responsabilità medica

La Responsabilità del medico ed il diritto a non nascere se non sani

A cura dell’ Avv. Gabriele Riccardi D’Adamo

In ambito civile la responsabilità del medico/operatore sanitario è da tempo al centro di un ampio dibattito giurisprudenziale avente per oggetto, in particolare, la natura giuridica di essa ai, preminenti, fini risarcitori.

Invero, tralasciando dalla presente analisi la responsabilità della struttura sanitaria riconosciuta, da sempre, come contrattuale, ad un’iniziale affermazione di responsabilità dei medici di stampo extracontrattuale, si è, progressivamente, giunti ad un vero e proprio riconoscimento della natura ex contractu dell’operato del sanitario nei confronti del paziente.

La Giurisprudenza di legittimità è, infatti, ormai concorde nel riconoscere che il medico non sia, affatto, un mero quisque de populo rispetto al soggetto sottoposto alle sue cure ed, in quanto tale, destinatario del solo precetto generale del neminem laedere, bensì un soggetto titolare di, veri e propri, obblighi di cura impostigli dall’arte che professa.

Si tratterebbe, in altri termini, sempre a parere della Giurisprudenza della Suprema Corte, di un così detto “rapporto contrattuale di fatto o da contatto sociale”.

Viene, in tal modo, inserita nel nostro ordinamento una fonte autonoma di obbligazione, che pone le sue basi nel contatto creatosi tra medico e paziente e nel conseguente affidamento, di quest’ultimo, nella professionalità e nel corretto operare del sanitario (si veda, ex multis, Cass. Civ. Sez. Unite, n. 14712/07).

Il fondamento normativo di una cotale affermazione, viene ravvisato proprio nell’art. 1173 c.c., ai sensi del quale fonte di obblighi e, quindi, di obbligazione, non è, nel nostro panorama normativo, solamente il contratto o il fatto illecito, ma “ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”.

Si mette, così, in luce la possibilità di assoggettare alla disciplina contrattualistica finanche un rapporto di fatto, che contrattuale non è, tramite il succitato “contatto sociale” ed affidamento, che viene a crearsi tra medico e paziente.

In queste ipotesi, infatti, non può esservi semplicemente una responsabilità, per così dire, in virtù della lex aquilia, in quanto, quest’ultima nasce dalla sola lesione di situazione giuridiche soggettive altrui e non dalla violazione di obblighi, al cui rispetto è tenuto un determinato soggetto in forza di un precedente vinculum iuris.

Limitare la responsabilità del medico ad un mero dovere di neminem laedere equivarrebbe, infatti, ad accettare la paradossale affermazione che il sanitario sarebbe responsabile solo allorquando il paziente si trovasse, successivamente all’intervento medico, in una situazione peggiore rispetto a quella pregressa, restando, di converso, escluse tutte quelle ulteriori situazioni in cui l’intervento stesso non abbia sortito un effetto positivo.

Pertanto, si può, conclusivamente, dire sul punto che, seppur il medico non ha l’obbligo, salvi i casi di legge o necessitati dall’urgenza della situazione, di intervenire in virtù di uno specifico contratto, una volta che, quest’ultimo, dovesse intervenire, non potrà non essere destinatario di obblighi di comportamento nei confronti di chi – il paziente – abbia fatto affidamento proprio sulla perizia ed ars medica.

Tanto premesso sulla responsabilità del medico, così come delineata dalla più recente evoluzione giurisprudenziale in materia, ci si può, ora, soffermare sul punto centrale della presente analisi, correlata ma indipendente dalla responsabilità da “contatto sociale”.

Trattasi, nello specifico, della tutela giuridica del concepito, il quale, venuto al mondo, sia affetto da patologie colposamente non riscontrate e comunicate dal medico curante alla madre, nel corso della gestazione.

Tale omessa informazione non consente, invero, alla gestante di effettuare una scelta consapevole in ordine alla possibilità di interruzione della gravidanza, ai sensi e nei limiti di cui alla Legge 22 maggio 1978, n. 194, in materia di aborto.

Sul punto sono intervenuti due orientamenti opposti in seno alla Suprema Corte di legittimità.

Il primo, prevalente, il quale ha ritenuto escludere l’esistenza e l’ammissibilità, nel nostro ordinamento, di un vero e proprio diritto a non nascere, ovvero a non nascere se non sani.

Un secondo, di opposto avviso, secondo il quale il nascituro, una volta venuto ad esistenza, avrebbe diritto ad essere risarcito dal sanitario, il quale abbia colposamente omesso informazioni sullo stato di salute del feto, con riferimento, proprio, al danno derivante dall’esser nato non sano (si veda Cass. Civ., n. 16754/2012).

Se, a questo riguardo, è fuori discussione l’esistenza di un interesse giuridicamente tutelato della donna ad una procreazione responsabile ed informata, forti dubbi sono invece sorti, più dal punto di vista giuridico che di giustizia sostanziale, sull’ammissibilità di un diritto in capo a chi, in fin dei conti, appare essere il vero soggetto coinvolto e maggiormente bisognoso di tutela.

In ragione, pertanto, dell’importanza finanche e soprattutto sociale dell’argomento e del persistente contrasto giurisprudenziale in materia, sono intervenute le Sezioni Unite del Supremo Collegio, nel tentativo, riuscito solo in parte a parer di chi scrive, di risolvere una volta per tutte la delicata questione oggetto di disamina (si veda Cass. civ. Sez. Unite, n. 25767 del 22.12.2015).

Da un lato, le Sezioni Unite superano eminentemente la problematica relativa alla spettanza di un diritto nei confronti di un soggetto non ancora nato e, perciò, non dotato di capacità giuridica, ai sensi dell’art. 1 del nostro codice civile.

Invero, non solo, a mente della Cassazione a Sezioni Unite, è indiscutibile l’esistenza, nell’ordinamento giuridico italiano, di forme di tutela, finanche, in favore del nascituro (norme in materia di procreazione medicalmente assistita, norme per la tutela della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza e così via dicendo) ma, in ogni caso, appar ovvio che il diritto al risarcimento, originato da fatto anteriore alla nascita, diventi attuale e, senz’altro, azionabile al momento della nascita stessa, con l’acquisizione della capacità giuridica.

Teoria, inoltre, del tutto confacente anche al principio di causalità civilistica, il quale ben consente che tra causa ed evento lesivo intercorra un lasso temporale tale da differire l’acquisto del diritto al ristoro in un momento successivo al comportamento illecito, ossia con il pieno verificarsi dell’effetto pregiudizievole.

D’altro canto, fermo quanto appena detto, le medesime Sezioni Unite escludono in nuce la spettanza in capo al concepito – rectius nato – di un diritto a non nascere, ovvero a non nascere se non sano, e ciò in ragione dell’inesistenza di un così detto danno-conseguenza in capo a quest’ultimo.

Secondo il Supremo collegio, è la vita stessa ad essere un valore primario tutelato dall’ordinamento giuridico, mentre nessuna tutela potrebbe trovare il diverso ed opposto concetto di “non vita”.

Non vi sarebbe, in altri termini, nessun diritto ti cotale portata – degno pertanto di tutela – nel nostro ordinamento e di conseguenza nessun danno ingiusto risarcibile. Così come, sempre a parer delle Sezioni Unite, non sarebbe configurabile nessun nesso causale tra la condotta di non informazione del medico e la patologia riportata dal soggetto nato, salvo che non sia stato lo stesso sanitario, mediante commissione od omissione, a provocarla o aggravarla.

Traendo le somme del discorso, la più alta Giurisprudenza di legittimità, con la sentenza in commento, esclude categoricamente che nel nostro odierno sistema normativo sia in alcun modo riconoscibile un vero e proprio diritto alla non vita, se non sana.

Ciò sia per l’impossibilità di riscontrare un danno nella stessa vita, seppur patologicamente compromessa, sia per l’inesistenza di un nesso eziologico tra una condotta di mancata informazione circa le condizioni di salute del concepito e l’insorgere della patologia, la quale prescinde del tutto da siffatta informativa del sanitario, salvo l’inammissibile esercizio del diritto a non nascere.

Ancora una volta, quindi, la Giurisprudenza, in lineare tendenza con la ratio legislatoris, non riconosce una preminenza – ma nemmanco una parità – dell’autoderminazione dell’individuo rispetto al, presunto insormontabile ed indisponibile, diritto alla vita, finanche quando non desiderata o gravemente invalidata.

Ma ciò che ci si può chiedere è se non dovrebbe esser insito nello stesso concetto di salute, costituzionalmente tutelato dall’art. 32 Cost. ed a cui si riconduce proprio il diritto alla vita, il diritto ad una vita “non malata”.

La pronuncia oggetto di esame afferma, altresì, che il riconoscimento del diritto a non nascere potrebbe avere, quale inaccettabile corollario, l’insorgere di una responsabilità risarcitoria persino in capo alla gestante che, seppur informata, abbia deciso di portare a termine la gravidanza. Invero, il diritto a non nascere, se non sani, “comporterebbe, quale simmetrico termine del rapporto giuridico, l’obbligo della madre di abortire”.

Senza, ciononostante, considerare, a parer di chi scrive,  che nessuna responsabilità può derivare da un actio lecita, qual è la legittima scelta, riconosciuta dal nostro ordinamento, della madre, se portare o meno a termine la gravidanza laddove, viceversa, una piena responsabilità potrebbe senz’altro derivare da un agire del medico in espressa violazione dei propri doveri di legge – informativi e di accertamento nel caso di specie – ancor prima che professionali.

Ed, ancora, il danno-conseguenza da risarcire da parte del sanitario inadempiente, non potrebbe ben essere, non la patologia – che, come correttamente desumibile dall’arresto giurisprudenziale de qua, sarebbe comunque insorta anche in caso di corretta informazione – bensì la sofferenza patita dal nato “malato”, sempreché percepita o quantomeno percepibile da quest’ultimo?

Tutti interrogativi non presi in considerazione dalle Sezioni Unite o, se non altro, ritenuti non meritevoli di analisi, forse per un’asserita (eccessiva?) superiorità del valore della vita dell’individuo, in qualunque condizione essa si trovi, a tutto discapito della libera autodeterminazione dell’essere umano, che, ad oggi, nel nostro ordinamento, non può liberamente decidere fino a che punto la propria vita possa ancora considerarsi degna di esser tale.

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