L’incostituzionalità della c.d. legge Fini – Giovanardi.

(a cura dell’avv. Domenico Di Leo)

 

Con la sentenza dell’11 giugno 2013, n. 25554, la III Sezione penale della S.C.

ha preso posizione sul tema della ipotizzata incostituzionalità della L. 49/2006 che ha profondamente (e per taluno in maniera surrettizia e contraddittoriamente) modificato il regime sanzionatorio e le norme penali in materia di stupefacenti: e il 12 febbraio 2014, la Corte costituzionale ha accolto l’eccezione di incostituzionalità della legge c.d. Fini – Giovanardi. La Corte costituzionale ha accolto l’eccezione di incostituzionalità, sub specie dell’eccesso di delega, come presentata dalla III sez. penale, in accoglimento della prospettazione dei fatti offerta dall’avvocato dell’imputato trentino in ordine ai fatti contestatigli, secondo cui nella legge di conversione furono inseriti emendamenti estranei all’oggetto e alle finalità del decreto.

Dopo l’intervento della VI Sezione della Corte di Cassazione (sentenza n. 18804/13 del 28 febbraio/29 aprile 2013) che, recentemente, aveva dichiarato manifestamente infondata la duplice questione di legittimità costituzionale, denunziata, sia in relazione all’iter di approvazione della L. 49/2006, sia riguardo allo specifico profilo dell’art. 73 d.p.r. 309/90, è intervenuta la III Sezione, con una pronunzia particolarmente interessante, non solo perchè di segno totalmente opposto alla prima, ma anche per la ricchezza e la corretta profondità della disamina operata, alla luce degli sviluppi in termini di incostituzionalità della l. 49/2006.

L’approccio dei giudici di legittimità è teso a non lasciare nessuna zona di ombra in materia. L’ordinanza in parola costituisce, quindi, la migliore e più plausibile antitesi alla sentenza di rigetto sopra citata, proprio perchè affronta l’argomento della costituzionalità, sia dell’art. 73 – nello specifico – sia dell’intero complesso normativo della legge 49 del 21 febbraio 2006, quale momento di conversione del DL 30 dicembre 2005 n. 272. In ordine al percorso logico – argomentativo seguito, i giudici di Piazza Covour prendono atto della proposizione di tre dubbi di costituzionalità, da parte dell’avvocato dell’imputato:

  1. 1.         la dedotta assenza dei requisiti di straordinaria necessità ed urgenza (previsti dal comma 2 dell’art. 77 Cost.) dell’art. 4 bis dl 272/2005 nel suo assetto originario, oltre  che alla carenza dell’ulteriore carattere dell’omogeneità (sia oggettiva-materiale, che funzionale-finalistica) atteso, per converso, l’evidente eterogeneità ed autonomia delle materie inserite in tale decreto-legge;
  2. 2.        la dedotta assenza dei requisiti di straordinaria necessità ed urgenza (previsti dal comma 2 dell’art. 77 Cost.) dell’art. 4 bis dl 272/2005, ove esso apporta modifiche all’art. 73 d.p.r. 309/90, in sede  di conversione;
  3. 3.        il dedotto inadempimento del legislatore italiano a rispettare gli obblighi normativi di natura comunitaria (governati dall’art. 117 co. 1 Cost.), che nella fattispecie sono individuabili in alcune specifiche determinazioni contenute nella decisione 757/GAI/2004.

 

Il primo rilievo che la S.C. rileva attiene alla “profonda distonia di contenuto, di finalità e di ratio tra il decreto legge n. 272 del 2005 in generale, e anche tra le disposizioni dell’art. 4 in particolare, e le nuove norme introdotte in sede di conversione con le quali è stata sostanzialmente posta una nuova disciplina a regime sulle sostanze stupefacenti…”. Sulla base di questo rilievo, la Corte non manca di evidenziare quanto elevato sia il numero di articoli – 23 – aggiunti in sede di conversione che, assieme ad altri elementi, alimentano il sospetto di costituzionalità sollevato ex parte e recepito dal giudice. Viene, così, evidenziata la necessaria coincidenza – concreta e teleologica – fra l’oggetto del d.l. e le norme che vengano inserite ex novo nella fase della conversione in legge dello stesso.

Nel caso concreto, il Collegio ravvisa la “totale estraneità delle nuove norme rispetto all’oggetto ed alle finalità del decreto-legge”, situazione che venne ad evidenziarsi anche in sede parlamentare e che può essere desunta agevolmente per implicito, ad avviso della S.C., dalla nuova titolazione della L. 49/2006, la quale ha aggiunto all’originale  indicazione anche le inedite parole “e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309”.

La S.C. evidenzia che, nel caso de quo, si tratta del c.d. “abuso della prassi”. Tale vizio si ravvisa quando si sia in presenza della scelta del Governo di introdurre “un maxi-emendamento innovativo rispetto al contenuto originario del decreto legge, al fine di sostituire parzialmente od interamente il testo e sul quale sarà poi posta la questione di fiducia”. Sulla base di questi primi rilievi, la S.C. deriva il primo sospetto di incostituzionalità della l. 49/2006.

La S.C. fa un passo ulteriore: in via subordinata alla questione sin qui descritta, i giudici esaminano il dedotto profilo dell’assenza del ‘presupposto della necessità ed urgenza’, in riferimento all’art. 77 Cost.

Il difetto del duplice requisito (necessità ed urgenza) – previsto dal comma 2° dell’art. 77 Cost. – risulterebbe, comunque, evidente, posto che (in conformità ai principi sanciti dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 171 del 2007) è principio incontroverso che il decreto legge deve sempre subire uno scrutinio di legittimità, non apparendo possibile ed ammissibile l’affermazione secondo la quale la legge di conversione sia idonea a sanare in qualche modo i vizi del decreto stesso. La pronuncia in esame contesta la possibilità di ammettere una generalizzata facoltà emendatrice della legge di conversione perché questo creerebbe un inevitabile conflitto di attribuzioni fra Parlamento e Governo, nello svolgimento dell’attività normativa. Un avallo dell’assunto è giunto dal richiamo alla sentenza n. 22 del 2012, la quale sottolinea “il collegamento funzionale tra i due atti – il decreto legge e la legge di conversione – alla stregua delle tesi più tradizionali che vedevano la legge di conversione come <<condizionata>> alla disciplina adottata dal governo”.

Il riferimento alla normativa comunitaria deve intendersi assorbito nelle argomentazioni che precedono.

Non va taciuto che il tema in esame è tra i più spinosi da trattare, prestandosi a facilissime strumentalizzazioni che non portano a nessuna soluzione. Inoltre, nella costruzione delle fattispecie incriminatrici, non si può prescindere dal principio di offensività, quale corollario del principio di legalità alla luce del quale il consumo di cannabis o marijuana è diverso da quello di eroina o di cocaina.

Prima del referendum abrogativo del 18 e 19 aprile 1993, le condotte penalmente rilevanti erano definite sulla base di un parametro di tipo oggettivo, ossia la quantità superiore alla ‘dose media giornaliera’ per cui colui che poneva in essere una condotta fra quelle previste dal D.P.R. 309/90 – importazione, acquisto o detenzione – nella misura indicata era assoggettabile soltanto ad una sanzione amministrativa. All’esito del referendum, è stato adottato il D.P.R. 171/1993, il quale ha conservato la distinzione fra le condotte illecite soltanto dal punto di vista amministrativo (art. 75) o penale (art. 73) ed ha provveduto a sostituire il parametro oggettivo della ‘ dose media giornaliera’ con quello teleologico dell’uso personale, in modo che le attività elencate nell’art. 73 sono assoggettate a pena solo se riguardano sostanze stupefacenti destinate all’uso di terzi.

Con l’adozione della l. 49/2006, a seguito di un orientamento repressivo di politica criminale, è intervenuta l’equiparazione fra le droghe leggere e le droghe pesanti; attraverso la novella del 2006, è stato introdotto l’aggettivo ‘esclusivamente’ nella lett. a), comma 1 bis dell’art. 73. Nelle intenzioni del legislatore, tale aggettivo dovrebbe tracciare la linea di confine fra l’illecito amministrativo e quello penalmente rilevante, deducibile dalla quantità massima detenibile – fissata per ogni singola sostanza con decreto dal Ministero della Salute, di concerto con il Ministero della Giustizia – o dalle modalità di presentazione o da altre circostanze dell’azione.

In relazione alla quantità massima detenibile, occorre osservare come il superamento del limite prestabilito è utile ai fini di una ricostruzione da parte del giudice della finalità perseguita dall’agente, in modo che esso, benchè estraneo alla fattispecie tipica, funge da indice probatorio capace di orientare l’organo giudicante nella qualificazione giuridica della condotta illecita tenuta: al di sotto della soglia predeterminata con il provvedimento amministrativo, le condotte poste in essere sarebbero rilevanti soltanto sul piano dell’illecito amministrativo, attesa l’esiguità del pericolo arrecato alla società in relazione a quantità di sostanze stupefacenti inferiori al limite fissato. Come è chiaro, si tratta di un elemento di natura quantitativa che non integra il precetto penale ma serve a comprendere presuntivamente l’intenzione rivolta ad un uso non esclusivamente personale[1]. Tuttavia, la S.C. non ha ritenuto sufficiente l’accertamento di uno solo dei predetti indici perché la condotta rilevi sul piano penale[2].

Dal punto di vista sanzionatorio, dunque, le droghe leggere e quelle pesanti sono state accomunate: la scelta ideologica sottesa alla equiparazione delle due categorie poggia sull’assunto che vede il tossicodipendente come un nemico della società dal quale difendersi. Tale logica regge anche la compilazione delle tabelle ministeriali. Anche la scienza non offre un valido aiuto per sconfessare o sostenere la predetta equiparazione del trattamento sanzionatorio per sostanze naturalmente diverse: infatti, per quanto riguarda le droghe leggere, non è ancora chiara la pericolosità delle stesse e anzi, in ambito scientifico, si tende ancora a distinguerle da quelle pesanti. La riprova della intrinseca diversità delle due categorie di sostanze stupefacenti è data proprio dalla considerazione che i limiti di quantità massima detenibile, limiti che vengono prestabiliti per ciascuna sostanza, con il suaccennato decreto interministeriale, vengono ottenuti in base ad un moltiplicatore più elevato per le droghe leggere, più basso per quelle pesanti[3]. La S.C. ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale in relazione alla predetta equiparazione, avendo affermato che l’assimilazione di due diversi tipi di droghe, quale frutto di una scelta discrezionale operata dal legislatore, può essere opinabile, avuto riguardo ai presupposti scientifici sui quali quella scelta si fonda ma non appare suscettibile di censure in punto di irragionevolezza[4] della norma. Altra conseguenza dell’equiparazione in parola è che la contestuale detenzione di droghe di diverso tipo dà luogo alla realizzazione di un unico reato.

Un valido motivo capace di dare conto della tanto discussa equiparazione potrebbe essere rinvenuto nella ritenuta plurioffensività delle condotte individuate dal legislatore, tutte caratterizzate dal fatto che esse sono in grado di porre in pericolo la salute di chi usa le sostanze accanto alla sicurezza e quiete pubblica, la serenità delle famiglie, l’educazione delle giovani generazioni e così via. Tuttavia, si tratta di beni giuridici molto astratti, la cui reale portata è estremamente volatile[5]. Per quanto sin qui brevemente esposto, non sembra possa escludersi la rilevanza del principio di offensività, tanto più che la natura dei reati di cui è parola è ascrivibile alla categoria dei reati di pericolo astratto o presunto.

In ordine al principio di offensività, occorre fare una breve digressione. Il predetto principio si pone come cardine del sistema penalistico italiano, richiedendo un quid pluris rispetto alla realizzazione della condotta tipica ai fini della sussistenza del reato, dovendo la condotta predetta ledere o porre in pericolo un bene giuridico penalmente rilevante. In chiave squisitamente garantista, il principio di offensività evita che il soggetto venga punito per aver posto in essere la condotta tipica ma inoffensiva o comunque incapace di ledere o porre in pericolo il bene giuridico tutelato dalla norma penale.

Dal punto di vista dogmatico, i reati in materia di stupefacenti sono ricondotti nella categoria dei reati di pericolo astratto. Tale modello di illecito tipizza una condotta ritenuta pericolosa sulla base di una regola di esperienza la quale, però, potrebbe rivelarsi falsa o, comunque, inadeguata in quei casi in cui alla commissione della condotta vietata non segue quel pericolo per evitare il quale è stata posta la norma penale. Parte della dottrina e la Consulta[6] ritengono corretto l’inquadramento sistematico dei reati in esame e la loro legittimità sulla base di due assunti: in base al primo, il legislatore interviene nella materia degli stupefacenti attraverso una tecnica di costruzione della fattispecie penale in modo da intervenire incisivamente nell’anticipazione della soglia di tutela soltanto in presenza di condotte pericolose secondo l’insegnamento derivante dall’id quod plerumque accidit; in base al secondo assunto, il giudice dovrà colpire con la sanzione penale soltanto le condotte che siano concretamente idonee a porre in pericolo l’interesse tutelato[7]. In tema di stupefacenti, assumono rilevanza i beni giuridici della salute pubblica – valorizzando il pericolo che ad essa potrebbe derivare dalla realizzazione delle condotte individuate dal legislatore nel D.P.R. 309/1990, il rischio di aumento delle occasioni di cessione delle sostanze stupefacenti o psicotrope o del mercato di esse, fuori del controllo dell’autorità – la sicurezza, l’ordine pubblico, la salvaguardia delle nuove generazioni. Non sussiste alcun problema di compatibilità col principio di offensività perché bisogna tener conto della necessità di bilanciare esigenze e valori contrapposti all’interno di una strategia d’intervento voluta dal legislatore per far fronte al traffico di sostanze stupefacenti.

Le condotte enunciate nel comma 1 dell’art. 73 D.P.R. 309/90 sono svincolate da qualsiasi accertamento normativo ed è demandato al giudice il compito di accertare il superamento o meno della soglia minima tabellare: tali condotte risultano essere le più problematiche da accertare. Infatti, secondo un primo indirizzo, la S.C. ha ritenuto non configurata la cessione illecita di cui al comma 1, in ragione del fatto che le sostanze stupefacenti contenevano un principio attivo tale da escludere del tutto l’efficacia drogante e perciò, ai sensi dell’art. 49 comma 2 c.p., era esclusa la sussistenza dell’azione idonea ad offendere l’interesse ritenuto protetto dalla norma[8]. Successivamente, con la già ricordata sentenza n. 9973/1998, le S.U. hanno adottato un diverso orientamento, affermando che la nozione di sostanza stupefacente adottata dal D.P.R. 309/90 è quella legale e non quella farmacologica: con la conseguenza che è configurata la cessione penalmente rilevante quando si tratta di una delle sostanze indicate nel decreto, a prescindere da ogni valutazione circa l’effettiva efficacia drogante delle sostanze de quibus.

Tuttavia, la VI sezione, con la pronuncia del 18 luglio 2007, n. 28661, ha preferito prendere in considerazione la quantità di sostanza stupefacente[9]. La VI sezione ha tenuto in considerazione l’insegnamento della Corte costituzionale in base al quale, di fronte a singole condotte concretamente inidonee a mettere i pericolo il bene protetto, non ha ritenuto che fosse integrata la fattispecie astrattamente prevista. Inoltre, il sistema tabellare adottato dal nostro sistema giuridico presuppone che le sostanze in questione siano capaci di produrre gli effetti tipici degli stupefacenti. La VI sezione ha investito della questione le Sezioni Unite della Cassazione le quali, con la pronuncia del 20 dicembre 2007 n. 47472, non hanno ritenuto rilevante il dato della quantità insufficiente della dose media giornaliera preferendo quello della quantità massima detenibile, cioè la c.d. ‘soglia drogante’ prestabilita dal decreto interministeriale: nel caso concreto sottoposto all’attenzione delle S.U., tale soglia risultava superata e questo era sufficiente a configurare la penale responsabilità dell’agente.

Aldilà della diversa percezione a livello di agente comune della differente pericolosità insita in ciascuna sostanza, il legislatore, prima, e il giudice, poi, non possono trascurare la varietà del mondo del consumo di droga per predisporre efficaci strategie di intervento. Il dato qualitativo, assieme a quello quantitativo e quello culturale, offrono un’idea chiara circa i fatti da incriminare e quelli da scriminare e, in relazione ai primi, della pena più adeguata ne caso di consumo patologico di sostanze c.d. ‘pesanti’ rispetto al consumo ricreazionale ed occasionale di droghe c.d. leggere.

In conclusione del presente contributo, volutamente di largo respiro, un cenno merita la diade proibizionismo – antiproibizionismo. Con il primo orientamento, si propone il divieto di produrre, di vendere, di acquistare, di detenere e di consumare tutte le (o soltanto alcune delle) sostanze psicoattive per tutelare la salute pubblica o, in alternativa, la legalità o, in subordine, per bilanciare il rapporto costi – benefici fra le politiche di promozione della salute e la riduzione del consumo di sostanze.

All’opposto, il secondo orientamento si suddivide in tre proposte operative: la prima suggerisce l’abolizione di ogni divieto, come voluto dal proibizionismo (liberalizzazione); la legalizzazione propone una regolamentazione delle condizioni di produzione, commercio, vendita e consumo restringendo le quantità, i soggetti che vi possono accedere e i luoghi in cui il consumo è possibile, come già accade per l’alcol ed il tabacco; la depenalizzazione suggerisce la rimozione delle sanzioni penali o amministrative per episodi legati alla domanda o al consumo e così via.

Nessuno dei due orientamenti rappresenta la soluzione migliore: sia l’uno che l’altro orientamento vanno in concreto realizzati, proponendo politiche che tengano in considerazione una molteplicità di elementi variabili, diversi da contesto a contesto. Inoltre, quale che sia l’orientamento prescelto, occorre che nella pratica vengano realizzate campagne di prevenzione primaria (intesa quale insieme di provvedimenti intesi a scoraggiare l’uso delle droghe rivolti a tutta la popolazione), di prevenzione secondaria (onde fornire alla popolazione di consumatori informazioni utili ad evitare che passino da un consumo occasionale ad uno abituale o che passino dalle droghe ‘leggere’ a quelle ‘pesanti’ o dal consumo abituale alla dipendenza) e di riabilitazione (proponendo programmi di recupero nei confronti di coloro che hanno sviluppato la dipendenza dalle sostanze, operando con la distribuzione controllata di eroina e metadone).[10]

Il confronto fra i due modelli permette di affermare che le politiche repressive, cui il legislatore italiano ha ammiccato nel recente passato e a cui non ha mai rinunciato in modo deciso, possono avere effetti soltanto se sono sostenute da politiche di prevenzione e di riabilitazione che richiedono risorse notevoli rispetto a quelle necessarie alla lotta contro il fenomeno delle droghe, in sé considerato, e l’abbandono di pregiudizi, spesso inutili e sicuramente dannosi, nei confronti delle sostanze e dei consumatori.

 



[1] Sulla funzione presuntiva svolta dall’elemento quantitativo, cfr Cass. pen., sez. IV, 21 maggio 2008, n. 22643.

[2] Sul punto, si vedano, ex multis, Cass. pen., sez. VI, 29 gennaio 2009; sez. IV, 15 ottobre 2009; sez. III, 3 novembre 2009; sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 16834.

[3] Santalucia – Esposito, Tracce di diritto penale, Nel Diritto Editore, Ii ed., 2011,pag. 29 ss.

[4] Cass. pen., sez. VI, 20 dicembre 2008, n. 22643.

[5] Tuttavia, sia la Corte costituzionale (sent. 333/1991) chele S.U. della Corte di Cassazione (9973/98) hanno condiviso la tesi della plurioffensività, tesi suggerita dall’adozione di parametri macroscopici di tutela.

[6] Si veda la già citata sent. 360/1995.

[7] La Corte costituzionale ha ripetutamente ribadito la possibilità di perseguire con la tutela penale finalità politico – criminali contingenti che vanno aldilà della tutela dei beni giuridici e la conformità al dettato costituzionale della categoria del reato di pericolo astratto, essendo riservata al legislatore l’individuazione delle condotte illecite, cui collegare la presunzione assoluta di pericolo, e della soglia di pericolosità cui fare riferimento, purchè tale scelta sia immune da vizi di irrazionalità o arbitrarietà, benchè fondata su apprezzamenti rigorosi fondati sull’esperienza.

[8] Cass. pen., sez. IV, 1 ottobre 1993, n. 10466.

[9] Nel caso concreto, il soggetto era stato trovato con una dose di eroina superiore al minimo tabellare ma inferiore alla dose media giornaliera.

[10] Barbagli, Colombo, Savona, ult. op. cit., 102.

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