamente, prima che come giuristi, come possibili genitori, figli, essere umani.

 

Funzione della detenzione domiciliare speciale, art. 47 quinquies, comma 1, L. n. 354/1975: tutelare le esigenze di cura e sviluppo del figlio, soggetto debole e terzo incolpevole rispetto all’attività criminosa commessa dalla madre

Non mi soffermo sulla struttura e presupposti della detenzione domiciliare speciale. Basta dire, per chi non lo sapesse, che si tratta di una misura alternativa alla detenzione che consente di espiare parte finale di una pena detentiva fuori dal carcere e può essere applicata alle detenute madri condannate a pene di lunga durata o per gravi delitti (per pene detentive brevi e reati non gravi si applica la detenzione domiciliare ordinaria di cui all’art 47 – ter L. n. 354/1975), a condizione che il figlio da assistere non abbia più di 10 anni e non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti (comma 1, art. 47 – quinquies, L. n. 354/1975) o un pericolo di fuga (comma 1 bis, art. 47 – quinquies, L. n. 354/1975). Occorre piuttosto soffermarsi sulla funzione che l’istituto persegue e alla luce della quale è stata pronunciata la recente declaratoria di illegittimità costituzionale parziale dell’art. 47- quinquies L. n. 354/1975. Sul punto, la sentenza n. 18 del 14 febbraio 2020 si pronuncia riprendendo quanto già osservato dalla stessa Corte Costituzionale – in particolare, nella sentenza n. 350 del 2003 – con riguardo per lo più alla funzione della detenzione domiciliare ordinaria di cui all’art. 47 ter L. n. 350/1975. Più nello specifico, il giudice delle Leggi osserva che la giurisprudenza costituzionale (tra le altre, sentenza n. 211/2018), aveva già avuto modo di affermare che entrambe le misure della detenzione domiciliare, ordinaria e speciale, “oltre che alla rieducazione del condannato, sono primariamente indirizzate a consentire la cura dei figli e a preservarne il rapporto con la madre”. Per la detenzione domiciliare speciale, poi, si è affermato che “assume rilievo prioritario la tutela di un soggetto debole, distinto dal condannato e particolarmente meritevole di protezione” (sentenza n. 76 del 2017). Dal richiamo alla citata giurisprudenza, in altri termini, risulta dirimente la funzione dell’istituto di cui all’art. 47 quinquies, l. n. 35471975, che non è tanto e solo quella di rieducare la detenuta ma, soprattutto, quella di soddisfare le esigenze di cura e sviluppo del figlio, soggetto debole e terzo incolpevole rispetto all’attività criminosa commessa dalla madre. Quando, poi, il figlio da assistere è un soggetto gravemente invalido, la sentenza n. 18 del 2020, richiamando la pregressa giurisprudenza costituzionale sul punto, osserva che rispetto a tali esigenze di cura e assistenza, non possono tollerarsi limitazioni. Infatti, come già evidenziato nella sentenza n. 350 del 2003 – con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3, primo e secondo comma cost., dell’art. 47 – ter, comma 1, lettera a), ordin. Penit., nella parte in cui prevede la concessione della detenzione domiciliare ordinaria “anche nei confronti della madre condannata, e, nei casi previsti dal comma 1, lettera b), dal padre condannato, conviventi con un figlio portatore di handicap totalmente invalidante” – in presenza di figlio gravemente invalido “la salute psico – fisica (….) può essere, infatti, e notevolmente, pregiudicata dall’assenza della madre, detenuta in carcere, e dalla mancanza di cure da parte di questa, non essendo indifferente per il disabile grave, a qualsiasi età, che le cure e l’assistenza siano prestate da persone diverse dal genitore”. La stessa giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, del resto, ha affermato che l’assenza della madre, per il figlio gravemente invalido, costituisce “un pregiudizio ancora più grave” di quanto non lo sia per il figlio sano di età inferiore ai dieci anni (Cass. Pen. sez. I, n. 41190 del 2015).

 

Incostituzionalità limite d’età del figlio minore in caso di gravi disabilità: violazione artt. 3 e 31, comma 2, cost. La tutela della maternità, cioè del rapporto madre e figlio, non può considerarsi esaurito dopo le prime fasi di vita del bambino, in quanto il figlio portatore di grave disabilità si trova sempre in condizioni di vulnerabilità fisica e psichica indipendentemente dall’età

In base a dette considerazioni, la sentenza n. 18 del 14 febbraio 2020 ha ritenuto che il limite di età dei dieci anni previsto dall’art. 47 – quinquies, comma 1, L. ordin. penit., contrasti con i principi costituzionali di cui all’art. 3, comma primo e secondo, cost., unitamente a quello di cui all’art. 31, secondo comma cost. In particolare, quanto alla prima previsione costituzionale (art. 3 cost.), riprendendo quanto affermato dalla stessa Corte con la sentenza n. 350/2003, l’illegittimità costituzionale è individuata, anzitutto, rispetto al canone dell’uguaglianza formale (comma 1), nel fatto che precludere la detenzione domiciliare dopo il compimento dei dieci anni di età al figlio totalmente disabile, alla luce del suo perdurante bisogno di cura e assistenza da parte dei genitori, implica un trattamento difforme rispetto a situazioni familiari analoghe ed equiparabili fra loro, quali sono quella della madre di un figlio incapace perché minore degli anni dici, ma con un certo margine di autonomia. Almeno sul piano fisico, e quella della madre di un figlio disabile e incapace di provvedere da solo anche alle sue più elementari esigenze, il quale, a qualsiasi età, ha maggiore e continua necessità di essere assistito dalla madre rispetto ad un bambino di età inferiore agli anni dieci. Riguardo al canone dell’uguaglianza sostanziale (comma 2, art. 3 cost.), invece, l’incostituzionalità viene ravvisata nel fatto che l’esecuzione della pena nella forma della detenzione domiciliare è volta a favorire il pieno sviluppo della personalità del figlio, sicché la possibilità della sua concessione è funzionale a rimuovere gli ostacoli di ordine sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona, ovvero gli ostacoli che la Repubblica, ai sensi dell’art. 3, comma 2 cost., è chiamata a rimuovere. Di particolare importanza e innovatività, comunque, è la censura mossa rispetto alla previsione dell’art. 31, comma secondo cost., norma che prevede la tutela della maternità e che non era stata richiamata dalla precedente sentenza del 2003 n. 350, di censura dell’art. 47-ter L. n. 354/1975. Per la prima volta, dunque, la sentenza in commento prende in considerazione e valorizza il legame tra madre e figlio, il diritto alla maternità, da un lato, e il diritto del figlio ad avere un rapporto continuativo con la madre e non essere privato delle sue cure – assistenza, dall’altro. Diritto, quest’ultimo, che non può considerarsi esaurito dopo le prime fasi di vita del bambino. Evidenzia, in particolare, la sentenza n. 18 del 2020 come i principi costituzionali richiamati (uguaglianza e tutela della maternità) “esigono che una misura alternativa alla detenzione, qual è quella prevista dall’art. 47- quinquies finalizzata principalmente a tutelare il figlio terzo incolpevole e bisognoso del rapporto quotidiano e delle cure del detenuto- debba estendersi all’ipotesi del figlio portatore di disabilità con “connotazione di gravità” ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge n. 104 del 1992, il quale si trova sempre in condizioni di particolare vulnerabilità fisica e psichica indipendentemente dall’età. Nei casi di disabilità grave l’autonomia personale è così ridotta “da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione” a qualunque età (art. 3, comma 3, della legge n. 104 del 1992). Il dato di esperienza, anzi, rivela che le condizioni di vita e di salute delle persone colpite da disabilità grave tendono ad aggravarsi e ad acuirsi con l’avanzare dell’età. Sicché delimitare il beneficio penitenziario in questione in ragione di un parametro meramente anagrafico è costituzionalmente illegittimo quando si tratta di persona gravemente disabile”.

 

Nuovo Bilanciamento tra beni in gioco: esigenze di cura del disabile (primo bene) e esigenze di difesa sociale e contrasto alla criminalità (secondo bene).

La pronuncia in commento, comunque, chiarisce che la declarata illegittimità costituzionale parziale dell’art. 47 – quinquies, comma 1, L. n. 354/1975, non incide sugli ulteriori requisiti (rispetto a quello incostituzionale dell’età inferiore a 10 anni), richiesti per la concessione della misura della detenzione domiciliare speciale ovvero la mancanza in concreto del pericolo di commissione di ulteriori delitti o (nel solo caso del comma 1 bis) pericolo di fuga. Pertanto, chiarisce il giudice delle Leggi, il tribunale di sorveglianza (giudice normalmente competente ad adottare le misure alternative alla detenzione), è chiamato, al fine dell’applicazione della misura della detenzione domiciliare speciale, a contemperare ragionevolmente tutti i beni in gioco: le esigenze di cura del disabile, così come quelle parimenti imprescindibili della difesa sociale e di contrasto alla criminalità. Si tratta di un bilanciamento da compiere di volta in volta, in concreto, sulla base di una “valutazione comparativa complessa” delle esigenze della sicurezza e difesa sociale con quelle del soggetto debole diverso dal condannato e particolarmente bisognoso di assistenza da parte della madre.

 

Considerazioni conclusive

 La sentenza della Corte costituzionale n. 18 del 2020, come osservato in premessa, non necessita di osservazioni e commenti, se non, a parere di chi scrive, essere elogiata, oltre che per l’immediatezza della sua comprensione, per il coraggio di valorizzare l’esigenza di tutela dei diritti dei disabili e della maternità, in ogni contesto normativo, inclusa la disciplina delle misure alternative alla detenzione. Come non apprezzare, da avvocato e giurista, una sentenza che mette da parte le stesse esigenze rieducative, non solo quelle punitive, di un condannato per reati gravi, al fine di tutelare le esigenze di cura di un disabile. Come non valorizzare una sentenza che, in altri termini, ci dice che madri non si smette di essere nemmeno se autrici, colpevoli, di gravi delitti, così evidenziando l’importanza che su un piano affettivo e umano anche una donna detenuta per gravi delitti continua ad avere nella vita del figlio. Come non valorizzare una sentenza che mette in luce come le relazioni umane, specie di tipo familiare, sono fattori determinanti per il pieno sviluppo e la tutela affettiva delle persone più fragili e che impone un’adeguata considerazione della tutela del figlio, terzo incolpevole e bisognoso del rapporto materno, quale che sia il reato per cui è stata condannata la madre. Essere autrici, colpevoli, di determinati reati, è una scelta per cui è giusto che sia espiata una pena, espiazione che faccia ravvedere di quanto commesso. Essere madri di una persona affetta da gravi disabilità, una scelta, non lo è. Pertanto è altrettanto naturale e giusto che nell’interesse esclusivo del figlio e del rispetto alla nostra più profonda umanità, sia consentito ad una donna di essere madre.

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