DISTANZE LEGALI TRA COSTRUZIONI
Cassazione Civile 22 novembre 2012 n. 20713
a cura della Dott.ssa Claudia Zangheri Neviani
MASSIMA
“è errata la decisione della Corte territoriale che ha sostenuto che la porzione di immobile adibita ad autorimessa e locale accessorio non costituirebbe “basso fabbricato” soltanto “perché unita (seppur con struttura autonoma come definita dal c.t.u.) al fabbricato principale”, là dove la norme dell’art. 6 del P.R.G. imporrebbe unicamente, ai fii della deroga alla normativa sulle distanze, di rispettare i parametri da esso dettati per i locali adibiti ad autorimessa o locali accessori.”
IL CASO
I proprietari di un immobile agiscono nei confronti dei confinanti con l’azione di denuncia di nuova opera sostenendo che il fabbricato costruito al confine con la loro proprietà risultava in violazione delle norme in materia di distanze e vedute. I convenuti adducevano al contrario trattarsi di “basso fabbricato” e pertanto escluso dalla normativa del PRG in merito alle distanze.
Il tribunale di Novara concorda con le osservazioni dei convenuti e dichiara trattarsi di basso fabbricato.
Viene proposto appello alla Corte di Appello di Torino, la quale accoglie parzialmente il gravame sostenendo che la costruzione in oggetto viola le norme del PRG in materia di distanze dal confine.
QUESITO DA RISOLVERE
Il basso fabbricato può rientrare nelle norme in materia di distanze dal confine?
NORMATIVA E NORMA APPLICABILE
Art. 873 c.c.
NOTA ESPLICATIVA
Le limitazioni alla proprietà privata in materia di distanze sono regolate sia dall’art. 873 c.c., che dai singoli P.R.G., e dalle normative in materia di edilizia come le leggi 1150/42, L. 765/67 (c.d. legge ponte), L. 10/77 (legge Bucalossi), si tratta di una serie di norme eterogenee. Mentre il codice civile prescrive uno spazio minimo tra costruzioni in senso preventivo, le singole normative locali per computare le distanze prendono in considerazione termini diversi di riferimento.
Nel diritto intermedio le distanze erano considerate delle servitù legali. La critica principale sosteneva la mancanza di uno degli elementi essenziali della servitù, in quanto non l’esisteva né un fondo dominante né uno servente. Per tale motivo con il nuovo codice civile del 1942 esse assumono una loro struttura propria, diversa e distinta da quella delle servitù legali. Attualmente, quindi, le distanze sono limitazioni dettate dalla legge alla proprietà privata con il fine di assicurare il contemporaneo esercizio di più diritti da parte di singoli proprietari, su immobili tra di loro confinanti.
Il primo problema che nasce a seguito di questi vincoli consiste nel fatto che esso possa limitare la proprietà fino a svuotarla del suo contenuto. La Consulta con la sentenza del 12 maggio 1982, nr. 92 ha affermato che i vincoli alla proprietà devono sottostare al limite per cui la stessa non svenga svuotata di contenuto. La corte continua sostenendo[1] che la concessione del diritto ad edificare non è costitutiva di un nuovo diritto che inerisce alla proprietà, ma al contrario ne presuppone che all’interno della stessa proprietà preesista la possibilità di edificare.
Ne consegue che in base alla legge urbanistica il comune ha il diritto-dovere di controllare che le costruzioni effettuate dai privati rispettino tutti i dettati normativi, che coinvolgono il tipo di edificio, le altezze, i volumi, le distanze, le sagome etc., tutti diritti che già insistono all’interno del concetto di proprietà.
Come detto in precedenza l’art. 873 c.c. è la norma principale in materia di distanze tra edifici, esso stabilisce che la distanza minima deve essere di 3 metri, anche se i regolamenti locali ne possono prevedere una maggiore.
La ratio della norma è quella di evitare intercapedini insalubri che ostacolino il passaggio della luce e dell’aria, mantenendo così l’igiene e contribuendo alla prevenzione di incendi.
Il problema fondamentale è capire se le altre norme siano da intendersi come integrative del codice civile oppure no. Dottrina maggioritaria sostiene che si tratti di norma integrativa tutte le volte in cui essa disponga in materie disciplinate anche dal codice, in modo tale da completarlo e/o modificarlo nell’interesse della pubblica amministrazione ad avere un ordinato assetto urbanistico. Tra queste vi rientrano le limitazioni delle distanze, anche se in aumento rispetto a quanto previsto dal codice.
Le norme non integrative sono, invece, quelle che hanno come scopo, non la modifica della normativa codicistica, ma la tutela di interessi urbanistici o generali; si fanno gli esempi delle limitazioni alle altezze, ai volumi degli edifici per esigenze di igiene.
La violazione delle norme integrative comporta sia il risarcimento del danno che l’eliminazione del pregiudizio; mentre la violazione di norme non integrative riconosce solo il risarcimento del danno.
Due sentenze della Corte Suprema[2] hanno affermato che quando l’art. 873 c.c. rinvia alle norme regolamentari, queste possono derogare ai limiti previsti dal codice, imponendo anche distanze maggiori; la loro violazione dà quindi diritto alla riduzione in pristino. In tal senso da ultima anche la cassazione civile nr 18728/2005:
“le norme di edilizia locale che prescrivono nelle costruzioni distanze maggiori di quelle previste dal codice civile, fissandole in relazione al confine, hanno carattere integrativo dela disciplina del codice, con la conseguenza che la loro violazione dà diritto a pretendere la riduzione in pristino, oltre al risarcimento del danno”
Altra questione se l’art. 873 abbia carattere cogente oppure dispositivo.
Parte della dottrina propende per la natura dispositiva dell’articolo in esame con la conseguenza che i singoli vi possono derogare (Messineo). Chi sostiene questa teoria afferma che trattasi di interessi privati, pertanto derogabili, in quanto sorgono solo nel caso in cui i fondi confinanti siano di due proprietari diversi, e non anche quando la proprietà faccia capo ad uno solo.
Chi si oppone sostiene[3], invece, che le distanze sono poste a tutela, non del singolo interesse del privato, ma a tutela di interessi pubblici. Il carattere cogente delle norme in oggetto trascende il mero interesse privato per dettare norme di interesse generale a tutela dell’urbanistica, ne consegue l’inderogabilità sia del codice civile che delle norme locali.
Neppure la giurisprudenza è uniforme. Alcune sentenze propendono per il carattere privatistico della norma, e di conseguenza per la sua derogabilità; in quanto disciplina i soli rapporti tra vicini[4].
Un secondo indirizzo sostiene l’inderogabilità della norma, ma distingue a seconda che si tratti di distanze stabilite dall’art. 873 c.c., che tutela solo interessi soggettivi dei privati; o se invece si tratta di norme regolamentari che al contrario tutelerebbero l’interesse generale urbanistico e per questo sarebbe inderogabili.[5]
Le critiche maggiori hanno riguardato in primo luogo la considerazione che non può ritenersi un affare tra privati quanto disciplinato nel codice civile, una seconda critica ha affermato che comunque il regolamento comunale tutela interessi pubblici e cogenti.
A fronte di questa indecisione giurisprudenziale la dottrina, maggioritaria, invece, è giunta ad affermare la inderogabilità delle distanze imposte per le costruzioni, indipendentemente dalla loro fonte. Essa sostiene infatti che l’art. 873 c.c. tutela entrambi gli interessi, sia privati che pubblici, e che la disciplina delle distanze è connaturata nella proprietà, di conseguenza non può non conformarsi al dettato della legge. L’imprescrittibilità, in oggetto, deriverebbe dal fatto che esso non nasce in virtù di un titolo, ma consegue in modo diretto ed automatico ad una situazione di fatto, cioè la vicinanza di due fondi. L’art. 873 c.c. tutelerebbe cumulativamente sia interessi privati che pubblici, sarebbe inerente alla proprietà privata così come conformata a fini di utilità sociale e quindi non potrebbero esserci convenzioni tra privati che siano in disaccordo con quanto stabilito dal codice o dalle singole leggi locali in materia di distanze, poiché si tratterebbe di un potere che esorbita la sfera giuridica dei privati medesimi.
Se al contrario si aderisse alla natura dispositiva dell’art. 873 c.c. ne discenderebbe una serie di conseguenze non irrilevanti: tra le quali la derogabilità mediante accordi negoziali, la possibilità di usucapione ventennale della distanza inferiore a quella prevista, la non retroattività dell’efficacia, con la conseguenza che se l’edificio risulta costruito senza rispettare le distanze prima dell’entrata in vigore dell’attuale codice civile, il vicino non avrebbe diritto a chiedere il ripristino della distanza legale.
Dottrina e giurisprudenza sono invece concordi sulla definizione di costruzione: come qualsiasi opera edilizia che per struttura, carattere, destinazione sia stabile, saldamente ancorata al suolo, e permanente[6]. È da considerarsi costruzione anche quella sotterranea; non rileva, invece, il carattere accessorio o principale della costruzione medesima.
Anche la sentenza in commento conferma quanto sopra esposto sostenendo che la costruzione di un garage sia da intendersi come costruzione a prescindere dal fatto che sia accessoria o meno alla costruzione principale. Essa, se rispettosa della normativa locale in base alle altezze può considerarsi basso fabbricato a prescindere dal fatto che sia unita o meno ad altra costruzione, con la conseguenza che se in linea con tutti i dettami dettati dal P.R.G. può derogare alla normativa sulle distanze, in quanto ciò espressamente previsto dal piano regolatore, a prescindendere da come la costruzione sia effettuata.
BIBLIOGRAFIA
Francesco Del Bene “Distanze tra costruzioni” Enciclopedia Giuridica Treccani.
Lycia Gardani Contursi Lisi “Distanze legali (dir. vig)” Enciclopedia del Diritto Giuffrè editore
Manlio Bellomo “Distanze legali (dir interm.) Enciclopedia del Diritto Giuffrè editore
Francesco Gazzoni “manuale di diritto privato” IX edizione Edizioni Scientifiche Italiane.
Massimo Bianca Diritto civile 6 la proprietà” Giuffrè editore
Antonio Gambaro “Il diritto di proprietà” trattato di diritto civile e commerciale Cicu – Messineo, Giuffrè Editore
SENTENZA
Corte di Cassazione 22 novembre 2012 n. 20713
omissis
Ritenuto in fatto
1- N.N. e D.P. , comproprietari di un immobile sito in (omissis), lamentando che A.A.M. e C.B. avevano intrapreso una nuova costruzione sul fondo finitimo di loro proprietà – e, segnatamente, una porzione di fabbricato destinata ad autorimessa con annesso ripostiglio e scala di accesso al piano superiore con copertura praticabile come terrazzo – la quale risultava essere in violazione delle norme in materia di distanze e di vedute, convenivano i predetti dinanzi al Tribunale di Novara, sezione distaccata di Borgomanero, con azione di denuncia di nuova opera, chiedendo che fosse vietata la continuazione dell’opera anzidetta.
Nel costituirsi in giudizio i convenuti eccepivano l’inammissibilità dell’azione per essere la costruzione ultimata e, comunque, deducevano che la costruzione era da qualificarsi come “basso fabbricato”, come tale non soggetto alla normativa sulle distanze dal confine.
Con ordinanza del 15 febbraio 2001 il Tribunale vietava la continuazione dell’opera ai convenuti imponendo ai ricorrenti una cauzione di lire 5 milioni.
Instauratasi la causa di merito, i ricorrenti contestavano che la costruzione potesse qualificarsi come “basso fabbricato”, essendo strutturalmente unita all’edificio principale così da costituire un unico corpo di fabbrica, dalla cui copertura era possibile esercitare una veduta illegittima sul fondo contiguo, là dove, peraltro, l’intervento edilizio prevedeva anche una consistente modificazione dell’andamento superficiale del suolo, in violazione dell’art. 2 delle norme di attuazione del Piano regolatore generale comunale (N.T.A.); insistevano, pertanto, per la condanna dei convenuti alla demolizione o all’arretramento della costruzione a distanza legale, oltre al risarcimento dei danni. Pretese, queste, la cui fondatezza era contestata dai convenuti.
Parzialmente accolto il reclamo proposto dai convenuti (con imposizione agli attori di cauzione di lire 10 milioni per l’eventuale risarcimento dei danni conseguenti alla sospensione dei lavori), la causa veniva istruita con l’espletamento di c.t.u. al fine di acquisire la descrizione dei luoghi e per accertare la rispondenza di quanto realizzato rispetto alla concessione edilizia ed agli strumenti urbanistici.
Con sentenza del luglio 2003, il Tribunale adito vietava l’apertura di veduta sopra alla soletta di copertura dell’autorimessa e respingeva ogni altra domanda proposta dagli attori, ordinando lo svicolo della somma a cauzione, a tali fini ritenendo che la costruzione dovesse qualificarsi come “basso fabbricato” ai sensi dell’art. 6 delle norme di attuazione del P.R.G. del Comune di Grignasco, non soggetta dunque alle norme sulle distanze.
2. – La decisione veniva appellata da N.N. e P.D. e, nel contraddittorio delle parti, la Corte di appello di Torino, con sentenza resa pubblica il 27 giugno 2006, accoglieva parzialmente il gravame, dichiarando “che la costruzione realizzata dagli appellati viola le norme sul P.R.G. del Comune di Grignasco in materia di distanza dal confine e condanna gli appellati a ricondurre la costruzione a distanza regolare, secondo quanto disposto dall’art. 27 delle norme di attuazione del piano regolatore”.
La Corte territoriale, nel ritenere chiara la situazione di fatto descritta dal c.t.u., ma non condivisibili le sue conclusioni (relative al fatto che la costruzione non era da reputarsi “strutturalmente unitaria perché l’eventuale demolizione della parte adibita ad autorimessa non pregiudicherebbe la permanenza della restante parte”), osservava che non poteva essere messa in discussione la circostanza che l’autorimessa ed il piano cantinato dell’edificio principale costituivano “un locale unico”, ciò evincendosi anche dal progetto che prevedeva “un unico piano seminterrato con un unico accesso”, cosi da doversi ritenere che la costruzione “è stata voluta e realizzata come un’unica cosa e non come due entità collegate”. Il giudice di appello rilevava, poi, che l’eventuale demolizione della parte seminterrata non avrebbe determinato il crollo dell’edificio principale, ma ciò non poteva reputarsi “sufficiente per escludere l’unità strutturale della costruzione, tanto più se si considera che le due solette hanno appoggi comuni”. Di qui, la affermata esclusione della deroga alla normativa delle distanze di cui all’art. 6 N.T.A. e la condanna degli appellati a ricondurre la costruzione a distanza legale, ai sensi dell’art. 27 N.T.A., con conseguente assorbimento anche dell’altro motivo di gravame, incentrato sulla violazione dell’art. 2 N.T.A. (per l’asserita rilevante modificazione dello stato dei luoghi), in quanto ulteriore causa petenti della medesima domanda di demolizione o arretramento del fabbricato a distanza legale. Inoltre, la Corte di appello, dichiarata inammissibile la domanda risarcitoria in relazione alla veduta illegittima, per carenza di doglianze sulla relativa reiezione da parte del giudice di primo grado, respingeva la domanda di danni in riferimento alla violazione della normativa sulle distanze, in quanto sfornita di prova.
3. – Per la cassazione di tale sentenza ricorrono B.C. e A.M.A. , affidando le sorti dell’impugnazione a tre motivi di censura.
Resistono con controricorso D.P. e N.N. , proponendo anche ricorso incidentale condizionato, al quale resistono con controricorso i ricorrenti principali.
Entrambe le parti hanno depositato memoria in prossimità dell’udienza.
Considerato in diritto
1. – Preliminarmente, occorre riunire, ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ., le separate impugnazioni avverso la medesima sentenza.
2. – Va anzitutto esaminato il ricorso incidentale condizionato con il quale P.D. e N.N. ripropongono “alcune eccezioni e argomentazioni svolte nel giudizio di appello e non esaminate dalla Corte in quanto assorbite”.
In particolare, la Corte territoriale avrebbe mancato di considerare quanto dedotto da essi appellati “in punto a destinazione a terrazzo giardino pensile della copertura della porzione di fabbricato in contestazione, delle dimensioni della parte contestata rispetto all’intero fabbricato ad uso residenziale costruito da A. e B. , dell’altezza della porzione di fabbricato in contestazione tenuto conto del movimento di terra e della conseguente artificiosa modificazione dei luoghi operata dai ricorrenti”, in violazione dell’art. 2 N.T.A.
Sicché, sostengono i ricorrenti incidentali, vi sarebbe stata omessa motivazione in ordine ai predetti fatti controversi.
2.1. – Tale impugnazione è inammissibile alla stregua del principio – consolidato (tra le altre, Cass., 19 ottobre 2006, n. 22501; Cass., 5 maggio 2009, n. 10285; Cass., 7 luglio 2010, n. 16016) – per cui, in tema di giudizio di cassazione, è inammissibile per carenza di interesse il ricorso incidentale condizionato allorché proponga censure che non sono dirette contro una statuizione della sentenza di merito, ma sono relative a questioni sulle quali il giudice di appello non si è pronunciato, ritenendole assorbite, atteso che in relazione a tali questioni manca la soccombenza che costituisce il presupposto dell’impugnazione; pertanto, esse possono solo essere riproposte nel giudizio di rinvio in caso di accoglimento del ricorso principale.
3. – Deve ora esaminarsi il ricorso principale, muovendo dal secondo e terzo motivo, con i quali è unitariamente prospettata, rispettivamente, la violazione dell’art. 9 della legge n. 122 del 1989 e l’omessa motivazione circa l’applicazione dello stesso art. 9 in deroga alle norme previste dal P.R.G. del Comune di Grignasco
Posto che in base al citato art. 9 della legge n. 122 del 1989 i proprietari di immobili possono realizzare, nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno, parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, essi ricorrenti avevano eccepito, nel corso del giudizio di primo grado, che il fabbricato controverso avrebbe potuto, in ogni caso, essere realizzato anche in deroga alle previsioni del P.R.G.C., in forza di detto art. 9 e tale evocata norma non è stata in alcun modo considerata sia dal Tribunale, che dalla Corte di appello, non essendovi motivazione alcuna sulla applicabilità della stessa al caso di specie.
I ricorrenti formulano conclusivamente il seguente quesito ai sensi dell’art. 366-bis cod. proc. civ.: “È applicabile al caso di specie, costruzione di immobile di cui parte adibito ad autorimessa e locale ripostiglio l’art. 9 L. 122 del 24.03.1989 qualora l’edificio, in cui sono inseriti detti locali, non rientri nelle previsioni contenute negli strumenti urbanistici e nei regolamenti edilizi, nel caso specifico del P.R.G. del Comune di Grignasco?”
3.1. – I motivi sono inammissibili.
Con essi si fa valere, nella sostanza, un error in procedendo (per omessa pronuncia) e cioè quel vizio che impone a questo giudice di legittimità – secondo l’orientamento ribadito dalle Sezioni Unite civili a composizione di un pregresso contrasto giurisprudenziale (sentenza n. 8077 del 22 maggio 2012) – una cognizione non circoscritta all’esame della sufficienza e logicità della motivazione della sentenza impugnata, bensì estesa all’esame diretto degli atti e dei documenti sui quali il ricorso si fonda, purché la denuncia sia stata proposta in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito.
Sicché, lo scrutinio di una siffatta censura può avere ingresso in questa sede solo in quanto il deducente abbia prospettato il vizio del procedimento ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ. ed abbia confezionato il motivo in conformità al principio di specificità della deduzione (in tal senso, la citata Cass., sez. un., n. 8077 del 2012).
Ciò che, nella specie, i ricorrenti hanno mancato di fare.
Peraltro, essi stessi hanno dedotto di aver avanzato l’eccezione anzidetta (cui, all’evidenza, è da ascriversi natura di eccezione in senso proprio, non rilevabile d’ufficio) soltanto in primo grado, là dove era invece necessario, a pena di inammissibilità, che la stessa fosse nuovamente riproposta in appello, affinché non si intendesse rinunciata ai sensi dell’art. 346 cod. pro. civ. (in tale ottica, di recente Cass., 10 marzo 2011, n. 5735).
4. – Con il primo motivo del ricorso principale è denunciata violazione e falsa applicazione dell’art. 873 cod. civ. in relazione agli artt. 6 e 27 del P.R.G. del Comune di Grignasco.
Posto che quanto accertato dal c.t.u. in ordine al fatto che la costruzione in questione è stata edificata nel rispetto dei parametri di cui all’art. 6 N.T.A. per i “bassi fabbricati”, che essa potrebbe essere demolita senza pregiudizio della permanenza della restante parte di edificio e che il citato art. 6, “nel determinare le misure che deve avere un immobile definito basso fabbricato ed adibito ad autorimessa e locale accessorio, non stabilisce che detto locale deve avere struttura autonoma”, sarebbe errata la decisione assunta dalla Corte territoriale che ha sostenuto che la porzione di immobile adibita ad autorimessa e locale accessorio non costituirebbe “basso fabbricato” soltanto “perché è unita (seppur con struttura autonoma come definita dal c.t.u.) al fabbricato principale”, là dove la norma dell’art. 6 del P.R.G.C., imporrebbe unicamente, ai fini della deroga alla normativa sulle distanze, di rispettare i parametri da esso dettati per i locali adibiti ad autorimessa o locali accessori.
A chiusura del motivo è formulato il seguente quesito di diritto: “Un fabbricato, qualora rispetti tutti i criteri previsti dal piano regolatore per essere in tal modo definito (altezza, vincoli, ecc.), deve necessariamente essere un fabbricato singolo o può fare parte di un fabbricato più ampio e, nel caso specifico, la parte di fabbricato edificata ed adibita dai ricorrenti ad autorimessa e ripostiglio rientra nelle previsioni dell’art. 6 del P.R.G. del Comune di Grignasco che prevede la possibilità di edificarlo in deroga alle distanze previste dall’art. 27 del P.R.G. del Comune di Grignasco, in conformità ai dettami previsti dal codice civile in materia di distanze?”.
4.1. – Il motivo è fondato.
L’art. 6 N.T.A. del Comune di Grignasco (che essendo norma integrativa del codice civile costituisce vera e propria fonte di diritto in materia, per cui il controllo dell’esatta applicazione ed interpretazione di esso spetta alla Suprema Corte sotto il profilo dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.; in tal senso già Cass., 6 dicembre 1984, n. 6410) cosi recita, nella parte che interessa in questa sede: “Distanza dai confini: è definita dalla distanza misurata a raggio tra ogni punto della Superficie coperta ed il confine; tale parametro non si applica ai casi di bassi fabbricati con altezza lorda comprensiva di tutte le strutture del fabbricato non superiore a metri 2,95 e con altezza netta interna non superiore a metri 2,50 destinati ad autorimessa o locali accessori ed espressamente vincolati a tale uso nella concessione edilizia; per detti bassi fabbricati si farà comunque riferimento alla normativa del vigente codice civile”. Quanto alla “Superficie coperta di un edificio”, richiamata dalla disposizione in esame, essa è così definita dallo stesso art. 6: “è l’area rappresentata dalla proiezione, su di un piano orizzontale, del perimetro dei vari piani emergenti dal terreno, comprese le parti sporgenti; si misura al netto di parti aggettanti aperte (gronde, pensiline, balconi e simili) aventi aggetto non superiore a mi 1,50?.
La Corte territoriale ha ritenuto che l’autorimessa costruita dai ricorrenti – dalle dimensioni rispettose di quelle indicate dal citato art. 6 – non potesse qualificarsi come “basso fabbricato” perché facente corpo unico con il piano cantinato, così da doversi ritenere che la costruzione “è stata voluta e realizzata come un’unica cosa e non come due entità collegate”. In definitiva, per il giudice di appello ciò che rileva al riguardo, per escludere la sussistenza di un “basso fabbricato”, è la “unità strutturale della costruzione” (anche per l’appoggio comune delle solette), che, nella specie, non potrebbe essere messa in discussione neppure dalla circostanza che l’eventuale demolizione della parte seminterrata non avrebbe comunque determinato il crollo dell’edificio principale.
Invero, in disparte il fatto che il concetto di unità strutturale assunto dal giudice del merito per escludere l’applicabilità della deroga regolamentare appare claudicante là dove, invece di dar rilievo eminente agli elementi obiettivi che esso di per sé dovrebbe evocare (così da non potersi sminuire la circostanza che l’eventuale demolizione dell’autorimessa non comporterebbe un pregiudizio per la staticità dell’edificio principale), utilizza più che altro quelli correlati alla volontà delle parti (unicità del progetto ed intenzione dei costruttori di non considerare le costruzioni tra loro autonome), detto concetto non trova richiamo alcuno nella norma dell’art. 6 N.T.A., la quale si limita ad indicare, oltre alle dimensioni del “basso fabbricato”, la sua destinazione (autorimessa o locali accessori), siccome “espressamente” vincolata a tale uso “nella concessione edilizia”.
Il fatto che l’art. 6 N.T.A. non faccia cenno ad una unitarietà tra costruzione principale e costruzione accessoria (quale da ritenersi il “basso fabbricato”) non può, dunque, risultare irrilevante e ciò tanto più là dove il collegamento tra le due unità è, come sopra detto, lungi da implicarne reciproca ed assoluta dipendenza.
Né con questo si verrebbe ad aggirare la normativa sulle distanze, consentendo all’unico corpo di fabbrica di estendersi, in forza della deroga concessa alla parte accessoria, sino al confine del fondo finitimo, giacché lo scopo sarebbe ugualmente eluso ove il “basso fabbricato” fosse eretto con una separazione minima dal corpo principale.
Ciò che, dunque, rileva è che la costruzione accessoria (autorimessa o locale) sia effettivamente vincolata in base alla concessione edilizia e che rispetti le dimensioni dettate dall’art. 6 citato, ben potendo unirsi alla costruzione “principale”.
Siffatta conclusione trova, anzi, deciso conforto nella nozione di “Superficie coperta dell’edificio”, considerata dallo stesso art. 6 N.T.A. quale parametro per la misurazione della distanza dal confine. Se, infatti, detto parametro è dato da(1)”l’area rappresentata dalla proiezione, su di un piano orizzontale, del perimetro dei vari piani emergenti dal terreno, comprese le parti sporgenti” (al netto di quelle con aggetto aperto non superiore a mi 1,50) ed esso “non si applica ai casi di bassi fabbricati” (come recita la norma in esame), è agevole desumere che questi ultimi integrano, di regola, l’area perimetrale suddetta, in quanto parte dei “vari piani emergenti dal terreno” dello stesso edificio al quale accedono.
Quanto, poi, al richiamo, operato dai controricorrenti P. e N. , del precedente costituito da Cass., 6 maggio 1987, n. 4208, siccome ritenuto “su identica questione”, è agevole rilevare (la sentenza è così massimata: “L’art. 5 delle norme di attuazione del programma di fabbricazione del comune di Rio Pusteria, approvato dalla giunta provinciale con delibera 24 maggio 1971 n. 1497, laddove definisce come costruzioni accessorie – per le quali ammette deroga alle distanze dai confini del lotto – quelle di minore grandezza ed altezza destinate a scopi secondari con carattere di dipendenza dall’edificio primario, con esclusione di uso di abitazione e limitate al solo piano terreno, va interpretato logicamente, al di là della sua equivoca formulazione letterale, nel senso che non possono ricomprendersi nel novero delle costruzioni accessorie quelle strutturalmente unite agli edifici principali, sì da costituire con essi un unico corpo di fabbrica”), che esso attiene a norma regolamentare del tutto diversa da quella qui scrutinata e, dunque, suscettibile di una lettura esegetica non spendibile nella presente fattispecie.
5. – L’accoglimento del primo motivo del ricorso principale comporta la cassazione, in parte qua, della sentenza impugnata ed il rinvio della causa ad altra sezione della Corte di appello di Torino, che dovrà attenersi a quanto enunciato al punto sub 4.1. e provvederà anche al regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi ; dichiara inammissibile il ricorso incidentale condizionato; accoglie il primo motivo del ricorso principale e dichiara inammissibili il secondo ed il terzo motivo dello stesso ricorso; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Torino anche per il regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.
[1] Corte Costituzionale 30 gennaio 1980 nr 5
[2] Cassazione Civile 10 giugno 1961 nr 1360 e Cassazione Civile 24 giugno 1961 nr 1522
[3] Massimo Bianca “diritto civile 6 la proprietà” Giuffrè Editore
[4] Sono svariate le cassazioni, per citarne alcune: Cass. Civ. 2 febbraio 1942 nr 322; Cass. Civ. 10 maggio 1963 nr 1151; Cass. Civ. 5 gennaio 1980 nr 60
[5] Si veda Cass. Civ. 30 giugno 1941; Cass. Civ. 6 giugno 1964 nr 1389.
[6] Cass. Civ. 24 maggio 1997 nr 4639