Commento a sentenza Corte cost. n. 70/2015

Avv. Gabriele Pepe

La pronuncia in commento si segnala per l’accoglimento di una delle censure presentate dai ricorrenti con conseguente declaratoria di incostituzionalità di una disposizione della c.d. legge Fornero e, segnatamente, dell’art. 24, co. 25, d. l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, co. 1, l. 22 dicembre 2011, n. 214. Si tratta della disposizione che, in una prospettiva di risanamento dei conti pubblici, ha imposto risparmi di spesa attraverso il blocco della indicizzazione di taluni trattamenti pensionistici per gli anni 2012 e 2013.

Il presente articolo non mira ad una ricostruzione analitica dell’intera pronuncia della Corte bensì intende soffermarsi su due passaggi della sentenza, che sia pur incidentalmente, sembrano presentare nei termini in cui sono stati espressi, elementi di novità per l’ordinamento italiano. Inoltre l’articolo riserva talune considerazioni finali al sindacato di ragionevolezza operato dalla Consulta la quale, nella valutazione comparativa degli interessi costituzionalmente rilevanti, ha pretermesso di considerare l’interesse prioritario al pareggio di bilancio (art. 81 I co. Cost.).

In due passaggi della sentenza, anche se non tra i profili apparentemente fondamentali, la Corte sembra introdurre un principio rivoluzionario per il sistema giuridico italiano: il principio secondo cui ogni legge che incida negativamente nella sfera giuridica dei destinatari necessiti di una congrua ed adeguata motivazione in ordine alle specifiche ragioni della scelta normativa compiuta. Tale proposizione è chiarita dalla Corte nella parte della sentenza in cui statuisce che “la disposizione concernente l’azzeramento del meccanismo perequativo, contenuta nel comma 24 dell’art. 25 del d. l. 201 del 2011, come convertito, si limita a richiamare genericamente la “contingente situazione finanziaria”, senza che emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi”[1]. Inoltre, sottolinea la Consulta, come l’interesse dei pensionati ed in particolare di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti, sia finalizzato alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui coerentemente discende il diritto ad una prestazione previdenziale adeguata. Aggiunge, infine, che “tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio”.

Tali brevi ma significative statuizioni, pur rappresentando quasi un obiter nel contesto della pronuncia, hanno un fortissimo impatto sull’ordinamento italiano, sancendo, per la prima volta in modo così esplicito, la necessità di una congrua e pertinente motivazione dell’atto legislativo[2], ineludibile ai fini della valutazione comparativa degli interessi su cui è costruito il sindacato di legittimità costituzionale[3]. Tale profilo innovativo si coglie agevolmente richiamando la distinzione, autorevolmente sostenuta in dottrina, tra ratio legis e motivazione. La prima si identifica negli interessi che l’atto intende regolare ed è ricavabile in ogni caso dal contesto normativo; la seconda, invece, va intesa quale esternazione (eventuale) dei motivi della legge[4]; un elemento considerato tradizionalmente non necessario ai fini della validità dell’atto legislativo.

L’obbligo di motivazione, nei termini formulati dalla pronuncia, appare inedito nella giurisprudenza della Corte, pur inquadrandosi agevolmente nel trend evolutivo che ha caratterizzato la legge, e più in generale i pubblici poteri, nell’ordinamento italiano ed europeo.

A partire dalla Rivoluzione francese la legge, espressione della volontà popolare, è stata ritenuta l’atto politico per eccellenza quale atto libero nel fine (atto cioè cui nessun fine è precluso)[5]. In altri termini la legge si è identificata per molto tempo nella fonte posta al vertice dell’ordinamento, incarnando nel XIX e XX secolo l’egemonia della sovranità statale sulla produzione normativa[6]; (c.d. onnipotenza legislativa frutto dell’esasperazione del positivismo giuridico). Un’egemonia che nell’esercizio della funzione di indirizzo politico l’atto legislativo ha esplicitato nella capacità di individuare da sé i fini pubblici da perseguire, senza limiti o forme di controllo, salvo vincoli autoimposti; per lungo tempo, infatti, la migliore dottrina ha ritenuto che il legislatore non fosse obbligato a motivare le proprie scelte a meno che non lo volesse[7].

Nell’ordinamento italiano tale fenomeno ha caratterizzato il proscenio giuridico per tutta la vigenza dello Statuto albertino del 1848 (definito nel preambolo Legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della Monarchia)[8]; una Costituzione che, pur formalmente sovraordinata alla legge, in ragione della sua natura di Carta flessibile, poteva essere da una legge ordinaria modificata e derogata in ogni momento.

L’avvento della Costituzione repubblicana del 1948, quale Costituzione rigida[9], ha progressivamente incrinato il consolidato assetto legicentrico del sistema giuridico italiano. Infatti la legge, sino a quel momento atto collocato al vertice dell’ordinamento, è stata imbrigliata in un sistema delle fonti avente alla propria sommità la Carta costituzionale; quest’ultima prescrive principi da osservare e obiettivi da realizzare al legislatore (statale e regionale) nell’esercizio della funzione di indirizzo politico[10]. Un duplice vincolo (positivo e negativo) viene, dunque, a gravare, sulla legge, la quale, da un lato, non deve porsi in contrasto con i principi, le regole ed i valori della Costituzione[11] e, dall’altro, è tenuta a dare attuazione ai criteri e alle direttive, specie nel caso di norme di scopo (contenute nella Costituzione stessa) impropriamente chiamate in modo tralaticio norme programmatiche[12]. Per assicurare l’osservanza in concreto di tali precetti è stato istituito un apposito organo (la Consulta) cui è demandato, in via esclusiva, il compito di verificare la conformità delle leggi ai dicta e ai valori espressi dalla Costituzione[13].

Evidentemente ciò non può che rappresentare il primo elemento tangibile tanto della dequotazione dello strumento legislativo quanto della progressiva trasformazione dei suoi caratteri tipici[14]. Ad affievolire ulteriormente la centralità della legge nel sistema delle fonti hanno contribuito le Comunità europee prima e l’Unione europea poi[15]. Del resto, le norme dell’ordinamento sovranazionale primeggiano in un sistema delle fonti policentrico e multilivello, adagiandosi su un piano gerarchicamente sovraordinato tanto alla Costituzione quanto alla legge nazionale (statale e regionale); in particolare l’atto legislativo è tenuto ad uniformarsi, a pena di illegittimità, a tutte le norme europee, scritte e non[16]. Tale vincolo che sin dal ’48 rinviene il proprio fondamento nell’art. 11 Cost., sulle limitazioni di sovranità dello Stato in favore delle organizzazioni internazionali ivi previste cui esso partecipa[17], è oggi espressamente positivizzato dall’art. 117 I co. novellato[18]. Ai sensi di tale disposizione “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”. Conseguentemente nell’attuale sistema delle fonti, la legge viene ad essere progressivamente conformata (e limitata) tanto in ambito nazionale quanto in sede sovranazionale, dovendo rispettare vincoli e prescrizioni in passato sconosciuti.

Alla luce del quadro ordinamentale vigente la legge, allora, non può più essere qualificata atto libero nel fine insindacabile e non motivabile[19]. Del resto, l’atto legislativo soggiace all’osservanza di fonti gerarchicamente superiori nei cui riguardi è tenuto sia ad evitare azioni di effrazione sia a porre in essere azioni di implementazione ed attuazione dei fini generali in esse consacrati. Ne discende come la mancata osservanza degli obblighi gravanti sulla legge venga esplicitamente sanzionata, da un lato, con il sindacato della Consulta che può dichiarare l’illegittimità di una disposizione di legge lesiva della Costituzione, espungendola dall’ordinamento; dall’altro con l’obbligo di disapplicazione gravante sui giudici italiani ma anche sulle Pubbliche Amministrazioni domestiche avente ad oggetto le leggi nazionali in contrasto con le regole ed i principi europei[20]. Tali fenomeni hanno rivestito un ruolo decisivo nella trasformazione, non sempre adeguatamente percepita, della legge da atto cui nessun fine è precluso (libero cioè nel fine) in atto i cui fini sono conformati ed imposti da fonti superiori (la Costituzione e le norme europee); la legge si è, conseguentemente, trasformata in un atto discrezionale, sia pure espressione di un’ampia discrezionalità qual è la discrezionalità politica.

Il discrimen tra libertà e discrezionalità di un atto o di un’attività ha ricadute applicative rilevantissime, condizionando fortemente il modus operandi del soggetto o dell’organo chiamati ad agire. La nozione giuridica di libertà, applicata all’atto legislativo, implica il potere di individuazione dei fini da perseguire, con le modalità ed i mezzi ritenuti più opportuni, senza preclusione alcuna; inoltre essa postula l’assenza di organi e forme di controllo che verifichino la conformità dell’attività posta in essere a parametri di ordine superiore.

Diversamente la nozione giuridica di discrezionalità[21] si esplica in un’attività di implementazione e di scelta sulla base e nei limiti di quanto statuito da una fonte normativa attributiva o comunque regolativa del potere. La discrezionalità politica, pur con i suoi caratteri peculiari, è pur sempre una species del più ampio genus della discrezionalità, mutuando da questa taluni elementi comuni. Del resto, la discrezionalità è una categoria di teoria generale[22] di cui costituiscono specificazioni la discrezionalità politico-legislativa, la discrezionalità amministrativa[23] e la discrezionalità giurisdizionale, ciascuna con i propri elementi tipici.

Coerentemente la legge, lungi dall’essere qualificata oggi quale atto libero nel fine, deve viceversa considerarsi un atto discrezionale[24], sia pure particolare, ma comunque attratto nell’orbita del regime giuridico e dei limiti tipici di una funzione connotata da discrezionalità.

La categoria generale della discrezionalità, in particolare, si ricollega indissolubilmente al concetto di potestà, quale situazione giuridica soggettiva mista attraverso cui si svolge una data funzione pubblica (c.d. munus) teleologicamente orientata alla cura di interessi pubblici[25], ossia di interessi non propri del soggetto agente ma ad esso alieni. La potestà si articola al proprio interno in un forza attiva (potere) cui necessariamente si affianca un quid di doverosità. Del resto, come autorevolmente sostenuto “nella potestà si riscontra a fondamento dell’attribuzione dei poteri il dovere di esercitarli nell’interesse altrui[26].

Ciò significa che nell’esercizio di ciascuna potestà pubblica è indefettibilmente incluso un elemento di doverosità[27], che tuttavia non esaurisce il contenuto della funzione, affiancandosi ad esso una forza attiva intesa quale potere di scelta discrezionale. L’indissolubile collegamento tra potestà e funzione fa sì che la nozione giuridica di funzione si traduca, inoltre, in un comportamento giuridicamente doveroso, comportamento viceversa non configurabile nelle attività e negli atti liberi nel fine. A ciò si affianca l’esercizio di un potere discrezionale esplicantesi in una valutazione comparativa dei vari interessi in rilievo; valutazione all’esito della quale si realizza l’opzione tra più soluzioni tutte legittime, ragionevoli e plausibili; tale potere assume massima latitudine proprio nella discrezionalità politico-legislativa, rinvenendo, tuttavia, limiti e vincoli conformativi in fonti di rango superiore quali la Costituzione e le norme europee[28].

Venendo all’esame della giurisprudenza costituzionale, la prima pronuncia della Corte, volta ad effettuare un controllo sulla discrezionalità politica del legislatore è la sentenza 22 gennaio 1957, n. 29 che si fonda sulla ricerca della ratio dell’atto legislativo nella verifica di conformità ai principi costituzionali[29].

Come detto, l’applicazione alla discrezionalità politico-legislativa e all’atto di essa espressivo del regime generale della discrezionalità postula, inevitabilmente, un imprescindibile obbligo di motivazione o comunque di giustificazione delle scelte compiute; un obbligo di motivazione che tende progressivamente a generalizzarsi sino a definirsi in termini di congruità e adeguatezza nella pronuncia in commento. Tale evoluzione in ordine al contenuto dell’atto legislativo è certamente favorita dagli studi sulla motivazione degli atti amministrativi[30], giurisdizionali[31] ed europei.

Con riferimento alla discrezionalità amministrativa l’obbligo di motivazione è formalmente previsto in via generale (e salvo talune eccezioni[32]) dall’art. 3 I co. l. 241/90 secondo cui “ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve essere motivato. (…) La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”. Tuttavia, ancor prima dell’entrata in vigore della l. 241/90, la giurisprudenza amministrativa imponeva l’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi negativamente incidenti sulla sfera giuridica degli amministrati[33] e, segnatamente, in ciascun atto che comportasse una valutazione comparativa di interessi in conflitto[34]. Per quanto concerne, poi, gli atti adottati dal potere giudiziario l’art. 111 co. VI Cost. significativamente statuisce che tutti i provvedimenti giurisdizionali debbano essere motivati. La motivazione si configura anche in questo caso quale strumento di controllo circa il corretto e legittimo esercizio della funzione discrezionale (specie giudiziaria).

L’obbligo di motivazione è altresì, espressamente previsto, in relazione agli atti normativi, dai Trattati europei ed in special modo dal Trattato di Lisbona che all’art. 296 TFUE (già art. 253 TCE) prevede che “gli atti giuridici sono motivati e fanno riferimento alle proposte, iniziative, raccomandazioni, richieste o pareri previsti dai Trattati”; da tale disposizione di evince come regolamenti, direttive e decisioni necessitino della motivazione come requisito essenziale ai fini del perfezionamento e della legittimità dell’atto[35]; dunque per ogni atto normativo europeo occorre sempre l’indicazione della base giuridica di riferimento in omaggio al principio delle competenze di attribuzione.

Diversamente nell’ordinamento italiano non si rintraccia alcuna norma di diritto positivo[36] né di rango ordinario né di rango costituzionale che espressamente prescriva un generale obbligo di motivazione per gli atti legislativi[37]. (Un implicito obbligo di motivazione potrebbe riconoscersi eccezionalmente nelle ipotesi di decreti legge e leggi-provvedimento)[38].

Ciononostante la problematica de qua deve essere osservata dal prisma di un esame integrato e contestuale delle norme costituzionali ed europee, in ragione, altresì, dell’evoluzione dei pubblici poteri e, segnatamente, del potere legislativo. Dal mutato contesto di riferimento in cui la legge attualmente si colloca quale atto di discrezionalità politica, può implicitamente ricavarsi un obbligo di motivazione, dalla portata ormai sempre più generalizzata. E di tutto ciò sembra rinvenirsi conferma nella sentenza in commento.

A ben vedere la Corte costituzionale ha ritenuto in passato come la Costituzione non imponesse ma al tempo stesso nemmeno vietasse la motivazione delle leggi[39], rimettendo quindi la scelta circa l’esplicitazione delle ragioni dell’atto alla volontà del legislatore. A partire dalla sentenza 24 febbraio 1964, n. 14, tuttavia, la Consulta, pur non imponendo alcun obbligo motivazionale al legislatore[40], si è orientata alla ricerca di una qualche motivazione dell’atto legislativo, tentando di ricostruirne le ragioni attraverso un sindacato esterno circa la palese arbitrarietà o manifesta irragionevolezza della legge[41]; ciò denota quindi il primo tentativo latente di conferire implicita rilevanza alla motivazione nel bilanciamento degli interessi in rilievo ai fini del giudizio di legittimità costituzionale. Le successive pronunce della Consulta tra cui le sentenze 4-11 luglio 1989, n. 390 e 6 dicembre 2004, n. 379 sembrano collocarsi nel sentiero tracciato dalla sentenza del 1964, in quanto la Corte ha accentuato progressivamente il rilievo della motivazione della legge nel quadro del sindacato di costituzionalità. In special modo la pronuncia n. 379 del 2004, riallacciandosi all’art. 3 II co. l. 241/90 sulla motivazione degli atti amministrativi, ha evidenziato come nell’ordinamento europeo la motivazione degli atti normativi rappresenti una regola di ordine generale[42].

Tuttavia sino alla sentenza che si annota la Consulta non si è mai spinta ad affermare in modo così esplicito e categorico la necessità di una congrua e pertinente motivazione della legge, specie se idonea ad incidere in modo afflittivo nella sfera giuridica dei destinatari. Il principio affermato assume, pertanto, un ruolo fortemente innovativo poiché rivela nell’ambito del sindacato di costituzionalità l’esigenza di una motivazione, puntuale e circostanziata, ai fini del bilanciamento degli interessi in conflitto; inoltre l’obbligo motivazionale, così come affermato dalla Consulta, rappresenta l’ennesima prova dell’irreversibile trasformazione della legge in un atto di discrezionalità politica, da motivarsi necessariamente ove negativamente incidente su talune categorie di cittadini (e non sulla platea di tutti i consociati)[43].

Tra le righe della pronuncia della Consulta può evincersi come l’esercizio della funzione legislativa sia comunque espressione di una funzione discrezionale (politica), che sia pur ampia, va progressivamente conformandosi con l’imposizione di limiti, vincoli e direttive programmatiche, alla stregua di quanto accade per ogni potestà discrezionale. Del resto l’esercizio di qualsivoglia forma di discrezionalità postula necessariamente l’assolvimento di un obbligo, più o meno intenso, di motivazione che, giustificando la scelta compiuta, assicuri la legittimità della funzione esercitata.

La Corte, tuttavia, non si limita nel caso di specie a prescrivere una motivazione purchessia, generica o meramente apparente, bensì richiede una motivazione particolareggiata che illustri in dettaglio le ragioni economico-finanziarie tali da giustificare un intervento restrittivo su alcune categorie di pensionati. In tale prospettiva la motivazione sembrerebbe divenire un requisito necessario dell’atto legislativo, traducendosi in elemento imprescindibile per il corretto bilanciamento degli interessi in rilievo (Rangordnung der interessen) che la Corte è chiamata ad operare[44].

Il quesito cui occorre fornire soluzione concerne le ricadute applicative di una legge che non motivi adeguatamente la compressione della sfera giuridica dei destinatari incisi dall’intervento normativo. Nella vicenda de qua dall’accoglimento di uno dei motivi di ricorso, è possibile evincere l’invalidità costituzionale della legge Fornero per irragionevolezza dovuta ad un eccesso di potere; in altri termini il cattivo esercizio della funzione discrezionale legislativa, determinato altresì dall’assenza di un’adeguata motivazione della legge, comporterebbe la declaratoria di illegittimità di quest’ultima.

Ictu oculi emergono chiari profili di novità. Del resto, mentre in origine il giudice delle leggi era solito limitarsi ad un sindacato di ragionevolezza dell’atto legislativo[45], essenzialmente fondato sulla violazione del principio di uguaglianza, progressivamente la Consulta si è andata sganciando da questo collegamento necessario, rafforzando con la pronuncia in commento tale ultima posizione. In ogni caso la Corte costituzionale ha sempre rifiutato (come d’altronde anche nel caso di specie) l’uso della locuzione tecnica eccesso di potere legislativo[46] per non dare l’impressione di estendere il proprio sindacato al merito delle scelte politiche riservato al legislatore, circoscrivendo ogni verifica ai profili di esclusiva legittimità. Ciò in ossequio alla disposizione dell’art. 28 l. 11 marzo 1953, n. 87 ai sensi della quale “il controllo di legittimità della Corte costituzionale su una legge o un atto avente forza di legge esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento”. Tale ultimo inciso che vieterebbe il sindacato della Consulta sull’esercizio della funzione discrezionale legislativa è stato ritenuto infelicissimo da autorevole dottrina, la quale sottolinea l’uso in senso atecnico della nozione di discrezionalità in luogo della più appropriata nozione di merito[47].

Ciononostante la Corte costituzionale, rompendo talora gli argini di un controllo di pura e semplice legittimità, (pur senza mai confessarlo), ha frequentemente reso sempre più penetrante il proprio controllo di conformità a Costituzione della legge, senza tuttavia spingersi ad enunciare un obbligo di motivazione puntuale ed adeguato. Viceversa nella sentenza che si annota il giudice delle leggi sembra voler imporre l’idea di una nozione di legge giusta, una legge, cioè, conformata e funzionalizzata dai principi, dalle regole e dai valori della Carta costituzionale. D’altronde nel sistema dei pubblici poteri l’obbligo di motivazione ha sempre più una portata generalizzata che lo rende estensivamente applicabile a qualsivoglia atto espressione di autorità idoneo a restringere la sfera dei rispettivi destinatari. Come autorevolmente sostenuto in dottrina “lo Stato di diritto, insomma, si configura come uno Stato che si giustifica” (Rechtsstaat als rechtfertigender Staat) nell’esercizio delle sue funzioni[48].

Inoltre l’applicazione dell’obbligo motivazionale agli atti dell’Unione europea, atti al vertice del sistema delle fonti, rappresenta un argomento ad adiuvandum per estendere siffatto obbligo anche alle leggi nazionali, sempre più conformate dai vincoli sia costituzionali sia europei. A ciò si aggiunga come l’esigenza di una motivazione esprima la definitiva evoluzione del baricentro dell’azione pubblica dal polo dell’autorità verso il polo delle libertà dei privati, i quali in ogni momento devono essere in grado di conoscere e di apprezzare le ragioni delle decisioni pubbliche siano essi provvedimenti giurisdizionali, amministrativi o politico-legislativi. Ciò si riallaccia, del resto, ad esigenze di pienezza ed effettività della tutela dei destinatari delle scelte pubbliche.

Un altro interrogativo che occorre porsi è ove debba ricavarsi la motivazione della legge. Certamente non dai lavori preparatori (a differenza di quanto affermava in passato la scuola dell’esegesi francese), poiché le norme dell’atto legislativo, una volta che questo è promulgato ed entrato in vigore, vivono di vita propria cioè si oggettivizzano, inserendosi in un sistema che si evolve e, quindi, contrariamente all’atto che si esaurisce nel porre le norme stesse, si separano dalle loro fonti, prescindendo dalla voluntas dei propri autori[49]. Anche perché nella volontà degli atti delle pubbliche autorità, secondo l’insegnamento della migliore dottrina, non devono rinvenirsi sfondi meramente psicologici ma tale volontà va considerata come una ipostasi[50]. La motivazione deve evincersi chiaramente all’interno della legge medesima o dal complesso dell’articolato normativo o da singole sue parti come, ad esempio, dalle premesse al dispositivo[51].

In base all’odierna pronuncia della Corte un’implicita o generica motivazione non risulta più idonea a preservare la legge da censure di legittimità costituzionale ove l’atto legislativo incida negativamente, con restrizioni, nella sfera giuridica dei destinatari; ne discende allora l’obbligo per il legislatore di esplicitare in maniera razionalmente congrua e pertinente le opzioni politiche compiute, facendole emergere espressamente dal contesto dell’atto compiuto. Diversamente, nell’ottica di un giudizio fondato sul pervasivo canone della ragionevolezza, l’atto legislativo esprimerà un qualcosa di analogo ad una tradizionale figura sintomatica di eccesso di potere, alle volte sulla falsariga di quanto avviene per gli atti amministrativi[52]. L’irragionevolezza e l’irrazionalità della legge determinano, coerentemente, la declaratoria di illegittimità costituzionale[53] e quindi la caducazione, normalmente ex tunc dell’atto legislativo per un profilo che attinge anche la motivazione.

Il principio dell’obbligo di congrua motivazione pare, altresì, porsi quale monito per il legislatore che in futuro dovrà adeguarsi al dictum della Corte per scongiurare altrettante declaratorie di invalidità in casi simili. Dunque con la pronuncia in commento la Consulta ha intrapreso la strada di una tendenziale parificazione sotto il profilo dell’obbligo motivazionale degli atti legislativi nazionali agli atti normativi europei alla luce di un sistema integrato e multilivello delle fonti[54].

Inquadrando l’obiter sull’obbligo di motivazione della legge nel più ampio contesto della sentenza è importante rilevare come la Corte, pur invocando più volte la violazione del principio di ragionevolezza, perpetrata dal blocco della indicizzazione delle pensione, trascuri di considerare ed esplicitare nel proprio bilanciamento di interessi il principio del pareggio di bilancio introdotto dall’art. 81 I co. Cost. novellato[55]. Tuttavia, in senso contrario potrebbe obiettarsi l’inapplicabilità della norma agli interventi previsti dalla c.d. legge Fornero del 2011 per gli anni 2012 e 2013, in ragione della decorrenza applicativa dell’art. 81 Cost. a partire dall’esercizio finanziario 2014; ad adiuvandum sembrerebbe rafforzare la tesi sopra enunciata l’argomento della retroattività delle pronunce di accoglimento della Corte costituzionale.

L’obiezione prospettata, tuttavia, non coglie nel segno in quanto la sentenza della Consulta pur rivolgendosi al passato, ad un periodo cioè antecedente l’anno 2014, ha ricadute finanziarie successive, producendo una voragine nei conti pubblici dello Stato nell’esercizio finanziario 2015. Dirimente è poi la considerazione secondo cui l’art. 81 I co. Cost. fosse operativo nell’ordinamento giuridico, sin dall’anno di esercizio 2014, ergo l’anno antecedente la pronuncia di incostituzionalità in commento. Infine, la stessa retroattività della sentenza di accoglimento, secondo il principio del factum infectum fieri nequit[56], rinverrebbe un limite nell’esaurimento degli esercizi finanziari degli anni 2012 e 2013, rivelando viceversa un effetto di ultrattività sull’esercizio presente e sugli esercizi futuri (anni 2015 e seguenti)[57]. Ne discende, come corollario, l’applicabilità dell’art. 81 I co. Cost. alla fattispecie de qua, che palesa chiaramente l’omissione della Corte la quale, nel sindacare l’atto legislativo, ha trascurato di valutare nel bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti il principio del pareggio di bilanciamento. In base a tale fondamentale principio “lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico[58] [59].

Il principio del pareggio di bilancio, discendente in origine dal Patto di stabilità e crescita[60] e, successivamente, dall’Euro Plus Pact[61], dal Six pack[62]e dal Fiscal compact[63] sottoscritti dagli Stati in ambito europeo e sovranazionale, rappresenta un principio primario, di cui la Corte dovrebbe sempre tener conto nel proprio bilanciamento di interessi. Un principio che, essendo previsto da fonti europee, risulterebbe già applicabile all’interno dell’ordinamento italiano indipendentemente dalla previsione dell’art. 81 I co. Cost.[64]; in questo modo la Corte Costituzionale, obliterandone la valutazione, avrebbe violato un duplice parametro, costituzionale ed europeo, giungendo ad una soluzione giuridica non del tutto scevra di profili di irragionevolezza[65]. Ciò anche alla luce della considerazione che la sentenza della Consulta, aprendo una voragine nei conti pubblici, determina pesanti ricadute politiche sul Governo ed il Parlamento nazionali[66], esponendo altresì lo Stato italiano ad una procedura di infrazione[67] per violazione del vincolo europeo (oggi costituzionalizzato) del pareggio di bilancio[68].

Occorre poi osservare come secondo gli indirizzi formulati in sede europea non sia consentito imputare spese, sia pure di rispettiva pertinenza, ad un dato esercizio qualora tali spese ricadano finanziariamente su esercizi successivi. Nel caso di specie il rimborso delle somme da mancata indicizzazione delle pensioni, pur afferendo agli anni di esercizio 2012 e 2013, si ripercuote inevitabilmente sull’esercizio attuale, con conseguente obbligo del Governo di rinvenire nelle pieghe del bilancio, anche mediante manovra correttiva, le relative coperture. L’omissione della Corte si rivela, altresì, irragionevole in considerazione della circostanza che pochi mesi fa con la pronuncia 11 febbraio 2015, n. 10 la stessa Corte ha dichiarato l’illegittimità della c.d. Robin Tax[69] limitando, tuttavia, la decorrenza degli effetti retroattivi dal giorno della pubblicazione della sentenza. Ciò, proprio, in ossequio al principio di cui all’art. 81 I co. Cost. cui la Consulta ha dato prevalente applicazione nel bilanciamento degli interessi, al precipuo fine di scongiurare un grave squilibrio nel bilancio dello Stato. Soluzione analoga, del resto, la Corte avrebbe potuto (e dovuto) adottare nella vicenda in commento. La Consulta avrebbe, per esempio, potuto limitare gli effetti retroattivi della pronuncia facendoli decorrere ex nunc e dunque esclusivamente pro futuro; in alternativa avrebbe potuto adottare una sentenza additiva di principio, affermando sì l’obbligo della rivalutazione ma per gli esercizi futuri, rinviando ogni intervento alle scelte politiche di Parlamento e Governo[70].

Non può infatti sottacersi come il principio del pareggio tre entrate e uscite di bilancio assuma nell’odierno scenario italiano ed europeo un palpitante rilievo giuridico, politico ed economico-finanziario; conseguentemente la Corte nelle proprie sentenze non dovrebbe in nessun caso pretermetterne la valutazione nella comparazione degli interessi in rilievo, atteso il momento di gravissima congiuntura economica che sta vivendo il nostro Paese[71]. Ciò sarebbe imposto al giudice delle leggi non soltanto dalla Carta costituzionale ma direttamente dall’ordinamento europeo, le cui norme, come è noto, conformano l’esercizio di tutti i pubblici poteri, allocandosi quale parametro di legittimità dei rispettivi atti (ivi incluse le pronunce della Corte costituzionale)[72].

In definitiva, l’imposizione di un’adeguata motivazione al legislatore, pur rilevante ai fini di un più idoneo sindacato di legittimità della legge, stride con l’omissione imputabile alla Consulta, la quale ha ingiustificabilmente pretermesso nel bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti la valutazione del principio del pareggio di bilancio; in tal modo la Corte ha dato prova di esercitare in modo non pienamente ragionevole la funzione di controllo sulle legge assegnatale dalla Costituzione. Inoltre da indiscrezioni giornalistiche, non smentite, pare che, nonostante la delicatezza della questione esaminata, il collegio abbia assunto la decisione di accoglimento con il voto decisivo del Presidente in ragione della parità dei suffragi favorevoli e contrari (6 a 6)[73]. Una simile circostanza è elemento che a fortiori conferma i dubbi espressi sul contenuto di una pronuncia che, obliterando del tutto le primarie esigenze economico-finanziarie imposte dalla Costituzione e dalle norme sovranazionali[74], rischia di riverberare pericolosi effetti tanto sulla sostenibilità del bilancio pubblico italiano[75] quanto sulla stabilità del globale assetto dell’Unione europea.



[1] Inoltre, prosegue la sentenza, “anche in sede di conversione (legge 22 dicembre 2011, n. 214), non è dato riscontrare alcuna documentazione tecnica circa le attese maggiori entrate, come previsto dall’art. 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, recante «Legge di contabilità e finanza pubblica» (sentenza n. 26 del 2013, che interpreta il citato art. 17 quale «puntualizzazione tecnica» dell’art. 81 Cost.)”.

[2] In dottrina si vedano, a titolo esemplificativo, i contributi di A. DE VALLES, La validità degli atti amministrativi, Roma, 1927, pp. 134 ss.. V. CRISAFULLI, Sulla motivazione degli atti legislativi, in Riv. dir. pubbl., I, 1937, pp. 415-444, spec. p. 415: “Per motivazione può intendersi, tecnicamente, l’enunciazione, esplicita o implicita, contestuale o non, dei motivi che precedettero e determinarono l’emanazione di un atto giuridico, compiuta dallo stesso soggetto dal quale proviene l’atto motivato”. In tema più di recente S. BOCCALATTE, La motivazione della legge. Profili teorici e giurisprudenziali, Cedam, Padova, 2008, pp. 1 ss.. M. PICCHI, L’obbligo di motivazione delle leggi, Giuffrè, Milano, 2011, pp. 1 ss..

[3] F. MODUGNO, La ragionevolezza nella giustizia costituzionale, Editoriale scientifica, Napoli, 2007, p. 46: “Il giudizio costituzionale è istituzionalmente concepito come rivolto alla composizione della tensione tra legislazione e Costituzione, al fine di rendere la prima conforme o non incompatibile con la seconda, ossia le scelte, le discipline legislative non difformi, non contrastanti, ma conformi alle norme e ai principi costituzionali”,

[4] M.S. GIANNINI, voce Motivazione dell’atto amministrativo, in Enc. dir., vol. XXVII, Milano, 1977, p. 258.

[5] Sulla tradizionale concezione della legge quale atto libero nel fine, tra i tanti, in dottrina S. ROMANO-V. FEROCI, Principi generali del diritto e diritto costituzionale, Milano, 1928, pp. 1 ss.. G. ZANOBINI, L’attività amministrativa e la legge, in Riv. dir. pubbl. 1924, ora in Id. (a cura di), Scritti vari di diritto pubblico, Giuffrè, Milano, 1955, pp. 205 ss..

[6] P. GROSSI, Il costituzionalismo moderno fra mito e storia, in Giorn. st. cost., n. 11/2006, pp. 25 ss..

[7] C.M. IACCARINO, Studi sulla motivazione (con speciale riguardo agli atti amministrativi), Roma, 1933, pp. 49 ss. e 129 ss.. G. LOMBARDI, voce Motivazione (Diritto costituzionale), in Noviss. Dig. it., vol. X, Torino, 1964, pp. 954 ss..

[8] È convincimento diffuso che la denominazione Statuto, dovuta forse al suggerimento del segretario del re nobile Giovannetti sia stata accolta per evitare il temuto significato rivoluzionario dell’espressione Costituzione. Il termine che si collega alla tradizione legislativa riconducibile agli Statuti sabaudi (in proposito M. RUGGERO L’eredità di Carlo Alberto, Milano, 1995, p. 295) ha avuto in seguito molta fortuna, venendo utilizzato anche in età Repubblicana per definire importanti settori dell’ordinamento italiano (Statuti regionali, Statuto dei lavoratori, Statuto del contribuente etc...).

[9] Una Costituzione non più modificabile con semplice legge ordinaria bensì secondo una procedura aggravata descritta dall’art. 138 Cost.. (E. CHELI, Lo Stato costituzionale. Radici e prospettive, Editoriale Scientifica, Napoli, 2006, pp. 24 ss.).

[10] Sulla funzione di indirizzo politico si rinvia, senza pretese di completezza, agli studi di E. CHELI, Atto politico e funzione d’indirizzo politico, Giuffrè, Milano, 1961, pp. 1 ss.. T. MARTINES, voce Indirizzo politico, in Enc. dir., vol. XXI, Milano, 1971, pp. 134 ss.. M. DOGLIANI, voce Indirizzo politico, in Dig. disc. pubbl., vol. VIII, Torino, 1993, pp. 244 ss..

[11] F. MODUGNO, L’invalidità della legge. Teoria dell’atto legislativo e oggetto del giudizio costituzionale, vol. II, Giuffrè, Milano, 1970, pp. 335 ss..

[12] V. CRISAFULLI, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Giuffrè, Milano, 1952, pp. 36 e 48.

[13] Più in generale sul fenomeno dell’interpretazione costituzionalmente orientata della legge M. RUOTOLO, Interpretare: nel segno della Costituzione, Editoriale Scientifica, Napoli, 2014.

[14] Per un’analisi più generale della crisi dello strumento legislativo U. VINCENTI (cura di), Inchiesta sulla legge nell’Occidente giuridico, Giappichelli, Torino, 2005, spec. p. 7.

[15] Sul depotenziamento della legge statale si rinvia a G. PEPE, Principi generali dell’ordinamento comunitario e attività amministrativa, Roma, 2012, pp. 26-34. Con riferimento alla necessità di un’interpretazione comunitariamente orientata delle leggi nazionali G. PISTORIO, Interpretazione e giudici. Il caso dell’interpretazione conforme al diritto dell’Unione europea, Editoriale Scientifica, Napoli, 2012, spec. pp. 111 ss..

[16] C. PAGOTTO, La disapplicazione della legge, Giuffrè, Milano, 2008, p. 342: “Deve parimenti giungersi alla necessaria conclusione che la legge dello Stato è ad oggi sottoposta ad una molteplicità di influssi che tendono ad orientarne gli effetti sotto forma di apertura ad un maggior numero di parametri di legittimità ed in deroga al modello tradizionale nel quale solo gli autovincoli legislativi possono incidere in modo concreto sulla libertà del legislatore”. In tema di autovincoli legislativi A. PACE, Potere costituente, rigidità costituzionale, autovincoli legislativi, II ed. riv. e ampl., Cedam, Padova, 2002.

[17] Ai sensi dell’art. 11 Cost. “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. In particolare con l’evoluzione delle Comunità europee nell’Unione europea l’Italia ha ceduto ulteriori porzioni della propria sovranità specie in ambito economico, finanziario e monetario. Infatti gravano sul nostro ordinamento vincoli di bilancio assai stringenti che impongono, tra le altre cose, l’adozione di piani di rientro del debito (M. STIPO, Una lettera “anomala” (la lettera Trichet-Draghi indirizzata al Primo Ministro italiano – Frankfurt/Rome, 5 August 2011), in Studi in onore di Claudio Rossano, vol. IV, Jovene, Napoli, 2013, pp. 2391 ss.).

[18] Articolo modificato dalla l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3 (modifiche al titolo V parte seconda della Costituzione, in Gazz. uff. n. 248 del 24 ottobre 2001). In dottrina sul superamento della tradizionale concezione della legge quale atto libero nel fine a seguito della novella costituzionale N. LUPO, La motivazione delle leggi alla luce del nuovo titolo V Cost., in www.consiglio.regione.toscana.it, 2002, pp. 9 ss.. B.G. MATTARELLA, voce Motivazione (Dir. com.), in Diz. dir. pubbl., vol. IV, a cura di S. Cassese, Giuffrè, Milano, 2006, p. 3749.

[19] Tuttavia una parte della dottrina continua ad escludere un obbligo generale di motivazione delle leggi anche dopo l’avvento della Costituzione e dell’ordinamento europeo in ragione della loro giustificazione democratica assicurata dalla pubblicità del procedimento legislativo e dal controllo diffuso dei cittadini (G. SCACCIA, Motivi della legge e valori preparatori nel giudizio costituzionale, in It. legis. n. 3/1998, pp. 15 ss.. M. PICCHI, L’obbligo di motivazione delle leggi, op. cit., pp. 3-4.)

[20] G. PEPE, Principi generali dell’ordinamento comunitario e attività amministrativa, op. cit., pp. 130 ss..

[21] Sulle differenze tra arbitrio e discrezionalità N. TOMMASEO, Dizionario dei sinonimi della lingua italiana, VII ed., Milano, 1884, p. 493: “Nell’arbitrio c’è esercizio assoluto della volontà buona o cattiva ch’ella sia; nella discrezione tale esercizio è regolato da conoscenza e da giudizio”.

[22] F. CORDERO, Le situazioni soggettive nel processo penale: studi sulle dottrine generali del processo penale, Giappichelli, Torino, 1956, pp. 161 ss..

[23] In dottrina, tra i contributi più significativi, M.S. GIANNINI, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione. Concetto e problemi, Milano, 1939, spec. pp. 78 ss. A. PIRAS, voce Discrezionalità amministrativa, in Enc. dir., vol. XIII, Milano, 1964, pp. 65 ss.. C. MORTATI, voce Discrezionalità, in Noviss. dig. it., vol. V, Torino, 1964, pp. 1098 ss.. L. BENVENUTI, La discrezionalità amministrativa, Cedam, Padova, 1986, pp. 1 ss.. G. AZZARITI, Dalla discrezionalità al potere, Cedam, Padova, 1989, spec. pp. 317 ss..

[24] Contra G. SCACCIA, Gli strumenti della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Giuffrè, Milano, 2000, pp. 175 ss.. R. DICKMANN, Procedimento legislativo e coordinamento delle fonti, Cedam, Padova, 1997, pp. 385 ss., il quale nega la possibilità di configurare il vizio di eccesso di potere, sul postulato della natura libera e non già discrezionale della funzione legislativa.

[25] F. MODUGNO, voce Funzione, in Enc. dir., vol. VIII, Milano, 1969, pp. 301 ss..

[26] M. STIPO, L’interesse legittimo nella prospettiva storica, Atti dei convegni per le celebrazioni dell’opera Giustizia amministrativa (1903) del Prof. Cino Vitta, 21 novembre 2003 e 16 luglio 2004, Consiglio di Stato, in Studi per il centenario della Giustizia amministrativa (1903) di Cino Vitta, a cura di M. Stipo, Tiellemedia, Roma, 2006, p. 107.

[27] S. PUGLIATTI, Esecuzione forzata e diritto sostanziale, Milano, 1935, pp. 24 ss.. Il concetto viene successivamente ripreso e chiarito da A. PIRAS, Interesse legittimo e giudizio amministrativo, Milano, 1962, vol. I, pp. 56 ss., vol. II, p. 53 ss, pp. 69 ss. e pp. 283 ss. F. BENVENUTI, Eccesso di potere per vizio della funzione, in Rass. dir. pubbl. 1950, pp. 1 ss.

[28] Sui principi generali europei quali parametri della legittimità dei pubblici poteri nazionali PEPE G., Principi generali dell’ordinamento comunitario e attività amministrativa, op. cit., spec. pp. 33, 51, 72 e 243.

[29] Per maggiori approfondimenti su veda M. PICCHI, L’obbligo di motivazione delle leggi, op. cit., pp. 21 ss..

[30] Sulla motivazione degli atti e dei provvedimenti amministrativi, senza pretese di esaustività, si vedano i contributi di A QUARTAPELLE, La motivazione degli atti amministrativi, Roma, 1940, pp. 1 ss.. G. FAZIO, Sindacabilità e motivazione degli atti amministrativi discrezionali, Giuffrè, Milano, 1965, pp. 1 ss.. L. VANDELLI, Osservazioni sull’obbligo di motivazione degli atti amministrativi, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1972, pp. 1595 ss.. G. BERGONZINI, La motivazione degli atti amministrativi, Vicenza, 1979, pp. 1 ss.. A. ROMANO TASSONE, Motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato di legittimità, Giuffrè, Milano, 1987, pp. 1 ss.. R. SCARGIGLIA, La motivazione dell’atto amministrativo. Profili ricostruttivi e analisi comparatistica, Giuffrè, Milano, 1999, passim. G. CORSO, voce Motivazione dell’atto amministrativo, in Enc. dir., vol. V, Agg. Milano, 2001, pp. 774 ss..

[31] Con riferimento alla motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, a titolo esemplificativo, si vedano i contributi P.S. SAMPERI, Motivazione delle sentenze, Roma, 1937, pp. 1 ss.. M. TARUFFO, La motivazione della sentenza civile, Cedam, Padova, 1974, pp. 1 ss.. E. AMODIO, voce Motivazione della sentenza penale, in Enc. dir., vol. XXVII, Milano, 1977, pp. 181 ss.. S. EVANGELISTA, voce Motivazione della sentenza civile, in Enc. dir., vol. XXVII, Milano, 1977, pp. 154-180. B. PELLINGRA, La motivazione della sentenza penale, Giuffrè, Milano, 1985, pp. 1 ss.. E. FAZZALARI, voce Sentenza civile, in Enc. dir., vol. XLI, Milano, 1989, pp. 1245 ss.. F. SANTANGELI, L’interpretazione della sentenza civile, Milano, 1996, spec. pp. 50 ss..

[32] Ai sensi dell’art. 3 II co. l. 241/90 “la motivazione non è richiesta per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale”.

[33] Per i provvedimenti amministrativi adottati in carenza di motivazione e caducati in sede giurisdizionale è consentito alla Pubblica Amministrazione, in sede di riesercizio del potere, di adottare, ora per allora, un nuovo provvedimento perfettamente motivato. Ciò, risulta, viceversa, inammissibile per gli atti legislativi, in quanto è preclusa al legislatore la possibilità di intervenire ex post, con efficacia retroattiva, su una precedente legge, censurata per illegittimità costituzionale, al fine di aggiungere od integrare la motivazione del precedente atto. Il potere legislativo deve, dunque, considerarsi consumato ed in ogni caso non può essere esercitato in elusione del dictum della Consulta.

[34] Prima degli anni 90’ del XX sec. la giurisprudenza aveva imposto la motivazione degli atti amministrativi restrittivi della sfera giuridica del destinatario, nella prospettiva della loro sindacabilità in sede giurisdizionale. Inoltre l ’obbligo di motivazione veniva, tradizionalmente, ricavato dal principio di imparzialità di cui all’art. 97 II co. Cost.. In passato l’assenza di motivazione avrebbe rappresentato una figura sintomatica di eccesso di potere. (M.S. GIANNINI, voce Motivazione dell’atto amministrativo, in Enc. dir., vol. XXVII, op. cit., pp. 258 ss.). Viceversa con l’entrata in vigore dell’art. 2 l. 241/90 la carenza di motivazione integra il diverso vizio di violazione di legge.

[35] S. BOCCALATTE, La motivazione della legge. Profili teorici e giurisprudenziali, op. cit., pp. 267 ss.. G. TESAURO, Diritto dell’Unione europea, VII ed., Cedam, Padova, 2012, pp. 152 ss..

[36] Tale circostanza viene tradizionalmente evidenziata in dottrina da C.M. IACCARINO, Studi sulla motivazione (con speciale riguardo agli atti amministrativi), op. cit., pp. 129-130. V. CRISAFULLI, Sulla motivazione degli atti legislativi, in Riv. dir. pubbl., op. cit., p. 425. M.S. GIANNINI, voce Motivazione dell’atto amministrativo, in Enc. dir., vol. XXVII, op. cit., pp. 258 ss.. L’Autore sottolinea come, a differenza dell’ordinamento italiano, nell’ordinamento francese sia invalsa la prassi di motivare gli atti legislativi, pur in assenza di un obbligo positivamente sancito.

[37] Sulla configurabilità di un obbligo implicito di motivazione delle leggi, tra i tanti, in dottrina M. CARLI, Motivare le leggi: perché no?, in Poteri, garanzie, diritti a Sessanta anni dalla Costituzione. Scritti per Giovanni Grottanelli de’ Santi, a cura di A. Pisaneschi, L. Violini, vol. I, Giuffrè, Milano, 2007, pp. 255-266. M. PICCHI, L’obbligo di motivazione delle leggi, op. cit., passim, spec. p. 251: “La motivazione costituisce (…) una componente sostanziale dell’atto legislativo; diviene, cioè, lo strumento in grado di confermare e valorizzare la prevalenza della legittimazione costituzionale, soddisfacendo ad un tempo anche la necessità di evidenziare la funzionalità oggettiva della scelta compiuta, agevolandone il recepimento da parte della comunità e, in ultima analisi, la sua effettività”.

[38] C. MORTATI, Le leggi provvedimento, Giuffrè, Milano, 1968, pp. 134 ss. e 244 ss.. A. BARBERA, Leggi di piano e sistema delle fonti, Giuffrè, Milano, 1968, pp. 79 ss.. V. ITALIA, La deroga nel diritto pubblico, Giuffrè, Milano, 1977, pp. 123 ss.. R. BIN, Atti normativi e norme programmatiche, Giuffrè, Milano, 1988, pp. 310 ss.. P. CARETTI, voce Motivazione (diritto costituzionale), in Enc giur. Treccani, vol. XX, Roma, 1990, pp. 1-6. F. SORRENTINO, Lezioni sul principio di legalità, Giappichelli, Torino, 2007, pp. 33 ss..

[39] G. SCACCIA, Gli strumenti della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, op. cit., p. 122, il quale afferma l’insussistenza di un obbligo generale di motivazione della legge in ragione del silenzio serbato in proposito dalla Costituzione.

[40] Puntualizza la sentenza: “di norma non è necessario che l’atto legislativo sia motivato, recando la legge in sé, nel sistema che costituisce, nel contenuto e nei caratteri dei suoi comandi, la giustificazione e le ragioni della propria apparizione nel mondo del diritto”. In tale pronuncia la Corte ha fatto attenzione a non sovrapporre la motivazione o giustificazione della legge al movente politico. Per un commento a tale pronuncia M. PICCHI, L’obbligo di motivazione delle leggi, op. cit., pp. 27-28: “Secondo la Corte costituzionale, perciò, non sarebbe necessario dare una veste specifica alla motivazione, ma deve pur sempre essere possibile ricostruire le ragioni della scelta: devono sussistere gli elementi necessari e sufficienti per poter verificare l’adeguatezza della decisione assunta mettendo in relazione la finalità perseguita col criterio di ragionevolezza e i parametri costituzionali”.

[41] F. MODUGNO, La ragionevolezza nella giustizia costituzionale, op. cit., p. 10: “È fin troppo noto che la forma argomentativa della ragionevolezza sorge nell’ambito del giudizio sull’uguaglianza delle leggi. Il controllo di uguaglianza (fuori dalle ipotesi di vera e propria discriminazione) è comunemente considerato il livello minimale del sindacato di ragionevolezza”.

[42] C. PINELLI, Recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di qualificazione di “atti con forza di legge”, in La Corte costituzionale vent’anni dopo la svolta, Atti seminario Stresa, 12 novembre 2010, a cura di R. Balduzzi, M. Cavino, J. Luther, Giappichelli, Torino, 2011, pp. 305-315.

[43] La pronuncia della Corte costituzionale in commento sancisce il de profundis della concezione della legge quale atto libero nel fine espressivo della volontà popolare; una tesi pervicacemente viva anche dopo l’avvento della Costituzione e dell’ordinamento europeo tanto in dottrina quanto in giurisprudenza.

[44] Più in generale sul bilanciamento tra diritti, interessi, principi e valori nel giudizio di costituzionalità della legge N. BOBBIO, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1990, pp. 9 ss.. A. BALDASSARRE, Fonti normative, legalità e legittimità: l’unità della ragionevolezza, in Queste istituzioni, 1991, p. 64. R. BIN, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Giuffrè, Milano, 1992, passim. F. MODUGNO, La ragionevolezza nella giustizia costituzionale, op. cit., pp. 33 ss.. G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite: legge, diritti, giustizia, Einaudi, Torino, 2013, p. 13 ss..

[45] A. MOSCARINI, Ratio legis e valutazioni di ragionevolezza della legge, Giappichelli, Torino, 1996, pp. 1 ss.. G. SCACCIA, Gli strumenti della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, op. cit., passim.

[46] In tema C. MORTATI, Sull’eccesso di potere legislativo, in Giur. it., I, 1949, pp. 457 ss.. L. PALADIN, Osservazioni sulla discrezionalità e sull’eccesso di potere del legislatore ordinario, in Riv. trim. dir. pubbl. 1956, pp. 993 ss.. V. CRISAFULLI, Appunti di diritto costituzionale. La Corte costituzionale, Lezioni raccolte da Modugno, Cerri, Baldassarre, Bulzoni, Roma, 1967, pp. 108-109. C. PAGOTTO, La disapplicazione della legge, op. cit., pp. 42 ss.. M., PICCHI, L’obbligo di motivazione delle leggi, op. cit., pp. 147 ss..

[47] In dottrina V. CRISAFULLI, Appunti di diritto costituzionale. La Corte costituzionale, Lezioni raccolte da Modugno, Cerri, Baldassarre, op. cit., pp. 108-109. Secondo l’Autore il legislatore parla atecnicamente di discrezionalità laddove vuole dire merito, come invece sarebbe più proprio.

[48] J. BRÜGGEMANN, Die richterliche Begründungspflicht, Berlín, 1971, p. 161.

[49] Per descrivere la relazione che intercorre tra la legge ed i lavori preparatori si può ricorrere alla metafora del frutto separato dall’albero. In se stessa la legge deve rinvenire tutti gli elementi utili al suo perfezionamento ed alla sua validità, indipendentemente dai lavori preparatori. (V. CRISAFULLI, voce Atto normativo, in Enc. dir., vol. IV, Milano, 1959, p. 258. Id., Sulla motivazione degli atti legislativi, in Riv. dir. pubbl., op. cit., pp. 432 ss.).

[50] M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, III ed., Giuffrè, Milano, 1993, p. 550.

[51] Leggi italiane presentano, frequentemente, una giustificazione, vaga e generica, nel preambolo dell’atto legislativo.

[52] V. CRISAFULLI, Appunti di diritto costituzionale. La Corte costituzionale, Lezioni raccolte da Modugno, Cerri, Baldassarre, op. cit., pp. 111-112. L’Autore opera una distinzione tra l’eccesso di potere legislativo in senso lato e l’eccesso di potere legislativo in senso stretto. Nel primo caso “etichettiamo come eccesso di potere tutte quelle ipotesi in cui il parametro alla stregua del quale va condotto il controllo di costituzionalità di una legge o di norme di legge è di carattere complesso, perché risulta bensì da norme deducibili dal testo della Costituzione o di altre leggi formalmente costituzionali” o da altre norme o criteri comunque “richiamati dalle norme formalmente costituzionali come condizioni di validità della legge in determinate materie”. Diversamente nel secondo caso “il vizio della legge si può configurare come eccesso di potere in senso stretto (…). Si pensi all’ipotesi in cui la motivazione di una legge (quando vi sia) appaia in contrasto con le disposizioni della stessa legge; oppure si consideri l’ipotesi in cui i titoli interni, nei quali si ripartisce la legge, o le rubriche siano in contrasto col contenuto normativo e le disposizioni dell’articolato”. In casi del genere ammettendo il sindacato di legittimità della Corte “non si tratta evidentemente di valutare la legge o la norma di legge rispetto al parametro costituzionale (…) ma sembra invece che si adombrino figure di eccesso di potere in senso stretto, paragonabili a quelle che nel diritto amministrativo vengono dette contraddittorietà del provvedimento e contrasto fra motivazione e dispositivo adottato”. (…) In questi casi non sussisterebbe violazione di nessun parametro costituzionale, ma vi sarebbe soltanto un vizio logico intrinseco della legge –che si potrebbe considerare come un vizio della volontà legislativa, in quanto esisterebbe un volere e disvolere nella stessa legge- il quale è molto simile alla figura dell’eccesso di potere nel diritto amministrativo”.

[53] Sul giudizio di ragionevolezza delle leggi, tra i tanti, in dottrina, J. LUTHER, voce Ragionevolezza (delle leggi), in Dig. disc. pubbl., vol. XII, Torino, 1997, pp. 341 ss.. L. PALADIN, voce Ragionevolezza (principio di), in Enc. dir., Agg., I, Milano, 1997, pp. 901 ss.. A. MORRONE, Il custode della ragionevolezza, Giuffrè, Milano, 2001, pp. 275 ss. A. CERRI voce Ragionevolezza delle leggi, in Enc. giur. Treccani, vol. XXV, Roma, 2005, pp. 10 ss.. G. SCACCIA, voce Ragionevolezza delle leggi, in Diz. dir. pubbl., vol. V, a cura di S. Cassese, Giuffrè, Milano, 2006, pp. 4805 e ss.. F. MODUGNO, La ragionevolezza nella giustizia costituzionale, op. cit., pp. 1 ss..

[54] L’evoluzione prospettica della Corte, in favore del riconoscimento di un obbligo di adeguata motivazione per le leggi afflittive, sembra un fenomeno ormai irreversibile anche alla luce di un inevitabile processo di uniformazione con l’ordinamento europeo.

[55] L. cost. 20 aprile 2012, n. 1 rubricata: “Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale”, le cui disposizioni si applicano a decorrere dall’esercizio finanziario relativo all’anno 2014. L’art. 81 I co. Cost. richiama, poi, la disposizione di cui all’art. 97 I co. secondo cui “le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico”. Tra le Pubbliche Amministrazioni rientra, a pieno titolo, anche l’Inps.

[56] Come è noto la retroattività degli effetti delle pronunce di annullamento delle leggi della Corte costituzionale non può spingersi sino a far rivivere ciò che è morto e, con peculiare riferimento alla materia contabile, non può determinare la riapertura di esercizi di bilancio ormai chiusi ed esauriti.

[57] In una visione realistica e non meramente formalistica del diritto le spese o uscite dello Stato, relative alla fattispecie de qua, vanno imputate non già secondo il criterio della competenza agli anni 2012 e 2013 bensì secondo il criterio di cassa all’anno 2015, anno in cui effettivamente verranno erogati i “rimborsi” ai destinatari della mancata indicizzazione dei trattamenti pensionistici.

[58] Prosegue poi l’art. 81 Cost.: “Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali. Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte. Le Camere ogni anno approvano con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo. L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi. Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei princìpi definiti con legge costituzionale”.

[59] Secondo gli economisti la nozione di equilibrio di bilancio divergerebbe dalla nozione di pareggio di bilancio, intendendosi con la prima un discostamento non eccessivo delle uscite dalle entrate, mentre con la seconda una loro perfetta coincidenza. Ciononostante, in una prospettiva strettamente giuridica, l’art. 81 I co. Cost. deve essere oggetto di un’interpretazione univocamente orientata nel senso dell’imposizione dell’obbligo del pareggio di bilancio, trattandosi di una disposizione puntualmente attuativa di norme sovranazionali ed europee che vincolano gli Stati, appunto, alla realizzazione di tale.

[60] Il Patto di stabilità e crescita è stato consacrato in due regolamenti ed in una risoluzione del Consiglio europeo (regolamento CE, 7 luglio 1997, n. 1466, regolamento CE, 7 luglio 1997, n. 1467 e risoluzione 17 luglio 1997). In proposito CORSO G., Manuale di diritto amministrativo, VII ed., Giappichelli, Torino, 2015, p. 128. Secondo l’Autore l’obiettivo a medio termine del Patto di crescita e stabilità “è quello di raggiungere il pareggio del bilancio (o un avvicinamento al pareggio dello 0,5%) salvi i periodi di recessione. In precedenza il Trattato di Maastricht aveva portato ad una modifica del Trattato di Roma del 1957. Sicchè oggi l’art. 104 di quest’ultimo prevede:

-che gli Stati membri devono evitare disavanzi pubblici eccessivi;

-che il rapporto tra disavanzo pubblico e prodotto interno lordo non deve superare un valore di riferimento (che il protocollo annesso al Trattato fissa nel 3%);

-che il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo non deve superare un valore di riferimento (che il protocollo fissa nel 60%);

-che la Commissione europea sorveglia l’evoluzione della situazione di bilancio e dell’entità del debito pubblico degli Stati membri”.

[61] Tale accordo è stato approvato nel marzo 2011 dai Capi di Stato o di governo degli Stati membri della zona Euro e successivamente confermato dal Consiglio. Attraverso l’Euro Plus Pact gli Stati contraenti si sono vincolati alla realizzazione di alcuni prioritari obiettivi, tra cui la sostenibilità delle rispettive finanze pubbliche e la stabilità finanziaria del proprio ordinamento giuridico.         I Paesi membri, poi, hanno deciso di recepire in Costituzione o nella legislazione ordinaria le regole contenute nell’accordo. (In proposito G. DELLA CANANEA, La disciplina giuridica delle finanze dell’Unione e delle finanze nazionali, in Diritto amministrativo europeo, a cura di M.P. Chiti, Giuffrè, Milano, 2013, pp. 314-316).

[62] Il Six pack è un insieme di misure approvate nel novembre 2011 in sede europea. Tale pacchetto si compone di una direttiva e cinque regolamenti, direttamente attuativi sia degli artt. 121, 126, 136 TFUE sia del Protocollo n. 12 del Trattato di Lisbona.

[63] Il Fiscal Compact è un Trattato internazionale che a rigore non rientra direttamente nell’ordinamento giuridico europeo, pur se ad esso è riconducibile attraverso il rinvio operato dai Trattati UE, nei limiti di compatibilità con le norme europee. Gli Stati contraenti si sono impegnati a sostenere la Commissione nelle sue proposte e raccomandazioni relative all’applicazione della procedura per disavanzi eccessivi agli Stati membri, salvo vengano respinte dal Consiglio a maggioranza qualificata. A riguardo CORSO G., Manuale di diritto amministrativo, VII ed., op. cit., p. 128: “Il recente Fiscal Compact prevede che alla percentuale del 60% nel rapporto debito-pil gli Stati membri più indebitati (in prima linea l’Italia) debbano tornare con una riduzione annua del debito pari ad un ventesimo dell’eccedenza: il che dovrebbe implicare una riduzione progressiva del rapporto per effetto della crescita, cioè con l’aumento del denominatore. Tra le implicazioni di questi vincoli vi è stata, in Italia (ma non solo), una vasta campagna di privatizzazione allo scopo di conseguire entrate straordinarie da destinare al ripiano del debito. La privatizzazione dovrebbe comportare anche la dismissione di attività pubbliche che non è necessario mantenere in ambito pubblico e la conseguente riduzione della spesa”.

[64] A. PACE, Pareggio di bilancio: qualcosa si può fare, in www.rivistaaic.it, 2011. G.L. TOSATO, I vincoli europei sulle politiche di bilancio, in www.apertacontrada.it, 2012.

[65] Diversamente la Consulta con la sentenza 17 dicembre 2013, n. 310 ha agito in un caso analogo in senso diametralmente opposto, considerando legittimo il blocco degli automatismi previsto per il personale non contrattualizzato della Pubblica Amministrazione, in base al principio del pareggio di bilancio.

[66] Da indiscrezioni giornalistiche sembra che il Governo italiano intenda richiedere un parere non vincolante alla Corte di giustizia dell’Unione europea per chiarire l’incidenza della pronuncia della Corte costituzionale su eventuali profili di diritto europeo, al fine di intraprendere ogni azione necessaria per ottemperare alla pronuncia.

[67] Per ora da quanto appreso dai principali quotidiani la Commissione europea avrebbe posto sotto sorveglianza il nostro Paese per la voragine nel bilancio cagionata dalla sentenza della Corte costituzionale.

[68] G. DI GASPARE, Innescare un sistema in equilibrio della finanza pubblica ritornando all’art. 81 della Costituzione, in www.amministrazioneincammino.luiss.it, 2005. G. BOGNETTI, Costituzione e bilancio dello stato: il problema delle spese in deficit, in www.astrid-online.it, 2009. L. GIANNITI, Il pareggio di bilancio nei lavori della costituente, in www.astrid-online.it, 2011.

[69] La questione era stata proposta nel 2011 dalla Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia in relazione alle disposizioni del D.L. n. 112/2008 che hanno introdotto, per il periodo d’imposta 2008, un prelievo aggiuntivo, qualificato come addizionale all’imposta sul reddito delle società (IRES), pari al 5,5%, da applicarsi ai soggetti operanti nei settori petrolifero ed energetico (tra cui, per esempio, le imprese che commercializzano benzine, petroli, gas e oli lubrificanti), con ricavi superiori a 25 milioni di euro nel periodo d’imposta 2007.

[70] L’Assemblea Costituente, nell’istituire la Corte costituzionale ha prefigurato, due soli possibili esiti al giudizio di legittimità delle leggi: l’uno di accoglimento, l’altro di rigetto. Tuttavia, nel corso dei decenni la Consulta ha progressivamente superato le strettoie di questa tradizionale e netta alternativa, adottando pronunce di nuovo conio e dagli effetti peculiari (si pensi per esempio alle sentenze additive, alle sentenze con decorrenza ex nunc, alle sentenze monito etc..). In questo modo la Corte ha manifestato, in più di un’occasione, la volontà di calibrare il proprio sindacato, caso per caso, in ragione di una valutazione degli interessi costituzionalmente rilevanti, che considerasse, sia pure a latere, le ricadute politiche, economiche e finanziarie delle proprie sentenze sul sistema Paese.

[71] La Corte costituzionale riveste un ruolo sui generis, svolgendo un’attività giuridica che agli albori del terzo millennio ha ricadute politiche, economiche e finanziarie di non poco momento che il giudice delle leggi deve tenere in considerazione. D’altronde già autorevole dottrina (H. KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto, trad. it. Treves, Milano, 1952, passim) definiva la Corte costituzionale un organo di natura politica. A testimonianza di ciò milita poi la circostanza che l’Assemblea costituente decise di eliminare il precedente sindacato estrinseco sulla forma e sulla procedura della legge affidato dallo Statuto albertino alla Suprema Corte di Cassazione (C. ESPOSITO, La validità delle leggi: studio sui limiti della potestà legislativa, i vizi degli atti legislativi e il controllo giurisdizionale, Cedam, Padova, 1934, passim). Diversamente, i Padri costituenti hanno voluto, in netta discontinuità con il passato, istituire un nuovo organo (la Consulta) cui affidare un sindacato (di ragionevolezza) diverso e più stringente sulla legge alla luce di una Carta costituzionale di tipo rigido. Da un’attenta analisi, infatti, può evincersi come l’odierno sindacato legittimità delle leggi, lungi dall’essere esclusivamente tecnico, presenti una portata necessariamente più ampia, non potendo la Consulta trascurare le conseguenze politiche, economiche e finanziarie delle proprie sentenze. In particolare nell’odierno contesto giuridico-politico, caratterizzato dall’appartenenza dell’Italia all’ordinamento europeo, ai sensi degli artt. 11 e 117 I co. Cost., tutti gli organi pubblici sono tenuti all’osservanza di puntuali vincoli di bilancio, vincoli che nemmeno la Corte costituzionale può disattendere.

[72] A. CELOTTO-F. MODUGNO, L’impatto del diritto comunitario sulla giustizia costituzionale: il controllo misto sulle leggi, cap. XII, La giustizia costituzionale, in Lineamenti di diritto pubblico, a cura di F. Modugno, Giappichelli, Torino, 2010, pp. 734 ss.: “L’impatto del diritto dell’Unione europea sul nostro ordinamento ha carsicamente eroso il sistema di giustizia costituzionale, modificandolo profondamente e addirittura stravolgendolo. (…). Si pensi che una legge interna se conforme a norma costituzionale, ma difforme da norma comunitaria, è comunque illegittima; mentre se difforme da norma costituzionale, ma conforme a norma comunitaria, può divenire persino…legittima, o quanto meno efficace. (…) Tali devastanti effetti fanno addirittura pensare che oggi non si possa più parlare semplicemente, in Italia, di controllo di legittimità costituzionale delle leggi, ma occorra precisare che il controllo sugli atti legislativi è di tipo costituzional-comunitario (o qualcosa di simile)”.

[73] Sulla prevalenza del voto del presidente della Corte costituzionale, a parità di suffragi, G. PEPE, Principi generali dell’ordinamento comunitario e attività amministrativa, op. cit., pp. 194 ss..

[74] In base agli artt. 11 e 117 I co. Cost. l’adesione dell’Italia all’ordinamento europeo impone al nostro sistema giuridico l’osservanza dei vincoli di bilancio statuiti in sede sovranazionale e recepiti, segnatamente, all’art. 81 I co. Cost.. Il rispetto di tali vincoli non può non ripercuotersi anche sull’attività della Corte costituzionale la quale oggi, forse più che in passato, è tenuta a valutare le conseguenze economico-finanziarie che le proprie pronunce possono riverberare, in via diretta o riflessa, sui conti pubblici del Paese. Del resto, impreviste ed insostenibili voragini nel bilancio pubblico nazionale rischierebbero di condurre l’Italia al default; un default che imporrebbe la ripartizione dei relativi costi finanziari tra tutti gli Stati membri con conseguenze imprevedibili per la stabilità dell’Unione europea.

[75] La Corte costituzionale in una nota ufficiale ha voluto smentire alcune indiscrezioni filtrate dalle agenzie di stampa sulla natura auto-applicativa della sentenza in base alla quale la pronuncia avrebbe un’immediata efficacia erga omnes, senza necessità di ricorsi da parte dei pensionati beneficiari. La Consulta si è viceversa affrettata a puntualizzare che dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione gli interessati possono intraprendere le iniziative ritenute necessarie e gli organi politici, ove lo ritengano, possono adottare i provvedimenti del caso nelle forme costituzionali.

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