LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA SENZA AFFISSIONE DEL CODICE DISCIPLINARE, E VALUTAZIONE DELLA RECIDIVA.

 

Cass. Civ. Sez. Lavoro – Sent. del 29.02.2012, n. 3060

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., del 24-02-2012, n. 2870

 

Claudia Zangheri Neviani

 

Le massime

 

I)                    Non ufficiale

“In tema di sanzioni disciplinari, la garanzia di pubblicità del codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti si applica al licenziamento disciplinare soltanto quando sia intimato per specifiche ipotesi di giusta causa o giustificato motivo, previste dalla normativa collettiva o validamente poste dal datore di lavoro.”

 

II) non ufficiale

“Il principio, secondo cui in tema di sanzioni disciplinari, (desumibile dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7), non può tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione, rileva ai fini della recidiva ma non impedisce la valutazione delle precedenti sanzioni ai fini dell’esame, sotto il profilo soggettivo, della giusta consistenza del fatto addebitato.”

 

I casi

 

I) Un datore di lavoro ha licenziato il proprio dipendente dopo cinquanta giorni di assenza ingiustificata dal luogo di lavoro. Il tribunale di primo grado conferma la validità del licenziamento, mentre la corte di appello sostiene che si tratti di licenziamento ingiusto poiché il datore di lavoro non ha provveduto ad affiggere il codice disciplinare, secondo la corte, necessario per legittimare il licenziamento. Il datore di lavoro ricorre in Cassazione, la quale, con la sentenza in oggetto, dichiara non conforme ai suoi principi la sentenza della corte di appello.

 

II) La società ha licenziato un dipendente per ingiustificato abbandono del posto di lavoro, in quanto, allontanandosi lamentando un malore, è stato sorpreso in un bar. La corte di Appello di L’Aquila, riformulando la sentenza di primo grado, ha dichiarato illegittimo il licenziamento in oggetto, ritenendo che la fattispecie non fosse “tale da incidere irrimediabilmente sul rapporto di lavoro”. Sostenendo che i precedenti disciplinari, anche se effettivamente esistenti, risultavano irrilevanti. La Suprema Corte ha, al contrario, affermato che la corte di Appello è andata contro ai principi più volte ribaditi dai giudici di Piazza Cavour.

 

Quesiti da risolvere

 

I) La necessità o meno dell’affissione del codice disciplinare ai fini del licenziamento

II) La rilevanza dei precedenti disciplinari ai fini del licenziamento

 

Normativa e norma applicabile

 

Art. 1 co. 1 e 7 della  L 300/1970

Artt. 1, 3 e 5  della L. 604/1966

Artt. 2104, 2105, 2118 e 2119 c.c.

 

Nota esplicativa

 

Evoluzione della normativa in materia di licenziamento.

Prima di approfondire le fattispecie di licenziamento contemplate nelle sentenze in esame, occorre un breve excursus sull’evoluzione storica che ha subito la materia.

La disciplina del licenziamento può essere valutata sotto il duplice aspetto delle dimissioni da parte del lavoratore, e del licenziamento da parte del datore del lavoro. Essa, inoltre, cambia anche in base al tipo di contratto stipulato. Se si tratta di contratto a tempo determinato il recesso è disciplinato dall’art. 2119 c.c. e la normativa è unitaria, non essendoci differenze tra dimissioni e licenziamento. In entrambe le fattispecie non si può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, salvo giusta causa.

Diversamente, per il contratto a tempo indeterminato, il lavoratore è sempre libero di recedere, salvo il giusto preavviso, ai sensi dell’art. 2118 c.c., mentre per il datore di lavoro la facoltà di licenziare è condizionata alla presenza di un giustificato motivo o di una giusta causa, come previsto da una normativa speciale che tutela il lavoratore. Il diritto di licenziamento da parte del datore di lavoro subisce forti limitazioni, che non violano, comunque, il principio di parità di trattamento dei contraenti. La ratio di tali limiti si riscontra nella posizione del lavoratore, il quale è sempre stato, nel contesto socio economico, il contraente più debole. Per questo motivo si è sviluppata una normativa garantista: per evitare l’abuso di potere, e della posizione dominante del datore di lavoro.

In un primo momento il licenziamento veniva esercitato dal datore di lavoro per ragioni disciplinari. Con il passare del tempo, però, questo tipo di licenziamento è stato attratto nella disciplina generale, in questo modo l’intento sanzionatorio è stato assorbito nella tutela giuridica accordata in prevalenza alla risoluzione del contratto. La prima normativa, in materia, fu disciplinata dal codice del 1865, e ripresa nel codice del 1942, dove all’art. 2118 c.c. si prevedeva la libertà di recesso di entrambi i contraenti, salvo il giusto preavviso, ammettendo così il licenziamento ad nutum, senza giustificato motivo. Successivamente, però, poiché tale uguaglianza formale si basava su di una disuguaglianza sostanziale, la Corte Costituzionale aprì, sulla base degli articoli 4 e 41 cost., un ampio dibattito in dottrina per affermare il divieto dei licenziamenti ingiustificati da parte del datore di lavoro. La materia divenne, allora,  oggetto di contrattazione collettiva, fino ad arrivare alla prima legge specifica: 15 luglio 1966 nr 604. Con questa legge si è mantenuta la libertà di dimissioni da parte del lavoratore, mentre, al contrario, per il datore di lavoro il licenziamento diviene possibile solo se sorretto da giusta causa o giustificato motivo. Il licenziamento senza giustificato motivo è inefficace o illecito, a seconda se si applichi la disciplina reale o quella obbligatoria[1]. Si sostiene inoltre che il giustificato motivo sia un principio di ordine pubblico

Un passo epocale è stato compiuto, poi, con l’emanazione dello Statuto dei Lavoratori: legge 20 maggio 1970 nr 300. Questa ha disciplinato con l’art. 18 la reintegrazione del lavoratore ingiustamente licenziato nel suo posto di lavoro, divenendo, così, la base della disciplina del diritto del lavoro. Successivamente sono state apportate modifiche e miglioramenti, con la legge 108/90 la quale ha esteso anche alle piccole imprese (prima escluse dalla legge 604/66 e dall’art. 18 St. Lav. se imprese con meno di 35 dipendenti) la disciplina del recesso per giusta causa e giustificato motivo.

Solo dopo un ventennio il legislatore ha modificato la disciplina in parola con il c.d. Collegato Lavoro, ossia la legge 4 novembre 2010 nr 183: stabilendo un nuovo regime di impugnazione per il licenziamento ed estendendone il campo di applicazione. Nei primi mesi del 2012 il governo ha predisposto una riforma del lavoro con la quale vorrebbe modificare la normativa dei licenziamenti, prevedendo licenziamenti soggettivi o disciplinari e licenziamenti oggettivi o economici. Questa riforma è sfociata nelle legge 92/2012 che entrerà in vigore il 18 luglio nella quale sono stati previsti tre regimi sanzionatori per il licenziamento individuale illegittimo. La reintegrazione nel posto di lavoro sarà disposta dal giudice solo nel caso di licenziamento discriminatorio, e nei casi di licenziamento disciplinare infondato. Nell’ipotesi di licenziamento per motivi economici, che sia ritenuto illegittimo dal giudice, il datore di lavoro potrà essere condannato solo al pagamento di un’indennità. Sarà, invece, sempre obbligatoria la motivazione del licenziamento. Se il licenziamento è stato dichiarato per motivi di ordine economico e strumentale, ed il lavoratore riesce a provare, invece, che si tratta di licenziamento disciplinare o discriminatorio, il giudice applica le relative tutele.

Da quanto esposto se ne deduce che il datore di lavoro non può esercitare il recesso con mero arbitrio, questo, infatti, deve essere fondato su situazioni tipizzate dall’ordinamento, e deve essere motivato. Tutto questo è stato predisposto affinché il potere di licenziamento non possa essere utilizzato dal datore di lavoro in maniera impropria ad esempio per motivi di discriminazione.

 

–       Lo statuto dei lavoratori

L’art. 7 della legge 300/1970, c.d. statuto dei lavoratori, impone diversi obblighi al datore di lavoro, in particolare:

a)    La predeterminazione delle norme sostanziali e procedurali. Il datore di lavoro deve, quindi, predisporre quali comportamenti possano essere considerati fatti disciplinari rilevanti e le relative sanzioni. Al riguardo, parte della dottrina, ha sostenuto la necessità di un elenco analitico dei comportamenti vietati, ma la dottrina maggioritaria ha, al contrario, affermato, che sia sufficiente una casistica che non dia la possibilità  al datore di lavoro di valutare il comportamento unilateralmente e discrezionalmente. Ne deriva che il codice deve essere redatto in modo chiaro e comprensibile e deve indicare le relative sanzioni. Il tutto in maniera che sia suscettibile di adattamento al caso concreto, in tal modo si evita che il datore di lavoro possa sanzionare unilateralmente e a suo piacimento. La ratio che sottende alla predeterminazione del codice si ispira, quindi, all’uso oggettivo ed imparziale del potere disciplinare, che di conseguenza non consente la creazione dell’infrazione e della sanzione da parte del datore di lavoro ex post. Il codice è posto, perciò, a garanzia del lavoratore contro eventuali abusi del potere del datore di lavoro.

b)    L’applicazione da parte delle norme disciplinari di quanto in materia è stabilito da accordi e contratti di lavoro.

c)    La pubblicità del codice disciplinare.

 

–       Giustificato motivo soggettivo e oggettivo

Ai sensi dell’art. 1 L. 604/1996 il licenziamento da parte del datore di lavoro può essere intimato solo se sussiste una giusta causa o un giustificato motivo. In merito a quest’ultimo la dottrina distingue tra giustificato motivo soggettivo ed oggettivo.

Il giustificato motivo è una clausola generale (il suo contenuto è  limitato e delinea un modello generico che richiede, poi, una specificazione in sede di interpretazione) per cui il giudice deve limitarsi ad accertare che vi sia il presupposto di legittimità del medesimo; non può, invece, sindacare il merito delle valutazioni tecniche o di quelle organizzative o produttive. Egli però, deve tenere conto non solo delle circostanze oggettive, ma anche delle modalità soggettive della condotta del lavoratore, anche queste, infatti, incidono sulla gravità della trasgressione e sulla legittimità della sanzione; che deve essere graduata in base al fatto commesso.

Il giustificato motivo soggettivo è disciplinata dall’art. 3 della predetta legge e si verifica tutte le volte in cui vi sia un“notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro”. La norma si riferisce a tutti i comportamenti attinenti al rapporto di lavoro, da cui consegua un notevole inadempimento colpevole del lavoratore. L’inadempimento non riguarda solo la prestazione principale, cioè quella lavorativa, ma anche tutti gli obblighi accessori e funzionali connessi. Dal collegamento, infatti, dell’art. 2105 (che prevede l’obbligo di fedeltà del lavoratore) con i generali principi di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) ne deriva che il lavoratore deve astenersi non solo dai comportamenti, espressamente vietati dal 2105 c.c., ma da qualsiasi altra condotta che possa risultare contraria ai doveri del lavoratore. Si tratta di una motivazione di minor gravità quantitativa rispetto all’inadempimento che sorregge la giusta causa, ma ugualmente deve essere notevole e deve sussistere la colpa del lavoratore. La giurisprudenza ha quantificato questa maggiore o minore gravità in base alla criterio della fiducia del datore di lavoro. In base, cioè, al comportamento, tenuto dal lavoratore, il quale deve essere di tale gravità da far venir meno la fiducia del datore di lavoro. Ovviamente la giurisprudenza ha anche affermato che la valutazione del comportamento e delle sue conseguenze deve essere fatta anche tenendo conto della situazione generale, e quindi della natura del rapporto, della posizione delle parti, del grado di affidamento richiesto dalla prestazione, nonché della colpa. L’inadempimento, quindi, per essere giustificativo del licenziamento deve essere talmente grave, considerate tutte le circostanze e le modalità del rapporto, da far venire meno la fiducia che il datore di lavoro riponeva nel lavoratore, giustificando in questo modo il recesso immediato senza preavviso.

 

Il giustificato motivo oggettivo ricorre, ai sensi del medesimo art. 3, tutte le volte in cui il licenziamento è causato da fatti connessi “all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro, e al regolare funzionamento di essa”. La dottrina unanime ritiene che possa trattarsi di due fattispecie diverse. La prima è la conseguenza derivante dalla libera scelta del datore di lavoro che decida di ristrutturare l’organizzazione aziendale. La seconda deriva dal verificarsi di “fatti attinenti alla sfera del lavoratore” che producono effetti negativi sul contesto aziendale.

Questo motivo si basa su ragioni aziendali, inerenti la produttività (es. una contrazione dei mercati, o trasformazione dell’attività) e l’organizzazione dell’impresa e del lavoro (ad es. una riorganizzazione aziendale). Anche in questo caso il giudice non può sindacare le decisioni dell’imprenditore.

Con il riconoscimento del giustificato motivo oggettivo, infatti, la legge sostiene la prevalenza delle esigenze imprenditoriali ai sensi dell’art. 41 Cost. sull’esigenza del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro.  Il giudice, infatti, non può sindacare le scelte gestionali dell’imprenditore, che sono espressione della libertà di iniziativa economica tutelata, dalla Costituzione. Egli potrà, allora, solo controllare la reale sussistenza, l’effettività e la non pretestuosità del motivo espresso dal datore di lavoro.

 

–       Giusta causa

La giusta causa è disciplinata dall’art. 2119 c.c.: il licenziamento è sorretto da giusta causa tutte le volte in cui “si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”. Il lavoratore deve quindi commettere fatti da considerarsi di particolare gravità, tali da configurare una grave ed irrimediabile rottura del rapporto di lavoro e di quello fiduciario.

La giusta causa del licenziamento può configurarsi, non solo in merito a fatti verificatisi all’interno della sfera contrattuale, ma anche in merito a fatti e comportamenti esterni, diversi dall’inadempimento del contratto, sempre che possano produrre effetti negativi sulla prestazione lavorativa: ad esempio quando il lavoratore, in base anche alla sua posizione professionale, con il suo comportamento, diventa un modello diseducativo e disincentivante nei confronti degli altri lavoratori. La Cassazione ha sempre affermato che il giudice nel valutare la giusta causa, in quanto clausola generale, deve determinarla, e specificarla in fase di giudizio.

La differenza tra giusta causa e giustificato motivo, essendo entrambi idonei a giustificare il licenziamento, si ravvisa negli effetti: la prima ha effetto immediato, mentre il giustificato motivo prevede come obbligatorio il preavviso.

 

–       Pubblicità codice disciplinare

Lo statuto dei lavoratori all’art. 7[2] afferma che è obbligo del datore di lavoro “portare a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti” le norme disciplinari.

La pubblicazione del codice disciplinare, imposta al datore di lavoro, anche nel caso in cui non sia riportato l’obbligo nella contrattazione collettiva, è posta a tutela del lavoratore, come garanzia procedimentale. La finalità è duplice: in primo luogo serve ad assicurare una facile conoscibilità del codice da parte di tutti i lavoratori, i quali sono così in grado di controllare quali siano i comportamenti vietati (in questo modo si rendono noti tutti i fatti e le mancanze che possono dar luogo al licenziamento); in secondo luogo, fa si che il lavoratore possa anche controllare che l’esercizio del potere disciplinare, da parte del datore, sia esercitato imparzialmente e oggettivamente

In materia la giurisprudenza è da sempre orientata  nel senso che tale onere incombe tutte le volte in cui il datore di lavoro preveda specifiche ipotesi di violazione e non anche quando il comportamento tenuto dal lavoratore violi la legge o i suoi doveri fondamentali; questi, infatti, sono riconosciuti a prescindere dalla loro espressa previsione nel codice disciplinare.

Il codice non deve, ovviamente, contenere un’elencazione precisa e sistematica di tutte le possibili infrazione, ma è sufficiente che le ipotesi siano schematicamente rappresentate insieme alle rispettive sanzioni, tutto in modo tale da evitare che ci possa essere una valutazione unilaterale e discrezionale sia del comportamento tenuto, che della sanzione.

Non è, perciò, necessario per la validità del licenziamento, la pubblicità del codice disciplinare nel caso in cui, ad es., il comportamento del lavoratore abbia come conseguenza la violazione di una legge penale, o sia contrario ad un imperativo disciplinato dalla legge; quando i fatti commessi violino la coscienza sociale, quale minimo etico, o comunque tutte le volte in cui ricorra una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo, o, ancora, quando il lavoratore violi gli obblighi di diligenza e di fedeltà disciplinati dagli articoli 2104 e 2105 c.c.. In tutti questi casi, infatti, il potere di licenziare deriva direttamente dalla legge stessa.

 

Precedenti disciplinari

Come sopra già affermato, al giudice di merito è riservata la valutazione della gravità dell’infrazione commessa, e la sua idoneità ad integrare ipotesi di giusta causa o giustificato motivo di licenziamento.

La valutazione inerisce in primo luogo alla gravità dei fatti addebitati al lavoratore, e può riguardare anche la vita privata del medesimo, nella misura in cui essa assume rilevanza facendo venir meno il rapporto fiduciario tra dipendente e datore di lavoro.

In secondo luogo il giudice deve valutare le circostanze, sia oggettive che soggettive, che hanno determinato il comportamento scorretto, ed infine deve vagliare l’intensità dell’elemento intenzionale del lavoratore. Ne consegue che il licenziamento disciplinare deve, sempre, rappresentare una conseguenza proporzionata della violazione commessa.

La giurisprudenza sottolinea, come, la valutazione della gravità dell’inadempimento si estende a tutti i fatti contestati al lavoratore, non solo quelli attuali, ma anche a tutti i comportamenti tenuti dal dipendente in precedenza, per i quali il datore di lavoro, all’epoca, non abbia ritenuto di comminare sanzioni. Infatti, salvo il principio di tempestività[3], i fatti precedentemente commessi dal lavoratore devono essere autonomamente valutati dal giudice nel giudizio sulla validità del licenziamento. Ne consegue che il fatto che una determinata condotta sia già stata sanzionata disciplinarmente, non impedisce, in caso di recidiva, che il giudice possa tenerne conto ai fini dell’irrogazione di un’altra sanzione disciplinare anche più grave. L’orientamento della giurisprudenza in materia sostiene che la preventiva contestazione dell’addebito al lavoratore incolpato deve riguardare anche la recidiva o comunque i precedenti disciplinari che la integrano, ove questa rappresenti uno degli elementi costitutivi della mancanza addebitata. La Cassazione ha, infatti, espresso il principio per cui anche se non si può tener conto delle sanzioni disciplinari già comminate, decorsi due anni dalla loro applicazione, non rilevando ai fini della recidiva, devono comunque essere prese in esame e valutate dal giudice sotto il profilo soggettivo, ai fini del giudizio sulla giusta consistenza del comportamento addebitato.

 

Giurisprudenza conforme

 

I)                     Cassazione 10 maggio 2012 nr 11250

Cass. civ. 13.09.2005, nr. 18130

Cassazione 8 giugno 2001 nr 7819

Cassazione 16 maggio 2001 nr 6737

Cassazione 10 novembre 2000 nr 14615

Cassazione 18 gennaio 1997 nr 512

App. Roma, sez. lav., 8.09.2005

 

II)                    Cassazione 1 marzo 2011 nr 5019

Cassazione 4 luglio 2005 nr 14159

Cassazione 19 dicembre 2006 nr 2704

Cassazione 23 dicembre 2002  nr. 18294

 

Bibliografia

 

Trattato di diritto privato – Impresa e lavoro  15 * e 15 ** seconda edizione, Diretta da Pietro Rescigno. Utet, 2001

Galantino “Diritto del lavoro” Giappichelli Editore- Torino, 2010

AA. VV. “Diritto del lavoro” XXIX Edizioni giuridiche Simone 2012

Guido Zangari voce “licenziamento”Enciclopedia del diritto Giuffrè

Codice civile annotato con la giurisprudenza, Giuffrè editore 2011

 

Corte di Cassazione Sez. Lavoro – Sent. del 29.02.2012, n. 3060

Presidente Roselli

Relatore Napoletano

 

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Roma, confermando la sentenza di primo grado, accoglieva la domanda di L.D. proposta nei confronti della società Poste Italiane, di cui era dipendente, avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento intimatogli dalla predetta società per assenza ingiustificata di cinquanta giorni.

La Corte del merito poneva a base del decisum il rilievo fondante secondo il quale il licenziamento doveva ritenersi illegittimo perché non era risultata l’affissione del codice disciplinare essendo stato il licenziamento irrogato per specifica ipotesi prevista dalla contrattazione collettiva.

Avverso questa sentenza la società Poste italiane ricorre in cassazione sulla base di un’unica censura, illustrata da memoria.

La parte intimata non svolge attività difensiva.

Motivi della decisione

Con l’unico motivo di ricorso la società, deducendo violazione e falsa applicazione degli art. 1, comma 1°, della legge n. 300 del 1970, 1 e 3 della legge n. 604 del 1966 nonché 2104 e 2105 c.c., allega che erroneamente la Corte del merito non ha tenuto conto che, trattandosi di violazione dei fondamentali doveri del lavoratore discendenti dalla legge, non era necessaria, ai fini della legittimità del licenziamento, la preventiva affissione dal codice disciplinare.

La censura è fondata.

E’ ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte che in tema di sanzioni disciplinari, la garanzia di pubblicità del codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti non si applica laddove il licenziamento faccia riferimento a situazioni concretanti violazione dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro ovvero all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa del datore di lavoro (per tutte V. Cass. 18 settembre 2009 n. 20270).

La garanzia di pubblicità del codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti si applica, infatti, al licenziamento disciplinare soltanto quando questo sia intimato per specifiche ipotesi di giusta causa o giustificato motivo previste dalla normativa collettiva o validamente poste dal datore di lavoro, e non anche quando faccia riferimento a situazioni giustificative del recesso previste direttamente dalla legge o manifestatamente contrarie all’etica comune o concretanti violazione dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro ovvero all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa del datore di Lavoro (v. Cass. 18 agosto 2004 n. 16291 e Cass.14 settembre 2009 n. 19770) .

La Corte di Appello nella sentenza impugnata ritenendo che per il fatto addebitato al lavoratore, concretatosi nell’assenza ingiustificata dal luogo di lavoro per cinquanta giorni, era necessaria, ai fini della legittimità della sanzione espulsiva adottata dal datore di lavoro, la previa affissione del codice disciplinare -e tanto in considerazione del rilievo che il ccnl del settore prevedeva siffatta sanzione nel caso di assenza arbitraria dal servizio superiore ai dieci giorni- non è conforme ai richiamati principi di questa Corte.

Non può, invero, porsi in dubbio che l’obbligo di rendere la prestazione rientra, come già infermato da questo giudice (Cass. 14 maggio 2002, n. 6974), tra i doveri fondamentali e non accessori del lavoratore con la conseguenza che la sua inosservanza, per essere sanzionata con il licenziamento, non abbisogna di essere portata a conoscenza del lavoratore non integrando la stessa una ipotesi particolare di esercizio, da parte del datore di lavoro, del potere di licenziamento essendogli questo, nel caso di specie, indipendentemente dal richiamo o dalla previsione di determinate analoghe condotte punibili con il recesso nella pattuizione collettiva, attribuito direttamente dalla legge.

La sentenza impugnata di conseguenza va cassata con rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione che si atterrà ai principi sopra richiamati.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio dell’8 febbraio 2012

Depositata in Cancelleria il 29.02.2012

 

 

Cass. civ. Sez.   lavoro, Sent., 24-02-2012, n. 2870

omissis
  svolgimento del processo

La Corte d’appello del L’Aquila, con sentenza depositata l’11 febbraio   2008, in riforma della sentenza del Tribunale di Avezzano del 22 dicembre   2005, dichiarava illegittimo il licenziamento intimato dalla s.r.l. SCM al   dipendente C.L., il 21 aprile 2001 per ingiustificato abbandono del posto di   lavoro.

Riteneva la corte abruzzese che la datrice di lavoro non aveva   minimamente provato la sussistenza di un giustificato motivo di   licenziamento.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la società SCM, affidato   a quattro motivi.

Il C. restava intimato.

  Motivi della decisione

1. Con il primo motivo la ricorrente   denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., L. n.   604 del 1966, art. 5 e artt. 2727 e 2729 c.c., per avere la   corte territoriale erroneamente ritenuto non assolto l’onere probatorio circa   la sussistenza di una giusta causa di licenziamento.

Lamentava che la corte di merito, pur   avendo ritenuto verosimile la simulazione del dedotto malessere del C., che   abbandonato il posto di lavoro venne poco dopo sorpreso ad intrattenersi in   un vicino bar, ritenne non provata la causale del licenziamento.

2. Con il secondo motivo la società   ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2119   c.c. per avere la corte escluso la rilevanza, ai fini della sussistenza   della giusta causa, dei gravi precedenti disciplinari del C..

I motivi, che stante la loro connessione   possono essere congiuntamente esaminati, risultano fondati ed assorbono i   restanti.

La corte territoriale, con motivazione   assolutamente sintetica, ha escluso che la società abbia fornito la prova del   fatto posto a base del licenziamento, pur avendo ritenuto verosimile la   simulazione del malessere che portò il C. ad abbandonare il posto di lavoro.

Ha quindi ritenuto, senza alcuna   concreta motivazione: che il fatto contestato non era “tale da incidere   irrimediabilmente sul rapporto di lavoro”, violando il principio per cui   in ipotesi di licenziamento per giusta causa di cui all’art. 2119 c.c.,   il giudice deve valutare tutte le circostanze del caso concreto (Cass. 18   febbraio 2011 n. 4060) anche con riferimento alle particolari condizioni in   cui è stato posto in essere, ai modi, ai suoi effetti e all’intensità   dell’elemento volitivo dell’agente (Cass. 1 marzo 2011 n. 5019); che I precedenti   disciplinari del C., pur gravi (“benché di obiettiva consistenza”),   non essendo stati contestati, risultavano irrilevanti, in contrasto con i   principi più volte affermati da questa Corte, secondo cui in tema di sanzioni   disciplinari, il principio (desumibile dalla L. 20 maggio 1970, n.   300, art. 7), in base ai quale non può tenersi conto ad alcun   effetto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione,   rileva ai fini della recidiva ma non impedisce la valutazione delle precedenti   sanzioni ai fini dell’esame, sotto il profilo soggettivo, della giusta   consistenza del fatto addebitato (Cass. 25 novembre 1996 n. 10441; Cass. 21   maggio 2008 n. 12958).

La sentenza impugnata va dunque cassata   con rinvio, anche per le spese, ad altro giudice, in dispositivo indicato,   per l’ulteriore esame della controversia.

  P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata in relazione   alle censure accolte, e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di   Campobasso.

 



[1] La tutela reale è prevista dall’art. 18 Statuto dei Lavoratori e prevede che il giudice debba ordinare la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e il risarcimento per i danni subiti dal medesimo.

La tutela obbligatoria e prevista dall’art. 8 della medesima legge e afferma che in seguito alla sentenza che annulla il licenziamento, in quanto non ricorre né giusta causa né giustificato motivo, il datore di lavoro è condannato a riassumere il lavoratore entro tre giorni o in alternativa a risarcirgli il danno.

[2] Come affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza 29 novembre 1982 nr. 204 il secondo e il terzo comma dell’art. 7 dello statuto dei lavoratori sono costituzionalmente illegittimi se interpretati nel senso che non sono applicabili ai licenziamenti disciplinari.

[3] Nel licenziamento per motivi disciplinari vige il principio della tempestività ed immediatezza della contestazione dell’addebito e del recesso del datore di lavoro, che si configura, quindi, quale elemento costitutivo. Tale principio deve essere inteso in senso relativo, l’intervallo di tempo può, infatti, essere più o meno lungo a seconda della tempistica necessaria ai fini dell’accertamento della violazione. La ratio del principio in questione, è quella di osservare la regola di buona fede e di correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro. Il datore non può, dunque, rendere difficile la difesa del lavoratore.

Di admin

Help-Desk