Prof. Marino D’Amore

LUDES HEI Foundation Malta campus Lugano

Il termine populismo rappresenta una sorta di macrocategoria che può ricoprire vari ambiti semantici, campi di applicazione diversi, anche se quello più utilizzato in questo senso, che come tale risente di numerosi tentativi di strumentalizzazione anche mediatica, è quello della politica.

Quando il mondo politico incontra quello della comunicazione tout court ne scaturisce un connubio che dà vita ad un’accezione del concetto di populismo rilevabile nel tentativo aggressivo, a volte addirittura verbalmente violento, di opposizione, che sfocia nella demonizzazione, alle élite siano esse culturali, sociali o meramente economiche per esaltare i valori, le tradizioni e il modus vivendi della componente popolare di un corpus comunitario. Tale processo conferisce al termine una connotazione decisamente negativa e al tempo stesso sovrappone il suo universo semantico a quello del concetto di demagogia, millantando dinamiche analogiche che nella realtà risultano prive di fondamento.

Per il vocabolario Treccani, quindi per una fonte più che autorevole, il populismo rappresenta un “atteggiamento ideologico che, sulla base di principi e programmi genericamente ispirati al socialismo, esalta in modo immotivato e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi.”. L’esempio più rappresentativo e maggiormente esaustivo di un tale scenario sociopolitico è certamente quello incarnato da J. D. Perón che ha fortemente personalizzato il concetto tanto da essere chiamato, in quel caso, Peronismo e che si sostanziava fondamentalmente in una prassi politica, tipica dei paesi sudamericani in via di sviluppo dall’economia agricola a quella industriale, fondata su un rapporto diretto tra un capo carismatico, Peron appunto, e le masse popolari; un rapporto avallato malcelatamente dai ceti borghesi e da quelli capitalistici che potevano così più agevolmente monitorare, gestire e far progredire i processi di industrializzazione e crescita del proprio paese e dei propri affari. Tale nozione sembra tuttavia essere vetusta, anacronistica, mostrando inequivocabili segni di obsolescenza nel tentativo di spiegare fenomeni politici attuali, essendo più adatta a analizzare scenari passati figli di contingenze storiche ed economico-sociali diverse da quelle di oggi. Il contesto attuale rafforza il concetto sopracitato e identifica il populista, come colui che annovera come unica e autentica legittimazione del potere politico quella che deriva dalla volontà e dal consenso popolare. Tale legittimazione è ritenuta la conditio necessaria e sufficiente al superamento dei limiti posti all’esercizio del potere politico dalle sovrastrutture normative costituita dalla Costituzione e dalle leggi. Il populismo, nella sua concezione attuale, non si lega a nessuna istanza ideologica di destra o sinistra rivelando invece un’insospettabile tendenza bipartisan che relega il suo utilizzo a mere evenienze politiche circostanziali, contestuali o di comodo come la mobilitazione dell’antipolitica: le posizioni di critica, di disaffezione e di estraneità al funzionamento delle istituzioni democratiche e dei principali attori politici. Questa dimensione si basa sul risentimento che nasce dalle sensazioni di espropriazione della sovranità popolare, di tradimento dell’idea del popolo-sovrano e sulla richiesta improrogabile di una leadership forte e carismatica.

La demagogia, termine di origine greca (composto di demos, “popolo”, e agein, “trascinare”) invece rappresenta un comportamento politico che attraverso promesse vuote, che non hanno fondamento e non troveranno realizzazione, soddisfa in potenza i desideri e le esigenze del popolo mirando, in questo modo, a fidelizzarlo guadagnandone il consenso. Il modus operandi del demagogo stimola il popolo esacerbando sentimenti irrazionali e rivendicazioni sociali latenti, alimentando la paura, il sospetto e l’odio e la recrudescenza di atteggiamenti violenti nei confronti di minoranze etniche o religiose e dell’avversario politico di turno, controparti che impersonano il “capro espiatorio” da combattere. Tale scenario crea un fronte sinergico, cementato rocciosamente dal comun denominatore della lotta contro un nemico comune e pericoloso, un fronte compatto e immune da qualunque forma apparente o sostanziale di dissenso. La demagogia palesa quindi una struttura ben definita che, secondo dinamiche meccanicistiche, nasce, come detto da false promesse e ideali intrisi di fanatismo arrivando, per la concretizzazione degli stessi, a forme di lotta violente e irrazionali.

La demagogia condivide con il populismo, secondo diversi analisti politici, la propria radice nativa, in quanto entrambi appaiono come una sorta di esasperazione morbosa, declinazione malata e irrimediabilmente compromessa di forme di governo democratico.

I regimi totalitari della prima metà del secolo scorso come quello fascista, quello nazista, quello sovietico e in generale la maggior parte delle dittature, sono un perfetto esempio del rapporto diretto e congruente negli intendimenti politici fra il leader e le masse popolari e quindi di ciò che si definisce populismo. Tuttavia tale definizione rimane storicamente vaga, permettendo il suo utilizzo in diverse contingenze circostanziali come termine omnicomprensivo, pangeatico, una categoria residuale, adatta a catalogare una grande varietà di regimi refrattari a classificazioni nette in cui è però possibile riscontrare qualche elemento comune: la gonfia e teatrale retorica nazionalista ed anti-imperialista, l’appello costante alle masse e il notevole potere personale del leader carismatico e venerato fideisticamente dalle folle.

Tale vaghezza semantica è risultata utile per categorizzare sotto la medesima egida vari regimi del Terzo Mondo, come quello del già citato Juan Domingo Perón in Argentina, Gamal Abd el-Nasser in Egitto e Jawaharlal Nehru in India, non classificabili né come democrazie liberali né come socialismi reali.

Altra accezione di populismo è quella che lo caratterizza come un “contenitore trasversale” per movimenti politici di vario tipo (di destra come di sinistra, reazionari e progressisti, e via dicendo) sempre accomunati dall’elemento retorico fondato sul netto rifiuto delle oligarchie politiche ed economiche per esaltare le virtù naturali del popolo, massa socio-culturalemente indefinibile, quali la saggezza, l’operosità e la pazienza. Appare quindi palese come il populismo guadagni quindi consensi nei momenti di crisi profonda e sfiducia nella classe dirigente al potere.

Altro elemento rintracciabile nell’essenza stessa del populismo è la semplificazione della politica, una sorta di scorciatoia governativa che nasce quando la politica stessa entra in crisi e non riesce più a soddisfare le esigenze e a rispondere alle domande che i governati pongono ai governanti. Il popolo diventa una sorta di entità indistinta in cui gli individui si perdono, diviene un unico corpus con un’unica volontà (la vox populi) e ragioni incontestabili. Quando la politica palesa tale debolezza, una caducità che ne smarrisce gli scopi, ne vanifica gli interventi e ne delegittima il ruolo istituzionale, in quel momento l’“uomo forte” diviene una prospettiva percorribile. E il carisma diviene il principale indicatore per giudicarne il valore e l’utilità politica per il popolo che deve guidare. Insomma quando la politica abdica dai suoi doveri di guida e rappresentanza per personalizzarsi in un leader che incarna i desideri della nazione in un dato frangente storico, in quel caso compare il populismo. Nell’epoca dei mezzi di comunicazione di massa, il filtro della discussione pubblica, del dibattito, del contraddittorio è lentamente ma inesorabilmente venuto meno. La televisione non è più solo lo strumento della comunicazione politica ma anche il luogo stesso dove la politica, a volte, avviene eleggendola a proprio contesto ideale, habitat naturale dell’agone politico. La radio ha iniziato nei primi decenni del XX secolo ha svolgere questa funzione (il primo fu Hitler a capirne la potenza del messaggio) preparando il terreno per la tv che lo ha arricchito di significati e di immagini.

L’opinione pubblica e i suoi luoghi di costituzione vengono meno, la discussione sui quotidiani cartacei diventa evanescente, il contatto avviene direttamente tra il leader e popolo, il suo pubblico, il suo bacino di utenza e di consenso, secondo un rapporto biunivoco d’influenza reciproca e costante.

Il populismo non può essere inscritto in confini fisici o meramente culturali, come detto se ne trovano rappresentanti, di diverso peso specifico e caratura, in molti paesi del mondo: da Peron a Francisco Franco, da Lumumba a Emiliano Zapata, da Jean Marie Le Pen, Jörg Heider e Pym Fortuyn.

Il termine “populismo” fa la sua prima comparsa verso la metà dell’Ottocento in Russia. Lev Tolstoj, ad esempio, ne fu uno dei rappresentanti e teorici più celebri, le sue posizioni furono duramente criticate all’inizio del Novecento da Lenin, che ne contestava la poca scientificità e la conseguente non attuabilità.

Altri, invece, vedono la nascita del populismo con la presentazione del People’s Party, un partito statunitense fondato nel 1892 al fine di portare avanti le istanze dei contadini del Midwest e del Sud, rivendicazioni confliggenti con le pretese delle grandi concentrazioni politiche, industriali e finanziarie e  caratterizzate da quella visione romantica e idealizzata del popolo e delle sue esigenze.

Altri analisti storico-politici fanno risalire al 1895 la data di nascita del populismo moderno. È l’anno in cui Gustave Le Bon pubblica La psicologia delle folle, saggio che analizza la figura, il ruolo e le contingenze in cui nasce un condottiero di un popolo. Duce, Führer, Caudillo, Conducator sono le declinazioni linguistiche di un termine che Le Bon pensava appropriato per la guida di uno Stato in cui l’ordine fosse a rischio: meneur des foules, il conduttore del popolo.

Il politologo Marco Tarchi, nel suo L’Italia populista (il mulino, Bologna 2003) ricostruisce le vicende del populismo in Italia, dove i momenti di sfiducia nella politica e quindi di creazione di un terreno fertile per una tale soluzione si sono avuti immediatamente dopo la Seconda guerra mondiale e poi, a distanza di mezzo secolo, con la denuncia della corruzione del sistema politico a seguito delle inchieste di Mani Pulite: la cosiddetta Tangentopoli. Tarchi elegge a nucleo principale della propria analisi soprattutto due movimenti apertamente populisti e strutturati ideologicamente su una dicotomia tra entità contrapposte: l’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini (“l’uomo qualunque” contro “l’uomo politico”), figlio del malcontento e delle sciagure del secondo dopo-guerra appunto, e la Lega Nord (il “popolo del nord” contro “Roma ladrona”). Nella politica italiana contemporanea il berlusconismo è invece un esempio di «neo-populismo mediatico», ovvero una forma di populismo che si arricchisce ancora di più dell’elemento comunicativo tout court e che fa dei mass media il suo veicolo principe di diffusione. il populismo mediatico costituisce insomma la declinazione post-moderna di quello che esplose concretamente e con vigore valoriale in America Latina e che si è poi sviluppato in tutto il mondo. A queste realtà potremmo aggiungere il Grillismo del Movimento 5 stelle, che rappresenta un’ulteriore evoluzione di populismo mediatico, perché fa della Rete il principale canale di comunicazione e diffusione del proprio verbo politico, una realtà che però raggiunta la ribalta nazionale e istituzionale cavalcando il malcontento generato dalla crisi ancora deve rivelare il suo peso decisionale e programmatico nel governo del paese.

La paternità di tale neologismo può essere attribuita senza alcun dubbio, come altre definizioni e concetti che abitano l’universo mediatico-comunicativo, a Umberto Eco, il quale citò il “populismo mediatico” che “consiste nel rivolgersi direttamente al popolo attraverso i media” in relazione al possibile e fattuale pericolo, da lui intravisto e descritto nel suo saggio A passo di gambero, costituito dal controllo politico del sistema mediatico stesso che, nella sua esasperazione massima, arriverebbe ad elidere completamente la mediazione e il contradditorio parlamentare. Eco, nel suo testo, fa un’analisi approfondita del fenomeno del populismo mediatico e riesce ad identificarne gli elementi essenziali, come, tra gli altri, la totale e fideistica accettazione di questo processo  da parte della maggioranza della popolazione adeguatamente fidelizzata tramite manovre di comunicazione sociale dedicate allo scopo: il decadimento intellettivo e degenerativo dei programmi televisivi, che valorizzano realtà utopiche ed effimere a discapito di qualsiasi spinta culturale e l’affermarsi di una falsa ideologia sociale che elegge il successo come unica ed agognata forma di realizzazione umana. Successo ottenuto inoltre con “scorciatoie”, come le cosiddette segnalazioni molto caldeggiate per usare un eufemismo, che non prevedono la sana competizione agonistica e meritocratica dove è premiata la competenza e il valore professionale, ma si basano su una sorta di antagonismo cinico e meschino fatto di compromessi vili, accordi eticamente deprecabili che, a loro volta, non mirano al miglioramento sociale, ma solo ad eliminare il diretto avversario per raggiungere una “posizione” più prestigiosa nella gerarchia del potere. In un tale scenario chi ha meno scrupoli è il miglior candidato ad imporsi e a vincere. Tale attitudine comportamentale partorisce classi imprenditoriali e dirigenziali italiane in cui la giustizia e la legalità rappresentano solo vacui concetti che non trovano realizzazione, conducendo inevitabilmente a fenomeni corruttivi e delinquenziali. Il dato ancor più preoccupante che emerge, però, è relativo alla consapevolezza della pubblica opinione sull’essere guidati da queste classi dirigenti, una coscienza che porta ad una tacita accettazione e ad una sorta di desensibilizzazione in merito che sostituisce una sana e motivata indignazione.

Tutto questo inevitabilmente muta il contenuto semantico e valoriale di concetti come la normalità, la giustizia e la metabolizzazione di certi comportamenti sociali, inficiando e vanificando tutta quella tradizione culturale ed etica che, nonostante tutto, costituisce ancora l’ossatura e l’identità del nostro paese.

Il populismo associato ad una comunicazione deontologicamente poco limpida porta al decadimento della “parola” generalmente intesa e di ogni struttura e sovrastruttura sociale. Se il “nulla mentale” invade i processi intellettivi minando dal suo interno la sopravvivenza cerebrale, riceviamo messaggi e ce ne appropriamo senza neanche vagliarli o rifletterci. Insomma quando la nostra coscienza critica, composta da esperienza di vita e libero pensiero, figlia di un comune denominatore culturale, ci abbandona la manipolazione mentale operata dal sistema politico-mediatico continua imperterrita.

Una comunicazione ben studiata mette in moto sensazioni e sentimenti discordanti e chi non usa il proprio “filtro mentale”, viene letteralmente “guidato” nel pensiero e nell’opinione che deve possedere, al punto tale che quest’ultima cessa di essere  “opinione” ossia l’idea personale in merito a qualcosa, per diventare un fatto sociale, unanimemente condiviso su cui non si deve riflettere, ma solo accettare con abnegazione quasi religiosa se non si trattasse di fattispecie assolutamente profane e pericolosamente terrene. Schopenhauer scrisse nel libro terzo del suo trattato Il mondo come volontà e rappresentazione che:

“L’idea invece non rientra in quel principio: non le tocca quindi né molteplicità né mutamento. Mentre gl’individui, nei quali ella si presenta, sono innumerevoli, e nascono e muoiono senza posa, ella resta immutata, sempre una ed identica, né il principio di ragione ha valore per lei. Ma poi che questo è la forma, a cui va sottomessa tutta la conoscenza del soggetto, in quanto esso conosce come individuo, vengono anche le idee a trovarsi affatto fuori della sfera di conoscenza dell’individuo in quanto individuo. Se quindi si vuol che le idee diventino oggetto della conoscenza, questo può accadere solo col sopprimere l’individualità nel soggetto conoscente.” Questo è ciò che il populismo mediatico si prefigge e stimola la sua azione, catalizzando l’elisione di ogni impulso intellettivo che possa riflettere criticamente su di un’idea o addirittura crearla. Esso agisce secondo meccanismi di logica inversa, dinamiche che riflettono specularmente, esacerbandole, le aspettative di una società come quella in cui attualmente viviamo; se tali processi non vengono fermati e, dato lo stato di avanzato degrado, con decisione, rischiamo una progressiva e inarrestabile discesa verso la regressione socioculturale che, in potenza, potrebbe sfociare in una preoccupante limitazione delle libertà individuali, figlia e diretta discendente di pericolosi passati politici.

 

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