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La tutela della disconnessione. Fonti, limiti e prospettive

Massimiliano Cuomo*

Il contributo affronta il tema largamente dibattuto negli ultimi anni sugli strumenti atti all’attuazione del diritto del lavoratore alla disconnessione digitale. A che punto e’ il nostro ordinamento e quello europeo e come il diritto alla disconnessione associato allo smartworking puo rivelarsi un opportunita’ da sfruttare per rivitalizzare il ripopolamento dei piccoli centri urbani. L’oggetto del contenuto e’il voler inquadrare un argomento di pregnante fornendo una visione che parte dalle fonti europee per indagare i tempi e i modi di recepimento delle stesse da parte nel nostro ordinamento ,coniugandole con le rinnovate spinte al welfare sociale ed aziendale.The contribution addresses the widely debated topic in recent years on the tools for implementing the worker’s right to digital disconnection. At what point is our legal system and the European one and how the right to disconnect associated with smartworking can prove to be an opportunity to be exploited to revitalize the repopulation of small urban centres. The object of the content is the desire to frame a pregnant topic by providing a vision that starts from European sources to investigate the times and ways of transposing them into our legal system, combining them with the renewed thrusts towards social and corporate welfare.Il diritto alla disconnessione digitale in Italia si regge ancora su un insufficiente substrato normativo, che dà peraltro luogo a sacche di profili di disparità di trattamento, atteso che , diversamente da alcuni altri Paesi europei che hanno in forma indipendente normato in maniera certamente più omogenea ed esaustiva di noi, non solo questo non viene espressamente qualificato quale diritto, e dunque eziologicamente nemmeno dovere, laddove si tratta di una modalità di svolgimento della prestazione lavorativa che come da definizione necessita quale requisito sostanziale la presenza di strumenti tecnologici, quand’anche il dibattito e la dottrina si infittiscono di continui inediti contributi anche a smentita. Rappresenta senz’altro oggi un interesse collettivo meritevole di attenzione dati i costanti progressi economici, sociali e tecnologici costituendone la corretta formulazione negli usi, sicuramente un’importante opportunità per le relazioni industriali nell’ intercettare nuovi bisogni individuali coniugandoli con la produttivita’ e con buona pace delle relazioni sindacali.Ad oggi, il nostro ordinamento contempla ancora come unica forma di disconnessione la disciplina del “lavoro agile” di cui alla l. n. 81/2017, senza alcun riferimento ad altre fattispecie o più in generale allo status del lavoratore subordinato tout court. Si precisa che tale istituto viene previsto sia per il settore privato sia per quello pubblico, giacché, anche se aventi genesi di regolamentazione in materia di lavoro agile tra loro diverse, in forza del richiamo integrale dell’art. 19 della l. n. 81/2017 all’interno della Direttiva 1° giungo del 2017, quest’ultimo risulta direttamente applicabile alla pubblica amministrazione1Sulla medesima linea di applicabilità della disconnessione alla sola fattispecie di lavoro agile, così come di rinvio delle modalità di esercizio della stessa alla sola autonomia individuale, si è posizionato anche il legislatore della fase emergenziale da SARS-CoV-2, in occasione della conversione in legge del 6 maggio 2021 n. 61, del d.l. del 13 marzo 2021 n. 30 (2). Tuttavia, tale disposizione offre il primo riconoscimento normativo italiano della disconnessione in qualità di diritto, qualificazione che sino ad allora solo la contrattazione collettiva aveva avanzato. Tale riconoscimento, non privo di dubbi interpretativi, arriva non a caso alla luce dei più recenti interventi a livello di Unione Europea in tema di diritto alla disconnessione sia dalle parti sociali e sia dal Parlamento Europeo, rispettivamente, con l’Accordo quadro sulla Digitalizzazione del 22 giugno 2020 e con la Risoluzione sul diritto alla disconnessione del 21 gennaio 2021, quest’ultima contestuale a una proposta di direttiva europea in tema rivolta «a tutti i settori, sia pubblici che privati, e a tutti i lavoratori, indipendentemente dal loro status e dalle loro modalità di lavoro».4 Si precisa sin da ora che in entrambi gli interventi viene assoggettato un ruolo significativo alla contrattazione collettiva sia nazionale che decentrata, diversamente dall’intervento postumo del legislatore emergenziale italiano. Tuttavia in un’ottica complessiva si ritiene ragionevole dover considerare il carattere emergenziale di quest’ultimo, soprattutto in vista della più recente presentazione del disegno di legge, avente un contenuto maggiormente soppesato, evoluto e senza dubbio collimato alle prese di posizione europee.5Infatti sebbene il legislatore riguardo alla regolamentazione della disconnessione abbia finito per prevedere stante anche le cause emergenziali una certa autonomia resa in luogo della contrattazione collettiva, riconoscendo che e’ fondamentale che la stessa si appropri di questo ruolo, andando a “riempire di contenuto” una norma, quella del 2017, priva di valore precettivo, e segnando la via per un futuro riconoscimento normativo di un vero e proprio diritto alla disconnessione per legem, non solo per gli smart worker e gli “agili”, ma per tutti i lavoratori, in linea con quanto gia’ cogente in Paesi come la Francia o la Spagna. Il legislatore potrebbe infatti intervenire su quanto finora disciplinato in autonomia dalle contrattazioni collettive, in modo da garantire una tutela più ampia e generale, pur lasciando comunque alle relazioni sindacali di prossimita’ spazi di modulazione della disciplina rispetto al caso specifico. Tuttavia ad oggi l’assenza sul punto di una cornice normativa più pregnante, in luogo di essere colta quale opportunità dalle parti sociali, ha spesso generato nelle ipotesi di contrattazione collettiva solo mere dichiarazioni di intenti, non in grado di conferire effettività alla tutela della disconnessione e di segnarne più concretamente il percorso di affermazione qualendiritto fondamentale.6Pacifico che l’esigenza di una sistematica normativa su tale argomento prende definitivo abbrivio con il periodo pandemico e postpandemico, gia dal 2018 il Parlamento europeo, mosso dalla convinzione che la transizione digitale deve essere guidata dal rispetto dei diritti umani, nonché dei diritti e dei valori fondamentali dell’Unione, invitava Commissione a presentare un proposta di direttiva in tema di “diritto alla disconnessione”7 dagli strumenti digitali, comprese le tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni (TIC) a scopi lavorativi, (atteso che non esiste, allo stato, una normativa specifica dell’UE ed inoltre la legislazione carenziale in materia varia fra gli Stati membri). Tale proposta di Direttiva articolata su piu punti, invita dunque la Commissione a licenziare una legge su norme e condizioni minime per garantire che i lavoratori possano esercitare efficacemente il loro diritto alla disconnessione e per disciplinare l’uso degli strumenti digitali esistenti e nuovi a scopi lavorativi, prendendo al contempo in considerazione l’accordo quadro delle parti sociali europee sulla digitalizzazione, che include disposizioni sulla connessione e sulla disconnessione; rammenta che l’accordo quadro prevede che le parti sociali adottino misure di attuazione entro i prossimi tre anni e che una proposta legislativa prima della fine del periodo di attuazione significherebbe non tenere conto del ruolo delle parti sociali previsto dal TFUE; insiste che qualsiasi iniziativa legislativa rispetti l’autonomia delle parti sociali a livello nazionale, i contratti collettivi nazionali, i modelli dei mercati del lavoro nazionali e non pregiudichi il diritto di negoziare, concludere e mettere in atto accordi collettivi conformemente al diritto e alla prassi nazionali; pone al vertice l’importanza e il rango preminente dei CCNL sia pubblici che privati cosi come, le misure di sensibilizzazione e formazione devono interessare tanto le modalità pratiche di disconnessione quanto i rischi per la salute, da intendersi come effettiva acquisizione da parte del lavoratore della consapevolezza di un uso più responsabile e razionale della strumentazione digitale, la quale deve necessariamente comportare la conoscenza del ventaglio dei rischi afferenti alla sfera privata e personale che da essa possono derivare. Ad una osservazione complessiva degli elementi che compongono il dettato della proposta di Direttiva è possibile cogliere una particolare impronta pragmatica, nell’obiettivo di mettere a disposizione degli Stati membri gli strumenti chiave atti a rendere concretamente effettiva e democratica la regolamentazione di un istituto, quale il diritto alla disconnessione, che nel tessuto europeo risulta ancora disomogeneo e frammentario da iniziative volontaristiche di natura normativa e/o contrattualistica nazionale.D’altronde la normogenesi e’ rinvenibile già come substrato normativo in tutta una serie di disposizioni preesistenti nell’ordinamento europeo. Valga richiamare, al riguardo, l’art. 31 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ai sensi del quale ogni lavoratore ha diritto a condizioni di lavoro che ne rispettino la salute, privacy, sicurezza e dignità, così come ad una limitazione dell’orario massimo di lavoro, a periodi di riposo giornalieri e settimanali e ad un congedo retribuito, l’art. 7 della Carta che tutela il diritto di ogni persona al rispetto della propria vita privata e familiare al pari dell’art. 8, par. 1, della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in virtù del quale, tra l’altro, “ogni persona ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano”, quale clausola utilizzata nelle varie giurisdizioni nazionali per tutelare la vita privata dei lavoratori nei contesti lavorativi. In un contesto più ampio, degno di nota è, altresì, l’art. 24 della Dichiarazione universale dei diritti umani, il quale come risaputo sancisce che ogni individuo ha diritto al riposo ed allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione dell’orario di lavoro e ferie periodiche retribuite. Con riguardo poi alle fonti di diritto derivato dell’UE, vengono in rilievo una serie di atti, alcuni dei quali adottati in conformità al cd. pilastro europeo dei diritti sociali: ancora, la direttiva 2003/88/CE, che prevede prescrizioni minime di sicurezza e sanitarie in materia di organizzazione dell’orario di lavoro, anche in relazione al numero massimo di ore di lavoro consentito e ai periodi minimi di riposo da rispettare, nonché al diritto alle ferie annuali retribuite; la direttiva (UE) 2019/1152; la direttiva (UE) 2019/1158 nonché la direttiva 89/391/CEE del Consiglio sulla sicurezza e la salute dei lavoratori. Non mi attardero ad analizzare il diritto alla disconnessione per motivi di privacy e di salute e sicurezzain un quadro in cui viene garantita al lavoratore quell’«esistenza libera e dignitosa» di cui all’art. 36, co. 1, Cost.9 Ma e’ importante sapere che la ratio del diritto alla disconnessione per gran parte della dottrina e’ un diritto autonomo dostinto dal diritto al riposo poiché i tempi di disconnessione possono, ma non necessariamente devono, corrispondere ai tempi di riposo minimo. Infatti, i primi possono risultare più estesi e protettivi dei secondi, in quanto si ritiene opportuno identificarli con i tempi di non lavoro, ossia quelli esterni all’orario di lavoro o esterni ad eventuali fasce di contattabilità pattuite, le quali possono essere più estese dell’orario di lavoro effettivo.10 Dunque, in quest’ottica più ampia, è bene chiarire che e’possibile accogliere un’inversione di concetto, per cui sono i tempi di disconnessione ad incorporare i tempi di riposo minimo, e non viceversa, risultando il diritto de quo strumentale alla tutela del riposo, ma non solo.Se le nuove tecnologie, infatti, rappresentano un fattore di progresso e svolgono un ruolo di indubbio rilievo nel plasmare il luogo di lavoro del futuro ed assicurare efficienza lavorativa, al contempo e’ pacifico constatare che, un uso “improprio”delle stesse può tradursi in una regressione dei rapporti produttivi, nella misura in cui incide negativamente ed in maniera sproporzionata sulla vita privata del lavoratore e, più in generale, sul suo diritto alla propria autodeterminazione. Il ricorso intensivo agli strumenti digitali non può, dunque, rappresentare l’occasione per un “controllo” sistematico, pervasivo ed ubiquitario sul lavoratore, influendo, come evidenziato da piu’ parti, sull’equilibrio tra vita professionale e personale, salute fisica e mentale, ma deve avvenire nel pieno rispetto dei diritti fondamentali , cosi come auspicato dalla dottrina.11 Occorre, pertanto, rispettare in maniera efficace i confini tra “orario di lavoro”, in cui il lavoratore deve essere disponibile o raggiungibile per il datore di lavoro, e “orario non lavorativo”, in cui il dipendente non ha nessun obbligo di restare a sua disposizione. A tal uopo, dunque, il diritto alla disconnessione, quale diritto fondamentale, di nuova generazione, prospettato in ambito UE, intende mirare al “riequilibro” tra lavoro e vita del lavoratore disconnesso proprio in un ottica di una migliore e non gia’ maggiore produttivita’. Ed è, in particolare, proprio nell’ottica del “work life balance” che il Parlamento europeo ha invitato la Commissione a delineare il quadro legislativo esaminato, ovvero i requisiti oggettivi tali da permettere l’utilizzo di strumenti digitali a scopi lavorativi e, al contempo, di garantire l’esercizio del diritto alla disconnessione, con un’attenzione particolare ai rischi connessi al disattendi mento di tali principi. D’altronde l’aumento della connettività sul luogo di lavoro, imputabile in particolare all’emergenza pandemica da Covid-19, ha reso ancora più pressante la necessità di garantire la disconnessione ai lavoratori da remoto; al riguardo, emerge l’indiscussa rilevanza del tentativo di introdurre una disciplina armonizzata per gli Stati UE, sì da garantire un equo trattamento di base per tutti lavoratori a prescindere dalle diversità ordina mentali, atteso che nell’ambito del territorio dell’ Unione si ci muova e si interagisca ampiamente nell’ ottica dell’unicum.Tuttavia la positivizzazione di un diritto alla disconnessione si rende necessaria per salvaguardare, inter alia, il diritto al riposo in ragione del fatto che, nel lavoro da remoto, sia troppo labile il concetto stesso di separazione tra momento del lavoro e quello del tempo libero.Valga qui richiamare a titolo esemplificativo la nozione, nell’ordinamento italiano, di smart working di cui all’art. 18/2017 della legge sul lavoro agile, inteso quale “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato (…) senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa”. Ivi l’assenza di vincoli orari genera il rischio di quella “confusione” tra sfera privata e sfera lavorativa che impone di “separare” e “mettere ordine” tra l’una e l’altra. Del resto, la legge 81/2017 presenta una serie di limiti tali da non consentire la configurazione di un adeguato diritto sostanziale alla disconnessione da riconoscersi in maniera generalizzata, affidato com’è alla contrattazione individuale. Da qui la rilevanza del diritto alla disconnessione prospettato dal legislatore dell’Unione, da intendersi quale diritto finito, autonomo, con dignità propria, che legittima una precipua disciplina, che intende assurgere, altresì, a misura preventiva a tutela della “salute” e al rispetto dell’individuo. Chiaro e’ che il diritto alla salute e’inteso nella sua più ampia accezione di benessere fisico, mentale e sociale della persona, contro i rischi di overworking e di violazione dei tempi di riposo.Ma classificarlo come “diritto al riposo” o “diritto al rispetto dell’orario lavorativo”risulta essere in qualche modo riduttivo12 ma come sottolineato, investe molteplici aspetti della persona nella sua totalità – come d’altronde è emerso anche dalle disposizioni costituzionali e della Carta dei diritti fondamentali dell’UE rilevanti in materia – e tutela non soltanto il diritto di non essere connesso al di fuori dell’orario di lavoro”, ma anche il “diritto di scegliere cosa fare del proprio tempo”, compreso restare “connesso” per le motivazioni più disparate.13Nella Relazione introduttiva del “Protocollo nazionale sul lavoro agile” del 7 dicembre 2021, il Gruppo di studio “Lavoro Agile” pone evidenza del fatto che nel panorama contrattualistico italiano la disconnessione rappresenti un tema ancora dalle linee contenute e/o sfumate, atteso cheche su oltre duecento contratti collettivi aziendali analizzati, solo una ottantina menziona esplicitamente la disconnessione14 Degno senz’ altro di notazione nel panorama normativo italiano tra l’altro con profili predittivi rispetto alla data di approvazione della l. n. 81/2017, è il decreto del 7 aprile 2017 emesso dal Direttore Generale dell’Università degli Studi dell’Insubria, il cui contenuto, a differenza dell’art. 19 co. 1, qualifica espressamente la disconnessione quale diritto del lavoratore dettando tempi e modalita’ ben definite per esercitarne gli usi.15Salvo questo primo slancio innovativo ante l. n. 81/2017, a seguito dell’approvazione della stessa, si può osservare l’inizio di una fase più “conoscitiva” che “riempitiva”, nella quale la contrattazione collettiva si è limitata sostanzialmente ad un approccio declaratorio16 della disconnessione, talvolta menzionata in qualità di diritto. È possibile riscontrare tale fenomeno soprattutto nei contratti collettivi aziendali, i quali ne hanno affibbiato diverse profondità attraverso previsioni più o meno articolate, ma pur sempre meramente dichiarative. Infatti, proprio in questa fase attuale è possibile assistere ad un forte fermento negli ambienti delle parti sociali, facendo registrare un significativo trend di crescita delle discipline collettive che si interessano all’istituto in esame, a livello contrattualistico sia aziendale che settoriale17, pur rimanendo prevalente un approccio ricognitivo e specificativo18 Orientamento che viene accolto anche dalle istituzioni che hanno adottato delle linee guida sia per il settore privato sia per quello pubblico, con l’obiettivo di incentivare la contrattazione a regolare una corretta applicazione della fattispecie di lavoro agile ma che tuttavia, sul tema in esame, si limitano in sostanza a ricalcare le disposizioni dell’art. 19 co. 1 della l. n. 81/2017, mantenendo quindi un approccio generico che fornisce una rete di regolazione “a maglie larghe”19. Dove, il tentativo della contrattazione collettiva di riempire il “vuoto” normativo in merito alla disconnessione si è basato e tuttora si basa essenzialmente su processi volontaristici e di carattere normativo non vincolante laddove l’attuale base volontaristica rischia di andare a creare una spaccatura “sociale” per cui la regolazione della disconnessione venga prevista dalla contrattazione collettiva per taluni settori e non per altri; da ultimo, sulla base delle esperienze fin qui commentate, è possibile avanzare l’ipotesi che, nel perdurare dell’assenza di un adeguato intervento normativo in grado di vincolare la contrattazione collettiva ad una base uniforme e maggiormente incisiva in tema de quo – tale da livellare in modo equo le disposizioni in materia –, si continuerà ad assistere ad una regolamentazione che, oltre ad avere una presenza incostante all’interno del tessuto negoziale collettivo, sarà sempre più caratterizzata da una disconnessione posta a diverse profondità di previsione, con l’ulteriore pericolo di creare in questa ottica di deregulation di fatto, un discrimine di trattamento tra lavoratori di diversi settori e di diverse aziende. 20In quest’ottica, si auspica che l’adozione di una futura, compiuta normativa europea che contempli articolatamente la regolamentazione della disconnessione con l’ estensione dello sviluppo dello smart working, che possa rappresentare altresi un’opportunità al fine di realizzare politiche di intervento atte alla riprogettazione del ripopolamento di zone depresse del Paese in favore della crescita demografica e di benessere del PIL anche attraverso, ma chi scrive appare ssere ormai in ritardo con l’appuntamento, la fruizione dei fondi del PNRR atti a progetti di riconversione in tal senso. Ancora una volta e’ segno inequivocabile che le evoluzioni giuslavoristiche sono sempre strettamente connesse a quelle del diritto dell’economia e viceversa.

*Dottore di ricerca, Professore a contratto, Consulente del lavoro.

Appendice bibliografica

1 Per una approfondita analisi del lavoro agile nelle pp. aa. si veda: V. Talamo, Diversamente agile? Lo Smart Work nelle pubbliche amministrazioni, in Il Jobs Act del lavoro autonomo e del lavoro agile, A. Perulli, L. Fiorillo, a cura di, Giappichelli, 2018, pp. 257 ss.

2 In:G.U.Misure urgenti per fronteggiare la diffusione del Covid 19 e interventi a sostegni dei lavoratori con figli minori.

3 E. Dagnino, Il diritto alla disconnessione nell’esperienza contrattual-collettiva italiana, in Lavoro, Diritti, Europa, n. 4/2021, pp. 4 ss.

4 Art. 1, co. 1, della proposta di direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio, allegato alla Risoluzione. (Parlamento europeo, Consiglio dell’Unione europea, Risoluzione del Parlamento europeo del 21 gennaio 2021 recante raccomandazioni alla Commissione sul diritto alla disconnessione, https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2021-0021_IT.html)

5 Ibid V. § 4.

6 E. Fiata, L’iniziativa europea sul diritto alla disconnessione, in Lavoro, Diritti, Europa, n. 4/2021, p. 9 ss.

7 R. Zucaro, Il diritto alla disconnessione. Nuove modalità di tutela della qualità del tempo di vita nella prospettiva giuslavoristica, op. cit., pp. 10 ss.

8 Cfr. E. Fiata, op. cit., pp. 11 ss; R. Zucaro, Il diritto alla disconnessione. Nuove modalità di tutela della qualità del tempo di vita nella prospettiva giuslavoristica, op. cit

9 Perrone R., Il «diritto alla disconnessione» quale strumento di tutela di interessi costituzionalmente rilevanti, in federalismi.it, n. 24/2017 pp. 24 ss.

10 Per un approfondimento sul tema di vedano: M. C. Cataudella, op. cit., pp. 854 ss.; A. Fenoglio, Una veste digitale per il diritto al riposo: il diritto alla disconnessione, in Lavoro, Diritti, Europa, n. 4/2021, pp. 7 ss.; A. Preteroti, op. cit., pp. 7 ss.; C. Timellini, Il diritto alla disconnessione nella normativa italiana sul lavoro agile e nella legislazione emergenziale, in Lavoro, Diritti, Europa, n. 4/2021, p. 4;.; R. Zucaro, Il diritto alla disconnessione tra interesse collettivo e individuale, op. cit., pp. 220 ss.

11 Iermano A., Verso un nuovo diritto “fondamentale” in ambito UE: il diritto alla disconnessione digitale, in rivista.eurojus.it, fasc. 2/2021

12 Poletti D., Il c.d. diritto alla disconnessione nel contesto dei «diritti digitali», in Responsabilità civile e previdenza, n. 1/2017 p.19

13 ibid, op cit. p.9

14 Relazione del“Gruppo di studio Lavoro Agile”, https://www.lavoro.gov.it/notizie/Documents/Relazione-finale-Gruppo-di-Studio-Lavoro-agile-e-Protocollo.pdf, dicembre 2021,p.10

15 Art. 1, Università degli studi dell’Insubria, D.D.G. 289/2017, “Diritto alla disconnessione al di fuori dell’orario di lavoro e attivazione del Giorno di Indipendenza dalle e-mail in ogni trimestre”, https://www.uninsubria.it/files/ddg2017289dirittodisconnessionepdf.

16 Dagnino E., Menegotto M., Pelusi L.M., Tiraboschi M., Guida pratica al lavoro agile dopo la legge n. 81/2017, ADAPT University Press, 2017, pp 5 ss.

17 Ne sono esempi : Le linee guida per il lavoro agile nel settore delle telecomunicazioni del 30 luglio 2020; Le linee guida per il lavoro agile nel settore assicurativo e di assicurazione/assistenza del 24 febbraio 2021

18 E. Dagnino, op. cit., p. 8.

19 Per un confronto si vedano l’art. 3 – Organizzazione del lavoro agile e regolazione della disconnessione del “Protocollo nazionale sul lavoro agile” e l’art. 4 – Articolazione della prestazione in modalità agile e diritto alla disconnessione delle “Linee guida in materia di lavoro agile nelle amministrazioni pubbliche”.

20 Dalle Cave M., Smart working, necessario l’accordo scritto tra le parti, in Guida al Lavoro, n. 26, 23 giugno 2017.

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Decreto Lavoro 2023: Nuovo regime di causali e nuovi parametri di computo del periodo di
prova per i contratti a termine


Dott.ssa Federica Santoro

Approvato dal Consiglio dei Ministri, nella simbolica giornata del 1° maggio e pubblicato in
Gazzetta Ufficiale il 4 maggio, il testo del nuovo Decreto Legge n. 48 – c.d. Decreto Lavoro 2023 –
il quale statuisce una serie provvedimenti volti ad introdurre un piano ah hoc di politiche per il
lavoro a sostegno delle famiglie e dei lavoratori. Dal nuovo taglio al cuneo fiscale per i redditi
medio bassi, al superamento del Reddito di cittadinanza o ancora dai maggiori controlli in materia
di sicurezza ad una maggiore flessibilizzazione nell’uso del contratto a termine.
Fra le numerose novità introdotte dal citato Decreto Legge n. 48 del 4 maggio 2023, quella che più
ha suscitato l’interesse degli addetti ai lavori è stata indubbiamente la Riforma sul contratto a
termine, rappresentativa di una delle principali misure contenute nel testo del provvedimento
presentato dall’Esecutivo al tavolo di Palazzo Chigi.
Il Governo Meloni modifica le fondamenta del contratto a termine superando la rigidità delle
causali previste dal Decreto Dignità reintroducendone la flessibilità antecedente, nel tentativo di
operare una maggiore liberalizzazione di tale tipologia contrattuale, mediante l’introduzione di
nuove causali che consentiranno un maggior margine di manovra al datore di lavoro. Le norme
contenute nel provvedimento, come anticipato, sono state pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale del 4
maggio 2023 ed entrate in vigore a far data da venerdì 5 maggio 2023.
Giova rammentare come la disciplina del contratto a termine sia stata oggetto, nel susseguirsi del
tempo, di ripetute modifiche, ora per adeguarne il perimetro applicativo alle mutate esigenze sociali,
ora per porre un freno alle diverse posizioni giurisprudenziali oggettivamente restrittive e distanti
dal tenore letterale della norma. Dalla spinta alla liberalizzazione con la disciplina del Jobs Act del
2015 ed il c.d. Decreto Poletti dell’anno precedente, alla maggiore drasticità con il Decreto Dignità
ed il suo regime di “causali stringenti”, si è oggi giunti ad una soluzione forse intermedia. Appare
evidente come l’intenzione del Legislatore sia quella di convergere verso un maggiore ricorso del
contratto a termine il cui utilizzo è comunque affidato – fermi restando i vincoli di derivazione
europea – al controllo sindacale mediante le previsioni dei Contratti Collettivi.
Per quanto concerne le causali di legittimazione nell’uso del contratto a tempo determinato –
protratto oltre i 12 mesi – come si avrà modo di osservare nel corso del proseguo, sarà la
Contrattazione Collettiva espressa dai sistemi comparativamente più rappresentativi, a disciplinarne
il ricorso legittimo. Solo in difetto di previsioni contenute nei Contratti Collettivi opererà, in via
subordinata e soltanto sino al prossimo 30 aprile 2024, la clausola di legittimazione generale delle
“ragioni tecniche, organizzative e produttive” precisate dalle parti individuali del rapporto di lavoro.
Come è agevole comprendere, la nuova disciplina del Decreto Lavoro, ammette l’intervento
dell’autonomia individuale soltanto in mancanza di regole puntuali predisposte dai Contratti
Collettivi Nazionali di Lavoro. Il ruolo della Contrattazione Collettiva deve essere pertanto inteso
in termini vincoli di sistema nell’uso del contratto a termine.
Più specificamente, la nuova Riforma conferma la possibilità di stipulare liberamente tale tipologia
contrattuale per i primi 12 mesi, prevedendo – per quei rapporti protratti oltre tale scadenza e sino ad
un massimo di 24 mesi – nuove casuali sostitutive di quelle previste dal Decreto Dignità, le
quali permettono al datore una più agevole prosecuzione del rapporto di lavoro.
In seguito, alle modifiche decise a Palazzo Chigi, i contratti a termine potranno avere durata
superiore ai 12 e non eccedente i 24 mesi qualora ricorrano una delle seguenti condizioni di
legittimazione:

  1. specifiche esigenze previste dai Contratti Collettivi;
  2. esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva, individuate dalle parti, in caso di
    mancato esercizio da parte della Contrattazione Collettiva, e in ogni caso entro il termine del
    30 aprile 2024;
  3. esigenze sostitutive di altri lavoratori.
    In sintesi, il nuovo provvedimento conferma una “acausalità” del primo contratto a termine sino ai
    12 mesi, riconoscendo stabilmente alla Contrattazione Collettiva il ruolo di individuare i casi in
    riferimento ai quali è, altresì possibile, apporre un termine di durata superiore ai 12 mesi – nonché
    prorogare oltre tale termine ovvero procedere ad un rinnovo contrattuale – fermo restando
    comunque, il riconoscimento della causale sostitutiva. Soltanto in difetto di previsioni da parte della
    Contrattazione opererà, in via subordinata e limitatamente sino al prossimo 30 aprile 2024 la
    clausola di legittimazione generale delle “ragioni tecniche, organizzative e produttive”
    specificamente individuata dalle parti. Resta dunque, al professionista l’onere di verificare caso per
    caso il quadro normativo-contrattuale di riferimento nonché la responsabilità di adoperare il
    contratto a termine per le sue finalità “naturali” al fine di non esporre il datore di lavoro al rischio di
    un contenzioso giudiziale con il lavoratore.
    Mediante il Comunicato Stampa n. 32 del 1° maggio 2023 viene poi finalmente definito, il
    parametro di computo del periodo di prova per i rapporti di lavoro a tempo determinato, sino ad ora
    mai chiaramente esplicitato. E’ stata pertanto statuita una regola univoca di riparametrazione del
    periodo di prova nei contratti a termine anche di breve durata. La nuova disciplina si è poi
    preoccupata di stabilire la durata minima e massima di tale periodo.
    Giova rammentare come, il periodo di prova configura una clausola civilistica prevista all’art. 2096,
    con la quale il datore di lavoro ed il lavoratore subordinano l’assunzione definitiva all’esito positivo
    di un periodo di prova. Benché non sia obbligatorio, la sua funzione è quella di tutelare l’interesse
    reciproco delle parti all’instaurazione del rapporto di lavoro: da un lato il datore di lavoro ha la
    possibilità di verificare l’attitudine professionale del lavoratore – e la sua complessiva idoneità in
    relazione alle mansioni affidate ed al contesto aziendale – dall’altro il lavoratore può valutare la sua
    convenienza a ricoprire quella particolare posizione occupazionale.
    Secondo le più recenti disposizioni dell’ articolo 7 comma 2 del Decreto Trasparenza 2022, nel
    rapporto di lavoro a termine, la prova è stabilita “in misura proporzionale alla durata del contratto
    ed alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego”. Nessun nuovo periodo di prova
    può essere contemplato in caso di rinnovo contrattuale per lo svolgimento delle medesime
    mansioni. Stante il disposto normativo, il Legislatore non si è preoccupato di fornire al contempo un
    parametro utile agli addetti ai lavori per un corretto riproporzionamento di tale periodo sicché, di
    recente l’Esecutivo è intervenuto rivisitando la disciplina sul patto di prova nei contratti a termine
    ed introducendo nuovi parametri di computo.
    Alla luce delle nuove modifiche normative intervenute con il Decreto Lavoro, fatte salve le
    previsioni più favorevoli della Contrattazione Collettiva, la durata del periodo di prova è fissata in
    un giorno di effettiva prestazione per ogni quindici giorni di calendario a far data dall’inizio del
    rapporto di lavoro. In ogni caso la durata del periodo di prova non può essere inferiore a due giorni
    e superiore a quindici per i contratti con durata non superiore a sei mesi, e trenta giorni per quelli
    con durata superiore ai sei ed inferiori ai dodici mesi.

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La riforma del congedo di paternità e del congedo parentale per i genitori lavoratori dipendenti alla luce del d.lgs. n.105/2022 e della nota dell’INL n.9550 del 6 settembre 2022

Avv. Annunziata Staffieri

Lo scorso 13 agosto, in un’ottica di parità di genere e di condivisione dei carichi familiari fra uomo e donna, è entrato in vigore il decreto legislativo 30 giugno 2022, n.105 con il quale è stata recepita la direttiva UE 2019/1158 del Parlamento e del Consiglio, del 20 giugno 2019, finalizzata ad assicurare il giusto equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i caregiver familiari, che ha abrogato la direttiva 2010/18/UE.
Con l’indicato decreto sono stati ampliati i diritti e le tutele in precedenza riconosciuti dal D.lgs. n.151/2001 (cd Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità) a tali categorie di soggetti, introducendo novità non solo in tema di maternità, di congedo straordinario e di permessi di cui all’art. 33 della legge n.104/92, ma anche in materia di congedo di paternità obbligatorio e di congedo parentale per genitori lavoratori dipendenti.
Successivamente, sia l’INPS, con il messaggio n. 3066 /2022 e n. 3096/2022, che l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con la nota 9550 del 6 settembre 2022, hanno passato in rassegna le principali novità introdotte dalla riforma in oggetto.
Ma che cos’è il congedo di paternità?
Il congedo di paternità , com’è noto, è una conquista recente: si tratta di un istituto introdotto nel nostro ordinamento, in via sperimentale, soltanto dieci anni fa dall’art. 4, comma 24, lettera a) della legge 28 giugno 2012, n.92, sotto la spinta della direttiva europea 2010/18/UE, con il fine precipuo di riconoscere, ai dipendenti (inizialmente solo a quelli privati) che diventano padri o che adottano o ottengono in affidamento un bambino, il diritto di astenersi obbligatoriamente dal lavoro, godendo di una indennità giornaliera, totalmente a carico dell’INPS, pari al 100% della retribuzione.
Il suddetto congedo obbligatorio era inizialmente pari ad una sola giornata di astensione dal lavoro, che poteva essere fruita dal lavoratore, anche in maniera frazionata, entro i cinque mesi dalla nascita del bambino o dall’ingresso dello stesso in famiglia (in caso di affidamento o adozione).
Successivamente, i giorni di congedo obbligatorio passarono a due, con la legge di stabilità 2015 in riferimento agli anni 2016 e 2017, e poi ulteriormente incrementati fino a cinque con la legge di bilancio 2019.
L’art. 1-comma 342- della legge n.160/2020 (legge di bilancio 2020) ha poi sancito l’ulteriore incremento fino a sette giorni di congedo obbligatorio per l’anno 2020.
A partire dal 2021, infine, i giorni di congedo obbligatorio sono stati elevati a dieci (legge di bilancio 2021). Tuttavia, a seguito dell’entrata in vigore della legge 30 dicembre 2021, n. 234 (legge di bilancio 2022), dal 1° gennaio 2022, il congedo in parola è stato reso “strutturale” e non più sperimentale. È stato pertanto sancito in maniera definitiva, senza più scadenze e senza più necessità di rinnovi annuali, il diritto per il neo papà (biologico, affidatario o adottivo) di poter fruire dei giorni di congedo entro i primi 5 mesi di vita del bambino o dall’ingresso dello stesso in famiglia, anche in maniera non continuativa, interamente retribuiti.
Quali le novità previste in materia dal citato D.lgs. n. 105/2022?
La prima novità è l’introduzione nel cd Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità (D.lgs. del 26 marzo 2001, n.151) del nuovo art. 27-bis, con il quale è stata confermata la durata del congedo in parola; alla luce di questa disposizione normativa il padre lavoratore, in caso di nascita (ma anche di morte perinatale), adozione e affidamento, potrà astenersi dal lavoro fino a dieci giorni lavorativi, non frazionabili a ore, fruibili anche in via continuativa e indennizzati al 100% della retribuzione media globale giornaliera del periodo di paga quadrisettimanale o mensile scaduto e immediatamente precedente a quello in cui ha avuto inizio il periodo di congedo di paternità.
Rispetto alla disciplina pregressa sono state introdotte tre ulteriori grandi novità in materia:

  • è stata introdotto il diritto per il lavoratore padre (padre biologico, affidatario e adottivo) di poter godere del congedo anche prima della nascita del bambino, potendo lo stesso chiedere al proprio datore di lavoro di poterne fruire anche 2 mesi prima della data presunta del parto e fino a 5 mesi dopo la nascita del bambino;
  • in caso di parto plurimo il numero di giorni raddoppia per le nascite, gli affidamenti e le adozioni a decorrere dal 13 agosto 2022, cosa che non era prevista in precedenza;
  • potranno fruire del congedo anche i dipendenti pubblici, finora di fatto esclusi da tale beneficio.
    Giova rammentare che il permesso in esame si configura come un diritto “autonomo” del padre lavoratore, “indipendente”, “ulteriore” e ”aggiuntivo” non solo rispetto al congedo di maternità spettante alla lavoratrice madre (esso viene infatti riconosciuto al padre lavoratore anche nel caso in cui quest’ultimo fruisca del congedo di paternità alternativo ex art. 28 del dlgs n. 151/2001) ma anche rispetto all’ulteriore giorno (1) di congedo di paternità “facoltativo”, anch’esso da fruire, anche in via non continuativa, entro i cinque mesi successivi alla nascita del bambino o all’ingresso dello stesso in famiglia.
    In quest’ultimo caso va precisato, tuttavia, che il congedo facoltativo è da considerarsi “alternativo” al congedo obbligatorio di maternità (la ex astensione obbligatoria dal lavoro); ne consegue che esso può essere fruito dal padre solo nei casi previsti dall’art. 28 del T.U., vale a dire soltanto in caso di morte, grave infermità della madre o di abbandono, nonché in caso di affidamento esclusivo del bambino al padre, in alternativa al congedo di maternità.
    In conclusione, il congedo di paternità ‘obbligatorio’ è sì compatibile con la fruizione del congedo di paternità ‘alternativo’, ma non potrà essere utilizzato, per ovvie ragioni, nelle stesse giornate.
    Inoltre il congedo in parola, come precisato dall’INPS con i messaggi 3066/2022 e 3096/2022 e dalla INL con la nota prot n. 9550 del 06.09.2022, può essere fruito anche durante il congedo di maternità della madre lavoratrice (la cd. astensione obbligatoria).
    Giova rammentare che quando si parla di dieci giorni di congedo si fa riferimento ai giorni lavorativi e non ai giorni di effettivo lavoro (sarà conteggiato, ad esempio, anche il sabato e via discorrendo).
    Il datore di lavoro che rifiuti o ostacoli la fruizione del suddetto congedo è punito con la sanzione amministrativa compresa tra 516 e 2.582 euro. Inoltre una simile condotta potrà precludere al datore il conseguimento della certificazione della parità di genere (prevista dalla legge n.162/2021) o di analoghe certificazioni previste dalle Regioni e dalle Province autonome nei rispettivi ordinamenti, impedendo allo stesso di accedere a tutta una serie di benefici quali ad esempio:
  • per le aziende virtuose uno sconto del 1% sui contributi fino a 50mila euro annui;
  • un punteggio premiale per la concessione di aiuti di stato e/o finanziamenti pubblici;
  • punteggio alto nei bandi di gara per l’acquisizione di beni e forniture.
    Ricordiamo, inoltre, che il padre lavoratore che fruisca del congedo di cui agli articoli 27-bis e 28, per la durata del congedo stesso e fino al compimento di 1 anno di età del bambino non potrà essere licenziato.
    Il licenziamento ugualmente intimato dal datore di lavoro durante il periodo “protetto” è da considerarsi radicalmente nullo; tale tipo di nullità è sanzionata con la tutela più favorevole al lavoratore: la tutela reintegratoria forte (sia per i vecchi che per i nuovi assunti), con il diritto per il dipendente ad essere reintegrato nel posto di lavoro, con tutte le conseguenze di legge.
    Tuttavia il legislatore prevede quattro deroghe al divieto in parola.
    Il divieto di licenziamento, infatti, non opera in caso di:
    -colpa grave del padre lavoratore (come nel caso delle lavoratrici madri), costituente giusta causa di licenziamento;
    -cessazione definitiva dell’attività aziendale;
    -scadenza lavoro a termine;
    -esito negativo del patto di prova.
    Inoltre, durante il periodo protetto il lavoratore non può essere sospeso dal lavoro, esclusa l’ipotesi di chiusura dell’attività aziendale o del reparto in cui il dipendente era addetto, a condizione che il reparto abbia autonomia funzionale.
    La violazione delle disposizioni relative al divieto di licenziamento è punita con la sanzione amministrativa compresa tra 1.032 a 2.582 euro.
    Il divieto di licenziamento della lavoratrice madre o del lavoratore padre fino a un anno di vita del bambino, non preclude, tuttavia, la possibilità per gli stessi di rassegnare le dimissioni o di risolvere consensualmente il proprio rapporto di lavoro in tale arco temporale.
    In tal caso si ricorda che, ai sensi dell’art. 55, co. 4, del d.lgs. n. 151/2001, la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro o la richiesta di dimissioni presentate dalla lavoratrice madre o dal lavoratore padre durante i primi tre anni di vita del bambino devono essere convalidate dal Servizio Ispettivo dell’Ispettorato del Lavoro territorialmente competente.
    Al riguardo si rammenta che lo scorso 23 maggio l’INL, a seguito della cessazione dello stato di emergenza da COVID-19, ha modificato la procedura della convalida ritenendo non più utilizzabile il modello di richiesta online di convalida delle dimissioni/risoluzioni consensuali, in sostituzione del colloquio “de visu” della lavoratrice madre o del lavoratore padre con il funzionario dell’ITL.
    Al momento è possibile effettuare il colloquio di convalida con il personale dell’ITL anche da “remoto”, mediante la presentazione di un apposito modello di richiesta disponibile “online” sul sito dell’INL.
    Tale istanza dovrà essere compilata e sottoscritta dall’interessata/o e trasmessa all’ITL competente per territorio (individuato in base al luogo di lavoro o di residenza del lavoratore o della lavoratrice interessati) mediante posta elettronica, allegando copia di un documento di identità e della lettera di dimissioni/risoluzione consensuale presentata al datore di lavoro, debitamente firmata e datata.
    Ricevuta l’istanza, il servizio ispettivo avvierà il procedimento di convalida che dovrà concludersi entro il termine di 45 giorni.
    In merito alla convalida delle dimissioni del lavoratore padre, l’INL (nota prot.n. 749 del 25 settembre 2020) ha chiarito che essa “va sempre effettuata, a prescindere dalla fruizione del congedo di paternità, avendo cura di verbalizzare una dichiarazione del lavoratore secondo cui il datore di lavoro è a conoscenza della propria situazione familiare anche in virtù di comunicazioni o richieste di diverso tenore”.
    In caso di dimissioni rassegnate durante il periodo protetto, al padre lavoratore dovrà essere riconosciuta dall’INPS l’indennità NASPI, con conseguente obbligo per l’azienda di pagare il “ticket NASPI”.
    Ma vi è di più.
    Sempre in tema di convalida di dimissioni del lavoratore padre l’INL (nota prot.n. 896 del 26 ottobre 2020) ha chiarito che il padre lavoratore, fruitore del congedo di paternità, che si dimetta durante il periodo protetto non è tenuto al preavviso ed ha diritto a percepire la relativa indennità sostitutiva di preavviso.
    Qualora invece il padre lavoratore si dimetta durante il periodo protetto senza aver fruito del congedo di paternità, allora egli sarà esonerato dal preavviso ma non avrà diritto alla relativa indennità sostitutiva.
    Ai fini dell’esonero dal preavviso, l’INL ricorda che conta il fatto che il datore di lavoro sia a conoscenza della situazione familiare del lavoratore anche in occasione della presentazione delle dimissioni, allorquando il dipendente ne parli al datore di lavoro per motivare il mancato rispetto del periodo di preavviso.
    Per l’esercizio del diritto i padri lavoratori, come chiarito dall’INPS con il messaggio n.3066/2022, a partire dallo scorso 13 agosto possono chiedere di fruire del congedo secondo le nuove regole dettate dal decreto legislativo n.105/2022, regolarizzando poi la fruizione mediante la presentazione della domanda in via telematica all’INPS non appena saranno accessibili i nuovi applicativi; il lavoratore dovrà comunicare in forma scritta al proprio datore di lavoro i giorni in cui intende fruire del permesso obbligatorio osservando, comunque, un preavviso non inferiore ai cinque giorni.
    La forma scritta della comunicazione può essere sostituita dall’utilizzo del sistema informativo aziendale per la richiesta e la gestione delle assenze, ove presente.
    Con il decreto in esame sono state introdotte novità anche in relazione al congedo parentale per i genitori lavoratori dipendenti, sia pubblici che privati.
    Il congedo parentale.
    Per “congedo parentale” si intende quel periodo di astensione “facoltativa” dal lavoro, retribuito al 30% della retribuzione media globale giornaliera, che segue il congedo di maternità.
    Quali sono le novità previste in materia dal decreto n.105/2022?
    In breve la norma prevede:
    1) l’allungamento fino ai 12 anni di vita del figlio (e non più 6) del termine per poter fruire del congedo parentale;
    2) a ciascun genitore viene riconosciuta la possibilità, fino al 12° anno di età del figlio (e non più 6), di astenersi dal lavoro per un periodo di 3 mesi, non trasferibili all’altro genitore, indennizzati al 30% della retribuzione media globale giornaliera.
    Dunque, esemplificando il caso di due genitori:
    a) alla madre spetta un periodo di 3 mesi retribuiti al 30% (non trasferibili all’altro genitore) fino al dodicesimo anno di vita del figlio, ovvero dall’ingresso in famiglia in caso di adozione o di affidamento;
    b) al padre spetta un periodo di 3 mesi retribuiti al 30% (non trasferibili all’altro genitore) fino al dodicesimo anno di vita del figlio, ovvero dall’ingresso in famiglia in caso di adozione o di affidamento;
    3) i genitori, in alternativa tra loro, hanno il diritto a un ulteriore periodo aggiuntivo di congedo parentale della durata complessiva di 3 mesi, nel limite massimo complessivo di 9 mesi (in luogo di 6).
    In sintesi, tre mesi per la mamma, tre mesi per il papà e tre ulteriori mesi a scelta tra i due genitori.
    Concludendo, a decorrere dal 13 agosto viene innalzato a 9 mesi (e non più 6, come invece previsto dalla disciplina pregressa) il periodo massimo che può essere fruito dai genitori a titolo di congedo parentale; dunque tre mesi in più rispetto al passato indennizzati al 30% della retribuzione media globale giornaliera, restando tuttavia invariati i limiti massimi individuali di entrambi i genitori previsti dall’art. 32 del d.lgs. n.151/2001.
    Inoltre per i periodi di congedo parentale ulteriori ai 9 mesi, fino al dodicesimo anno di vita del bambino o dall’ingresso in famiglia in caso di adozione o affidamento, l’indennità pari al 30% della retribuzione media globale giornaliera, è dovuta a condizione che il reddito individuale dell’interessato sia inferiore a 2,5 volte l’importo del trattamento di pensione a carico dell’assicurazione generale obbligatoria.
    Si ricorda inoltre che i genitori di minori con handicap, in situazione di gravità accertata ai sensi dell’art. 4 della legge n.104/92, hanno diritto, entro il compimento del dodicesimo anno di vita del figlio, ad una indennità pari al 30% della retribuzione media globale giornaliera per tutto il periodo di prolungamento.
    In caso di nucleo “monofamiliare” o di “affido esclusivo”, il periodo di congedo parentale sale a 11 mesi (rispetto ai 10 mesi precedenti), continuativi o frazionati; in tal caso al “genitore solo” saranno remunerati 9 mesi al 30% della retribuzione globale giornaliera (e non più 6 come in passato).
    Inoltre, in caso di affido esclusivo del figlio l’altro genitore perderà il diritto al congedo non ancora utilizzato.
    L’INL con la nota 9550 dello scorso 6 settembre precisa che i periodi di assenza per congedo parentale, nel caso di fruizione continuativa, comprendono anche gli eventuali giorni festivi che ricadano all’interno degli stessi, mentre in caso di fruizione intervallata dovrà esservi rientro al lavoro da parte del padre o della madre.
    La grande novità introdotta dal decreto 105/2022 è rappresentata dal fatto che i periodi di congedo parentale sono computati, rispetto al passato, nell’anzianità di servizio e non comportano riduzione di ferie, riposi, tredicesima mensilità o gratifica natalizia, eccezion fatta per gli emolumenti accessori collegati all’effettiva presenza in servizio del dipendente, salvo eventuali discipline di maggior favore della contrattazione collettiva.
    Di conseguenza, a seguito della riforma in esame, il lavoratore in caso di fruizione del permesso in parola, percepirà una retribuzione leggermente più alta rispetto al passato.
    Inoltre si ricorda che:
    in sostituzione del congedo parentale e per una sola volta, il dipendente potrà chiedere la trasformazione del proprio rapporto di lavoro da tempo pieno a part- time, con riduzione dell’orario di lavoro non superiore al 50%.
    viene riconosciuto ai dipendenti con figli fino a 12 anni di età (senza limiti di età per i genitori di figli disabili) il diritto di precedenza nella concessione del lavoro agile.
    Conclusioni.
    Nonostante l’introduzione della nuova disciplina, l’Italia resta comunque nelle retrovie in materia di tutela della genitorialità rispetto agli altri paesi.
    In Spagna, ad esempio, a decorrere dal 1 gennaio 2021 entrambi i genitori, in caso di nascita o di adozione o di affidamento, possono godere di 16 settimane di congedo, remunerato al 100% della retribuzione.
    Di queste 16 settimane, le prime 6 vanno fruite fruite obbligatoriamente da entrambi i genitori mentre le successive 10 (sempre indennizzate al 100%) sono volontarie e quindi i genitori potranno decidere se utilizzarle a tempo pieno o part time oppure condividerle tra di loro, con effetti positivi sulla condivisione dei compiti genitoriali.
    In Finlandia, dallo scorso 4 settembre, a entrambi i genitori sono concessi fino a 160 giorni di congedo, con la possibilità di trasferirne 63 all’altro genitore (o a chi si prenda cura del figlio), senza che la legge faccia riferimento al sesso del genitore né tanto meno al fatto che essi siano biologici, adottivi o affidatari.
    Concludendo, la recente riforma italiana è certamente da apprezzare ma è solo un primo timido passo in avanti verso la parità di genere, finalizzato a ridurre il gender pay gap e la disoccupazione femminile.

Decreto Trasparenza: i nuovi obblighi informativi e la diffida “obbligatoria” ex art. 13 dlgs n.124/2004

Avv. Annunziata Staffieri*

Oggi sabato 13 agosto entra in vigore il tanto contestato d.lgs. n.104/2022, icasticamente battezzato “Decreto Trasparenza”. Cosa cambia a seguito dell’entrata in vigore di tale provvedimento?Sono due le principali novità introdotte dalla normativa: recependo la direttiva UE 2019/1152, relativa a condizioni trasparenti e prevedibili nell’Unione Europea, il decreto ha non solo inciso sulla gestione del rapporto di lavoro introducendo novità in merito al periodo di prova, alla formazione obbligatoria, alla prevedibilità minima dell’orario di lavoro, ai sistemi automatizzati e via discorrendo, ma ha anche implementato significativamente gli obblighi informativi a carico del datore di lavoro.Sotto quest’ultimo aspetto, il decreto Trasparenza ha appesantito gli obblighi informativi a carico del datore di lavoro rispetto alla disciplina “quo ante” recata dal d.lgs. n. 152/1997, suscitando aspre critiche da parte degli operatori del settore, considerate l’estrema complessità dei nuovi adempimenti e la ristrettezza dei termini previsti dal citato decreto; tant’è che l’Ordine dei Consulenti del Lavoro ha chiesto al Ministro del Lavoro il rinvio dei termini di entrata in vigore della nuova disciplina.Nonostante le numerose richieste, tuttavia, non vi è stato alcun rinvio sicché il decreto trasparenza, dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del 29 luglio 2022, entra in vigore oggi 13 agosto, al termine del periodo di “vacatio legis”. Va però detto che l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con la circolare n. 4 dello scorso 10 agosto scritta a quattro mani con il Ministero del Welfare, nel fornire i primi chiarimenti in relazione alle modalità di assolvimento dei nuovi obblighi informativi introdotti dal decreto in esame, ha alleggerito il carico degli adempimenti e snellito notevolmente il contenuto della lettera di assunzione. Quali sono i contratti di lavoro interessati dal nuovo decreto?Eccone un elenco:1) contratto di lavoro subordinato, anche quello agricolo, a tempo indeterminato, a termine e anche part time;2) contratto di lavoro somministrato;3) contratto di lavoro intermittente;4) rapporto di collaborazione con prestazione prevalentemente personale e continuativa organizzata dal committente;5) contratto di collaborazione coordinata e continuata;6) contratto di prestazione occasionale;7) contratti dei lavoratori marittimi e della pesca, fatta salva la legislazione speciale vigente in materia;8) contratti dei lavoratori domestici.Quali sono, invece, i contratti esclusi?Tale disciplina non trova applicazione nei confronti dei rapporti di seguito indicati:a) rapporti di lavoro autonomi disciplinati nel titolo III del libro V del codice civile e dal decreto legislativo 28 febbraio 2021, n.38;b) rapporti di lavoro a tempo predeterminato ed effettivo di durata pari o inferiore a una media di tre ore a settimana per quattro settimane consecutive;c) rapporti di agenzia e di rappresentanza commerciale;d) rapporti di collaborazione prestati nell’impresa del coniuge del datore di lavoro dai parenti e dagli affini non oltre il terzo grado, che siano con lui conviventi;e) rapporti di lavoro del personale dipendente di pubbliche amministrazioni in servizio all’estero.Quali informazioni vanno comunicate al lavoratore?In base alle nuove disposizioni normative il datore di lavoro pubblico o privato, oppure il committente, dovranno comunicare per iscritto gli “elementi essenziali del rapporto di lavoro”, vale a dire:1) le identità delle parti del rapporto di lavoro, comprese quelle dei co-datori di cui all’articolo 30, comma 4-ter e 31, commi 3-bis e 3-ter, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276;2) il luogo di lavoro: in mancanza di un luogo fisso o predominante, il datore di lavoro comunica che il lavoratore è occupato in luoghi diversi o è libero di determinare il proprio luogo di lavoro;3) la sede oppure il domicilio del datore di lavoro;4) l’inquadramento, il livello e la qualifica attribuiti al lavoratore;5) la data di inizio del rapporto di lavoro;6) la tipologia del rapporto di lavoro precisando, in caso di rapporto a tempo determinato, la data di conclusione o la durata dello stesso;7) nel caso di lavoratori assunti tramite agenzia di somministrazione del lavoro, l’identità delle imprese utilizzatrici, non appena questa è nota;8) la durata e le condizioni del periodo di prova, se previsto;9) il diritto a ricevere la formazione erogata dal datore di lavoro, se prevista;l0) la durata del congedo per ferie e degli altri congedi retribuiti cui ha diritto il lavoratore o, se ciò non può essere indicato all’atto dell’informazione, le modalità di determinazione e di fruizione degli stessi;11) la procedura, la forma e i termini del preavviso in caso di recesso del datore (licenziamento) o del lavoratore (dimissioni);12) l’importo iniziale della retribuzione o comunque il compenso e i relativi elementi costitutivi, con l’indicazione del periodo e delle modalità di pagamento;13) la programmazione dell’orario normale di lavoro e le eventuali condizioni relative al lavoro straordinario e alla sua retribuzione, nonché le eventuali condizioni per i cambiamenti di turno, se il contratto prevede un’organizzazione dell’orario di lavoro in tutto o in parte prevedibile; 14) se il rapporto di lavoro è caratterizzato da modalità organizzative in parte o interamente imprevedibili e non prevede, pertanto, un orario normale di lavoro programmato, in tal caso il datore di lavoro informa il lavoratore relativamente: a) alla variabilità della programmazione di lavoro, all’ammontare minimo delle ore retribuite garantite e alla retribuzione per il lavoro prestato in aggiunta alle ore garantite; b) alle ore e ai giorni di riferimento in cui il lavoratore è tenuto a svolgere le prestazioni lavorative; c) al periodo minimo di preavviso a cui il lavoratore ha diritto prima dell’inizio della prestazione lavorativa e, ove ciò sia consentito dalla tipologia contrattuale in uso e sia stato pattuito, il termine entro cui il datore di lavoro può annullare l’incarico;15) il contratto collettivo, anche aziendale, applicato al rapporto di lavoro, con l’indicazione delle parti che lo hanno sottoscritto;16) gli enti e gli istituti che ricevono i contributi previdenziali e assicurativi dovuti dal datore di lavoro e qualunque forma di protezione in materia di sicurezza sociale fornita dal datore di lavoro stesso;17) ulteriori obblighi informativi, previsti dall’art. 1 del d.lgs. n.152/1997, qualora le modalità di esecuzione della prestazione di lavoro siano organizzate mediante l’utilizzo di sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati.In quest’ultimo caso giova rammentare che il datore di lavoro, o il committente, deve informare il lavoratore circa l’eventuale utilizzo di sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati atti a fornire indicazioni inerenti alla gestione del rapporto di lavoro nonché alla sorveglianza, alla valutazione delle prestazioni e all’adempimento delle obbligazioni contrattuali dei lavoratori.Fermo restando quanto previsto dall’art. 4 dello Statuto dei lavoratori (legge n.300/70), tali disposizioni si riferiscono anche a tutte le tipologie di lavoro gestite tramite app o mediante sistemi automatizzati (si pensi ad esempio alla piattaforma di food delivery).In tali ipotesi, i lavoratori sono destinatari di ulteriori tutele, da esercitare direttamente o per il tramite dei propri rappresentanti sindacali. Da quando decorrono i nuovi obblighi informativi?La circolare dell’INL è chiara al riguardo: essi decorrono da oggi 13 agosto. Pertanto i nuovi obblighi si applicheranno solo ai rapporti instaurati da tale data. Tuttavia, per espressa previsione del decreto trasparenza, la nuova disciplina trova applicazione a tutti i rapporti di lavoro già instaurati alla data del 1° agosto u.s.Proprio in riferimento ai rapporti già instaurati alla data del 1° agosto, i lavoratori hanno diritto di chiedere per iscritto un’integrazione delle informazioni in loro possesso e i datori di lavoro, o i committenti, saranno tenuti a riscontrare tale richiesta entro 60 e non più entro 30 giorni come previsto dalla versione iniziale del decreto.Analogo diritto di integrazione viene riconosciuto anche ai lavoratori assunti dopo la pubblicazione del decreto Trasparenza sulla Gazzetta Ufficiale ma prima della sua entrata in vigore, cioè durante il periodo a cavallo tra il 1° e il 12 agosto: anche tali lavoratori, così come i loro colleghi con rapporti già in essere alla data del 1° agosto, avranno pertanto il diritto di chiedere l’integrazione delle informazioni relative al proprio rapporto di lavoro e il datore o il committente dovranno riscontrare tale richiesta anche in questo caso, naturalmente sempre entro il termine tassativo dei 60 giorni.Come va assolto il nuovo obbligo informativo?Tale obbligo informativo è assolto nel momento in cui il datore di lavoro consegna al lavoratore, all’atto dell’instaurazione del rapporto di lavoro e prima dell’inizio della prestazione lavorativa, alternativamente: – il contratto individuale di lavoro, redatto per iscritto o in un’apposita informativa; – copia della comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro.Nell’indicata circolare l’INL apre alla possibilità di ottemperare a tali obblighi informativi mediante rinvio, relativamente alla sola disciplina di dettaglio, al CCNL applicato o ad altri documenti aziendali (es. regolamenti interni). Giova tuttavia ricordare che tale semplificazione è consentita solo ove i contratti collettivi, o le altre policy aziendali, vengano consegnati contestualmente all’assunzione o messi a disposizione secondo la prassi aziendale (ad esempio mediante la bacheca aziendale, oppure mediante e-mail personale fornita dal lavoratore o anche mediante e-mail o intranet aziendale).Sono valide sia le informazioni cartacee che quelle elettroniche e tutte devono essere rese accessibili al lavoratore e conservate dall’azienda: sarà infatti cura del datore di lavoro verificare che la comunicazione sia stata non solo ricevuta ma anche letta dal lavoratore, conservando tale prova per la durata di 5 anni dall’instaurazione del rapporto di lavoro (e non più i 10 anni invece previsti dalla versione originaria del decreto).I dati mancanti dovranno essere forniti per iscritto al lavoratore entro 7 giorni successivi all’inizio del rapporto di lavoro, eccezion fatta per le informazioni indicate alle lettere g), i), m), q) e r) di cui al novellato art. 1 del DLGS n.157/2017 (ad esempio quelle relative al CCNL, alle ferie e al preavviso) che potranno essere fornite entro il termine di 30 giorni dall’assunzione. Nel caso di recesso datoriale (licenziamento) prima della scadenza del termine di un mese dalla data di inizio del rapporto lavorativo, la consegna dell’informativa al lavoratore deve avvenire al momento dell’estinzione del rapporto, sempre che tale obbligo non sia stato già adempiuto in precedenza.Quali sanzioni sono previste per chi non adempie?Nei confronti di chi non adempie, oppure lo fa in modo solo parziale, saranno comminate pesanti sanzioni da parte degli organi ispettivi.Sotto il profilo sanzionatorio, infatti, la violazione di tale obbligo informativo comporta l’applicazione da parte degli ispettori di una sanzione amministrativa pecuniaria che va dai 250 ai 1.500 euro per ciascun lavoratore, così come previsto dall’art. 19, comma 2, del Dlgs n. 276/2003.Come ricordato dall’INL nell’indicata circolare n.4/2022, tale sanzione è comminabile solo nel momento in cui siano decorsi i termini previsti dal decreto trasparenza per l’integrazione delle informazioni, quindi 7 o 30 giorni a seconda del tipo di informazione mancante.Si ricorda che tale regime sanzionatorio, disciplinato dalla legge n.689/81, è soggetto a diffida obbligatoria ex art. 13 del d.lgs. n.124/2004 (da non confondere con il diverso istituto della diffida accertativa), trattandosi di una violazione sanabile.Com’è noto, la diffida in esame è un istituto deflattivo del contenzioso in virtù del quale gli accertatori prescrivono al trasgressore, oppure all’eventuale obbligato in solido, la corretta tenuta di specifiche condotte imposte dalla legge (nel caso di specie l’adempimento dei nuovi obblighi informativi), con la possibilità, comunque, che la spontanea adesione a quanto prescritto con la diffida comporta l’applicazione di una sanzione di miglior favore. La diffida in esame viene detta “obbligatoria” perché costituisce appunto un vincolo per il personale ispettivo: essa infatti rappresenta una condizione di procedibilità dell’azione sanzionatoria degli illeciti amministrativi in materia di lavoro e di legislazione sociale (Ministero del Lavoro, circolare n. 24/2004).Ne consegue che l’adozione di un provvedimento di contestazione/notificazione di una violazione sanabile, come quella in esame, se non viene preceduta dalla diffida ex art. 13, Dlgs n. 124/2004, risulta di fatto inficiata da un vizio di carattere procedimentale che si ripercuote pertanto sulla legittimità del provvedimento medesimo (Ministero del Lavoro, circolare n.9/2006).Dunque l’ispettore del lavoro provvederà a diffidare il trasgressore, o l’eventuale obbligato in solido, a sanare la violazione riscontrata e a quel punto l’azienda avrà a disposizione 30 giorni per mettersi in regola.In conclusione, la condotta sanante dovrà essere posta in essere entro e non oltre il termine di 30 giorni dalla data di notifica del verbale conclusivo degli accertamenti ispettivi. Solo a seguito dell’effettiva ottemperanza alla diffida il trasgressore, o l’eventuale obbligato in solido, viene ammesso al pagamento della sanzione “in misura minima” nei successivi 15 giorni, a seguito dei quali il procedimento sanzionatorio si estingue, benché solo limitatamente alle inosservanze oggetto di diffida (vedi circolare Ministero del Lavoro 9 dicembre 2010, n. 41). Giova rammentare che è preclusa la possibilità di ricorrere avverso la diffida in esame, considerato che tale atto, non essendo definitivo, non è immediatamente lesivo della sfera giuridica del trasgressore o dell’eventuale obbligato in solido.Inoltre, l’adozione della diffida in commento interrompe i termini per:la contestazione e notificazione degli illeciti amministrativi, fino alla scadenza del termine per la regolarizzazione e per il pagamento della sanzione minima;la presentazione di scritti ricorsi e/o scritti difensivi ex art. 18, legge n. 689/81 e art. 17 del Dlgs n. 12472004.In caso di mancata ottemperanza alla diffida obbligatoria, ovvero in caso di mancato pagamento della sanzione in misura ridotta entro il termine di 45 giorni dalla notifica del verbale unico, automaticamente e senza la necessità di un nuovo ulteriore verbale ispettivo l’azienda può ancora sanare la violazione pagando, entro i successivi 60 giorni, la misura ”ridotta” pari al doppio del minimo oppure pari ad un terzo del massimo (quindi 500 euro nel caso in esame), con conseguente estinzione del procedimento sanzionatorio.In conclusione, se non si è adempiuto alla diffida obbligatoria oppure non si è provveduto al pagamento della sanzione nella misura minima entro 45 giorni dalla notifica del verbale conclusivo degli accertamenti, è ancora possibile pagare la sanzione ridotta, ex art. 16 della legge n.689/81, entro 105 giorni dalla notifica del verbale unico.Viceversa, in caso di mancata ottemperanza alla diffida anche entro tale ampio termine, l’ispettore dovrà procedere a presentare il rapporto ex art.17, legge n.689/81, al Dirigente dell’ITL competente per territorio per l’adozione e notificazione della successiva ordinanza- ingiunzione.

*avvocato- capo processo ITL Viterbo


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Giusta causa di licenziamento e isolamento fiduciario per COVID-19

 L’ordinanza del Tribunale di Trento, 21 gennaio 2021, n. 496

Annunziata Staffieri

E’ possibile licenziare un dipendente dopo un periodo obbligatorio di isolamento fiduciario?

Secondo il Tribunale di Trento la risposta non può che essere affermativa.

Il Tribunale friulano non smette di stupirci.

Dopo l’ordinanza n.186 del 1° giugno 2020, con la quale il giudice di prime cure  trentino  ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, ultimo comma del decreto legislativo n.22/2015, in merito al cd “incentivo all’autoimprenditorialità”  e dopo  la decisione dello scorso 30 luglio, con la quale ha ribadito l’obbligo di remunerare il preavviso più lungo previsto dal contratto individuale in caso di dimissioni, ecco un’altra decisione interessante in ambito giuslavoristico, e più precisamente in tema di “giusta causa” di licenziamento.

Com’è noto la giusta causa è definita dall’art. 2119 del codice civile quella “causa che non consenta la prosecuzione neppure temporanea del rapporto di lavoro”.

Essa  ricorre in presenza di condotte talmente gravi da recidere in maniera irreversibile il vincolo fiduciario che è alla base del rapporto laburistico, tanto da determinare l’interruzione “ad nutum” del contratto di lavoro e non consentendo la prosecuzione dello stesso neppure durante il periodo cd “di preavviso”.

 La giusta causa determina pertanto l’estinzione immediata del rapporto di lavoro: siamo in presenza di un licenziamento “disciplinare” e  senza  “preavviso”, che dovrà essere comminato dal datore di lavoro nel rispetto della procedura disegnata dall’art.7 della legge n. 300/70 (cd. Statuto dei lavoratori).

Tale recesso darà inoltre la possibilità al dipendente licenziato di accedere alla indennità di NASpI, il cui importo per l’anno in corso è rimasto invariato rispetto all’anno precedente.

Allo stato attuale l’importo massimo della NASpI non potrà superare, alla luce della circolare n.7 del 21 gennaio 2021, i 1.335,40[i] euro mensili.

Ma quando una condotta può essere considerata giusta causa di licenziamento?

Secondo il consolidato orientamento dei Giudici della nomofilachia la giusta causa è ravvisabile in presenza di gravi inadempimenti contrattuali posti in essere dal dipendente.  

Costituiscono tipici esempi di giusta causa di recesso aziendale:

-il furto di beni aziendali anche se di modico valore;

-la falsità del certificato medico prodotto dal lavoratore;

-l’abbandono del posto di lavoro se dallo stesso  deriva un grave danno alla all’incolumità delle persone oppure  alla sicurezza degli impianti aziendali;

-l’attività svolta dal dipendente  in concorrenza con l’azienda;

– l’insubordinazione con reazione sia fisica che verbale.

Dagli esempi citati si evince agevolmente che nel caso della giusta causa ex art. 2119 cc siamo in presenza di una gravità dell’inadempimento più “forte“ di quella richiesta dall’art. 1453 del codice civile per la risoluzione dei contratti a prestazioni corrispettive.

Ma vi è di più.  Gli Ermellini hanno più volte ribadito che la giusta causa è ravvisabile non solo in presenza di gravi inadempimenti degli obblighi derivanti dalla sottoscrizione del contratto di lavoro, ma  anche  di condotte extra lavorative poste in essere dal lavoratore  al di fuori dell’orario di lavoro  e dei luoghi aziendali.

Ciò tuttavia solo qualora  tali comportamenti “abbiano un riflesso, sia pure soltanto potenziale, ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto, compromettendo le aspettative di un puntuale adempimento dell’ obbligazione lavorativa, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività”[ii].

E’ dunque di fondamentale importanza che vi sia un potenziale collegamento tra le mansioni svolte dal lavoratore e la condotta extra lavorativa.

Ad esempio è da considerare legittimo il  licenziamento intimato ad un funzionario di banca a seguito di una condanna penale per usura o estorsione per fatti inerenti alla vita extra lavorativa dello stesso, oppure in caso  di condanna penale di un insegnante per il reato di pedofilia.

Il potenziale collegamento tra la mansione svolta e la condotta extra lavorativa in tali casi è inconfutabile, in quanto anche fuori dall’ambiente di lavoro il lavoratore è tenuto ad assicurare affidabilità nei confronti sia del datore di lavoro che dell’utenza.

Dunque secondo i Giudici di Piazza Cavour “la condotta illecita extra lavorativa è suscettibile di rilievo disciplinare poiché il lavoratore è tenuto  non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario con lo stesso[iii].

Tra l’altro, come precisato dalla più recente giurisprudenza in materia, “le condotte extra lavorative che possono assumere rilievo ai fini dell’integrazione della giusta causa afferiscono non solo alla vita privata in senso stretto bensì a tutti gli ambiti nei quali si esplica la personalità del lavoratore”[iv].

Il Tribunale di Trento, sulla scorta di tale orientamento, con la decisione in commento ha ritenuto legittimo il licenziamento intimato nei confronti di una lavoratrice  per una condotta afferente alla  sua vita privata: la dipendente infatti è stata licenziata al suo rientro in servizio, dopo un periodo di isolamento fiduciario imposto dalla normativa anti-COVID 19, a seguito di una vacanza estiva trascorsa all’estero.

Secondo il Giudice di prime cure friulano tale comportamento integra una giusta causa di recesso aziendale in quanto la dipendente, già prima di partire per l’Albania, era conscia del fatto di dover osservare, al suo rientro in Italia, un periodo di quarantena e quindi di non poter lavorare

per un periodo di 14 giorni e che la sua prolungata assenza dal lavoro avrebbe prodotto un serio pregiudizio all’organizzazione aziendale.

Ma nonostante ciò ha deciso di partire ugualmente incurante delle ripercussioni che tale decisione avrebbe prodotto sulla funzionalità del rapporto di lavoro.

La lavoratrice dunque, secondo l’ordinanza in commento “si è posta, per propria responsabilità, in una situazione di impossibilità di riprendere il lavoro alla data prescritta, ossia dopo la fine del periodo di ferie”.

La noncuranza che la lavoratrice ha manifestato nei confronti dell’azienda ha compromesso irreparabilmente il vincolo fiduciario con il proprio datore di lavoro, legittimando il recesso aziendale per giusta causa; la dipendente ha infatti anteposto i propri bisogni egoistici alle esigenze aziendali.

Secondo la magistratura del lavoro friulana tale consapevole e negligente comportamento integra una giusta causa di recesso aziendale, con conseguente estinzione “in tronco” del rapporto di lavoro, essendo venuto meno il presupposto fondamentale per la prosecuzione dello stesso: la fiducia del datore di lavoro.

 A causa di tale comportamento il datore ormai non può più confidare sul puntuale adempimento delle obbligazioni contrattuali da parte della lavoratrice, nonché sulla sua proficua e leale collaborazione.

Infatti, in ossequio ai fondamentali principi di fedeltà, lealtà e collaborazione la dipendente avrebbe dovuto desistere dall’organizzare tale viaggio in considerazione del grave nocumento che tale scelta avrebbe prodotto all’organizzazione del lavoro.

Tra l’altro, precisa il Tribunale di Trento, pretendere che la lavoratrice rinunciasse a tale viaggio “non costituisce un’illegittima limitazione dell’esercizio del diritto di fruire delle ferie. Basti pensare che il soddisfacimento delle esigenze di sanità pubblica, sottese alla necessità di contrastare la perdurante situazione di pandemia, ha comportato per ampi strati di popolazione residente in Italia il sacrificio di numerosi diritti della personalità, in particolare di libertà, in particolare di libertà civile, anche tutelati a livello costituzionale”.

Alla luce di tali considerazioni il Giudice del Lavoro di Trento con tale “audace” decisione ha respinto il ricorso proposto dalla dipendente avverso il licenziamento intimato dal datore di lavoro, condannandola altresì anche alla refusione delle spese di giudizio.


[i] Vedi Annunziata Staffieri, “NASpI 2021: i nuovi importi 2021 dopo la circolare INPS n.7 del 21 gennaio 2021”, in www.salvisjuribus, febbraio 2021;

[ii] Vedi Cass. Civ, Sezione Lavoro n.24023/2016; Vedi altresì Annunziata Staffieri, “Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Alla luce della più recente giurisprudenza e della normativa anti covid-19”, Casa Editrice Edizioni Giuridiche Oristano, dicembre 2020.

[iii] Vedi Cassazione Civile, Sezione Lavoro n.776/2015.

[iv] Vedi Cass. Civ, Sezione Lavoro, n. 428/2019. Vedi altresì Annunziata Staffieri,“Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Alla luce della più recente giurisprudenza e della normativa anti covid-19”, Casa Editrice Edizioni Giuridiche Oristano, dicembre 2020.

Copyright 2021© Associazione culturale non riconosciuta Nuove Frontiere del Diritto Via Guglielmo Petroni, n. 44 00139 Roma, Rappresentante Legale avv. Federica Federici P.I. 12495861002. 
Nuove frontiere del diritto è rivista registrata con decreto n. 228 del 9/10/2013, presso il Tribunale di Roma, Direttore responsabile avv. Angela Allegria, Proprietà: Nuove Frontiere Diritto. ISSN 2240-726X

Nota a Corte dei Conti, SS. UU., 4 gennaio 2021 (ud. 25 novembre 2020), n. 1/2021/QM/Pres-Sez.

Sull’applicabilità dei benefici previsti dall’art.54, comma 1, d.P.R. n. 1092 del 1973 al personale militare, collocato a riposo con una anzianità di servizio superiore ai 20 anni,  che al 31 dicembre 1995 vantava un’anzianità ricompresa tra i 15 ed i 18 anni, ovvero inferiore a 15 anni, ed in particolare se la cd. quota “retributiva” in favore di detto personale debba essere calcolata, invariabilmente, in misura pari al 44% della base pensionabile

Corrado Spriveri

Estratto:La “quota retributiva” della pensione da liquidarsi con il sistema “misto”, ai sensi dell’articolo 1, comma 12, della legge n.335/1995, in favore del personale militare cessato dal servizio con oltre 20 anni di anzianità utile ai fini previdenziali e che al 31 dicembre 1995 vantava un’anzianità ricompresa tra i 15 ed i 18 anni, va calcolato tenendo conto dell’effettivo numero di anni di anzianità maturati al 31 dicembre 1995, con applicazione del relativo coefficiente per ogni anno utile determinato nel 2,44%”. Conseguentemente: “L’aliquota del 44% non è applicabile per la quota retributiva della pensione in favore di quei militari che, alla data del 31 dicembre 1995, vantavano un’anzianità utile inferiore a 15 anni

SOMMARIO: 1. Il trattamento pensionistico previsto per il personale militare, ex art.54 d.P.R. n.1092/1973, alla luce della riforma introdotta dalla legge n.335/1995 – 2. I principi di diritto sanciti dalle Sezioni riunite della Corte dei conti con la sentenza n.1/2021/QM/PRES-SEZ del 25.11.2020, depositata il 04.01.2021 – 3. Dubbi sulla corretta interpretazione e applicazione dell’art.54 d.P.R. n.1092/73 – 4. Efficacia vincolante della sentenza emessa dalla Corte dei conti a Sezioni riunite sulla corretta e uniforme interpretazione dell’art. 54 d.P.R. n.1092/73

1. Il trattamento pensionistico previsto per il personale militare, ex art.54 d.P.R. n.1092/1973, alla luce della riforma introdotta dalla legge n.335/1995 –  Il d.P.R. 29 dicembre 1973, n.1092 rubricato “Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato”, nasce con  l’obiettivo dichiarato di realizzare una riforma generale dei trattamenti pensionistici.

Avuto riguardo al sistema pensionistico previsto per il personale militare, l’art.54, commi n.1 e 2 del d.P.R. n.1092/1973, rubricato “Misura del trattamento normale” dispone che “1. La pensione spettante al militare che abbia maturato almeno 15 anni e non più di venti anni di servizio utile è pari al 44 per cento della base pensionabile. 2. La percentuale di cui sopra è aumentata di 1.80 per cento di ogni anno di servizio utile oltre il ventesimo”. 

La disciplina ut supra illustrata non è affatto connotata dal carattere della specialità, in quanto definisce i criteri di calcolo della pensione normale per tutti i militari, prescindendo dalle cause di cessazione dal servizio ed è applicabile, indistintamente, a tutti coloro che abbiano maturato la minima anzianità di servizio pari a quindici anni per accedere alla pensione[1].

La legge 8 agosto 1995, n.335, rubricata “Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare”, ridefinisce il sistema previdenziale, definendo i criteri di calcolo dei trattamenti pensionistici attraverso la commisurazione dei trattamenti alla contribuzione, le condizioni di accesso alle prestazioni con affermazione del “principio di flessibilità”, l’armonizzazione degli ordinamenti pensionistici nel rispetto della pluralità degli organismi assicurativi, l’agevolazione delle forme pensionistiche complementari allo scopo di consentire livelli aggiuntivi di copertura previdenziale, la stabilizzazione della spesa pensionistica nel rapporto con il prodotto interno lordo e lo sviluppo del sistema previdenziale medesimo.

La suindicata riforma, incidendo profondamente sul sistema pensionistico al tempo vigente, ha introdotto tre fasce o sistemi pensionistici per i dipendenti pubblici, secondo la suddetta disciplina: a) per i nuovi assunti dal 1996, il calcolo della futura pensione sarebbe stato effettuato interamente con il nuovo metodo “contributivo”; b) per tutti i dipendenti statali che al 31.12.1995 avevano maturato 18 anni di anzianità, veniva mantenuto il sistema di calcolo interamente retributivo di cui al d.P.R. 1092/1973; c) per i dipendenti statali che invece, a tale data, avessero avuto meno di 18 anni, veniva previsto il cd “sistema “misto”, per effetto del quale le anzianità a partire dal 1996 e sino alla cessazione del servizio sarebbero state calcolate con metodo contributivo, mentre per le anzianità di servizio maturate sino al 1995 la pensione sarebbe stata calcolata con il previgente sistema retributivo di cui al d.P.R. n.1092/1973.

È rimasto irrisolto, a livello legislativo, il problema legato alla lettura combinata dei due testi.

2. I principi di diritto sanciti dalle Sezioni riunite della Corte dei conti con la sentenza n.1/2021/QM/PRES-SEZ del 25.11.2020, depositata il 04.01.2021 – La Corte dei conti, Sezioni riunite in sede giurisdizionale, al fine di risolvere un contrasto giurisprudenziale orizzontale è stata chiamata a pronunciarsi sulla corretta ed uniforme interpretazione dell’art.54, comma 1,  d.P.R. 29 dicembre 1973, n.1092.

Segnatamente, le Sezioni riunite con la sentenza n.1/2021/QM/PRES-SEZ, depositata in data 4 gennaio 2021, si sono pronunciate in merito alle seguenti questioni di  massima:

1. n.710/SR/QM/PRES, deferita dal Presidente della Corte dei conti con ordinanza n.12 del 12 ottobre 2020, sulla corretta ed uniforme interpretazione dell’art.54, comma 1, del d.P.R. 29 dicembre 1973, n.1092;

2. n.711/SR/QM/SEZ, sollevata dalla Corte dei conti, Sezione prima giurisdizionale centrale d’appello, con l’ordinanza n.26 del 14 ottobre 2020 e avente ad oggetto: “a) se il beneficio previsto dall’art. 54, comma 1, d.P.R. n.1092 del 1973, spetti o meno al personale militare collocato a riposo con una anzianità di servizio superiore ai 20 anni; in altri termini – avendo riguardo alle modalità di calcolo del trattamento di pensione – se la “quota retributiva” della pensione da liquidarsi con il sistema “misto”, ai sensi dell’articolo 1, comma 12, della legge n.335/1995, in favore del personale militare cessato dal servizio con oltre 20 anni di anzianità utile ai fini previdenziali e che al 31 dicembre 1995 vantava un’anzianità ricompresa tra i 15 ed i 18 anni, debba essere calcolata invariabilmente in misura pari al 44% della base pensionabile in applicazione del ridetto art. 54, oppure se tale quota debba essere determinata tenendo conto dell’effettivo numero di anni di anzianità maturati al 31 dicembre 1995, con applicazione del relativo coefficiente per ogni anno utile; b) In caso di ritenuta spettanza del beneficio di cui all’art. 54 al personale militare cessato dal servizio con oltre 20 anni di anzianità, se la medesima aliquota del 44% sia applicabile anche per la quota retributiva della pensione in favore di quei militari che, alla data del 31 dicembre 1995, vantavano un anzianità utile inferiore a 15 anni”, pronunciata in relazione all’appello in materia di pensioni iscritto al n.54663 del ruolo generale, proposto dall’INPS contro Carmelo DE STEFANO, nato a Reggio Calabria il 15 ottobre 1963, avverso e per la riforma della sentenza n. 73/2018 della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Calabria, pubblicata in data 10 maggio 2018;

3. n.712/SR/QM/SEZ, sollevata dalla Corte dei conti, Sezione prima giurisdizionale centrale d’appello, con l’ordinanza n.27 del 14 ottobre 2020 avente ad oggetto: “se il beneficio previsto dall’art. 54, comma 1, d.P.R. n. 1092 del 1973, spetti o meno al personale militare collocato a riposo con una anzianità di servizio superiore ai 20 anni; in altri termini – avendo riguardo alle modalità di calcolo del trattamento di pensione – se la “quota retributiva “ della pensione da liquidarsi con il sistema “misto”, ai sensi dell’articolo 1, comma 12, della legge n.335/1995, in favore del personale militare cessato dal servizio con oltre 20 anni di anzianità utile ai fini previdenziali e che al 31 dicembre 1995 vantava un’anzianità ricompresa tra i 15 ed i 18 anni, debba essere calcolata invariabilmente in misura pari al 44% della base pensionabile in applicazione del ridetto art.54, oppure se tale quota debba essere determinata tenendo conto dell’effettivo numero di anni di anzianità maturati al 31 dicembre 1995, con applicazione del relativo coefficiente per ogni anno utile”, pronunciata in relazione all’appello in materia di pensioni iscritto al n.54665 del ruolo generale, proposto dall’INPS contro Leonardo MINNITI, nato a Melito di Porto Salvo (RC) il 7 luglio 1962, avverso e per la riforma della sentenza n.79/2018 resa dalla Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Calabria, pubblicata in data 10 maggio 2018.

La prima osservazione che le Sezioni riunite ritengono di dover, preliminarmente, svolgere riguarda la specificità dell’esame della materia posta all’attenzione.

Secondo il Collegio la difficoltà maggiore nel definire i quesiti proposti risiede nell’esaminare un sistema giuridico in sé compiuto – quello del d.P.R. n.1092 del 1973 – alla luce di una normativa sopravvenuta – quella della legge n.335 del 1995 –  che risponde a principi ispirati da una politica previdenziale che poggia su presupposti assai diversi rispetto al precedente regime.

Invero, il d.P.R. n.1092 del 1973 nasce con l’obiettivo dichiarato di realizzare una riforma generale dei trattamenti pensionistici.

Si tratta di un testo dove le norme fanno sistema intorno al concetto esplicitato di “dipendente statale”, inteso per tale quello definito al comma 2 dell’art.1 che comprende “gli impiegati civili e gli operai dello Stato nonché i magistrati ordinari, amministrativi e della giustizia militare, gli avvocati e i procuratori dello Stato, gli insegnanti delle scuole e degli istituti di istruzione statali e i militari delle Forze armate dei Corpi di polizia”.

La legge n.335/1995 a sua volta, in estrema sintesi, ridefinisce il sistema previdenziale allo scopo di garantire la tutela prevista dall’art.38 della Costituzione[2].

Come già detto, rimasto irrisolto, a livello legislativo, il problema legato alla lettura combinata dei due testi, secondo il Collegio nella sistematica legislativa del d.P.R. n.1092/1973 vi è un evidente richiamo – ma non un parallelismo – fra gli artt.42 e 44 (previsione del trattamento normale di pensione e relativa misura del “quantum” pensionistico del “personale civile”) e gli artt.52 e 54 (previsione del trattamento normale di pensione e relativa misura del “quantum” pensionistico del “personale militare”) del d.P.R. n.1092/1973, va osservato, che l’art.54, ai commi n.1 e n.2, stabilisce indubitabilmente per il personale militare dello Stato un regime pensionistico più favorevole rispetto a quello stabilito per il personale civile disciplinato all’art.44 del medesimo testo unico, prevedendo che “1. La pensione spettante al militare che abbia maturato almeno 15 anni e non più di venti anni di servizio utile è pari al 44 per cento della base pensionabile. 2. La percentuale di cui sopra è aumentata di 1.80 per cento di ogni anno di servizio utile oltre il ventesimo”.

Tuttavia secondo le Sezioni riunite della Corte dei conti “l’applicazione tout court dell’art. 54 (nel combinato disposto dei primi due commi) e l’applicazione dell’aliquota fissa del 44% non possono essere generalizzati per tutto il personale militare, ma circoscritte a coloro i quali sono in possesso dei requisiti previsti dalla richiamata normativa, requisiti letteralmente individuabili in: 1) effettiva e definitiva cessazione dal servizio (essendo questo, ovviamente, il presupposto indispensabile per l’accesso al trattamento pensionistico); 2) concreta maturazione del diritto all’attribuzione della pensione normale, essendo in possesso di quei requisiti d’anzianità minimi, stabiliti espressamente dall’art. 52; 3) possesso, all’epoca di definitiva cessazione dal servizio, esclusivamente di un’anzianità di almeno quindici e non più di venti anni”.

Dalla disciplina del 1995 va, quindi, ricavato secondo il Collegio un correttivo per determinare il trattamento pensionistico in favore del personale militare, mettendo a denominatore il numero di anni che la legge n.335/1995 fissa per essere assoggettati al sistema misto, vale a dire 18 anni meno un giorno.

Così ritenendo secondo il Collegio “il coefficiente sarà, dunque, pari a 44 diviso 17 + 364/365esimi, cioè 44/17,997 = 2,445 per ogni anno”.  La marginale differenza che c’è tra il predetto esito – che tiene conto del dato normativo secondo cui rientra nel sistema misto chi, alla fine del 1995, aveva 18 anni meno un giorno di servizio – e quello che si raggiungerebbe mettendo a denominatore più semplicemente “18 anni”, si apprezza solo approssimando il risultato al millesimo (44/17,997 = 2,445; 44/18=2,444), poiché con l’approssimazione al centesimo, come si fa ordinariamente, i due risultati coinciderebbero in 2,44%.

In definitiva la Corte dei conti, Sezioni riunite, in sede giurisdizionale e in sede di questione di massima, in soluzione ai quesiti posti con le suindicate ordinanze di deferimento del Presidente della Corte dei conti n.12 del 12 ottobre 2020 e della Sezione prima giurisdizionale di appello nn.26 e 27 del 14 ottobre 2020, con la sentenza n.1/2021/QM/PRES-SEZ depositata in data 4 gennaio 2021 ha, in buona sostanza, fissato  i seguenti principi di diritto: “La “quota retributiva” della pensione da liquidarsi con il sistema “misto”, ai sensi dell’articolo 1, comma 12, della legge n. 335/1995, in favore del personale militare cessato dal servizio con oltre 20 anni di anzianità utile ai fini previdenziali e che al 31 dicembre 1995 vantava un’anzianità ricompresa tra i 15 ed i 18 anni, va calcolato tenendo conto dell’effettivo numero di anni di anzianità maturati al 31 dicembre 1995, con applicazione del relativo coefficiente per ogni anno utile determinato nel 2,44%”.

Conseguentemente: “L’aliquota del 44% non è applicabile per la quota retributiva della pensione in favore di quei militari che, alla data del 31 dicembre 1995, vantavano un’anzianità utile inferiore a 15 anni”.

Invero, secondo quanto sancito dalle Sezioni riunite della Corte dei conti, per il personale militare che cessa il servizio con oltre 20 anni di anzianità utile, ai fini previdenziali, e che alla data del 31.12.1995 ha maturato un’anzianità ricompresa tra i 15 ed i 18 anni,  la cd. “quota retributiva” della pensione, da liquidarsi con il sistema “misto”,  ai sensi dell’art.1, comma 12, della legge n. 335/1995, va calcolato tenendo conto dell’effettivo numero di anni di anzianità maturati al 31 dicembre 1995, con l’applicazione del relativo coefficiente, per ogni anno utile, determinato nel 2,44%.

Per quanto attiene, invece, all’applicazione dell’art. 54 d.P.R. n.1092/1973, in favore di quei militari che, alla data del 31 dicembre 1995, vantavano un anzianità utile inferiore a 15 anni – il Collegio ha sancito che “… esso, tenuto conto di quanto deciso in ordine al primo quesito posto, è da ritenersi assorbito in esso con valutazione coerentemente negativa”, statuendo pertanto che “L’aliquota del 44% non è applicabile per la quota retributiva della pensione in favore di quei militari che, alla data del 31 dicembre 1995, vantavano un’anzianità utile inferiore a 15 anni”.

3. Dubbi sulla corretta interpretazione e applicazione dell’art.54 d.P.R. n.1092/73 – Il principio di diritto, ut supra illustrato,  sancito dalle Sezioni riunite suscita dubbi e rende perplessi, in primis, in ordine al mancato riconoscimento della percentuale del 44%, sulla quota cd. “retributiva”, in favore del personale militare che sia cessato tra il quindicesimo e il ventesimo anno di servizio, ovvero con un’anzianità utile anche superiore ai vent’anni, e che alla data del 31 dicembre 1995 vantava un’anzianità di servizio inferiore ai 18 anni, rientrante quindi, nel cd. “sistema misto[3], così come previsto letteralmente dall’art.54, comma 1,  d.P.R. n.1092/1973.

Invero, il criterio interpretativo letterale, cui ha aderito ad oggi la giurisprudenza maggioritaria[4], si ritiene il più aderente alla volontà espressa dal legislatore; criterio, tra l’altro, sostenuto e rafforzato dal contenuto del successivo comma 2 dell’art.54, il quale prevede, per l’appunto, che  “… spetti al militare l’aliquota dell’1,80% per ogni anno di servizio oltre il ventesimo …” e disciplina, pertanto, l’ipotesi in cui il militare cessi dal servizio con un’anzianità di servizio maggiore di 20 anni, chiarendo, quindi, che la disposizione di cui al comma 1 dell’art.54 d.P.R. n.1092/1973 non può considerarsi limitata a coloro che cessino con un massimo di venti anni di servizio così come, erroneamente, sancito dal Collegio con la pronuncia in esame   “… l’applicazione tout court dell’art. 54 (nel combinato disposto dei primi due commi) e l’applicazione dell’aliquota fissa del 44% non possono essere generalizzati per tutto il personale militare, ma circoscritte a coloro i quali sono in possesso dei requisiti previsti dalla richiamata normativa, requisiti letteralmente individuabili in: 1) effettiva e definitiva cessazione dal servizio (essendo questo, ovviamente, il presupposto indispensabile per l’accesso al trattamento pensionistico); 2) concreta maturazione del diritto all’attribuzione della pensione normale, essendo in possesso di quei requisiti d’anzianità minimi, stabiliti espressamente dall’art. 52; 3) possesso, all’epoca di definitiva cessazione dal servizio, esclusivamente di un’anzianità di almeno quindici e non più di venti anni”.

In secondo luogo l’interpretazione fornita dalle Sezioni riunite risulta iniqua  soprattutto nei confronti del personale militare che alla data del 31 dicembre 1995 vantava un’anzianità contributiva utile inferiore a 15 anni, nei cui confronti parrebbe, “prima facie”, non riconosciuto neppure il relativo coefficiente determinato nel 2,44%, calcolato tenendo conto dell’effettivo numero di anni di anzianità maturati al 31/12/1995.

Invero, posto che è innegabile una sostanziale differenza tra il trattamento pensionistico attribuito al personale militare, rispetto agli impiegati civili dello Stato, senza che con ciò vi sia violazione alcuna al principio di uguaglianza di cui all’art.3 della Costituzione; considerato che anche coloro “ … che, alla data del 31 dicembre 1995, vantavano un’anzianità utile inferiore a 15 anni”  rivestono lo status di militari; la domanda che sorge spontanea è: “quale aliquota e/o coefficiente va applicata con riferimento alla quota retributiva della pensione a costoro? perché è palese, come già detto, la sostanziale differenza tra sistema pensionistico attribuito ai miliari piuttosto che agli impiegati civili.

Secondo il principio di diritto affermato dalle Sezioni riunite l’applicazione dell’aliquota fissa del 44% non può essere generalizzata per tutto il personale militare “ … ma circoscritta soltanto a coloro i quali possedevano, all’epoca di definitiva cessazione dal servizio, esclusivamente  un’anzianità di almeno quindici e non più di venti anni”.

Ne consegue che secondo quanto stabilito dal Collegio per tutti i militari che cessano dal servizio con oltre venti anni di servizio utile (a prescindere che al 31.12.1995 avevano ovvero non avevano maturato almeno 15 anni e non oltre 18 anni di servizio) non può applicarsi l’aliquota del 44%.

Inoltre, come stabilito dalla pronuncia in esame, solo ai militari che hanno maturato al 31 dicembre 1995 un’anzianità ricompresa tra i 15 ed i 18 anni,  la cd. “quota retributiva”  della pensione va calcolata tenendo conto dell’effettivo numero di anni di anzianità maturati al 31/12/1995, con l’applicazione del relativo coefficiente per ogni anno utile, determinato nel 2,44%.

Ciò posto, il quesito che ci si pone è il seguente: “per i militari che al 31.12.1995 avevano maturato un’anzianità contributiva inferiore a  15 anni come deve essere calcolata la “quota retributiva” della pensione, da liquidarsi con il sistema “misto”, ai sensi dell’articolo 1, comma 12, della legge n. 335/1995?”.

Nel silenzio, o meglio dalle scarne conclusioni affermate dalla Corte dei conti, Sezioni riunite, con la sentenza che qui si annota, a parere di chi scrive l’unica interpretazione possibile è quella di applicare, anche ai militari che al 31.12.1995 avevano maturato un’anzianità contributiva inferiore a  15 anni  “ … il relativo coefficiente per ogni anno utile, determinato nel 2,44%”.

4. Efficacia vincolante della sentenza emessa dalla Corte dei conti a Sezioni riunite sulla corretta e uniforme interpretazione dell’art.54 d.P.R. n.1092/73 – In ultimo, in merito all’efficacia dell’indirizzo interpretativo definito dalle Sezioni riunite nella pronuncia in commento, si ritiene che lo stesso potrebbe non essere condiviso dalle Sezioni centrali d’appello della Corte dei conti, che ben potrebbero risollevare la questione di massima ai sensi dell’art.117 del Codice di giustizia contabile[5].

Invero, secondo quanto stabilito dall’art.101, comma 2 della Costituzione “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”. La disposizione in parola vuole garantire, in buona sostanza, l’indipendenza di chi esercita la funzione giudiziaria, principio cardine di ogni Ordinamento democratico.

Attualmente, il potere di nomofilachia è disciplinato dall’art.114 del Codice di giustizia contabile[6], che prevede il deferimento ad iniziativa delle Sezioni di appello, ma anche del PG o il Presidente della Corte dei conti in caso di “indirizzi interpretativi” difformi in sede regionale.

Anche in questo caso, però, successivamente alla pronuncia di nomofilachia, è possibile rimettere la questione alle Sezioni riunite per la decisione del ricorso: ciò avviene attraverso il cd. “motivato dissenso” (ex art.117 c.g.c.), esercitato dalle Sezioni di appello (si tenga conto che l’organizzazione delle Sezioni riunite della Corte dei conti non prevede le Sezioni semplici come per la Corte di cassazione).

In pratica il giudice del “caso” non può essere costretto a decidere in base a norma diversa da quella che egli riconosce nella legge (ex art.101, comma 2 Costituzione), rimettendo la questione e la “decisione” al giudice della nomofilachia.

Alla luce di quanto ut supra esposto, si ritiene che non vi è alcun vincolo giuridico tra le Sezioni di appello e le Sezioni riunite della Corte dei conti, vincolo che, tra l’altro, non troverebbe conforto nel nostro sistema di “Civil law” che, tuttora, non conosce il principio del precedente vincolante.

Si tratta piuttosto di un vincolo di natura processuale nel senso che, come già detto, ove le Sezioni di appello vogliano discostarsi dal precedente delle Sezioni riunite, possono farlo, ma sono tenute a convogliare il loro dissenso in una ordinanza che investa della decisione le Sezioni riunite, nella quale siano indicati i motivi che inducono a tale dissenso.

Concludendo, si ritiene che già dai prossimi mesi assisteremo ad una complessa “fase di armonizzazione”, in cui le Sezioni Giurisdizionali Regionali, in primis, e le Sezioni centrali di appello, in secondo luogo, assumeranno decisioni che, in virtù di quanto sancito dall’art.101 della Costituzione, potrebbero, anche, essere difformi all’interpretazione resa dalle Sezioni riunite nella sentenza in commento.                                    


[1] L’art.52, comma 1 del d.P.R. 29 dicembre 1973 n.1092, rubricato “Diritto al trattamento normale” della pensione, prevede che “L’ufficiale, il sottufficiale e il militare di truppa che cessano dal servizio permanente o continuativo hanno diritto alla pensione normale se hanno raggiunto una anzianità di almeno quindici anni di servizio utile, di cui dodici di servizio effettivo…”.

[2] L’art.38 della Costituzione prevede che “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato. L’assistenza privata è libera”.

[3] La legge n. 335/1995 ha previsto per i dipendenti statali che alla data del 31.12.1995 avessero avuto meno di 18 anni, il cd “sistema “misto”, per effetto del quale le anzianità a partire dal 1996 e sino alla cessazione del servizio sarebbero state calcolate con metodo contributivo, mentre per le anzianità di servizio maturate sino al 1995, la pensione sarebbe stata calcolata con il previgente sistema retributivo di cui al d.P.R. n.1092/1973.

[4] Si riportano, di seguito, le principali sentenze emesse dalla Corte dei Conti in merito all’applicazione dell’art.54 d.P.R. n.1092/1973, ante pronuncia delle Sezioni riunite: sentenza n.228/2019 emessa dalla Corte dei Conti, Sezione Terza Giurisdizionale Centrale d’Appello; sentenza n.197/2019 emessa dalla Corte dei Conti, Sezione Seconda Giurisdizionale Centrale d’Appello; sentenza n. 422/2018 emessa dalla Corte dei Conti, Sezione Prima Giurisdizionale Centrale d’Appello; sentenze nn.43/2020,  44/2020,  385/2019, 730/2019, 731/2019, 732/2019, 734/2019 emesse dalla Corte dei Conti, Sezione giurisdizionale Sicilia; sentenze nn. 396/2019 e 593/2019 emesse dalla Corte dei Conti, Sezione giurisdizionale Campania; sentenze nn.130/2018, 111/2019 e 113/2019 emesse dalla Corte dei Conti, Sezione giurisdizionale Lombardia; sentenze nn.228/2018, 256/2018, 260/2018, 261/2018, 139/2019, 143/2019, 145/2019, 153/2019, 154/2019, 158/2019, 159/2019, 173/2019, 186/2019 emesse dalla Corte dei Conti, Sezione giurisdizionale Toscana; sentenza n.53/2019 emessa dalla Corte dei Conti, Sezione giurisdizionale Marche; sentenze nn.58/2019 e 59/2019 emesse dalla Corte dei Conti, Sezione giurisdizionale Piemonte; sentenze nn.46/2018, 14/2019 e 27/2019 (condanna alle spese INPS) emesse dalla Corte dei Conti, Sezione giurisdizionale Veneto; sentenza n.206/2018 emessa dalla Corte dei conti Sezione giurisdizionale Calabria; sentenze nn.444/2018 e 730/2018 emesse dalla Corte dei Conti, Sezione giurisdizionale Puglia (condanna alle spese INPS); sentenza n.238/2018 emessa dalla Corte dei conti Sezione giurisdizionale Liguria; sentenza n.145/2018 emessa dalla Corte dei conti Sezione giurisdizionale Sardegna.

[5] L’art. 117 del Codice di giustizia contabile , rubricato “Riproposizione di questione in caso di motivato dissenso”, prevede che “La  sezione  giurisdizionale  di  appello  che  ritenga  di  non condividere un principio di diritto di cui debba  fare  applicazione, già enunciato dalle sezioni riunite, rimette a  queste  ultime,  con ordinanza motivata, la decisione dell’impugnazione”.

[6] L’art.114 del Codice di giustizia contabile, rubricato “Deferimento della questione”, prevede che “1. Le  sezioni  giurisdizionali  d’appello  possono  deferire  alle sezioni riunite in sede giurisdizionale la soluzione di questioni  di massima, d’ufficio o  anche a  seguito  di  istanza  formulata  da ciascuna delle parti.  2.  La  sezione,  con  l’ordinanza  di  deferimento,   dispone   la rimessione del fascicolo  d’ufficio  alla  segreteria  delle  sezioni riunite.    3. Il presidente della Corte dei conti e  il  procuratore  generale possono deferire alle sezioni  riunite  in  sede  giurisdizionale  la risoluzione di questioni di massima oppure di  questioni  di  diritto che  abbiano  dato  luogo,  già  in  primo   grado,  ad   indirizzi interpretativi o applicativi difformi”.

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Il contagio da covid-19 sul luogo di lavoro è infortunio: i chiarimenti dell’Inail

Avv. Annunziata Staffieri

 

A seguito dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 che da mesi sta flagellando la nostra penisola si sono registrati, secondo i dati INAIL, più di 28.000  contagi da coronavirus  per motivi di lavoro tra la fine di febbraio  e lo scorso 21 aprile.

Si pensi non solo agli operatori sanitari (es. medici, infermieri, o.o.s e tecnici della salute) ma anche a coloro che lavorano front-office, oppure alle cassiere dei supermercati, agli addetti alle vendite, ai banconisti, ai corrieri ecc.

Oppure al personale non sanitario operante all’interno dei nosocomi quali ad esempio gli addetti alle pulizie, alle guardie giurate, ai dipendenti delle pompe funebri ecc.

L’art. 42, co.2, del decreto-legge “Cura Italia”

Al fine garantire un’adeguata tutela ai lavoratori infettati dal coronavirus durante lo svolgimento delle proprie mansioni, il decreto-legge n.18 del 17 marzo 2020, noto come decreto “Cura Italia”, all’art. 42, co. 2[1], ha previsto l’equiparazione dell’infezione da Covid-19 all’infortunio sul lavoro a condizione che sia accertata l’origine professionale del contagio, avvenuto nell’ambiente di lavoro oppure per causa determinata dallo svolgimento dell’attività lavorativa.

Il rischio professionale è, dunque, il presupposto fondamentale per poter accedere alla tutela in esame.

Come precisato, infatti, dal Sommo Consesso in innumerevoli sentenze “per essere indennizzabile, la malattia-infortunio deve costituire una conseguenza dell’esposizione del soggetto infortunato a un determinato rischio professionale”[2]

Il contagio da coronavirus avvenuto in occasione di lavoro viene dunque ricondotto alla categoria degli infortuni sul lavoro per tutti i lavoratori assicurati dall’INAIL.

Dunque se nello svolgimento delle proprie mansioni il dipendente viene contagiato dal Covid-19 tale infezione viene considerata non malattia comune ma come infortunio sul lavoro come precisato dall’INAIL dapprima con la nota del 17 marzo n.3675 e successivamente con la circolare n.13 del 3 aprile 2020.

I chiarimenti dell’INAIL: la nota n. 3675 del 17 marzo 2020

e la circolare n.13 del 3 aprile 2020

In caso di contagio da Covid-19 occorso per motivi di lavoro viene, dunque, garantita la tutela INAIL dell’infortunato: la causa virulenta è stata infatti equiparata dall’INAIL alla causa violenta[3] alla luce delle linee giuda per la trattazione di malattie infettive e parassitarie recate dalla circolare del 23.11.94 n.74.

Soggetti beneficiari della tutela INAIL

Possono beneficiare di tale copertura INAIL “i lavatori dipendenti (pubblici e privati) e assimilati, in presenza dei requisiti soggettivi previsti dal DPR n.1124/65 nonché gli altri soggetti previsti dal dlgs n.38/2000 (lavoratori parasubordinati, sportivi professionisti, i dipendenti e lavoratori appartenenti all’area dirigenziale) e dalle altre norme speciali in tema di obbligo e tutela assicurativa INAIL “

Soggetti esclusi dalla tutela INAIL

Sono, invece, esclusi dalla copertura in esame i lavoratori autonomi comunque assicurati all’INAIL.

Non potranno beneficiare della tutela in esame, ad esempio, i liberi professionisti iscritti agli albi professionali, i giornalisti, i titolari di imprese non artigiane e via discorrendo.

E’ lampante dunque la disparità di trattamento tra i lavoratori, ad esempio tra gli stessi tecnici della salute titolari di un rapporto di lavoro subordinato e quelli invece che prestano la loro attività come liberi professionisti.

Cosa fare in caso di contagio

da COVID-19 per ragioni di lavoro?

Gli obblighi del medico certificatore

In caso di contagio in azienda il medico certificatore deve predisporre e trasmettere telematicamente il consueto certificato medico[4] all’INAIL avendo cura di indicare correttamente:

– i dati anagrafici completi del dipendente,

-i dati anagrafi completi del datore di lavoro;

-la data del contagio;

-la data di astensione dal lavoro per inabilità temporanea assoluta conseguente al contagio da coronavirus ovvero la data di astensione dal lavoro per quarantena o permanenza domiciliare fiduciaria.

Al fine del riconoscimento dell’infortunio in esame è di fondamentale importanza acquisire inoltre anche la certificazione dell’avvenuto contagio.

 L’INAIL nella ricordata circolare n. 13 del 3 aprile 2020 ha precisato al riguardo che si considera valida “qualsiasi documentazione classico-strumentale in grado di attestare, in base alle conoscenze scientifiche, il contagio stesso”

Obblighi dell’infortunato

In caso di infezione da coronavirus in occasione di lavoro il dipendente è obbligato a dare immediata notizia al datore dell’infortunio fornendo il numero identificativo del certificato medico, la data in cui lo stesso è stato rilasciato e i giorni di prognosi.

Se il datore di lavoro, non informato tempestivamente, presenta tardivamente la denuncia di infortunio, il lavoratore perde il diritto all’indennità per i giorni antecedenti a quello in cui il datore ha avuto notizia dell’infortunio.

Obblighi del datore di lavoro:

la trasmissione della denuncia di infortunio.

Anche in ipotesi di infortunio da Covid-19 permane l’obbligo per i datori di lavoro, sia pubblici che privati, di trasmettere telematicamente all’INAIL competente per territorio la denuncia di infortunio ex art. 53 DPR n.1124/65 e s.m.

In particolare il datore di lavoro dovrà compilare l’apposito campo “malattia infortunio” presente nell’applicativo relativo alla denuncia di infortunio on-line.

Nel compilare la denuncia   il datore di lavoro dovrà prestare particolare attenzione a non dimenticare di compilare il campo relativo alla data dell’evento, alla data di abbandono del lavoro e la data di conoscenza della certificazione medica in quanto sono questi i dati fondamenti per poter assolvere l’obbligo di denuncia di infortunio.

Da quando decorre l’obbligo della

 denuncia di infortunio da parte del datore di lavoro?

Si rammenta che l’obbligo per il datore di lavoro di trasmettere telematicamente all’INAIL la denuncia di infortunio decorre dalla positiva conoscenza dell’avvenuto contagio: da tale termine decorrono le 48 ore per la trasmissione on-line della denuncia di infortunio da parte dell’azienda.

 In sintesi l’azienda è tenuta a trasmettere la denuncia di infortunio entro 48 ore dalla ricezione del certificato medico.

La scadenza, se si verifica in un giorno festivo, è prorogato al primo giorno successivo non festivo.

Se l’azienda ha adottato la settimana corta articolata su 5 giorni lavorativi, il sabato è considerato giorno feriale e non festivo.

Sanzioni per la omessa o tardiva

presentazione della denuncia di infortunio sul lavoro

Se il datore di lavoro omette o presenta tardivamente la denuncia di infortunio sarà passibile di una sanzione amministrativa piuttosto salata che oscilla tra i 1.290 euro e i 7.745 euro.

Da quando decorre la tutela INAIL

 in caso di contagio da covid-19?

Relativamente alla decorrenza della tutela in esame l’INAIL nella nota n.3675 del 17 marzo 2020 ha precisato che “il termine iniziale è quello della data di attestazione positiva dell’avvenuto contagio tramite il test specifico di competenza (il cd tampone) da parte dalle strutture sanitarie.

Onere della prova a carico dell’infortunato.

Relativamente alla dimostrazione del rischio professionale l’INAIL nei provvedimenti citati ha distinto i lavatori in due grandi categorie.

Nella prima ha ricondotto i tecnici della salute e coloro che operano a stretto contatto con l’utenza e nella seconda tutti gli altri dipendenti.

Per i lavoratori appartenenti alla prima categoria l’onere probatorio è meno gravoso: l’INAIL nella ricordata circolare n.1/2020 ha, infatti, adottato per tale famiglia di lavoratori il principio di presunzione semplice ex art. 2792 cc[5] in considerazione dell’altissimo rischio di infezione cui tale categoria di dipendenti è esposta nello svolgimento delle proprie mansioni.

Ne consegue pertanto che in caso di mancato riconoscimento dell’infortunio da parte dell’Istituto l’infortunato dovrà, in corso di causa, limitarsi a dimostrare l’avvenuto contagio da Covid-19 e lo svolgimento di mansioni appartenenti a tale prima categoria.

Sarà onere, invece, dell’INAIL contestare la natura professionale dell’infezione (ad esempio dimostrando che la stessa è stata contratta in ambito familiare) con conseguente inversione dell’onere della prova.

L’onere probatorio è invece notevolmente più gravoso per la seconda categoria di lavoratori: essa infatti è totalmente a carico dell’infortunato.

Spetterà infatti a quest’ultimo dimostrare che l’infezione da Covid-19 è stata contratta sul luogo di lavoro o durante il tragitto casa-lavoro.

 Mentre all’Istituto spetta solo la controprova dei fatti allegati dal ricorrente e l’interruzione del nesso di causalità tra l’evento e il lavoro.

Al tal riguardo nella circolare l’INAIL precisa che “…ove l’episodio che ha determinato il contagio non sia noto o non possa essere provato dal lavoratore, né si può desumere che il contagio si sia verificato in considerazione delle mansioni/lavorazioni e di ogni altro elemento che in tal senso deponga, l’accertamento medico legale seguirà l’ordinaria procedura privilegiando essenzialmente i seguenti elementi: epidemiologico, clinico, anamnestico e circostanziale”.

Pertanto in caso di mancato riconoscimento della natura professionale del contagio, il Giudice del lavoro dovrà valutare, tramite CTU, se vi è la probabilità di ritenere che l’infezione da coronavirus sia stata contratta dal dipendente sul luogo di lavoro applicando il criterio logico-scientifico che valorizza appunto l’elemento epidemiologico, clinico, anamnastico e circostanziale.

Cosa succede in caso di decesso del lavoratore

a seguito del contagio in esame?

In tal caso ai superstiti del de cuius sarà erogata la prestazione economica prevista dal Fondo delle vittime di gravi infortuni sul lavoro.

Giova annotare che tale prestazione sarà corrisposta una tantum sia ai soggetti assicurati INAIL sia ai soggetti non assicurati dall’ istituto come ad esempio i militari, i vigili del fuoco, i liberi professionisti, le forze dell’ordine e via discorrendo.

Infortunio in itinere.

Il contagio da coronavirus occorso al lavoratore durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro è considerato a tutti gli effetti come “infortunio in itinere”.

Poiché l’uso del mezzo pubblici è sicuramente più rischioso rispetto all’utilizzo del mezzo proprio, l’INAIL nella ricordata circolare ha precisato che in questo periodo di emergenza epidemiologica è consentita la deroga all’art.13 dlgs n.38/2000.

Dunque fino alla fine della pandemia in corso è considerato “necessitato” l’utilizzo del mezzo proprio per gli spostamenti casa/lavoro e viceversa.

A seguito del riconoscimento dell’infortunio in parola l’INAIL potrà rivalersi nei confronti del datore di lavoro mediante la cd “azione di rivalsa” che comprende il regresso e la surroga.

Resta ferma, inoltre, la possibilità per il dipendente, a seguito dell’infezione in esame, di agire sia civilmente che penalmente nei confronti dell’azienda.

Alla luce delle considerazioni esposte è fondamentale per il datore di lavoro adottare tutte quelle misure volte ad evitare il contagio in esame al fine di scongiurare eventuali azioni sia civili che penali.

Sarà pertanto cura del datore di lavoro usare le mascherine, i guanti, il distanziamento sociale, i body scanner utili per monitorare la temperatura, i tamponi e test sierologici al fine di poter lavorare in sicurezza.

[1] L’art. 42, comma 2, del citato decreto-legge stabilisce infatti che “nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS-CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortuni e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato.

[2] Vedi Cassazione civile, sentenza n.1373 e 6390/98; Cass.civ., sentenza  n. 3090/92; Cass. civ., sentenza n. 8058/91 e Cass. civ. sentenza n.5764/82;

[3] Infatti si rammenta che affinché un accadimento possa considerarsi infortunio sul lavoro è necessaria la ricorrenza di tre fondamentali elementi:

  • la causa violenta;
  • la lesione;
  • l’occasione di lavoro.

In caso di contagio da coronavirus la causa virulenta è stata equiparata, pertanto, alla causa violenta.

[4] Il certificato medico in questione è quello previsto dall’art. 53 , commi 8 ,9,10, del DPR n.1124/65.

[5] Adottando l’orientamento della Sezione lavoro del Supremo Collegio, espresso nelle decisioni n. 8058 del 25.07.91 e n.3090 del 13.03.92.

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Il congedo parentale straordinario Covid-19

I chiarimenti dell’INPS e la proroga al 3 maggio 2020

Avv. Annunziata Staffieri

L’INPS con due recenti messaggi del 15 e del 16 aprile è tornato ad occuparsi del congedo parentale straordinario introdotto dall’art. 23 del decreto “Cura Italia” al fine di consentire ai genitori lavoratori di poter accudire i figli a seguito della chiusura delle scuole disposta dall’esecutivo Conte con il DPCM del 4 marzo u.s.

Più precisamente con il messaggio n.1621 del 15 aprile 2020 la Direzione Generale Ammortizzatori Sociali dell’INPS ha fornito ulteriori chiarimenti sulle modalità di fruizione del congedo in questione chiarendo i casi di incompatibilità e di compatibilità.

 Successivamente con il messaggio n. 1648 del 16 aprile 2020 ha prorogato i termini per la fruizione di tali congedi fino al 3 maggio (data di chiusura delle scuole) e non si escludono ulteriori proroghe in futuro.

Il messaggio INPS n.1621 del 15 aprile.

L’Istituto Previdenziale con il messaggio in questione chiarisce che il congedo in esame può essere fruito a decorrere dal 5 marzo “da uno solo dei genitori oppure da entrambi, ma non negli stessi giorni e sempre nel limite complessivo (sia individuale che di coppia) di 15 giorni”

Esso può essere fruito sia continuativamente che in via frazionata con la possibilità per il genitore di alternare la fruizione del congedo sia con l’attività lavorativa che con altri congedi o permessi con esso compatibili.

Ha spiegato l‘INPS che i permessi in questione spettano “per nucleo familiare e non per ogni figlio” intendendosi per nucleo familiare quello composto dai soggetti presenti nello stato di famiglia.

I coniugi separati o divorziati

Per quanto riguarda i coniugi separati o divorziati l’Istituto Previdenziale ha precisato che, qualora gli stessi continuino a risiedere nella stessa casa, essi vengano considerati appartenenti allo stesso nucleo familiare anche se iscritti in due stati di famiglia diversi.

Precisa infatti l’Istituto che “affinchè i coniugi separati o divorziati siano considerati due nuclei familiari diversi è necessario che essi abbiamo due diverse residenze oppure sia stato disposto l’affido esclusivo del minore ad uno solo dei genitori”. In tal caso potrà beneficiare del congedo solo il genitore con l’affido esclusivo “a prescindere dalla causale di assenza dell’altro genitore”

Inoltre l’Inps ha colto l’occasione per ribadire ulteriormente che per poter usufruire di tale misura i genitori devono esser in costanza di rapporto di lavoro[1]: il genitore potrà beneficiare di tale misura, infatti, solo nel caso in cui l’altro genitore lavori.

Tale misura pertanto non spetta qualora l’altro genitore non lavori o sia disoccupato intendendosi per tale il soggetto che rilascia la DID e che soddisfi alternativamente uno dei seguenti requisiti:

  • Non svolga attività lavorativa né di tipo subordinato né autonomo;
  • Sia lavoratore il cui reddito da lavoro dipendente o autonomo corrisponde ad un’imposta lorda pari o inferiore alle detrazioni spettanti ai sensi dell’art.13 del TU delle imposte sui redditi di cui al DPR n.917/1986 (pari rispettivamente a 8.145 euro e a 4.800 euro).

Inoltre chiarisce l’INPS che non sarà possibile usufruire del permesso in parola qualora l’altro genitore sia beneficiario degli ammortizzatori sociali quali la cassa integrazione guadagni, la NASPI, la CISOA, il reddito di cittadinanza e via discorrendo.

Casi di compatibilità.

L’Istituto previdenziale ha spiegato con il summenzionato messaggio che il congedo in esame può essere fruito anche qualora l’altro genitore:

  1. sia in malattia stante l’impossibilità per lo stesso di potersi occupare del bambino;
  2. sia in smart working stante l’impossibilità per lo stesso di poter accudire i figli;
  3. sia in ferie nello stesso giorno in cui l’altro usufruisce del congedo da covid-19.
  4. sia in aspettativa non retribuita (in quanto detta aspettativa determina solo una sospensione e non un’interruzione del rapporto di lavoro);
  5. sia a part-time e abbia un lavoro intermittente in quanto come chiarito dall’INPS “sia il lavoratore part- time che il lavoratore intermittente hanno un valido rapporto di lavoro e non sono, dunque, né disoccupati né inoccupati”
  6. abbia chiesto l’indennità Covid-19 (il bonus da 600 euro).

Casi di incompatibilità

Il congedo parentale straordinario 2020 invece non può essere fruito:

da parte di entrambi i genitori nello stesso giorno: nel caso di presentazione di più istanze di congedo covid-19 da parte di entrambi i genitori per lo stesso periodo, l’Istituto chiarisce che verrà accolta la richiesta cronologicamente presentata per prima.

 Esso inoltre è incompatibile:

  • con il voucher baby sitting che sono pertanto da considerarsi alternativi ai congedi in parola;
  • con i permessi di allattamento ex art.19 e 20 del dlgs n.151/2001;
  • con la fruizione del congedo parentale ordinario ex art. 32 dlgs n.151/2001 negli stessi giorni e per lo stesso figlio;
  • con la cessazione del rapporto di lavoro o dell’attività. A tal uopo l’Istituto precisa che “qualora la cessazione intervenga durante la fruizione di un periodo di congedo COVID-19 richiesto, la fruizione si interromperà con la cessazione stessa del rapporto di lavoro e le giornate successive non saranno computate né indennizzate. L’incompatibilità sussiste anche nel caso in cui l’altro genitore appartenente al nucleo familiare cessi l’attività o il rapporto di lavoro”. Ciò in quanto come precisato in precedenza per poter godere della misura in esame è necessario, che entrambi i genitori siano in costanza di rapporto di lavoro e che vi sia l’effettiva necessità per i genitori di accudire la prole.

Infine si rammenta che i congedi COVID-19 non sono infine cumulabili con la fruizione degli ammortizzatori sociali quali ad esempio la Cassa integrazione ordinaria, Cassa integrazione straordinaria, cassa integrazione in deroga, l’assegno ordinario, la CISOA, NASPI e DIS-COLL.

Messaggio INPS n.1648 del 16 aprile 2020.

L’INPS con il successivo messaggio del 16 aprile ha prorogato i congedi in parola fino al 3 maggio pv.

 inizialmente detti congedi potevano essere fruiti fino al 3 aprile us. Successivamente con il messaggio del 7 aprile us l’Istituto aveva esteso la fruizione dei congedi in esame fino al 13 aprile in considerazione della successiva proroga della chiusura della scuola fino a tale data.

Con il messaggio n.1648 è arrivata la proroga dei congedi in questione fino a 3 maggio. Ciò in considerazione dell’ulteriore proroga della chiusura delle scuole di ogni ordine e grado disposta dal DPCM de 10 aprile us fino al prossimo 3 maggio.

Quindi i genitori lavoratori potranno beneficiare di un periodo massimo di 15 giorni al 50% della retribuzione per il periodo dal 5 marzo fino al 3 maggio purché ricorrano le condizioni illustrate in precedenza.

NOTE

[1] Vedi sul tema Annunziata Staffieri, “Congedo parentale straordinario 2020: come funziona”, in Giuricivile, 2020, 3 (ISSN 2532-201X).

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D.l. “Liquiditá imprese”: cassa integrazione per covid-19 anche per i neoassunti e gli stagionali

Avv. Annunziata Staffieri

Sulla Gazzetta Ufficiale dell’8 aprile 2020 è stato pubblicato il decreto-legge n.23/2020 noto come Decreto “Liquidità imprese” recante “Misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di potere speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga dei termini amministrativi e processuali”
Al fine di fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid-19 infatti l’Esecutivo guidato dal Premier Conte ha adottato un ventaglio di misure a tutela delle PMI quali ad esempio la concessione di prestiti garantiti dallo Stato, il potenziamento del fondo di garanzia, il credito di imposta per l’acquisto di mascherine, la proroga dei termini processuali ed il rinvio delle scadenze dell’IVA e di ulteriori tasse e contributi.
Ma vi è di più! Tra le varie novità introdotte dal recente decreto “Liquidità Imprese” varato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 6 aprile meritano di essere ricordate anche due importanti news in tema di ammortizzatori sociali: l’estensione della cassa integrazione guadagni anche ai neoassunti e l’eliminazione dell’imposta di bollo per coloro che intendono beneficiare della cassa integrazione in deroga
L’art 41 del decreto-legge “Liquidità imprese” dispone che “Le disposizioni di cui all’articolo 19 del decreto legge 17 marzo 2020, n.18, si applicano anche ai lavoratori assunti dal 24 febbraio 2020 al 17 marzo 2020.
Le disposizione di cui all’articolo 22 del decreto-legge 17 marzo 2020, n.18 si applicano anche ai lavoratori assunti dal 24 febbraio 2020 al 17 marzo 2020, n.18.”
Grazie a tale disposizione vengono, pertanto, estese anche ai neoassunti le tutele apprestate in precedenza dal decreto “Cura Italia” in tema di cassa integrazione.
Giova infatti rammentare che in base al decreto “Cura Italia” potevano, infatti, accedere alla cassa integrazione ordinaria e alla cassa integrazione in deroga solo i lavoratori assunti prima del 23 febbraio 2020.
E’ evidente che una cospicua fetta di lavoratori restavano pertanto prive di garanzie.
Al fine di tutelare anche i neoassunti il Consiglio dei ministri con il recente decreto “Liquidità Imprese“ ha colmato anche tale lacuna.
Potranno accedere agli ammortizzatori sociali pertanto anche gli stagionali e più in generale coloro che operano nel settore del turismo oppure dell’agricoltura in precedenza esclusi da tale misura.
Conseguentemente anche costoro avranno la possibilità di beneficiare, già a partire da metà aprile, dell’anticipo della cassa integrazione da parte delle banche grazie alla convenzione siglata a Roma lo scorso 30 marzo tra l’attuale Ministro del Lavoro e delle politiche sociali, Nunzia Catalfo, l’associazione bancaria italia (A.B.I), i sindacati e le associazioni datoriali.
Grazie ad una apertura di conto verrà pertanto erogato a tali soggetti la somma forfettaria pari a €1400 parametrata a 9 settimane di sospensione a zero ore.
Naturalmente tale importo dovrà essere riparametrato in caso di durata inferiore della cassa integrazione oltre che in caso di contratto di lavoro a tempo parziale.
Ma vi è di più! Con il recente decreto-legge il Governo Conte, in un’ottica di semplificazione delle procedure, ha abolito anche il pagamento dell’imposta di bollo tradizionalmente richiesta alle aziende, agli imprenditori ed ai professionisti all’atto della presentazione dell’istanza di cassa integrazione in deroga.
Le domande vanno presentate all’INPS secondo le modalità indicate nelle circolari del predetto Istituto previdenziale n.38 del 12 marzo 2020 e n.47 del 28 marzo 2020.
Infine, per completezza, si segnala la recente circolare n.8 dell’8 aprile 2020 con la quale il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha fornito ulteriori istruzioni operative in tema di ammortizzatori sociali introdotti dal decreto “io resto a casa” e dal successivo decreto “Cura Italia”
Come precisato dal dicastero del Welfare le istanze di cassa integrazione devono essere corredate:
– Dall’accordo sindacale come previsto dal comma 1 dell’art.1 del DL n.1872020 salvo il caso in cui il datore non abbia alle proprie dipendenze più di 5 dipendenti;
– L’elenco nominativo dei dipendenti interessati dalla sospensione o dalla riduzione di orario dal quale emerga la quantificazione totale delle ore di sospensione con il relativo importo;
– Dati dell’azienda (denominazione, natura giuridica, indirizzo della sede legale, numero matricola INPS, i dati anagrafici del legale rappresentante);
– La causale di intervento per l’accesso al trattamento di integrazione salariale;
– Il nominativo del referente della domanda con l’indicazione di un recapito telefonico e di un indirizzo e-mail;
– Dati relativi alle unità aziendali che fruiscono del trattamento.

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Guida operativa alla lettura delle disposizioni in materia di Giustizia del d.l. n. 18/2020 a cura dell’OCF

GUIDA OPERATIVA ALLA LETTURA DELLE DISPOSIZIONI IN MATERIA DI GIUSTIZIA DEL D.L. N. 18/2020 A CURA DELL’UFFICIO DI MONITORAGGIO LEGISLATIVO DELL’OCF

Il D.L. 17.03.2020 n. 18, accanto alle previsioni di natura economica, contiene diverse norme che incidono sull’organizzazione della giustizia e sulla disciplina processuale, modificando o, a seconda dei casi, chiarendo quanto già previsto in materia – con soluzioni, a dire il vero, non sempre cristalline e perspicue – dai decreti-legge nn. 9 e 11 del 2020. Con la presente guida operativa s’intende fornire ai colleghi un primo strumento d’orientamento, rispetto a questo nuovo assetto giuridico della professione forense ai tempi dell’emergenza.

Per leggere tutto il testo:

Guida operativa d.l. 18 2020