La questione prospettata dalla traccia richiede l’analisi del reato di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) nei suoi elementi strutturali, al fine di stabilire la riconducibilità della condotta di Tizio nel delitto in questione e individuare gli eventuali danni patiti da Caio.
Orbene, l’abuso d’ufficio è annoverato nel titolo dei delitti contro la P.a. E’ un reato proprio, perché può essere commesso solo da un pubblico ufficiale o un impiegato di pubblico servizio, secondo le definizioni contenute negli articoli 357 – 358 c.p.
L’abuso di cui parla la norma in questione è inteso come abuso dei poteri conferiti al pubblico ufficiale e inerenti all’esercizio delle sue funzioni, pertanto esso dev’essere causalmente riconducibile alla funzione pubblica svolta, non configurandosi, diversamente, reato per attività solo occasionalmente svolte, ancorché durante l’orario di lavoro, e che il soggetto eserciti uti privatus.
Oggetto della tutela è il regolare funzionamento della P.a. o, nella visione aggiornata ai principi costituzionali, il buon andamento, l’imparzialità e la trasparenza dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.).
Persona offesa è, dunque, la P.a. come apparato; sul punto, però, vi sono pareri discordanti.
Secondo un primo orientamento, persona offesa, come già detto, è la P.a., in quanto titolare dell’ interesse protetto. Ne consegue che il privato, che abbia subito un danno ingiusto dalla condotta abusiva, sia semplicemente soggetto danneggiato, la cui unica possibilità è quella di costituirsi parte civile nell’eventuale processo.
La giurisprudenza più recente, invece, ha accolto la soluzione opposta, sulla base della natura plurioffensiva del reato. Infatti, accanto all’interesse pubblico al corretto funzionamento dell’attività amministrativa, vi è l’interesse del privato a non essere turbato nei suoi diritti costituzionalmente garantiti.
Inoltre lo stesso danno, seppure in alternativa al vantaggio, è elemento essenziale del reato, costituendone l’evento.
Pare, pertanto, riduttivo considerare il privato come semplice danneggiato.
Ulteriore elemento caratterizzante la fattispecie riguarda le modalità di attuazione della condotta illecita. Il reato è a forma vincolata poiché si realizza esclusivamente attraverso la violazione di norme di legge o di regolamento o nell’inosservanza del dovere di astensione dell’ agente, in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti.
Il dolo è generico e consiste nella rappresentazione, da parte del p.u. o dell’ i.p.s., dello svolgimento attuale della funzione o servizio e nella volontà di violare una norma di legge o regolamento ovvero di non osservare un obbligo di astensione.
Il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto, che nel testo previgente costituivano contenuto del dolo specifico, sono oggi evento medesimo del reato.
E con riferimento all’ evento il dolo è intenzionale, come marcato dall’avverbio “intenzionalmente”, ossia vi deve essere rappresentazione e volizione dell’ evento, come conseguenza diretta e immediata della condotta dell’ agente.
Nel caso di specie Tizio, quale primario di un ospedale pubblico, riveste la qualifica di impiegato di pubblica sicurezza; come tale, infatti, deve perseguire un interesse di natura pubblicistica, costituito dalla tutela della salute dei cittadini.
La sua condotta, orientata a realizzare uno scopo puramente personale e privatistico, esula dalla natura dell’ interesse sotteso alla sua funzione e, pertanto, configura una forma di abuso.
Più precisamente Tizio, avvalendosi dei poteri detenuti in virtù del ruolo di primario, pone in essere comportamenti di vessazione ed emarginazione nei confronti di Caio, medico del reparto. In tale circostanza Tizio viola l’art. 13 dello Statuto degli impiegati civili dello Stato, che sancisce il principio di una assidua e solerte collaborazione con i colleghi.
Tale condotta, potendo integrare già di per sé reato, rappresenta un antecedente strumentale alla seconda condotta di abuso rappresentata dal dirottamento dei pazienti presso la propria clinica privata.
Tizio, in presenza di un proprio interesse, non si astiene, ma si serve dei propri poteri pubblicistici per conseguire un vantaggio patrimoniale.
Tale vantaggio è ingiusto, non solo perché derivante da una condotta illecita, ma anche perché non spettante in base al diritto oggettivo regolante la materia.
Sussiste altresì un danno ingiusto di natura patrimoniale per i pazienti che, pur potendo curarsi in una struttura pubblica a parità di livello professionale, sono stati dirottati in una clinica privata, con maggior dispendio di denaro.
E, senza dubbio, può configurarsi un danno di carattere non patrimoniale in favore di Caio.
La condotta di Tizio è intenzionalmente diretta a screditare l’operato di Caio, al fine di convincere i pazienti a curarsi nella propria clinica.
Così facendo Tizio procura a Caio un danno professionale (mancato esercizio della chirurgia, mancata esperienza) alla reputazione e alla sfera psicologica, per l’effetto di umiliazione e svalutazione in lui determinato.
Come ricordato da una recente sentenza della Cassazione civile, il lavoratore, ai sensi dell’ art. 2103 c.c., ha il diritto a non essere lasciato in condizioni di forzata inattività e senza compiti assegnati. Infatti, a prescindere dal guadagno, la sua attività apporta benefici economici ed è mezzo di estrinsecazione della personalità.
In presenza di più elementi si potrebbe analizzare anche la responsabilità dell’azienda ospedaliera, in considerazione dell’ indiscutibile potere di vigilanza che ad essa aspetta sull’operato dei suoi dipendenti.
Caio può costituirsi parte civile nel processo penale o agire in sede civile per il risarcimento del danno da dequalificazione professionale.