Sulla rilevanza penale dell’elusione fiscale,

nota a Cass. Pen. 28 febbraio 2012, n. 7739

di Lorenzo Prudenzano e Chiara Cipolletti

(testo integrale in www.cortedicassazione.it/Documenti/7739_02_12.pdf)

 

Nella innovativa sentenza in commento la Cassazione afferma importanti principi in materia di rilevanza penale dell’elusione fiscale.

Come è noto esiste in dottrina e in giurisprudenza un vivace dibattito che ruota intorno alla questione: se l’abuso del diritto in materia tributaria, sub specie di elusione fiscale, prevista dall’articolo 37-bis D.p.R. n. 600/1973, possa integrare gli estremi di un delitto tributario, come ad esempio l’evasione fiscale prevista dall’articolo 2 del D.lgs. n. 74/2000.

La questione, come è facile avvertire, chiama in causa fondamentali principi in materia penale ma anche in materia tributaria, in particolare:

1)    il principio di legalità in materia penale (nullum crimen sine lege);

2)    il valore, sostanziale o processuale, della norma contenuta all’articolo 37-bis, che prevede il disconoscimento da parte dell’Amministrazione finanziaria degli effetti vantaggiosi dell’atto elusivo.

 

I fatti oggetto di causa. La decisione del gup annullata dalla Cassazione.

 

I fatti che originano la sentenza della S.C. attengono alla c.d. esterovestizione di una nota casa di moda italiana: gli illustri stilisti erano imputati di aver fittiziamente ceduto i propri marchi ad una società con sede in Lussemburgo, per un prezzo inferiore al c.d. valore di mercato, continuando ad essere di fatto destinatari dei benefici derivanti dallo sfruttamento degli stessi, grazie alla proprietà della società lussemburghese che deteneva interamente la società cessionaria dei marchi.

 

Il g.u.p. di Milano[1], a fronte della ricostruzione accusatoria dei fatti in termini di truffa  aggravata ai danni dello Stato e dichiarazione infedele, riteneva che la cessione dei marchi non fosse simulata, ma al contrario reale ed effettiva, negando pertanto l’esistenza dei presupposti dell’incriminazione stessa (in particolare gli artifizi ed i raggiri).

 

Si avvertiva in particolare che la determinazione del prezzo di cessione di un marchio rientra nell’autonomia negoziale delle parti, e la Amministrazione Finanziaria non può ingerirsi in tale autonomia negoziale adducendo semplicemente lo scostamento quantitativo fra “valore normale” e prezzo stabilito dalle parti, senza allegare ulteriori elementi di prova circa la natura elusiva dell’atto negoziale. Si tratterebbe esclusivamente di presunzione, non idonea a fondare né in sede tributaria né tantomeno in sede penale il convincimento del giudice quanto all’abusività della condotta contestata[2].

Inoltre, prendendo posizione sulla questione della rilevanza penale dell’elusione fiscale, il g.u.p. di Milano negava recisamente la configurabilità di un’elusione sanzionabile a livello penale.

Perché, si legge in un passo della pronuncia, “… l’elusione fiscale presenta tratti quasi antinomici, essendo caratterizzata, per un verso, da una concatenazione di atti leciti; per altro verso, da una marcata atipicità, che confligge con il principio di tipicità e determinatezza della fattispecie penale”.

L’elusione fiscale, cioè, consisterebbe in una mera sanzione procedurale, e non in un divieto di carattere sostanziale, in quanto da un lato riguarda atti giuridicamente leciti o comunque non vietati esplicitamente dall’ordinamento, dall’altro l’unica conseguenza esplicita che l’ordinamento ricollega ad essa è il disconoscimento degli effetti ai fini dell’accertamento dei redditi.

 

Il g.u.p. inoltre si soffermava sulla natura dei delitti tributari, per i quali il Legislatore non ha impiegato lo strumento del reato a condotta libera, che si caratterizza per l’incriminazione della mera causazione di un evento di natura fiscale indipendentemente dalle modalità della sua realizzazione, ma ha preferito ricorrere allo strumento del reato a condotta vincolata. Da ciò, nuovamente, è dato evincere che non ogni condotta può determinare omessa dichiarazione o evasione fiscale, ma solo quelle tipizzate dalla norma penale tributaria, in ossequio ad un’irrinunciabile esigenza di legalità[3].

 

Ulteriore argomento per negare la rilevanza penale dell’elusione è per il g.u.p. la stessa lettera della legge, che parla di “evasione” e non di “elusione” (ubi lex voluit dixit, ubi noluit taquit).

 

Proponevano ricorso il Procuratore della Repubblica e l’Amministrazione Finanziaria, evidenziando in particolare la necessità di riqualificare i fatti, ritenuta l’inesistenza degli artifizi e i raggiri, nei termini di omessa dichiarazione, ai sensi dell’articolo 5 D.lgs. n. 74/2000.

 

 

L’abuso del diritto in materia tributaria. Il problema della rilevanza penale dell’elusione fiscale nella dottrina e nella giurisprudenza.

 

Come è ben noto, la giurisprudenza di legittimità ritiene da tempo esistente in materia tributaria un generale principio che vieta l’abuso del diritto.

Per abuso del diritto si intende quel comportamento che pur apparentemente conforme all’esercizio di un diritto soggettivo, viene tenuto non in vista della soddisfazione di un interesse del suo titolare, ma all’esclusivo scopo di nuocere ad altri ovvero per il raggiungimento di uno scopo diverso da quello per il quale il diritto soggettivo è riconosciuto dall’ordinamento[4].

Nell’ordinamento civile generale la giurisprudenza rinviene il fondamento del divieto dell’abuso del diritto nel principio di buona fede oggettiva che governa le relazioni sociali, che a sua volta trova fondamento costituzionale nell’articolo 2 della Carta fondamentale[5].

Sul piano del diritto sovranazionale preme ricordare che l’art. 54 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea[6], recepita dal Trattato di Lisbona entrato in vigore il 1° dicembre 2009, fa divieto di interpretare qualsiasi regola nel senso di comportare il diritto di esercitare un’attività o di compiere un atto mirante alla distruzione dei diritti e delle libertà, o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste[7].

Nel sistema tributario, informato al principio di legalità (art. 23 Cost.)[8] l’individuazione della possibile rilevanza del generale divieto di abuso del diritto in relazione all’elusione fiscale, è particolarmente complessa.

In un primo momento la S.C. ha ritenuto inesistente una clausola generale antielusiva nell’ordinamento fiscale, quantomeno prima dell’introduzione dell’art. 37-bis nel D.p.R. n. 600/1973[9].

Successivamente, la Corte ha iniziato ad enfatizzare l’esigenza della corretta qualificazione dei contratti ai fini fiscali in ragione della loro causa, consentendo al giudice la valutazione in termini di meritevolezza della causa perseguita con l’operazione negoziale elusiva[10].

Più tardi, la Corte di Giustizia delle Comunità europee si è espressa con una pronuncia molto importante in materia di abuso della disciplina comunitaria sull’IVA (caso Halifax)[11].

In tale sentenza si afferma che si ha abuso del diritto quando le operazioni negoziali, nonostante l’applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni comunitarie e della normativa interna, procurino un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da queste stesse disposizioni[12].

Sebbene costituisca un principio fondamentale del diritto comunitario quello secondo cui i destinatari delle norme comunitarie possono scegliere liberamente la soluzione negoziale più favorevole dal punto di vista della imposizione fiscale, senza che da ciò  possa scaturire un pregiudizio, la Corte precisa che è proprio lo sviamento di tale facoltà di scelta che invera l’abuso del diritto.

Infatti, “Deve altresì risultare, da un insieme di elementi obiettivi, che le dette operazioni hanno essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale[13].

Più tardi, la Corte di Giustizia ha ulteriormente precisato che non è necessario, perché vi sia abuso del diritto comunitario in materia fiscale, che il fine di ridurre il carico impositivo sia esclusivo, ma è sufficiente che questo sia essenziale nell’economia generale dell’attività posta in essere dall’agente, sicché ben possono coesistere finalità di carattere economico-commerciale[14].

Successivamente alla sentenza Halifax, la Cassazione ha recepito l’impostazione della Corte di Giustizia nel diritto interno ed ha affermato il principio del divieto dell’abuso comunitario non solo in materia IVA, ma anche nel settore delle imposte dirette, ritenendo non deducibili dal reddito di impresa le minusvalenze derivanti da operazioni compiute essenzialmente allo scopo di ottenere un vantaggio fiscale[15].

L’estensione del principio comunitario alle imposte dirette, che non costituiscono oggetto di armonizzazione in sede comunitaria, è stato oggetto di una vivace critica da parte della dottrina, dal momento che non rientra nelle competenze di armonizzzione dell’Unione europea la imposizione diretta.

Di recente, con una serie di pronunce importanti del 2008[16] le Sezioni Unite hanno chiarito che esiste nel nostro ordinamento un generale principio di divieto dell’abuso del diritto in virtù dell’articolo 53 Cost., il quale richiede la giusta partecipazione alle pubbliche spese in ragione della capacità contributiva[17].

Dal riconoscimento dell’esistenza di un generale principio antielusivo discende che l’Amministrazione finanziaria può disconoscere gli effetti giuridici di una condotta finalizzata (esclusivamente o comunque essenzialmente) al conseguimento di un vantaggio fiscale, indipendentemente dall’esistenza di una specifica disposizione che le conferisca siffatto potere qualificatorio.

Le pronunce sono state criticate da un’autorevole dottrina, che ha rilevato come l’intera materia tributaria sia pervasa dal principio di legalità, che non tollera la enucleazione di una clausola così invasiva come quella antielusiva sulla base di una norma costituzionale che si limita a rimettere al Legislatore la scelta in ordine all’an e al quomodo della imposizione fiscale, enunciando il principio di capacità contributiva. L’articolo 53, dunque, non si rivolgerebbe direttamente al contribuente ma solo ed esclusivamente al Legislatore[18].

Di recente la Cassazione è tornata a pronunciarsi sul punto, limitando il potere dell’amministrazione finanziaria di riqualificare le operazioni controverse, specialmente nelle ipotesi di ristrutturazioni societarie. Si è in particolare affermato che “il sindacato dell’amministrazione finanziaria non può spingersi ad imporre una misura di ristrutturazione diversa tra quelle giuridicamente possibili (e cioè una fusione) solo perchè tale misura avrebbe comportato un maggior carico fiscale. In particolare, non può essere considerata abusiva la scelta di mantenere in piedi un distinto soggetto giuridico, invece di dar luogo alla creazione di un unico soggetto, in quanto, tale scelta non appare artificiosa, nè come tale poteva considerarsi soltanto perché comportava un maggiore risparmio fiscale”.

 

Se in materia tributaria la questione della rilevanza generale dell’abuso del diritto sub specie di elusione è più che mai controversa, come si è visto, in materia penale la questione si complica gravemente.

La questione della rilevanza penale del fenomeno elusivo è riassumibile nell’interrogativo: è possibile considerare l’elusione alla stregua di una modalità, sia pure atipica, di evasione fiscale, dal momento che la stessa consente al contribuente un risparmio di spesa che l’ordinamento tributario disconosce in quanto immeritevole per la mancanza di valide ragioni economiche extrafiscali?

 

Occorre rammentare come nell’ordinamento penale non esiste alcuna fattispecie incriminatrice che sanzioni esplicitamente l’elusione fiscale.

Da ciò è possibile inferire che, di per sé, l’elusione non è penalmente rilevante.

Allo stesso tempo, il problema non è superato, se si pone mente alla esistenza di tutta  una serie di fattispecie criminose tributarie, come la dichiarazione fraudolenta (art. 2 D.lgs. n. 74/2000), che si caratterizza per l’immutatio veri, cioè la falsa rappresentazione della realtà delle cose intesa a ingannare l’amministrazione finanziaria, nonché la dichiarazione infedele (art. 4 D.lgs. cit.), che consiste nella dichiarazione di un reddito inferiore a quello effettivamente percepito, assistita dal dolo specifico di evasione.

 

Il fenomeno elusivo è stato accostato alle fattispecie criminose tipizzate espressamente dalla legge, al fine di rafforzarne la lotta e la repressione.

 

Tuttavia, la soluzione positiva alla questione della rilevanza penale dell’elusione va incontro ad obiezioni difficilmente superabili:

a) l’esigenza di garantire la legalità penale, principio di rilevanza costituzionale e sovranazionale, che contrasta col carattere atipico del divieto di abuso del diritto[19] e con l’assenza, nell’attuale sistema normativo dei delitti tributari, di un qualsiasi riferimento al fenomeno elusivo;

b) l’originaria voluntas legislatoris, tesa a escludere la rilevanza penale dell’elusione, come è dato evincere dalla Relazione governativa al D.lgs. n. 74/2000[20];

c) la previsione del dolo specifico quale elemento soggettivo minimo richiesto ai fini della punibilità dei delitti tributari, che sembrerebbe incompatibile con la strutturazione psicologica del fenomeno elusivo, volto esclusivamente al conseguimento del vantaggio fiscale[21];

d) la natura “procedimentale” dell’articolo 37-bis, il quale non vieterebbe l’elusione fiscale, di per sé non illecita, ma si limiterebbe ad autorizzare il disconoscimento degli effetti vantaggiosi tipici delle operazioni elusive[22].

 

 

A fronte di queste, per vero cospicue, argomentazioni favorevoli al riconoscimento della rilevanza penale dell’elusione si rinvengono:

a) nell’articolo 16 D.lgs. n. 74/2000, il quale prevede quale causa di non punibilità l’aver utilizzato lo strumento dell’interperllo antielusivo previsto dall’art. 21, commi 9 e 10, della legge 30 dicembre 1991, n. 413, e l’essersi conformati al parere dell’Amministrazione finanziaria. Si rileva che escludere la punibilità nella specifica ipotesi di conformazione al parere dell’Amministrazione vuol dire implicitamente ammettere la punibilità di fatti elusivi[23];

b) nella considerazione che l’elusione di imposta comporta nella sostanza le stesse conseguenze dell’evasione, quantomeno dal punto di vista oggettivo, vale a dire la discrepanza fra l’imposta che si sarebbe dovuta dichiarare sulla base delle disposizioni costituzionali e legislative, e l’imposta che si è dichiarata a seguito dell’operazione elusiva[24].

c) nella natura “sostanziale” dell’articolo 37-bis, che fonderebbe un vero e proprio divieto di elusione fiscale, sanzionato (anche) in via procedimentale dall’Amministrazione[25].

 

La tesi favorevole alla configurabilità di delitti tributari commessi “mediante elusione” ha trovato, fino alla sentenza odierna della S.C. sporadici e isolati accoglimenti nella giurisprudenza[26].

 

 

La sentenza della Cassazione

 

La Cassazione cassa con rinvio la decisione del g.u.p. di Milano, sancendo e chiarendo i confini della rilevanza penale dell’elusione fiscale.

Preliminarmente la Suprema Corte ricostruisce il rapporto esistente tra il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato e le fattispecie tributarie in materia di frode fiscale sulla base dei principi fissati dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 1235/2011[27]. In tale pronuncia la Cassazione ha composto il contrasto insorto fra le sezioni semplici facendo ricorso al principio di specialità cui il nostro ordinamento è ispirato (art. 15 c.p.). Per la Corte la sussistenza di un rapporto di specialità deve essere verificata mediante un confronto strutturale tra fattispecie astratte ed elementi costitutivi delle stesse. La disposizione speciale è caratterizzata dalla continenza di tutti gli elementi costitutivi della norma generale ed uno o più requisiti propri caratteristici; è nota l’immagine metaforica dei due cerchi concentrici utilizzata dalla Corte per spiegare con immediatezza il rapporto di continenza tra la norma speciale e la norma generale. Dall’applicazione di tali principi la Cassazione ha desunto la sussistenza del rapporto di specialità tra la fattispecie tributaria (in particolare la frode fiscale) e la truffa aggravata ai danni dello Stato, evidenziando come la prima si caratterizzi per la presenza di un apposito artifizio, costituito da fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.

Le Sezioni Unite hanno infine chiarito come il rapporto di specialità così delineato venga però meno qualora la condotta posta in essere dal soggetto non si limiti ad evadere o eludere l’obbligazione tributaria, ma determina un profitto ulteriore e diverso: in tal caso il delitto di truffa aggravata potrà eventualmente concorrere con i reati fiscali.

Ripercorsi i passaggi argomentativi delle Sezioni Unite, la Corte prende a verificare il modo in cui debba essere ricostruita nel caso in esame la condotta ascritta agli imputati e, in particolare, se possa ipotizzarsi uno dei reati previsti dal D.lgs. n. 74/2000.

La condotta ad essi attribuita costituisce, secondo la Cassazione, un fenomeno noto come “esterovestizione” e insito nella fittizia localizzazione all’estero della residenza fiscale di una società che, al contrario, ha la gestione effettiva della sua attività in Italia ed ivi persegue il suo oggetto sociale in Italia.

Ciò impone una riflessione in merito alla rilevanza penale della esterovestizione, fattispecie che, come già detto sopra, concretizza l’ipotesi di abuso del diritto in materia tributaria.

Dopo aver premesso la propria aderenza ai principi espressi sul punto dalla giurisprudenza europea, la Suprema Corte passa ad esaminare il percorso compiuto dalla giurisprudenza nazionale ricostruendo le argomentazioni favorevoli e contrarie alla attribuzione di rilevanza penale alla elusione fiscale.

In primis, la Cassazione rileva come le posizioni contrarie alla rilevanza penale siano prive di motivazione.

Diversamente, si sofferma sulle argomentazioni favorevoli alla configurabilità di un illecito penale, promuovendo da un lato un’interpretazione sistematica del D.lgs. 74/2000 e richiamando, dall’altro, i principi di politica criminale cui lo stesso è ispirato[28].

La Suprema Corte ritiene innanzitutto che l’espressione “imposta evasa” così come definito dall’art. 1, lett. f), del D.lgs. n. 74/2000 possa sussumere entro di sé anche il concetto di “imposta elusa”.

Ritiene inoltre di fondare ulteriore conferma alla rilevanza penale della elusione nell’articolo 16 D.lgs. cit., che, prevedendo la causa di non punibilità della conformazione da parte del contribuente, non avrebbe alcun senso se l’elusione non avesse rilevanza penale e ciò, quantunque la Relazione di accompagnamento al decreto precisi che tale previsione non può essere intesa come diretta a sancire “la rilevanza penale delle fattispecie latu sensu elusive non rimesse alla preventiva valutazione dell’organo consultivo”.

Ad abundantiam, la Corte fa leva sulle scelte di politica criminale compiute dal legislatore in occasione della riforma introdotta con il D.lgs. 74/2000, il quale, con un netto cambio di rotta rispetto al modello antecedente di legislazione penale tributaria (caratterizzato da un approccio “prodomico” all’evasione, teso a focalizzare il momento repressivo nella fase “preparatoria”) ha traslato il momento punitivo sull’ “offesa” agli interessi dell’erario ed, in particolare, sulla dichiarazione annuale.

Infine, la Corte fa riferimento al bene giuridico tutelato dalla norma: se il bene tutelato attiene alla corretta percezione del tributo da parte dell’erario ne deriva che l’ambito di applicazione delle norme incriminatrici si estende a ricomprendere quelle condotte idonee a determinare una restrizione o, finanche, un’esclusione della base imponibile.

Sul piano sovranazionale l’attribuzione di rilevanza penale alla fattispecie in esame non si porrebbe in alcun modo in contrasto con la giurisprudenza comunitaria, secondo cui la contestazione di un comportamento abusivo non deve condurre ad una sanzione in assenza di un fondamento normativo chiaro e univoco (fondando al più un obbligo di rimborso delle indebite detrazioni), giacchè tale affermazione, lungi dall’avere portata generale, sarebbe semplicemente espressione dell’incertezza derivante dalla recente applicazione nel settore fiscale del divieto comunitario di abuso del diritto.

Né la Cassazione ritiene in alcun modo pertinente il richiamo alla libertà di scelta delle sedi nel territorio comunitario, in quanto le sentenze richiamate dal g.u.p. avrebbero principalmente riguardo ai diversi casi di trattamenti fiscali discriminatori e non escluderebbero, ad ogni modo, l’imposizione di sanzioni sulla operazione abusiva.

Da ultimo, la Corte, con un’affermazione dall’indubbia portata innovativa, sostiene che la rilevanza penale di condotte elusive non solo non si pone in contrasto con il principio di legalità, ma rappresenta il frutto di un risultato interpretativo “conforme ad una ragionevole prevedibilità”; infatti, “se il principio di legalità venisse diversamente applicato nella materia di cui si parla si chiuderebbero gli spazi non solo della normativa penale generale, ma anche di quella speciale di settore: la plurima invocazione del principio di specialità trasformerebbe questo in principio di impunità, pur in presenza di una descrizione della fattispecie elusiva provvista dei necessari caratteri di determinatezza”.

 

 

 Riflessioni conclusive

 

Non vi è dubbio circa la portata prorompente che questa pronuncia potrebbe assumere nella giurisprudenza a seguire.

Un consolidamento dei dicta della Corte potrebbe portare infatti alla definitiva attribuzione di rilevanza penale all’elusione fiscale, in attesa di un intervento legislativo, senz’altro auspicabile, volto a conferire sanzione normativa ad un simile orientamento giurisprudenziale.

Sul punto occorre peraltro segnalare interessanti prospettive de iure condendo. Recentemente il Governo ha presentato un disegno di legge delega finalizzato alla riforma fiscale[29], il quale prevede l’introduzione del divieto generale dell’abuso del diritto, recependo gli orientamenti della Cassazione (art. 5).

Va precisato che in una prima bozza del disegno di legge governativo esisteva una disposizione che escludeva recisamente la rilevanza penale dell’elusione fiscale. Tuttavia in seguito all’autorevole intervento del Capo dello Stato si è previsto, fra i principi e criteri direttivi che il governo è delegato ad attuare, “l’individuazione dei confini tra le fattispecie di elusione e quelle di evasione fiscale e delle relative conseguenze sanzionatorie” (art. 8).

Nello stesso disegno di legge si prevede, come criterio direttivo per la riforma dell’apparato sanzionatorio la “punibilità con la pena detentiva compresa fra un minimo di sei mesi e un massimo di sei anni, dando rilievo, tenuto conto di adeguate soglie di punibilità, alla configurazione del reato per i comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa” (art. 8).

In disparte le critiche avanzate quanto all’ambiguità dei principi e criteri direttivi[30], pare opportuno un intervento definitivo e chiarificatore da parte del Parlamento, date le perplessità suscitate dall’impianto motivazionale della sentenza.

Nonostante i molteplici argomenti impiegati dalla Cassazione a sostegno della propria posizione, rimane l’interrogativo di fondo se il principio di legalità consenta di introdurre per via interpretativa la punibilità di determinati comportamenti esplicitamente esclusa quantomeno nelle intenzioni legislative originarie.

Viene inoltre da domandarsi se non vi sia violazione del divieto di analogia in malam partem nell’assimilazione della fattispecie elusiva a quella evasiva.

Ammesso che  il bene giuridico tutelato dalle norme che prevedono i delitti tributari sia effettivamente la corretta percezione del tributo, pare quantomeno dubbio ravvisare una identità di ratio fra il divieto di evasione e quello che allo stato attuale della legislazione rimane un mero disconoscimento per via amministrativa degli effetti vantaggiosi di atti posti in essere dal contribuente nell’esercizio della propria autonomia negoziale, ancorchè non assistiti da valide ragioni economiche extrafiscali.

Da ultimo, lascia perplessi, con riferimento al principio di determinatezza dell’illecito penale, la prospettata rilevanza penale delle condotte elusive, che per definizione non sono previste come tali dalla legge in modo ex ante, ma sono riconosciute come abusive sulla base di una valutazione discrezionale ex post effettuata (non dal giudice penale ma) dall’Amministrazione finanziaria.



[1]    La pronuncia del GUP può essere consultata sul sito www.dirittopenalecontemporaneo.it, all’URL http://www.penalecontemporaneo.it/upload/sentenza%20D&G%20reati%20fiscali.pdf.

[2]    Si ricordi infatti la disciplina rigorosa in tema di prova penale prevista dall’articolo 192 c.p.p., comma 2.

[3]    Nella pronuncia si legge che “… il principio regolatore della materia non può che essere il principio di legalità, che stabilisce un nesso inscindibile tra sanzione penale e fatto, tassativamente e precisamente descritto da una norma di legge”.

[4]    Fra i classici sull’abuso del diritto si vedano in particolare U. NATOLI, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, pp. 18 ss.; P. RESCIGNO, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1965, pp. 205 ss.; G. CATTANEO, Buona fede obiettiva ed abuso del diritto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1971, pp. 613 ss.; S. PATTI, voce Abuso del diritto, in Dig. disc. priv., Torino, 1987, pp. 1 ss.; V. GIORGIANNI, L’abuso del diritto nella teoria della norma giuridica, Milano, 1963.

[5]    Cass. 24 settembre 1999, n. 10511, in Foro it., 2000, pp. 1929 ss.; 15 marzo 2004, n. 5240, in Foro it., 2004, pp. 1397 ss.; 18 settembre 2009, n. 20106, in I contratti, 2010, pp. 5 ss.

[6]    La disposizione, rubricata “Divieto dell’abuso del diritto”, prevede che: “Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata nel senso di comportare il diritto di esercitare un’attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciute nella presente Carta o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla presente Carta”.

[7]    Sull’abuso del diritto nel sistema comunitario si veda M. GESTRI, Abuso del diritto e frode alla legge nell’ordinamento comunitario, Milano, 2003. Sulla Carta di Nizza, R.BIFULCO, M.CARTABIA, A.CELOTTO (a cura di), L’Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, Bologna, 2001.

[8]   Sul principio di legalità in materia di prestazioni imposte si veda A. FEDELE, Sub art. 23, in G. BRANCA (a cura di), Commentario della Costituzione. Rapporti civili (artt. 22-23), Bologna-Roma, 1978, pp. 1 ss.

[9]    Cass. 3 aprile 2000, n. 3979, in Giur. it., 2000, pp. 1753 ss., con nota di G. ZOPPINI, Annotazioni sul regime fiscale proprio delle operazioni di “dividend washing”.

[10]  Cass. 14 maggio 2003, n. 7457 in Giur. Imp., 2004, pp. 1275 ss., con nota di R. SCHIAVOLIN, Collegamento negoziale e operazione rilevante ai fini dell’Iva.

[11]  CGCE 21 febbraio 2006, in causa C-255/02, Halifax plc e a. c. Commissioners of Customs & Excise, in Racc., 2006, pp. I-1609; in Riv. dir. trib., 2006, pp. 122 ss., con nota di M. POGGIOLI, La Corte di Giustizia elabora il concetto di “comportamento abusivo” in materia d’Iva e ne tratteggia le conseguenze sul piano impositivo: epifania di una clausola generale antielusiva di matrice comunitaria?; ivi, 2007, pp. 17 ss., con nota di P. PISTONE, L’elusione fiscale come abuso del diritto: certezza giuridica oltre le imprecisioni terminologiche della Corte di Giustizia Europea in tema di Iva; in in Rass. Trib., 2006, pp. 1040 ss., con nota di  C. PICCOLO Abuso del diritto ed Iva: tra interpretazione comunitaria ed applicazione nazionale.

[12]  Sentenza Halifax, cit., punto 74.

[13]  Sentenza Halifax, cit., punto 75.

[14]  CGCE 21 febbraio 2008, causa C-425/06, Ministero dell’Economia e delle Finanze, già Ministero delle Finanze c. Part Service Srl, in liquidazione, già Italservice Srl, su Riv. dir. trib., 2008, pp. 113 ss.

[15]  Cass. 5 maggio 2006, n. 10353, in Dialoghi dir. trib., 2006, pp. 741 ss.; 29 settembre 2006, n. 21221, in Dir. pr. trib., 2007, pp. 735 ss.

[16]  SS.UU. 23 dicembre 2008, n. 30055, 30056, 30057.

[17]  “La fonte di un generale principio antielusivo in tema di tributi non armonizzati, quali le imposte dirette, va rinvenuta negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano. Infatti, i principi di capacita’ contributiva (art. 53, primo comma, Cost.) e di progressività dell’imposizione (art. 53, secondo comma, Cost.) costituiscono il fondamento sia delle norme impositive in senso stretto, sia di quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi genere, essendo anche tali ultime norme evidentemente finalizzate alla piu’ piena attuazione di quei principi. Con la conseguenza che non può non ritenersi insito nell’ordinamento, come diretta derivazione delle norme costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale”.

[18]  L. FERLAZZO NATOLI, Diritto tributario, Milano, 2010, p. 185.

[19]  E. MUSCO, F. ARDITO, Diritto penale tributario, Bologna, 2010, p. 170; G.M. FLICK, Abuso del diritto ed elusione fiscale, in Giur. comm., luglio-agosto 2011, 471 ss , F. MUCCIARELLI, Abuso del diritto, elusione fiscale e fattispecie incriminatrici, in G. MAISTO (a cura di), Elusione ed abuso del diritto tributario, Milano, 2009, pp. 445

[20]  Ove si afferma, all’art. 16, che la “… semplice elusione d’imposta, quale categoria concettualmente contrapposta all’evasione, rimane priva di ogni riflesso penale. In altre parole, la disposizione di cui all’art. 16 è unicamente di favore per il contribuente e non può in alcun modo essere letta, per così dire, a rovescio, ossia come diretta a sancire la rilevanza penalistica della fattispecie lato sensu elusive non rimesse alla preventiva valutazione dell’organo consultivo”. Per il testo si veda Relazione al d.lgs. 74/2000, in Guida al diritto, 2000, p. 37.

[21]  Questo argomento è esplicitato proprio nella sentenza del g.u.p. di Milano.

[22]  Sulla natura procedimentale dell’art. 37-bis si veda R. LUPI, D. STEVANATO, Tecniche interpretative e pretesa immanenza di una norma generale antielusa, in Corr. trib., 2009, pp. 406 ss.

[23]  F. GALLO, Rilevanza penale dell’elusione, in Rass. trib., 2001, p. 321; T. LANDI, La vexata quaestio della rilevanza penale della elusione, in Dir. e prat. trib., 2004, p. 635.

[24]  F. GALLO, Rilevanza penale dell’elusione, cit.; A. TOMMASSINI, A. TORTORA, La rilevanza penale dell’elusione fiscale, in Corr. Trib., 2005, p. 1171.Di recente l’argomento è stato ripreso da P.M. TABELLINI, L’elusione della norma tributaria, Milano, 2007, p. 305, e da A. MARTINI, Reati in materia di finanza e tributi, Milano, 2010, p. 405.

[25]  P. RUSSO, Brevi note in tema di disposizioni antielusive, in Rass. trib., 1999, pp. 69 ss.; F. GALLO, Rilevanza penale, cit., pp. 321 ss.

[26]  Corte appello Bologna 21 aprile 2004, n. 788; Cass. 18 marzo 2011, n. 6723; 26 maggio 2010, n. 29724; 18 marzo 2011, n. 26723.

[27] SS.UU. 19 gennaio 2011, n. 1235, in Cass. pen., 2011, con nota di R. GAETANO, Truffa ai danni dello Stato e frode fiscale: limiti al principio di specialità.

[28]   G. FLORA, Perché l’ “elusione fiscale” non può costituire reato ( a proposito del “caso Dolce & Gabbana”), in Riv. trim. dir. pen. econ., 2011, pp. 867 ss.

[29]A.C. n. 5291, presentato il 15 giugno 2012 contenente Delega al Governo recante disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita.

[30] E. DE MITA, Il paradosso: sull’elusione aumenta l’incertezza, in Il Sole 24 Ore, 11 luglio 2012.

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