Svolgimento del processo
1. l’avvocato E.L. è stato sottoposto a procedimento disciplinare, per quel che qui rileva, per aver violato i doveri di dignità e decoro (art. 5 codice deontologico forense), avendo offeso la reputazione della collega avv. A.B. e degli altri consiglieri dell’Ordine degli avvocati di Pordenone definendo il consiglio stesso, in una memoria difensiva, come “sodalizio criminale”, e l’avv. B. come “compartecipe di tale sodalizio”, in Pordenone, in data 21 febbraio 2001, con sospensione della prescrizione a causa di procedimento disciplinare.
Per questi e per altri fatti giudicati contestualmente il consiglio dell’Ordine degli avvocati di Bologna ha irrogato all’incolpato la sanzione della sospensione per mesi sei.
2. All’esito del giudizio d’impugnazione proposto dall’incolpato, il Consiglio Nazionale Forense, con sentenza 13 marzo 2013, previo annullamento del provvedimento nella parte concernente gli altri fatti contestati, per i quali era ancora pendente procedimento penale, ha respinto le censure del ricorrente per il capo sopra riportato. Con riferimento alla tesi difensiva dell’intervenuta prescrizione, in particolare, il giudice disciplinare ha osservato che il fatto contestato costituiva reato, e per esso era stato instaurato procedimento penale definito in primo grado con sentenza 27 luglio 2006 e in secondo grado con sentenza depositata il 10 marzo 2009, di estinzione del reato per remissione di querela; che nel corso degli anni erano intervenuti numerosi atti d’interruzione della prescrizione, come la notifica dell’apertura del procedimento disciplinare, la notifica del decreto di citazione al dibattimento disciplinare, la notificazione della decisione disciplinare. Il CNF ha ridotto la sanzione, in considerazione dell’unico capo d’incolpazione rimasto, alla sospensione di mesi tre.
3. Per la cassazione della sentenza ricorre l’incolpato, con atto affidato a quattro motivi.
Motivi della decisione
4. Con il primo motivo si denuncia la nullità del procedimento per omessa comunicazione dell’esposto e della relativa richiesta di chiarimenti “a seguito delle susseguite astensioni degli organi di disciplina succedutisi nel tempo”.
4.1. Il motivo, formulato in modo incomprensibile, è inammissibile. Il giudice disciplinare ha fatto applicazione del principio di diritto enunciato dalle sezioni unite di questa corte, per cui le funzioni esercitate in materia disciplinare dai Consigli locali dell’Ordine degli avvocati, e il relativo procedimento, hanno natura amministrativa e non giurisdizionale, sicché la disciplina procedimentale non è mutuabile, nelle sue forme, dal codice di procedura penale e, in particolare, non è prevista né la fase delle indagini preliminari, conseguente alla ricezione della notizia dell’infrazione disciplinare, né una fase istruttoria vera e propria; con la conseguenza che, nel caso in cui il Consiglio dell’Ordine proceda a raccogliere informazioni e documentazione, ex art. 47 r.d. n. 37 del 1934, non sussiste alcun obbligo di informarne l’incolpato con avvisi o convocazioni, prima dell’atto di citazione di cui al successivo art. 48 (Cass. Sez. un. 5 ottobre 2007 n. 20843; 22 dicembre 2011 n. 28339). Il ricorrente non censura in modo puntuale l’affermazione del giudice disciplinare sul punto, e il motivo è inammissibile.
5. Con il secondo motivo si assume la nullità della sentenza impugnata per violazione del giusto processo, perché il dispositivo della decisione non è stato pronunciato subito dopo la discussione, ma depositato congiuntamente alla motivazione oltre un anno dopo.
5.1. Il motivo infondato, ponendosi in contrasto con la giurisprudenza di questa corte. L’art. 63 del R.D. 22 gennaio 1934 n. 37, che concerne il procedimento davanti al Consiglio nazionale forense, dispone che “si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni dell’art. 473 del codice di procedura penale”. Il trascritto rinvio all’art. 473 del previgente c.p.p. – si è osservato – non comporta tuttavia che il dispositivo del provvedimento disciplinare debba essere letto in pubblica udienza dopo la sua deliberazione, perché le adunanze del Consiglio dell’Ordine territoriale non sono pubbliche e le relative decisioni sono pubblicate mediante deposito negli uffici di cancelleria e successivamente notificate all’interessato (art. 64 r.d. n. 37/1934 cit.), anche ai fini della decorrenza del termine d’impugnazione.
A ciò si aggiunga che la lettura del dispositivo della sentenza penale in udienza era direttamente previsto e disciplinato nell’art. 472 del previgente codice di rito, e non nel successivo art. 473 (richiamato dalla normativa sul procedimento disciplinare forense), il quale ultimo, come risultava dalla sua rubrica, conteneva le norme per la deliberazione della sentenza, aggiungendo soltanto, nell’ultimo comma, la previsione che il dispositivo era unito agli atti, “dopo la lettura all’udienza”, la quale però era imposta e disciplinata dal precedente art. 472, non richiamato dalla normativa forense. Nel vigente codice di procedura penale è ancora più netta la distinzione tra le previsioni corrispondenti a quelle degli artt. 472 e 473 del vecchio codice. All’art. 473 corrisponde l’art. 527 del nuovo codice (deliberazione collegiale), mentre la pubblicazione della sentenza penale mediante lettura in udienza è prevista dal successivo art. 545.
Il rinvio al codice di procedura penale operato dall’art. 63 del citato R.D. n. 37/1934 va dunque limitato alle norme sulla deliberazione collegiale e non può essere esteso alla pubblicazione della “decisione” disciplinare del Consiglio dell’Ordine territoriale, la quale è regolata direttamente dall’art. 64, mediante la forma alternativa del deposito dell’originale negli uffici di segreteria. I dati testuali del vecchio e del nuovo codice di procedura penale confermano, pertanto, l’interpretazione, già seguita da questa Corte, secondo cui non sussiste l’obbligo di lettura in udienza del dispositivo della decisione disciplinare (Cass. sez. un. 19 agosto 2002 n. 12242; 15 febbraio 1979 n. 981; 7 ottobre 1954 n. 3354). A tale insegnamento non sono mosse critiche specifiche, che giustifichino un riesame.
6. Con il terzo motivo si afferma abnorme la “mancata declaratoria di nullità totale della sentenza”. Si sostiene che a seguito della riunione dei procedimenti la “sentenza” finale sarebbe un atto unico, e non potrebbe essere annullata limitatamente a una sua parte.
6.1. Anche questo motivo è infondato. La nullità di una parte del provvedimento disciplinare, infatti, non si estende alle altre parti che non siano da quella dipendenti, e non presentino il medesimo vizio. Nella fattispecie esaminata dal Consiglio nazionale forense si procedeva a carico dell’incolpato per tre procedimenti disciplinari autonomi, che erano stati riuniti e che, richiedendolo lo svolgimento del giudizio, ben potevano essere nuovamente separati.
7. Con il quarto motivo si afferma che l’illecito disciplinare contestato è prescritto. Il motivo è svolto come una dimostrazione della fondatezza nel merito dell’assunto, utilizzando elementi di fatto non emergenti dalla sentenza impugnata, e senza far riferimento al contenuto della sentenza medesima. Esso è pertanto inammissibile nel presente giudizio di legittimità.
8. Il ricorso è respinto.
Rilevato che dagli atti il processo risulta esente dal contributo unificato, non si applica l’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della I. n. 228 del 2012.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.