Licenziamento disciplinare ed immediatezza della contestazione

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 ottobre 2012, n. 16809

A cura della dott.ssa Antonella Murdaca

Massima

“”nel licenziamento per giusta causa, il principio dell’immediatezza della contestazione dell’addebito deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l’accertamento e la valutazione dei fatti sia molto laborioso e richieda uno spazio temporale maggiore, e non potendo, nel caso in cui il licenziamento sia motivato dall’abuso di uno strumento di lavoro, ritorcersi a danno del datore di lavoro l’affidamento riposto nella correttezza del dipendente.”

Sintesi del caso

Il caso specifico riguarda un lavoratore  che   ha esperito azione giudiziaria tesa ad ottenere  l’ annullamento del licenziamento intimatogli dalla società datrice di lavoro. Il giudice di primo grado- Tribunale di Chieti- ha rigettato  il ricorso esperito dal lavoratore e, pertanto, avvero tale statuizione, il lavoratore ha proposto atto di gravame. La Corte d’ Appello dell’ Aquila ha rigettato  l’appello proposto dal lavoratore, evidenziando che era stato intimato in tempi accettabili  e sulla base di riscontri oggettivi, ossia la sussistenza  di numerose operazioni irregolari di liquidazione di sinistri poste in essere dal lavoratore, nella qualità di responsabile del centro sinistri di Chieti, in assenza di qualunque giustificazione tecnica e gestionale. Al contempo, il giudice di secondo grado ha accolto l’appello incidentale proposto dalla società datrice di lavoro al fine di recuperare il bonus corrisposto al lavoratore  durante l’attività lavorativa. Il lavoratore, pertanto, ha proposto ricorso in Cassazione  sostenendo la violazione e falsa applicazione delle norme dello statuto dei lavoratori e delle disposizioni normative in tema di estinzione del rapporto di lavoro. Altresì, parte ricorrente ha sostenuto il travisamento dei fatti da parte del giudice d’appello e l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione con riferimento ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio. La Suprema Corte  ha rigettato il ricorso proposto dal lavoratore.

La materia del contendere

La controversia verte sulla tempestività ed immediatezza della contestazione e del licenziamento intimato. Infatti, parte ricorrente sostiene  la violazione del principio di buona fede  nella comunicazione al lavoratore  delle inadempienze  alla base del licenziamento.

Quaestio iuris

Occorre chiedersi quando ricorra la fattispecie del licenziamento per giusta causa e quando  sia non  è necessario contestare l’addebito in modo immediato.

 

Normativa di riferimento

art. 2119 c.c. Recesso per giusta causa

  1. Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato , o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa  compete l’ indennità indicata nel secondo comma dell’ articolo precedente.
  2.  Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento(1l.fall.) dell’ imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’ azienda(194 l.fall.)

 

Art. 1175 c.c. Comportamento secondo correttezza

1- Il debitore ed il creditore devono comportarsi secondo le regole di correttezza .

 

Art.1375 c.c Esecuzione di buona fede

1 Il contratto deve essere eseguito secondo buona fede.

 

Art. 2697 c.c. Onere della prova

1Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il  fondamento.

2 Chi eccepisce l’ inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui si fonda l’eccezione.

 

Art 5. Legge 604 del 1966

L’onere della prova della sussistenza della giusta causa  o del giustificato motivo del licenziamento spetta al datore di lavoro.

 

Nota esplicativa.

Prima di tutto è necessario affrontare la tematica del licenziamento.

Il licenziamento  è l’esercizio del diritto potestativo di recesso da parte del datore di lavoro. Tale diritto potestativo incontra notevoli limiti legislativi. Tali limiti, però, non costituiscono violazioni del principio di parità contrattuale delle parti. Ciò perché nel contesto socio economico che ha caratterizzato l’evoluzione  della legislazione speciale del lavoro, il rapporto di lavoro presentava  una disparità tra le parti: un contraente forte ( il datore di lavoro) ed un contraente debole ( il lavoratore) . Per tali motivi mentre vi è la libertà di recesso dal rapporto di lavoro( dimissioni) da parte del prestatore, rigorosi limiti legislativi incontra il potere di licenziamento da parte del datore di lavoro. La disciplina del licenziamento ha subito nel tempo una notevole evoluzione. Nel codice civile del 1865, la materia del lavoro era circoscritta  in una visione economica-filosofica, di tipo liberale, ribadita dal codice civile del 1942 che, all’ art 2118 c.c, prevede la libertà di recesso sia  del datore di lavoro  che del lavoratore  dal contratto di lavoro a tempo indeterminato( salvo l’ obbligo di preavviso), ponendo sullo stesso piano lavoratore e datore di lavoro. Con l’avvento della Costituzione repubblicana, sulla base degli artt. 4 e 41 II comma si aprì un dibattito al fine di evitare licenziamenti immotivati. Con la legge 604 del 1966, il legislatore mantenne intatta la libertà di dimissioni, regolando, invece, espressamente  i licenziamenti individuali; pertanto, venne dichiarato illegittimo il licenziamento non sorretto da giusta causa o giustificato motivo. Tale normativa era applicabile solo ad imprese con più di 35 dipendenti. Con lo Statuto dei Lavoratori( legge 20.05.1970) il legislatore ha previsto la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, quando il licenziamento sia privo di una giusta causa e di un giustificato motivo. Nel nostro ordinamento, pertanto, permane  la libera recedibilità con riferimento a determinate categorie di lavoratori: dirigenti( art 10 comma 1 legge 604 del 1966), lavoratori in prova, atleti professionisti, addetti ai servizi domestici, lavoratori ultrasessantenni; ex adverso, per le altre categorie di lavoratori è necessario che il licenziamento avvenga in presenza di una giusta causa e di un giustificato motivo. Pertanto, è necessario che il recesso intimato dal datore di lavoro contenga una espressa motivazione. La ratio di ciò è da rinvenirsi nella volontà di impedire che il licenziamento avvenga in assenza di limiti o esercitato dal datore di lavoro con mero arbitrio. Il giustificato motivo può essere oggettivo o soggettivo: il giustificato motivo soggettivo ricorre quando vi sia un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali  da parte del prestatore del lavoratore( art 3. Legge 604 del 1966); invece, ricorre la nozione di giustificato motivo oggettivo quando il recesso dal rapporto di lavoro venga intimato per motivi inerenti l’ attività produttiva, l’organizzazione del lavoro ed il regolare funzionamento di essa( art 3 legge 604 del 1966). La nozione di giusta causa, invece, si rinviene nell’art 2119 c.c; tale norma prevede che è possibile per il datore di lavoro recedere dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato senza preavviso quando si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. La legge non determina il significato di giusta causa: infatti, l’art. 2119 c.c. si limita a definire genericamente come giusta causa di licenziamento quella che non consente la prosecuzione anche provvisoria del rapporto, vale a dire neppure il periodo di preavviso.

La giurisprudenza di merito e di legittimità, avallata da autorevole dottrina, rileva che giusta causa sia qualsiasi causa che non consenta la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto e che, quindi, essa possa consistere non solo in un inadempimento, ma anche in ogni altro fatto( quantunque esterno al rapporto di lavoro) che sia obiettivamente idoneo anche indipendentemente dalla colpa del lavoratore  a menomare il rapporto di fiducia personale che, in considerazione dell’ affidamento nelle qualità soggettive del prestatore, si ritiene essere connotato essenziale del rapporto. Dopo l’ emanazione della legge 604 del 1966, mentre una parte della giurisprudenza ha continuato a ribadire questa posizione, un altro filone giurisprudenziale , avallato da un’ altra parte della dottrina, ha sostenuto che il concetto di giusta causa non sia più quello generico della precedente regolamentazione legislativa( la quale si fonda sul principio della libertà del licenziamento), ma che trovi una puntuale definizione  in relazione alla stessa nozione di giustificato motivo soggettivo, incentrata sul concetto di notevole inadempimento, da quale si differenzia per la particolare gravità, che non consente la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto. La giusta causa di licenziamento ricorre allorchè il lavoratore commetta fatti di particolare gravità,  i quali, valutati soggettivamente ed oggettivamente, siano tali da configurare  una grave e irrimediabile negazione  degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario. La giusta causa non viene integrata esclusivamente da comportamenti costituenti notevoli inadempienze contrattuali, bensì è ravvisabile anche in fatti e comportamenti estranei alla sfera del contratto  e diversi dall’inadempimento, purchè idonei a produrre effetti riflessi nell’ambiente di lavoro e a far venir meno la fiducia  che impronta di sé il rapporto( in tal senso  DE LUCA, TAMJO, GHERA , SCOGNAMIGLIO). Secondo la giurisprudenza la giusta causa di licenziamento è rilevabile dal giudice se viene accertata in concreto – in relazione alla qualità e al grado del particolare vincolo di fiducia che quel rapporto comportava – la specifica mancanza commessa dal dipendente- considerata e valutata non solo nel suo contenuto obiettivo, ma anche nella sua portata soggettiva, specie con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui è posta in essere, ai suoi modi, ai suoi effetti e all’intensità dell’elemento psicologico dell’agente, risulti obiettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo grave, così da farla venir meno, la fiducia che il datore di lavoro ripone nel proprio dipendente. La giusta causa di licenziamento è nozione legale ed il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo; ne deriva che il giudice può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore; per altro verso il giudice può escludere che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato. Quindi, il relativo accertamento va operato caso per caso, valutando la gravità in considerazione delle circostanze di fatto e prescindendo dalla tipologia determinata dai contratti collettivi. Ed, inoltre, spetta al giudice di merito procedere alla valutazione della proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto alla condotta addebitata al lavoratore con riferimento a tutte le circostanze del caso concreto. L’ultima Riforma del lavoro (Legge n. 92 del 2012) prevede, per i licenziamenti per giusta causa, definiti disciplinari, 2 tipi di tutele, nel caso in cui il giudice accerti che non ci sia stato il fatto contestato, o che questo fosse punibile con una sanzione “conservativa” del posto di lavoro, intima il datore di lavoro a reintegrare il lavoratore ed a pagargli un’indennità risarcitoria (fino a 12 mensilità);nel caso in cui il giudice accerti che non vi sia stata giusta causa, ma per ragioni diverse da quelle sopra elencate, condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità tra un minimo di 12 mensilità ed un massimo di 24, senza reintegro nel posto di lavoro.

La norma di cui all’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori impone, ai fini dell’irrogazione del licenziamento disciplinare, l’osservanza di diverse garanzie sostanziali e procedimentali dettate a favore del lavoratore. Prime fra tutte si evidenzia la contestazione disciplinare, la quale rappresenta condizione di efficacia del licenziamento successivamente intimato quale sanzione ai comportamenti oggetto di (preventiva) contestazione Ulteriore, fondamentale, requisito previsto ai fini della regolarità, formale e sostanziale, del licenziamento disciplinare e quello della “immediatezza”.

Tra l’accertamento dei fatti posti dal datore di lavoro a fondamento della contestazione disciplinare e la comunicazione di quest’ultima non deve sussistere un lasso temporale tale da far presumere al lavoratore che sia venuto meno l’interesse del datore di lavoro a porre i fatti in oggetto a fondamento di un successivo provvedimento sanzionatorio

La giurisprudenza ha elaborato il principio secondo il quale la validità del licenziamento per giusta causa  è condizionata dall’immediatezza e tempestività della sua adozione e quindi della relativa comunicazione, sia pure tenendo conto del tempo necessario per il datore di lavoro di svolgere gli opportuni accertamenti. Pertanto, secondo la giurisprudenza di merito e di legittimità prevalente, avallata da autorevole dottrina, opera il principio della immediatezza e della celerità della contestazione, ma tenendo conto della singola fattispecie concreta. In determinati casi, la Suprema Corte rileva sia necessario valutare  la singola condotta nel complesso e   per fare ciò può non esservi la contestazione immediata dell’addebito. Il principio dell’immediatezza della contestazione disciplinare e della tempestività della irrogazione della relativa sanzione, esplicazione del generale precetto di conformarsi alla buona fede e alla correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l’accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore, ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell’impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso; in ogni caso, la valutazione relativa alla tempestività costituisce giudizio di merito, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivato.

In tema di licenziamento del lavoratore per giusta causa, incombe sul datore di lavoro l’onere della prova della realizzazione da parte del lavoratore di un comportamento che integri una grave negazione degli elementi essenziali del rapporto ed, in particolare, di quello fiduciario, con riferimento non al fatto astrattamente considerato bensì agli aspetti concreti di esso, afferenti alla natura ed alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente nell’organizzazione dell’impresa, nonchè alla portata soggettiva del fatto stesso, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi ed all’intensità dell’elemento volitivo.

Nel caso di specie, il lavoratore sostiene che l’ arco temporale intercorso  tra la data della relazione ispettiva e la data della contestazione  abbia inficiato il principio di immediatezza dell’ addebito e di conseguenza abbia reso inefficace il licenziamento. Di conseguenza contesta la domanda di risarcimento avanzata dal datore di lavoro, in quanto legata eziologicamente alla validità dello stesso. .Il lavoratore eccepisce la ricostruzione dei fatti operati dal giudice di II grado sia con riferimento alla collocazione della vicenda sia con riferimento alla omessa motivazione sull’arco temporale in cui si sono accertati i fatti  e sul mancato controllo da parte di lavoratori in una posizione gerarchica superiore al  ricorrente. Inoltre, il lavoratore contesta la motivazione del licenziamento, ossia la volontà di conseguire ulteriori incentivazioni e che la Corte d’ Appello abbia fondato il suo convincimento in seguito alle dichiarazione rese da testimoni, che ricoprono una posizione non di neutralità nei confronti delle parti. La Corte di Cassazione rigetta il ricorso sulla base delle seguenti argomentazioni. In primis, gli ermellini osservano che la Corte di Appello ha spiegato che non vi è stata alcuna violazione del principio di buona fede per l’arco temporale intercorso tra la relazione ispettiva e la contestazione del fatto, in quanto si doveva tener conto non della singola posizione bensì del quadro d’insieme. Ciò comunque precisavano i giudici di II grado non aveva inficiato il diritto di difesa del lavoratore, che in virtù della reiterazione della condotta non poteva non avere la consapevolezza della conseguenze disciplinari a cui sarebbe stato sottoposto. La Cassazione, invero, in tema di giusta causa precisa nel licenziamento per giusta causa, il principio dell’immediatezza della contestazione dell’addebito deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l’accertamento e la valutazione dei fatti sia molto laborioso e richieda uno spazio temporale maggiore, e non potendo, nel caso in cui il licenziamento sia motivato dall’abuso di uno strumento di lavoro, ritorcersi a danno del datore di lavoro l’affidamento riposto nella correttezza del dipendente, o equipararsi alla conoscenza effettiva la mera possibilità di conoscenza dell’illecito, ovvero supporsi una tolleranza dell’azienda a prescindere dalla conoscenza che essa abbia degli abusi del dipendente. In ogni caso, la valutazione della tempestività della contestazione costituisce giudizio di merito, non sindacabile in Cassazione ove adeguatamente motivato.

La Suprema Corte precisa che il suo ruolo consiste non in una valutazione del merito della controversia, valutazione che va compiuta dal giudice di primo grado e dal giudice di appello, ma di verificare che il giudice di appello non abbia errato nelle argomentazioni giuridiche e nella coerenza logico–formale. Gli ermellini osservano che il vizio di motivazione ricorre quando il giudice ometta di tenere in considerazione un elemento, che se fosse stato considerato, avrebbe condotto ad una valutazione diversa della controversia. Si deve trattare di  prove tali da inficiare in termini di certezze le altre risultanze, che il giudice ha posto a base del proprio convincimento. E’ necessario, pertanto, che il ricorrente adduca argomentazioni tali dimostrare l’insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza di II grado. La Cassazione rigetta il ricorso del ricorrente sostenendo che la sentenza pronunciata dalla Corte d’Appello dell’Aquila è immune da vizi logici e giuridici.

 

Giurisprudenza

Cass. sez. lav. n. 15355 del 9/8/04

Cass. Sez. 3 n. 9368 del 21/4/2006

Cass. Sez. lav. n. 29480 del 17/12/2008

Cass. sez. lav. n. 22066 del 22/10/2007

Cass. Sez. Lav. n. 5546 dell’8 marzo 2010

 

 

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 ottobre 2012, n. 16809

 

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza del 18/2 – 8/4/10 la Corte d’appello degli Abruzzi l’Aquila – sezione lavoro, pronunziando sull’impugnazione proposta da P.T. avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Chieti, ha rigettato l’appello principale svolto dal lavoratore per l’annullamento del licenziamento intimatogli dalla società assicuratrice M.A. s.p.a ed ha parzialmente accolto l’appello incidentale di quest’ultima, per cui in parziale riforma della sentenza gravata ha condannato il P. al risarcimento del danno nella misura di € 5737,83, oltre che agi interessi legali ed alle spese del grado. Nel pervenire a tale decisione la Corte territoriale ha spiegato che erano infondate, alla luce delle risultanze istruttorie, le doglianze mosse dal lavoratore con riferimento all’asserita intempestività ed infondatezza dell’impugnato licenziamento, il quale era stato, invece, intimato in tempi accettabili rispetto alla complessità degli accertamenti e sulla base della comprovata sussistenza di numerose operazioni irregolari di liquidazione di sinistri in assenza di qualsivoglia giustificazione tecnica e gestionale poste in essere dal P. nella sua qualità di responsabile del centro sinistri di Chieti al fine di percepire il “bonus” di incentivazione, con danno della compagnia assicuratrice. Nel contempo il giudice d’appello ha riconosciuto fondato l’appello incidentale della società assicuratrice nei soli limiti del diritto a recuperare dal P. il “bonus” corrispostogli per gli anni 1995 e 1996 per l’importo di lire 11.110.000, pari ad euro 5737,83. Per la cassazione della sentenza propone ricorso P.T., il quale affida l’impugnazione a due motivi di censura. Resiste con controricorso la M.A. s.p.a, Entrambe le parti depositano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

 

1. Col primo motivo il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 7, commi 3 e 4, della legge n. 300/1970, degli artt. 2119, 1175, 1375 e 2697 c.c., nonché degli artt. 1 e 5 della legge n. 604/1966, il tutto in relazione all’art. 360, n. 3 c.p.c.

Sostiene il ricorrente che la distanza temporale che separava i singoli comportamenti censurati, risalenti al periodo compreso tra il 1993 ed il 1996, dalla data in cui gli stessi furono contestati (4 novembre 1997), nonché l’arco di tempo intercorso tra la trasmissione della relazione ispettiva (30 maggio 1997) e la data della contestazione, erano tali da vanificare del tutto il concetto di immediatezza che deve contraddistinguere la comunicazione dell’addebito disciplinare, tanto più che nella fattispecie le modalità di svolgimento delle operazioni contestate, oltre ad essere note alla Direzione dell’azienda, erano quasi sempre le stesse. Conseguentemente, il ricorrente contesta l’interpretazione del concetto di tempestività della contestazione disciplinare operata dalla Corte di merito, la quale lo ha inteso come concetto da rapportare in modo ragionevolmente elastico alle circostanze del singolo caso, omettendo di considerare che la società non aveva invocato alcuna ragione a sostegno dei suddetti ritardi.

Infine, il ricorrente contesta la decisione di accoglimento della domanda risarcitoria avanzata dalla società assicuratrice, sia perché strettamente connessa alla conferma della discussa legittimità del recesso, sia perché sfornita di qualsiasi supporto probatorio.

2. Col secondo motivo è dedotta l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, nonché il travisamento dei fatti in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.

Si contesta, anzitutto, la collocazione della vicenda nell’ambito dei controlli svolti in concomitanza di un’opera di ristrutturazione della società, tesi, questa, contrastata dalla evidenziazione del fatto che per un lungo lasso di tempo il ricorrente fu sottoposto ad una serie di controlli a tappeto; si imputa, inoltre, al giudice d’appello di non aver fornito alcuna spiegazione in ordine alla circostanza per la quale i fatti contestati erano stati rilevati solo a seguito della visita ispettiva e del perché erano sfuggiti per tanti anni ai due capi area, preposti alla zona di competenza dell’ufficio sinistri di Chieti, oltre che all’ufficio centrale “Auditing”, istituzionalmente incaricato della verifica della correttezza di ogni singola pratica di sinistro; infine, si obietta che le difficoltà organizzative e produttive dell’azienda non potevano essere utilizzate dalla Corte di merito come causa di giustificazione della tardiva contestazione.

Si contesta, altresì, il fatto che il perseguimento delle incentivazioni potesse essere posto a base della rottura del vincolo fiduciario quale causa del licenziamento, facendosi osservare che in relazione agli anni 1993 e 1995 era risultato dai documenti in atti che non vi era stata alcuna incentivazione, che gli assegni spediti ai danneggiati erano stati in parte rifiutati e successivamente annullati e che alcuni di tali assegni si riferivano a sinistri trattati da altri liquidatori nei periodi di assenza del ricorrente. Si obietta, inoltre, che la ricostruzione dei fatti, confermata nei due gradi di giudizio, era avvenuta sulla scorta di quanto riferito dai due ispettori inviati dalla direzione aziendale, cioè di soggetti certamente non disinteressati.

Osserva la Corte che i motivi possono essere trattati congiuntamente in quanto in entrambi è posta in discussione la questione della tempestività della contestazione e del susseguente licenziamento.

Ebbene, entrambi i motivi sono infondati, atteso che per il loro tramite il ricorrente tenta di operare una rivalutazione dei fatti di causa e di inficiare la decisione riproponendo l’eccezione della intempestività della contestazione che è stata, invece, esclusa dal giudice d’appello con una motivazione congrua e logica che si sottrae a qualsiasi censura.

Invero, la Corte d’appello ha spiegato che il lasso di tempo intercorso tra la relazione ispettiva, che consenti alla società di venire per la prima volta a conoscenza delle inadempienze oggetto del procedimento disciplinare, e la contestazione, lungi dal configurare una violazione del principio di buona fede della parte datoriale, appariva, in realtà, espressione di una scelta ponderata, dato che, in relazione alla situazione deficitaria presentata dalle compagnie del gruppo, il nuovo “management” si era trovato di fronte ad inadempimenti di tal genere, durata e gravità, che si inserivano presumibilmente in un contesto di inefficienze e complicità, per cui era necessario ricostruire il quadro d’insieme e non tener conto della sola posizione del singolo dipendente. Infatti, la Corte territoriale ha posto in evidenza che la suddetta verifica ispettiva del 1997 fu eseguita in concomitanza dell’opera di ristrutturazione della compagnia e delle altre società del gruppo, a sua volta determinata da una situazione di grave inefficienza ed improduttività della compagnia assicuratrice.

La stessa Corte ha precisato che la prova testimoniale aveva consentito di appurare che prima della visita ispettiva del 1997 non ve ne erano state altre, per cui risultava confermato che anche per gli episodi risalenti al 1993 la società aveva avuto contezza dei fatti solo a seguito di quel controllo. Inoltre, la Corte di merito ha posto in rilievo che quel ritardo, giustificato dalle predette circostanze, non aveva, comunque, inciso sul diritto di difesa del ricorrente il quale, avendo reiterato nel tempo la condotta addebitatagli, non poteva non avere avuto consapevolezza della gravità della stessa, né poteva aver nutrito dei dubbi sull’esercizio del potere disciplinare da parte della datrice di lavoro. Tra l’altro, è bene ricordare che questa Corte (Cass. Sez. Lav. n. 5546 dell’8 marzo 2010) ha già avuto modo di affermare che “nel licenziamento per giusta causa, il principio dell’immediatezza della contestazione dell’addebito deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l’accertamento e la valutazione dei fatti sia molto laborioso e richieda uno spazio temporale maggiore, e non potendo, nel caso in cui il licenziamento sia motivato dall’abuso di uno strumento di lavoro, ritorcersi a danno del datore di lavoro l’affidamento riposto nella correttezza del dipendente, o equipararsi alla conoscenza effettiva la mera possibilità di conoscenza dell’illecito, ovvero supporsi una tolleranza dell’azienda a prescindere dalla conoscenza che essa abbia degli abusi del dipendente. In ogni caso, la valutazione della tempestività della contestazione costituisce giudizio di merito, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivato. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che, in riferimento al licenziamento di un dipendente di un’azienda telefonica determinato dall’uso scorretto del telefono cellulare di servizio, consistito nell’invio di decine di migliaia di “s.m.s.”, aveva escluso l’intempestività della contestazione, intervenuta a pochi mesi di distanza dall’inizio delle necessarie verifiche, le quali avevano richiesto l’esame di complessi tabulati e prospetti, al fine di distinguere il traffico telefonico di servizio da quello illecito).”(In senso conforme v. Cass. sez. lav. n. 22066 del 22/10/2007 e n. 29480 del 17/12/2008)

Né colgono nel segno le censure che mirano a porre in discussione l’accertata legittimità del licenziamento alla stregua della verificata gravità delle condotte oggetto d’addebito, trattandosi di tentativi di rivisitazione del merito probatorio adeguatamente apprezzato dal giudice d’appello con argomentazioni esenti da vizi logici e giuridici, per cui le suddette doglianze finiscono per rivelarsi inammissibili. Non va, infatti, dimenticato che “in tema di giudizio di cassazione, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge).

Conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza. Pertanto, il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di base. (Nella specie la S.C. ha ritenuto inammissibile il motivo di ricorso in quanto che la ricorrente si era limitata a riproporre le proprie tesi sulla valutazione delle prove acquisite senza addurre argomentazioni idonee ad inficiare la motivazione della sentenza impugnata, peraltro esente da lacune o vizi logici determinanti).” (Cass. Sez. 3 n. 9368 del 21/4/2006; in senso conf. v. anche Cass. sez. lav. n. 15355 del 9/8/04)

Nella fattispecie, la Corte di merito ha attentamente valutato con argomentazioni logiche e ben motivate in ordine ai riscontri eseguiti, immuni da vizi giuridici, l’ampio materiale istruttorio raccolto, per cui le doglianze appena riferite non ne scalfiscono la relativa “ratio decidendi”. Pertanto, il ricorso va rigettato.

Le spese di lite del seguente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e vanno poste a suo carico nella misura liquidata come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente alle spese del presente giudizio nella misura di € 3000,00 per onorario e di € 40,00 per esborsi, oltre IVA, CPA e spese generali ai sensi di legge.

 

 

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