a cura del Dott. Fabio Squillaci

La qualificazione del silenzio della PA nell’ambito del diritto amministrativo è diversificata nel senso che la legge prevede diversi effetti come conseguenza del silenzio, in dipendenza del tipo di procedimento nel quale il medesimo viene a formarsi. La tempistica procedimentale ha assunto nel tempo  un crescente rilievo così da indurre il legislatore, anche sulla spinta della giurisprudenza sviluppatasi, a dettare precise regole al riguardo. L’evoluzione normativa  inizia negli anni ’90  sia  con la legge 241,  che canonizza il principio di doverosità dell’esercizio del potere amministrativo e della certezza dei tempi dell’azione pubblica, sia con la legge 86 la quale, nel riscrivere l’articolo 328 c.p., incrimina la condotta dell’agente pubblico il quale, entro trenta giorni dall’istanza di chi vi abbia interesse, non adotta l’atto del suo ufficio e non espone le ragioni del ritardo.

In via generale, e quale estrinsecazione dei principi di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost., l’art. 2 della L. n. 241/1990 ha previsto il generale obbligo per la PA di concludere il procedimento mediante l’adozione di un provvedimento espresso con la conseguente illegittimità dell’inerzia della PA e/o dei suoi comportamenti omissivi. Con riferimento al termine per l’adozione del provvedimento espresso, ciascuna amministrazione è chiamato a determinarlo con riferimento alla complessità del relativo procedimento; in difetto soccorre il termine indicato direttamente nell’art. 2 della L. n. 241 del 1990 pari a 90 giorni. Detto termine è stato peraltro ridotto a trenta giorni dalla L. n. 69/2009 che, tuttavia, ha delegato le amministrazioni a dotarsi con proprio regolamento di un termine più lungo, non superiore a 90 giorni o, per comprovate e straordinarie esigenze, non superiore a 180 giorni. La legge sul procedimento amministrativo altresì prevede che i termini possono essere sospesi, per una sola volta, per l’acquisizione di informazioni o certificazioni relative a  fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso dell’amministrazione stessa o non direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni, andando a configurare una ulteriore delega al termine generale di 30 giorni. Sul punto la dottrina si è interrogata circa due aspetti ovvero da un lato con riferimento alla natura giuridica di suddetti termini procedimentali e dall’altro sulla tutela da riconoscere all’istante nelle ipotesi di sospensione sine die. In relazione alla prima questione orientamento maggioritario ritiene che i termini di cui all’art.2 L241/90 abbiano carattere ordinatorio e pertanto che l’amministrazione possa procedere anche una volta scaduti. Questa tesi è altresì corroborata dall’impostazione del termine nel 31 cpa laddove il ricorso avverso il silenzio può essere avanzato finché perdura l’inadempimento. Tuttavia dottrina minoritaria pur confermandone il carattere accelleratorio ritiene che esso non possa operare con riferimento ai provvedimenti negativi per l’istante che si vedrebbe esposto a pregiudizi non giustificabili. Con riferimento alla seconda questione si era posto l’interrogativo se l’istante, a seguito di sospensione sine die interruttiva del procedimento in corso, dovesse attendere la conclusione del procedimento ovvero potesse procedere immediatamente ex 117 cpa. Sul punto prevale questa seconda ricostruzione atteso che , altrimenti, il privato rimarrebbe esposto ad un pregiudizio durevole e non circoscritto.

Il crescente interesse per la tempistica amministrativa trova  altresì conferma in due distinti provvedimenti di modifica della legge 241/1990: la  legge 15/2005 e la legge 80/2005 che sanciscono un vero e proprio cambiamento nel modo di concepire l’inerzia della  pubblica amministrazione. Le modifiche apportate difatti incidono da un lato, liberalizzando tutte quelle attività private prima sottoposte a provvedimenti autorizzativi ( c.d. DIA successivamente modificata in SCIA a seguito della legge 122/2010.), dall’altro invece  generalizzando, mediante la riformulazione dell’articolo 20 della l. 241/1990, il silenzio assenso che viene esteso a tutti i procedimenti ad istanza di parte ad eccezione dei provvedimenti rilasciati dalle amministrazioni preposte alla cura di interessi qualificati ( difesa nazionale, pubblica sicurezza, immigrazione, patrimonio culturale e paesaggistico , ambiente) e  dei casi in cui la normativa comunitaria impone l’adozione di provvedimenti formali .  Come si evince dal dettato normativo il silenzio assenso, lungi dall’operare nei casi tassativamente  previsti, diventa un istituto generale il cui scopo è quello di ridimensionare il più possibile i casi in cui l’inerzia dell’amministrazione è in grado di produrre effetti negativi in danno del privato, costringendolo ad attivarsi sul piano giudiziario  per ovviare alla inattività creatasi.

In mancanza di diverse previsioni di legge o regolamento, il silenzio amministrativo è sempre silenzio inadempimento in relazione a quanto previsto, in via generale, dall’art. 2 della L. n. 241/1990 ed alla generale previsione dell’obbligo di provvedere di cui al medesimo articolo.

Per alcune fattispecie particolari, invece, la legge conferisce al silenzio amministrativo il valore significativo tipico di silenzio assenso o di silenzio diniego. L’art. 20 della L. n. 241/1990 individua un’ipotesi di silenzio assenso mentre, in tema di accesso agli atti amministrativi, l’art. 25 prevede un’ipotesi di silenzio diniego. In altre fattispecie, il silenzio amministrativo assume il valore di silenzio devolutivo nel senso che, a fronte del silenzio della PA, l’istante è ammesso a rivolgersi per ottenere il medesimo atto ad altro organo o ad altro soggetto. Un esempio di silenzio devolutivo si rinviene all’art. 17 della L. n. 241/1990 in tema di valutazioni tecniche nel senso che la PA procedente in caso di comportamento omissivo dell’organo cui abbia richiesto una valutazione tecnica, può rivolgersi al medesimo fine ad altro organo o ad istituti universitari con competenze adeguate (salvo che si tratti di materie riguardanti la tutela ambientale, paesaggistica e territoriale o la materia del diritto alla salute).

L’istituto del silenzio inadempimento o silenzio rifiuto, è un rimedio di origine giurisprudenziale e nasce per offrire al privato, titolare di un interesse qualificato,  la possibilità di ricorrere al giudice  amministrativo per superare l’inerzia della pubblica amministrazione. A tal fine con l’articolo 2 della l. 241/1990, è stata introdotta una disposizione, avente portata generale, volta a canonizzare il principio di doverosità dell’esercizio del potere amministrativo e della certezza dei tempi di azione pubblica. Stabilire la sussistenza di un obbligo in capo alla pubblica amministrazione non è sempre cosa facile, anche se   la giurisprudenza prevalente, partendo dal principio generale della doverosità dell’azione amministrativa, tende già da tempo ad ampliare l’ambito delle situazioni in cui  per la P.A. vi è l’obbligo di provvedere, al di là di quelle situazioni già previste dalla legge.  E’ stato così affermato che l’obbligo di provvedere, oltre ai casi di legge, esiste in tutte quelle particolari fattispecie nelle quali ragioni di giustizia e di equità impongono l’adozione di un provvedimento. La giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato Sez VI 11 maggio 2007, n.2318) ha tentato di individuare alcune categorie di atti rispetto alle  quali sussisterebbe o meno il suddetto  obbligo. Queste sono così riassumibili: 1) Istanze dirette ad ottenere un provvedimento favorevole : questo tipo di istanze, volte ad ampliare la sfera giuridica del richiedente, determinano l’ obbligo per la P.A. di provvedere  quando chi le presenta sia titolare di un interesse legittimo pretensivo. Questo perché  il soggetto che ha un interesse differenziato e qualificato ad un bene della vita, per il cui conseguimento è necessario che la P.A. eserciti il proprio potere mediante l’emanazione del provvedimento, è in realtà titolare di una situazione giuridica che lo legittima, anche in assenza di specifiche norme di previsione. 2) Istanze di riesame di atti sfavorevoli emanati in precedenza: questo tipo di istanza invece, volta ad ottenere il riesame da parte della P.A. di un atto autoritativo  non impugnato tempestivamente dal richiedente, non  comporterebbe, di regola, un obbligo di riesame da parte della P.A. , in quanto il suddetto obbligo potrebbe inficiare le ragioni di certezza delle situazioni giuridiche e di efficienza gestionale che sono alla base dell’agire autoritativo della P.A., nonché della inoppugnabilità dopo il termine di decadenza dei relativi atti.  3) Istanze dirette a produrre effetti sfavorevoli nei confronti di terzi, dall’adozione  dei quali il richiedente possa trarne indirettamente vantaggi ( c.d. interessi strumentali) questo tipo di istanza è volta a far ottenere al richiedente, l’esercizio da parte della P.A. di poteri sfavorevoli per soggetti terzi, come ad esempio poteri repressivi, inibitori, sanzionatori. In realtà è difficile distinguere tra istanza che fa nascere l’obbligo di provvedere e l’esposto quale rappresentazione  di una data situazione.

Nel nuovo articolo 2 della l. 241/1990, sono state introdotte importanti novità riguardo al procedimento di formazione del silenzio inadempimento. In primo luogo è finita la disputa sulla necessità di diffida e sui termini del ricorso. Infatti, prendendo atto che il ricorso avverso il silenzio inadempimento non costituisce un’azione impugnatoria ma semplicemente un’azione dichiarativa e di condanna, le modifiche apportate dalla novella del 2005 hanno disposto, che  la domanda giudiziale non sia più sottoposta all’onere della previa diffida e, in luogo dello stringente termine decadenziale  di 60 giorni, ha introdotto il termine lungo di un anno , decorso il quale il privato perde ogni possibilità di tutela.  Scaduto il termine annuale quindi l’istante , non potendo più impugnare il silenzio formatosi sulla sua prima istanza , potrà comunque procedere co n la presentazione di una nuova istanza.  La previsione di un termine finale oltre al quale  l’azione non è più proponibile, ha la funzione di tutelare la P.A. affinchè la situazione di incertezza non si protragga per un tempo infinito. Scaduto l’anno, il soggetto non potrà più esercitare eventuali azioni ma gli sarà consentito soltanto di attivare un nuovo procedimento amministrativo. Un primo riferimento all’azione avverso il silenzio è contenuto nell’art. 7, nell’ambito della definizione della giurisdizione amministrativa (commi 1 e 4); la formulazione della norma conferma l’orientamento espresso dalla giurisprudenza prevalente secondo la quale il ricorso avverso il silenzio rifiuto va proposto da chi vanta un interesse legittimo al provvedimento omesso, presupponendo il mancato esercizio di una potestà amministrativa. Il rito è disciplinato dall’art. 117:  il ricorso, come già disposto dall’art. 2, l. n. 241/1990, può essere proposto anche senza previa diffida, ma il codice, innovando sul punto, stabilisce che la notifica va fatta, oltre che all’amministrazione, “ad almeno un controinteressato”, sempre nel termine di cui all’art. 31, comma 2. Il legislatore della riforma, in tal modo, fa proprio l’orientamento giurisprudenziale più attento all’esigenza di tutela di quei soggetti che, anche nel rito sul silenzio, sono titolari di interessi contrapposti a quelli del ricorrente, garantendo la piena esplicazione del principio del contraddittorio. Si tratta di un notevole passo avanti se si considera che prima dell’entrata in vigore del codice la giurisprudenza assolutamente prevalente riteneva che  non vi fossero controinteressati in senso proprio nei ricorsi contro il silenzio. Nell’ambito della disciplina dell’azione di condanna, il codice (art. 30 comma 2) ha previsto l’esperibilità della tutela risarcitoria anche in ipotesi di inerzia della PA.

Diversamente dal silenzio inadempimento il silenzio-assenso costituisce un tipico rimedio previsto dal legislatore per prevenire il  prodursi di conseguenze negative collegate all’inerzia amministrativa e trova applicazione nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi. mentre non si applica ai casi in cui la legge qualifica il silenzio. Da ciò discende che ogniqualvolta la legge detta  una disciplina speciale, attribuendo al comportamento inerte della P.A. uno specifico significato, l’istituto del silenzio assenso non trova applicazione  perchè altrimenti la disciplina speciale non avrebbe significato.  Con riguardo alla sua  natura giuridica si evidenzia che, trattandosi  di un comportamento legalmente tipizzato,  si configura   come un  provvedimento di accoglimento dell’istanza presentata dal privato. Secondo una parte della dottrina il silenzio assenso è addirittura un atto amministrativo tacito o un comportamento concludente recante una manifestazione di volontà implicita della pubblica amministrazione.

Anche in materia di silenzio assenso valgono le eccezioni per materia di cui all’art. 19, sicchè esso non si forma nei procedimenti in materia di sicurezza pubblica, di immigrazione, di difesa nazionale, di tutela della salute, del paesaggio, dell’ambiente, nonchè in materia di amministrazione della giustizia e delle finanze e in materia di atti imposti dalla normativa comunitaria.  La disciplina in materia di silenzio assenso non si applica, inoltre, in tutti i casi in cui il silenzio della PA assuma il significato di silenzio rigetto (cfr. l’art. 25 della L. n. 241 del 1990 in tema di istanze ostensive). Si ritiene, in ogni caso, che la norma di cui all’art. 20 della L. n. 241 del 1990 non legittimi, per un verso, il consolidamento di posizioni in favore del privato che sia privo dei requisiti legali per l’esercizio dell’attività o che abbia formulato un’istanza allegando circostanze false e, per altro verso, non sia applicabile, ex art. 97 Cost, a quei procedimenti autorizzatori o concessori relativamente ai quali il privato non sia in grado di allegare tutti i fatti  e i documenti la cui acquisizione sia necessaria per l’adozione del provvedimento.

La distinzione sostanziale tra le autorizzazioni di cui all’art. 19, in ordine alle quali viene prevista il procedimento della dichiarazione di inizio attività, e quelle di cui all’art. 20, in ordine alle quali viene previsto il procedimento del silenzio assenso, è che, mentre le prime hanno natura di autorizzazioni vincolate, le seconde sono di carattere discrezionale. Tra le differenze, in chiave procedimentale, mette conto segnalare che, secondo la prevalente dottrina, il preavviso di diniego di cui all’art. 10 bis sarebbe compatibile solo con il procedimento di silenzio assenso di cui all’art. 19 della L. n. 241 del 1990 e non con quello della DIA.

L’art. 3 del D.L. n. 35/2005, convertito in legge n. 80/2005, in materia di autorizzazioni amministrative, novellando l’art. 19 della L. n. 241/1990, ha previsto che, in ogni caso in cui l’autorizzazione richiesta sia sostanzialmente vincolata all’accertamento della sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto prescritti dalla legge (o da atti di normazione secondaria), l’interessato possa presentare una dichiarazione di inizio attività (la D.I.A.) e possa intraprendere l’attività medesima decorso il termine di trenta giorni dalla presentazione della dichiarazione medesima, previa comunicazione d’inizio attività. Nel successivo termine di trenta giorni dalla comunicazione di inizio attività la PA potrà emettere provvedimenti motivati di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione dei suoi effetti. Tale termine potrà essere implementato di ulteriori trenta giorni ove sia necessario, i  merito all’istanza, acquisire pareri. Il privato ha, a sua volta, un termine, che non può essere inferiore a trenta giorni, per conformarsi ai parametri indicati dalla PA nel provvedimento di divieto di prosecuzione dell’attività. In ogni caso, a fronte della dichiarazione di inizio attività, la PA mantiene il potere di assumere determinazioni in autotutela ex art. 21 quinquies e 21 nonies L. n. 241/1990. Storicamente dunque la dia trovava applicazione nelle ipotesi di attività vincolata della P.A. ed era soggetta ad un doppio regime di termini: 30 g per la verifica documentale ed altri 30 g entro i quali a seguito della dichiarazione di iniziata attività l’AMM. procedeva ai controlli. Con la novella del 2010 in attuazione della Direttiva servizi si contrappone la dia ad efficacia differita a quella semplice, soggetta ad applicazione immediata e operante nel campo delle attività economiche.

L’impostazione della Dia ad efficacia differita, che costituisce titolo autorizzatorio ai sensi della Direttiva servizi, distinta dalla Dia ad efficacia immediata, sottratta al regime autorizzatorio, è stata letteralmente spazzata via dalla Segnalazione certificata di inizio attività, che prevede, in ogni caso l’avvio immediato dell’attività. La soluzione della Scia ad efficacia (solo) immediata e l’ampio ricorso alle “autocertificazioni” e “asseverazioni” è la risposta alle esigenze di semplificazione espresse dalle imprese. L’attività economica può iniziare dalla stessa data di presentazione della SCIA all’Amministrazione competente, senza attendere i 30 giorni previsti in precedenza. Le amministrazioni avranno poi 60 giorni per esercitare i controlli ed eventualmente chiedere all’impresa, in mancanza dei requisiti necessari, la rimozione degli effetti dannosi.

Sotto il profilo dell’ambito applicativo del modello procedimentale introdotto con la dichiarazione di inizio attività, il comma 1 dell’art. 19 della L. n. 241/1990 stabilisce che esso riguardi ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta comunque denominato, comprese le domande per iscrizioni in albi o ruoli per l’esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento dei requisiti e presupposti di legge o di atti amministrativi a contenuto generale (autorizzazioni vincolate). Il comma 4 dell’art. 19 prevede, sotto forma d’eccezione alla disciplina generale della dichiarazione di inizio di attività, che permangono i diversi termini, previsti dalla normativa speciale, concernenti l’inizio dell’attività e l’adozione, da parte della PA di provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione dei suoi effetti in determinati e specifici settori(costituisce disciplina speciale in materia, quella della licenza edilizia che trova la sua fonte nel D.P.R. n. 380/2001). Non si applica, inoltre, la disciplina della dichiarazione di inizio attività di cui all’art. 19 della L. n. 241/1990 ai procedimenti in materia di sicurezza pubblica, di immigrazione, di difesa nazionale, di tutela della salute, del paesaggio, dell’ambiente, nonchè in materia di amministrazione della giustizia e delle finanze e in materia di atti imposti dalla normativa comunitaria.

Una prima questione che riguarda la dichiarazione di inizio attività attiene all’inquadramento giuridico dell’intera vicenda in quanto, a fronte di una tesi che ravvisa la sussistenza di un provvedimento tacito di natura autorizzatoria, del che si trarrebbe conferma proprio dal riconosciuto potere di intervenire in autotutela a favore della PA, si pone una tesi secondo cui, nel procedimento disciplinato dall’art. 19 della L. n. 241 del 1990 non vi sarebbe alcuna forma d’esercizio di potere autoritativo da parte della PA, salvo il caso in cui essa inibisca l’esercizio dell’attività ovvero ne rimuova gli effetti e salvo, naturalmente, il caso in cui ponga in essere atti di revoca o d’annullamento in autotutela; peraltro, con riferimento a questi ultimi, il riferimento all’autotutela è, secondo tale tesi, da intendersi solo in senso atecnico come riguardante i presupposti per l’esercizio del relativo potere.

Le due diverse opzioni conducono a conseguenze difformi sul piano della tutela giurisdizionale in quanto, seguendo la ricostruzione della vicenda procedimentale della DIA in termini di provvedimento tacito, il terzo pregiudicato sarebbe titolato ed onerato a ricorrere per l’annullamento di tale provvedimento nel termine di decadenza di sessanta giorni. Ove, invece, si opti per la natura esclusivamente privatistica del procedimento di DIA e per l’assenza di un’attività provvedimentale implicita, il terzo potrebbe solo sollecitare la PA ad esercitare il potere d’inibitoria o quello d’autotutela. In caso d’inerzia della PA a fronte di tale istanza, il terzo potrebbe, poi, esperire l’azione di cui agli artt. 2 e 21 bis della L. n. 241 del 1990 in materia di silenzio inadempimento. Secondo una tesi sostenuta di recente dalla VI° Sezione del Consiglio di Stato, la DIA sarebbe un procedimento che, in via ordinaria, non implicherebbe l’esercizio, neppure in forma implicita, di potestà pubblicistiche sicchè il terzo non avrebbe titolo ad impugnare un provvedimento amministrativo (inesistente) ma solo il potere di promuovere un’azione d’accertamento in merito all’illegittimità dell’attività svolta dal privato. Tale sentenza compulserebbe, poi, la PA ad agire in autotutela ex art. 19 della L. n. 241 del 1990. In realtà con riferimento alla questione della natura giuridica, il Consiglio di Stato supera definitivamente la teoria della valenza provvedimentale dell’istituto (v. C. St., Sez. IV, 8.3.2011, n. 1423) definendo la D.I.A. come atto soggettivamente ed oggettivamente privato, volto a comunicare lo svolgimento di un’attività direttamente ammessa dalla legge. Tale dichiarazione “ad efficacia legittimante” costituisce, ad avviso dell’Adunanza Plenaria, un “modulo di liberalizzazione dell’attività privata”. Con riferimento alle tecniche di tutela esperibili dal terzo leso dall’esercizio dell’attività denunciata con la D.I.A, lo stesso potrà esperire (oltre all’azione cautelare anche ante causam) un’azione di accertamento diretta a verificare la non sussistenza dei presupposti per l’esercizio dell’attività denunciata. L’Adunanza Plenaria ritiene, infatti, tale azione ammissibile (seppur atipica) e compatibile con il disposto di cui all’art. 34, co. 2, C.p.a. Tuttavia tale impostazione è superata dall’introduzione del decreto sviluppo che in materia di segnalazione certificata introduce una serie di chiarimenti che ne hanno confermato l’applicazione in campo edilizio, affermando anche l’impossibilità di estenderla alla cosiddetta SuperDIA e aggiungendo che la SCIA non può sostituirsi alle autorizzazioni e nulla osta da acquisire per aree o edifici sottoposti a vincolo. Viene accolto quanto già affermato in una recentissima sentenza del Consiglio di Stato (n.15/2011 del 29 luglio) che a sua volta era risultata in linea con la tesi più accreditata del dibattito giurisprudenziale, secondo cui la DIA e poi anche la Scia hanno natura di atto privato. La conseguenza di non riconoscere alla SCIA natura di atto amministrativo è che non è possibile da parte del terzo impugnarla dinnanzi al TAR con normale ricorso. Secondo la legge «Gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’articolo 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104». In definitiva Il legislatore, pur recependo l’orientamento del Consiglio di Stato sulla natura giuridica della D.I.A. (oggi S.C.I.A.), come atto privato non immediatamente impugnabile, si discosta da tale decisione quanto ai rimedi esperibili dal terzo controinteressato, il quale ha ora a disposizione solo l’azione prevista dall’art. 31 c.p.a. per i casi di silenzio della p.a. Deve essere chiarito, nondimeno, che il riferimento agli “altri casi previsti dalla legge”, introdotto nell’art. 31 primo comma del Codice ad opera del correttivo di novembre 2011, andrebbe rapportato proprio alla fattispecie disciplinata dal comma 6-ter dell’art. 19 della legge sul procedimento amministrativo, e ciò implica la possibilità di agire ai fini dell’accertamento dell’obbligo di provvedere anche a prescindere dal decorso dei termini per la conclusione del procedimento. In definitiva, il rinvio operato dal legislatore all’istituto del silenzio non riduce in maniera significativa l’ambito di tutela del quale il terzo si può giovare.

L’art. 19 della L. n. 241 del 1990 novellato ha, dunque, sostanzialmente avvicinato l’istituto della DIA ora Scia a quello del silenzio assenso tanto che una minoritaria dottrina ritiene che detti istituti possano essere sostanzialmente assimilati, salve le differenze dei campi applicativi e dei termini.

 

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