Riceviamo dalla Fondazione Lelio Basso e con piacere pubblichiamo il seguente contributo dell’ultimo numero monografico
del bollettino periodico del Laboratorio sui Diritti Fondamentali (www.labdf.eu), prodotto in collaborazione con
l’Osservatorio sui diritti fondamentali in Europa (www.europeanrights.eu) e pubblicato nel
citato sito labdf.
LABORATORIO DIRITTI FONDAMENTALI In collaborazione con l’Osservatorio sul rispetto dei diritti fondamentali in Europa |
REDDITO MINIMO GARANTITO:
IL DIRITTO AD UNA VITA LIBERA E DIGNITOSA Il Reddito Minimo Garantito ha già una lunga storia non solo in Europa e ha assunto Sommario: Premesse definitorie – La “costituzionalizzazione” del RMG nell’Unione europea – Il RMG come policy europea. I caratteri del diritto – L’Italia nel contesto europeo.
Premesse definitorie Con reddito minimo garantito (nel lessico dei documenti ufficiali dell’Unione europea) si intende l’attribuzione ad un cittadino di uno Stato (e, a certe condizioni, anche al residente stabile in quel paese), che non disponga di redditi adeguati, di risorse monetarie sufficienti per condurre un’esistenza libera e dignitosa. Hanno funzioni e presupposti analoghi istituti variamente denominati come reddito minimo di inserimento, reddito di solidarietà attiva, reddito di sussistenza, l’RMI (revenu minimum d’insertion), ecc. Tutte queste forme di sostegno a persone in difficoltà condividono la caratteristica di non essere universali, in quanto presuppongono una situazione di concreto bisogno e, in genere, sono condizionate in vario modo, dall’obbligo di seguire corsi di formazione o di stipulare patti di reinserimento con i servizi sociali o con quelli di collocamento, sino al dovere di accettare offerte di lavoro disponibili. Per queste ragioni tali istituti si differenziano dall’idea del reddito di cittadinanza o reddito di base (basic income) che prevede, più radicalmente, l’attribuzione di risorse (adeguate per una vita libera e dignitosa) ai cittadini che compongono una determinata comunità politica (e ai residenti stabili in tale comunità), indipendentemente dalla loro condizione economica sociale ed occupazionale: pertanto il “ reddito di base” è per definizione universale (anche se nei limiti di una entità politica data, entità che potrebbe anche essere identificata in strutture sovra-nazionali come l’Unione europea) e incondizionato. Un vero e proprio reddito di cittadinanza – RDC- (anche se dall’importo piuttosto modesto di 2.000 dollari annui) è riconosciuto nel solo stato Usa dell’Alaska finanziato dai profitti petroliferi e vanta il solo altro precedente trentennale della città di Berlino (in Svizzera si svolgerà a breve un referendum propositivo sul tema). La diversa misura del reddito minimo garantito- RMG- costituisce una significativa istituzione molto diffusa a livello europeo (come si dirà in parte ormai “costituzionalizzata” a livello dell’Ue) e tendenzialmente assunta nel mondo da un numero crescente di Stati, tra cui – soprattutto – alcuni dei cosiddetti Brics, come India, Sudafrica e Brasile. Nel dibattito politico, soprattutto italiano, che ignora entrambe le misure, normalmente le due prospettive sono tra loro confuse e si parla di reddito di cittadinanza anche per intendere misure per contrastare l’esclusione sociale e la diffusione della povertà, rivolte a coloro che versano in stato di bisogno. Tuttavia questa confusione di termini è in parte giustificata in quanto anche quest’ultimi provvedimenti mirano, comunque, a rafforzare la coesione e la solidarietà sociale e quindi a rafforzare il legame tra cittadini, impendendo che, con la creazione di una sottoclasse di disoccupati stabili e/o di emarginati, vengano alterati il gioco democratico e l’effettiva partecipazione alla sfera pubblica. In quest’ottica, pur essendo il RMG generalmente connesso – soprattutto in Europa – alle politiche di occupazione e crescita, si richiama a quella tradizione di pensiero, di natura eminentemente filosofica o di teoria politica, che ha cercato di definire i presupposti, anche di ordine sociale, di una società giusta e partecipativa. E’ però importante, a parte la questione definitoria, chiarire che attualmente nell’agenda politica globale è iscritta (ed in parte già realizzata) la garanzia dell’accesso al soddisfacimento dei bisogni primari per coloro che sono a rischio di esclusione sociale, tema sul quale sembra essersi raggiunto un consenso internazionale piuttosto ampio. L’espressione ius existentiae, spesso usata nella letteratura sull’argomento, riassume in senso atecnico, la prospettiva di un diritto originario di ogni partecipante a una società di poter contribuire al benessere generale, senza essere emarginato e privato dei mezzi elementari di sussistenza, prospettiva che il Presidente Rooselvelt condensava nello slogan “ freedom from want”. La “costituzionalizzazione” del RMG nell’Unione europea Prescindendo dalle esperienze storiche di “sostegno” sociale ai cittadini, conosciute sin dall’antichità (i riti dei pranzi sociali a Sparta e Atene o le distribuzioni di grano nella Roma repubblicana), rinnovate dalle città libere medioevali e in epoca moderna dalla Comune di Parigi, la letteratura è concorde nel rintracciare il primo riconoscimento del diritto (dopo gli accenni nella Costituzione giacobina del 1793 al “sacro diritto ai soccorsi” o in quelle della Repubblica Cisalpina e Cispadana sul “ dovere di alimentare i bisognosi”) nell’art. 151 della Costituzione di Weimar che stabiliva che “l’ordinamento della vita economica deve garantire a tutti un’esistenza degna”. Importanti sono alcune disposizioni della Dichiarazione universale del 1948: l’art. 22 prevede che “ogni individuo, in quanto membro della società ha diritto alla sicurezza sociale, nonché alla realizzazione, attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale e in rapporto con l’organizzazione di ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità”; l’art. 25 sancisce a sua volta che “ogni individuo ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della propria famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà”. Ancora l’art. 11 del Patto ONU sui diritti economico-sociali del 1966 stabilisce che “gli Stati parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo a un livello di vita adeguato per sé e per la propria famiglia”. In Europa con il diffondersi di Costituzioni che assegnano alla tutela della dignità della persona il ruolo di architrave dell’intero impianto costituzionale (anche la Dichiarazione del 1948 rispecchia questa tendenza), il tema della garanzia di un “minimo vitale” per tutti i cittadini viene progressivamente individuato come necessaria conseguenza di una società che non può tollerare situazioni permanenti di emarginazione e esclusione sociale. Alcuni paesi sperimentano quindi già nel dopoguerra (ad esempio la Svizzera o i paesi scandinavi) forme di reddito minimo garantito sulla base del principio costituzionale di “pari dignità sociale” di ciascun cittadino, saldandolo alla più generale rete di protezione connessa all’erogazione di servizi sociali essenziali, come l’istruzione o la salute ed alle altre provvidenze del welfare state. Tuttavia questo beneficio, all’epoca e sino agli anni 80, appariva come una misura eccezionale, posto che le politiche keynesiane del pieno impiego ed anche le caratteristiche della produzione fordista assicuravano una vastissima partecipazione al mondo del lavoro, condivisa dalla forza lavoro femminile, connotata anche da stabilità d’impiego. In questo contesto il RMG sembrava dover riguardare solo eccezionali fenomeni di marginalità sociale (in genere radicati solo in settori di sottosviluppo localizzati) o situazioni di crisi economica contingenti, destinate ad essere superate nel tempo. Solo negli anni ‘90 il RMG diverrà, soprattutto in Europa, anche una componente delle “politiche di crescita e sviluppo” e si individuerà con maggiore precisione il rapporto tra disoccupazione e sostegno al reddito. Andando per ordine, misure di RMG si diffondono rapidamente soprattutto nel Nord Europa, ivi comprese Gran Bretagna e Irlanda, più tardi si aggiunge la Francia con il governo di Mitterand diventando quindi la “norma” dei paesi della Comunità europea. Una prima sanzione a livello continentale, ancora piuttosto imperfetta, si ha con la Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali del 1989, che all’art. 10 dispone “le persone escluse dal mercato del lavoro o perché non hanno potuto accedervi o perché non hanno potuto reinserirvisi e che sono prive di mezzi di sostentamento, devono poter beneficiare di prestazioni e di risorse sufficienti adeguate alla loro condizione personale”; la Carta sociale europea (revisionata a Torino nel 1996) all’art. 30 invece recita “Diritto alla protezione contro la povertà e l’emarginazione sociale. Per assicurare l’effettivo esercizio del diritto alla protezione contro la povertà e l’emarginazione sociale, le parti si impegnano; a) a prendere misure nell’ambito di un approccio globale e coordinato per promuovere l’effettivo accesso al lavoro, all’abitazione, alla formazione professionale, all’insegnamento, alla cultura, all’assistenza sociale e medica delle persone che si trovano o rischiano di trovarsi in situazione di emergenza sociale o di povertà e delle loro famiglie”. Queste norme sono state a loro volta le fonti della successiva, assai più importante, formalizzazione della misura come “diritto fondamentale” nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza nel 2000 e resa vincolante con il Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1.12.2009. La Carta Ue all’art. 34, terzo comma, dispone che “al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale ed abitativa volto a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti”. Si tratta di una disposizione molto più chiara e felice sul piano espressivo rispetto alle sue fonti: è reso evidente il nesso strettissimo tra la garanzia di un’esistenza dignitosa per tutti e l’attribuzione di risorse a chi ne è privo, che devono essere comunque “ sufficienti” in relazione al fine perseguito. Proprio la Carta si apre con il principio dell’inviolabilità della dignità umana e le “Spiegazioni ufficiali” alla Carta specificano che “ la dignità della persona umana non è soltanto un diritto fondamentale in sé, ma costituisce la base stessa dei diritti fondamentali”. In questa chiave il RMG non è un sussidio di povertà, ma un sostegno adeguato per un cittadino che vanta il diritto di partecipare pienamente alla vita della comunità cui appartiene: il destinatario è il singolo in quanto tale (e non la sua famiglia) che viene in considerazione come individuo di per sé e non solo (come nella Carta comunitaria) come lavoratore escluso dal mercato. La Carta dei diritti fondamentali dell’UE riconosce la misura come un diritto, giustiziabile in linea di principio avanti i giudici ordinari e la Corte di giustizia, mentre sulle disposizioni della Carta sociale europea vi è solo un monitoraggio affidato al Comitato economico-sociale del Consiglio d’Europa e – sino ad oggi – sul piano giurisdizionale sono state poco significative le norme della Carta comunitaria del 1989. Tuttavia la Carta dei diritti Ue presuppone (cfr. art. 51), per l’applicabilità delle sue norme, che il caso esaminato presenti una qualche connessione con il diritto dell’Unione, situazione questa, per quanto riguarda il RMG, difficile da verificarsi posto che- allo stato- non hanno avuto successo i tentativi di adottare una direttiva in materia. La Corte di giustizia ha, ad esempio, richiamato più volte questo diritto sociale fondamentale (anche con riferimento all’art. 34 della Carta nella sentenza Kamberay del 14.4.2012), ma solo per stabilire la legittimità delle condizioni di accesso stabilite dagli Stati, precisando- ad esempio- quando si può affermare che un lavoratore comunitario migrante in altro Stato perda il diritto a godere del beneficio o se sia legittimo stabilire requisiti di anzianità di residenza troppo severi che potrebbero discriminare lavoratori che hanno esercitato il loro diritto alla libertà di circolazione. Pertanto il controllo della Corte di giustizia è limitato al profilo della non discriminazione da parte di uno Stato di soggetti che legittimamente lavorano sul suo territorio; in difetto di una direttiva un cittadino europeo non può chiedere che uno Stato inadempiente (come oggi sono solo la Grecia e l’Italia) assicuri questa misura, né può sindacare le scelte nazionali assumendo che non sono coerenti con la Carta dei diritti Ue. Il RMG potrebbe, forse, essere oggetto in futuro di un’interpretazione “evolutiva” del diritto alla vita contemplato all’art. 2 della Carta dei diritti Ue e all’art. 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Corte interamericana dei diritti dell’uomo ( nata su imitazione di quella di Strasburgo e che agisce sulla base di una Convenzione simile a quella europea del 1950) è giunta a stabilire in alcune decisioni che oggi il diritto alla vita contempla anche l’accesso alla soddisfazione di bisogni primari e che gli Stati hanno una obbligazione “positiva” in questo senso, non essendo ammissibile che i cittadini siano lasciati in situazioni di totale indigenza. La Corte di Strasburgo non è giunta a dare una interpretazione simile della norma, ma si è da tempo orientata ad affermare che il diritto alla vita, che gli Stati sono tenuti a garantire, può essere messo in pericolo da condizioni di estrema indigenza. Va poi osservato che il diffondersi dell’istituto non è fenomeno europeo, ma globale. L’esperienza più significativa è la “bolsa social” brasiliana, una sorta di reddito di sussistenza corrisposto a circa 34 milioni di brasiliani e condizionato al solo obbligo, per i beneficiari che siano anche genitori, di mandare i figli alla scuola dell’obbligo (la bolsa ha così comportato una drastica riduzione del tasso di dispersione scolastica). Ma il diritto a un “reddito di esistenza” è stato riconosciuto anche da Corti sudafricane e da varie Corti sudamericane; forme di RMG sono contemplate anche da numerosi Stati dell’India. Sono proprio questi paesi, che si stanno imponendo come protagonisti new-comers nella scena economica planetaria, che mostrano di non poter rinunciare ad uno strumento, difficilmente sostituibile, di mantenimento della coesione e della solidarietà sociale. Il RMG come policy europea. I caratteri del diritto Pur non avendo mai esercitato una competenza normativa in materia, l’Unione ha da tempo individuato il RMG come una propria policy da connettersi strettamente alle altre politiche occupazionali e di crescita che i Trattati contemplano da decenni e, molto più chiaramente, da quanto il Trattato di Amsterdam ha introdotto un capitolo sociale ad hoc. Gli strumenti adottati per realizzare queste politiche sono, però, in genere quelli propri del metodo di coordinamento aperto e cioè atti di indirizzo, raccomandazioni, scambio di informazioni e promozione di best practices per raggiungere gli obiettivi comunemente stabiliti. Poco prima dell’inizio dei negoziati che portarono all’approvazione del Trattato di Maastricht, l’allora Presidente della Commissione europea Jacques Delors tentò di far approvare una Direttiva che obbligasse tutti gli Stati ad adottare schemi di RMG, ma senza riuscirvi. L’idea dell’insigne politico socialista era quella di coniugare l’intensificazione dei legami economici tra i paesi membri con l’approntamento di standards minimi di trattamento di natura sociale, sì da impedire il pericolo di un social dumping tra paesi membri, cioè una concorrenza sleale nell’abbassare le tutele sociali al fine di attirare gli investimenti. Si riuscì, tuttavia, a emanare una storica raccomandazione, la n. 441/92, che ancora rappresenta un punto di riferimento essenziale in materia. La Raccomandazione (reiterata sostanzialmente nel 2008 in piena crisi economica, valorizzando il RMG anche come mezzo per tenere alti i consumi in funzione anticiclica) invita tutti gli Stati ad introdurre questo istituto ed offre precisi paradigmi di ordine quantitativo e qualitativo per determinarne i contorni precisi. Il RMG non può essere inferiore al 60% del reddito mediano da lavoro dipendente valutato per ciascuno Stato; oltre all’erogazione monetaria il beneficiario deve essere eventualmente sostenuto nelle spese per l’affitto e aiutato con forme di tariffazione agevolata nell’accesso ai servizi pubblici essenziali (luce, gas ecc.); infine anche per le spese impreviste ed eccezionali serve un aiuto pubblico in quanto il soggetto povero o a rischio di esclusione sociale si troverebbe nell’impossibilità di coprirle. Servizi sociali e servizi per l’impiego devono accompagnare le persone assistite in un percorso di reinserimento. Nel 2000 viene poi inaugurata la Lisbon Strategy diretta ad integrare le politiche di crescita e sviluppo con quelle sociali e di contrasto dell’esclusione sociale; nasce il metodo aperto di coordinamento (MAC) con il quale si intende indirizzare gli Stati, con strumenti legali a carattere non vincolante, verso il perseguimento di fini ritenuti comuni, valorizzando le esperienze nazionali ritenute più efficaci. Da quel momento, sui temi dell’assistenza sociale il MAC promuove come best practices proprio le esperienze dell’Europa del Nord nelle quali (dopo i grandi negoziati sociali degli anni ‘90 in Svezia, Danimarca, Olanda, Belgio, ecc.) il reddito minimo garantito è diventato il fulcro di politiche cosiddette di flexicurity, che tendono ad assicurare al singolo una continuità di reddito e di protezione sociali nel mutato contesto del mercato del lavoro, connotato ormai da una crescente flessibilità, accompagnata da un’alta disoccupazione strutturale. Il RMG diventa così appannaggio del cittadino lavoratore che alle classiche tutele “nel contratto” può aggiungere quelle “nel mercato”, nelle transizioni da un posto di lavoro a un altro o nei periodi di disoccupazione. L’RMG viene visto anche come base di una certa autodeterminazione lavorativa in quanto consente al soggetto di rifiutare sub-lavori degradanti e mal pagati, “indecenti”. Nel dicembre del 2007 il Consiglio dei Ministri dell’occupazione dell’Unione europea vara gli 8 principi di flexicurity che racchiudono in sintesi l’elaborazione dei vari MAC in materia sociale e che dovrebbero da quel momento ispirare le politiche interne, consentendo monitoraggi più precisi e, eventualmente, anche interventi della Commissione. In questo storico Documento il RMG è più volte richiamato come uno dei tre pilastri della flexicurity europea (insieme alla formazione permanente e continua ed al libero accesso a gratuiti ed efficienti servizi dell’impiego, previsti come autonomi diritti anche nella Carta dei diritti Ue). Nel 2010 la Lisbon Strategy è stata sostituita con la “Strategia 20-20” che introduce uno specifico obiettivo di ordine sociale e cioè la riduzione del tasso di povertà di almeno 20% in dieci anni: una vasta letteratura ed anche Documenti della Commissione sottolineano che lo strumento giuridico per perseguire questo obiettivo è il RMG, senza il quale appare difficile se non impossibile raggiungere l’area del disagio sociale acuto e permanente. Assai importante nel precisare i contorni del RMG è la Risoluzione del Parlamento europeo del 21.10.2010 approvata con 540 voti a favore e 19 contro, che ha riaffermato la centralità di questo strumento per la coesione continentale e per fronteggiare la crisi economica internazionale. Il Parlamento ha invitato tutti gli Stati che ne sono ancora privi, ad introdurre con urgenza tale diritto e tutti gli altri a mantenersi nei parametri quantitativi e qualitativi già indicati dalle due raccomandazioni del 1992 e del 2008 della Commissione. Inoltre si è ricordato che il RMG è un diritto sociale fondamentale, diretto a tutelare la dignità di ogni persona residente in via stabile nel territorio dell’Unione e che le modalità con cui tale diritto viene assicurato devono essere coerenti con tale finalità: sono pertanto inammissibili forme di erogazione che stigmatizzano l’individuo sottoponendolo a costrizioni e controlli irrazionali, che possono distruggere l’autostima e l’autodeterminazione del soggetto “ in carico” facendolo apparire come un parassita, inutile per il benessere della collettività. Da ultimo va ricordata la sentenza del Tribunale costituzionale tedesco del 9.2.2010, molto limpida nel tracciare le caratteristiche del RMG chiamato “reddito minimo adeguato a una vita dignitosa”, che ha dichiarato parzialmente incostituzionale il cosiddetto sistema Hartz IV , introdotto nel 2005, che raggruppa gli aiuti sociali e gli assegni di disoccupazione. Secondo il Giudice delle leggi tedesco quel sistema non soddisfa pienamente gli artt. 1 (“la dignità dell’uomo è intangibile”) e 20 (“La Repubblica federale tedesca è uno stato federale democratico e sociale”) della Costituzione tedesca, letti in connessione tra loro. Il diritto a un RMG (o reddito di esistenza) – spiega la Corte -“garantisce ad ogni persona bisognosa le condizioni materiali indispensabili per la sua esistenza e un minimo di partecipazione alla vita sociale, culturale e politica. Oltre al diritto che deriva dall’art. 1.1. della Legge fondamentale di rispettare la dignità di ogni individuo, che ha effetto assoluto, questo diritto fondamentale ha, in relazione all’art. 20, un significato autonomo quale diritto di garanzia. Tale diritto non è soggetto a quanto dispone il parlamento e deve essere onorato: tuttavia gli si deve dare forma concreta e inoltre deve essere regolarmente aggiornato”. Pertanto la Corte ha ritenuto non affidabili i parametri seguiti per dimostrare l’idoneità dei “minimi vitali” stabiliti per legge, a salvaguardare la dignità dei cittadini protetti ed ha stigmatizzato l’assenza di misure per coprire le spese impreviste ed eccezionali delle persone assistite. Per concludere, l’intenso dibattito europeo e l’insieme delle iniziative adottate da organi dell’Unione e dagli Stati per assicurare un RMG a persone a rischio di esclusione sociale rendono oggi più chiaro anche dal punto di vista sociologico chi siano i beneficiari del diritti: a) disoccupati che non riescono a rientrare nel mercato del lavoro; b) persone in difficoltà nelle cosiddette transizioni lavorative; c) giovani in cerca di prima occupazione; d) soggetti emarginati, da tempo esclusi dalla attività produttive per problemi familiari, psicologici o anche connessi all’estrema povertà dell’ambiente in cui vivono. A questi oggi si devono aggiungere anche e) i precari ed i sottooccupati (mini-jobs) che non riescono a ricavare dall’attività un reddito “decente” che in moltissimi paesi viene “integrato” dal RMG sino al raggiungimento di una soglia adeguata (anzi, in molti paesi si consente che tale soglia sia di poco superata attraverso il sussidio statale, per incentivare i soggetti a mantenere la propria occupazione). L’Italia nel contesto europeo Il quadro europeo mostra una varietà notevole di schemi di RMG sia nelle entità (che comunque devono essere parametrate sui livelli di reddito di ciascun paese), sia riguardo le condizioni di erogabilità. In genere vi è l’obbligo di accettare offerte di lavoro, anche se i paesi più avanzati a livello sociale dell’Europa del Nord prescrivono che tali offerte siano coerenti con il bagaglio professionale acquisito e con il livello di reddito precedentemente garantito, anche in ossequio al diritto internazionale e cioè alla Convenzione OIL n. 168/1988, applicabile per analogia, che impedisce di condizionare l’indennità di disoccupazione al dovere di accettare offerte di lavoro che non abbiano le caratteristiche prima indicate. E’ altresì diffuso l’obbligo per il sussidiato di seguire corsi di formazione professionali o percorsi di reinserimento concordati con gli uffici pubblici competenti; nei paesi più avanzati si consente ai soggetti un’ampia scelta anche tra istruzione superiore e/o universitaria, attività volontaria, di cura etc. in modo da consentire alla persona di trovare il “ proprio” modo di partecipare al benessere generale. Nei paesi che hanno inventato e praticato per primi il modello di “flexicurity” (paesi scandinavi, Olanda, nei quali l’entità del RMG può essere anche di una certa rilevanza, sino oltre 1.500 euro mensili in caso di famiglie con figli minori), il RMG è agganciato al sistema di protezione contro la disoccupazione in generale. Chi si trova a perdere il lavoro percepisce – a carico dei medesimi servizi per l’impiego -che sono in genere cogestiti dalle parti sociali- una indennità di disoccupazione che può durare alcuni anni (Danimarca o Svezia; in Danimarca 4 anni ora ridotti a 3, con una indennità pari al 90% dell’ultima retribuzione, ora ridotta all’80%); se il soggetto non ritrova occupazione (ipotesi assai rara) in tale periodo, percepisce poi il RMG (che in quasi tutti i paesi europei non ha scadenza e dura sino a quando persiste la situazione di rischio di esclusione sociale). Coloro invece che non sono tecnicamente disoccupati, se hanno un reddito non sufficiente, godono immediatamente del RMG. Oggi anche Belgio, Germania ed Austria hanno un sistema simile in quanto unico è il sistema che protegge dalla disoccupazione e dall’emarginazione. In Francia vige invece il Revenu de solidarieté active (RSA) (circa 1200-1300 euro mensili), piuttosto generoso, anche se condizionato strettamente alla formazione ed al reinserimento dei soggetti presi in carico dall’amministrazione pubblica. L’Italia e Grecia sono gli unici paesi dell’Ue a essere privi di una misura del genere; qualche tentativo è stato fatto nel nostro paese, ma senza successo. Il primo Governo Prodi varò in via sperimentale il Reddito minimo d’inserimento (RMI) in alcune zone particolarmente disagiate del paese (soprattutto del Sud-Italia): l’RMI era pari a lire 390.000 dell’epoca. Tuttavia l’esperimento non è stato proseguito. Nel 2003 la Corte costituzionale, con la sentenza n. 10/2003, ha bocciato l’ipotesi di istituzione di un reddito di ultima istanza per violazione delle competenze regionali in materia di assistenza sociale. Da quel momento “in vista della riforma organica degli ammortizzatori sociali” alcune Regioni hanno attuato forme di sperimentazione locale, prima la Campania (che ha chiamato Reddito di cittadinanza la misura introdotta), poi la Regione Friuli Venezia Giulia, quindi il Lazio e la Provincia di Trento. Le prime due sperimentazioni sono cessate, la legge del Lazio è stata de-finanziata anche se è ancora formalmente in vigore, l’ultima è ancora operativa. La letteratura sull’argomento concorda sul fatto che un provvedimento nazionale dovrebbe, ai sensi dell’art. 117 della Costituzione, definire i livelli essenziali della prestazione (previo accordo con le Regioni), lasciando a quest’ultime ed anche agli altri Enti locali il compito di erogare servizi e benefici ulteriori. Pertanto, salvo i residenti in Trento e Provincia, i cittadini italiani privi dei mezzi elementari di sussistenza, nonostante i molteplici richiami della Commissione europea e del Comitato economico sociale del Consiglio d’Europa, sono privi di un sostegno che assicuri il loro diritto ad una esistenza libera e dignitosa. Gli ultimi Governi hanno solo elaborato varie forme di social card e cioè forniture sostanzialmente a carattere alimentare (alcune gestite direttamente da “enti caritativi”) a persone in situazione di assoluta indigenza; una recentissima forma di social card in via sperimentale eroga anche qualche briciola in più, ma solo in determinate zone e a persone che versano in situazioni di straordinaria deprivazione materiale e familiare (basterà pensare che per questa social card sono stati stanziati 350 milioni di euro, mentre alla Francia il Revenu de solidarité active costa circa 14 miliardi l’anno, pur non essendo tale paese tra coloro che investono di più sul “capitale umano”). La situazione appare ancor più grave se consideriamo il grado di scarsa copertura del sistema interno di ammortizzatori sociali che non arriva a coprire idoneamente –persino per una indennità prevista costituzionalmente come quella di disoccupazione- lavoratori precari, lavoratori autonomi “etero-diretti” e varie forme di lavoro flessibile . Una Commissione di esperti recentemente riunitasi sotto l’impulso del Ministro per il welfare Giovannini ha elaborato una proposta di SIA (sostegno per l’inclusione attiva) che, stante la modestia dei fondi previsti, certamente non potrebbe essere coerente con i parametri europei che -come abbiamo visto – sono molto precisi, almeno dal punto di vista quantitativo. Peraltro il SIA, contrariamente a quanto previsto dalla Carta dei diritti UE, ha come punto di riferimento la famiglia e i suoi redditi e non la persona ed i suoi bisogni. In conclusione va ricordato che le ultime statistiche sovranazionali indicano che l’Italia, sui 28 Stati dell’Unione, ha il più forte tasso di incremento di persone a rischio di esclusione sociale, che possono contare, cioè, su un reddito inferiore alla soglia del 60% del reddito mediano da lavoro dipendente ( nel nostro paese meno di 600 euro mensili).
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