I LIMITI DEL DIRITTO DI CRITICA SINDACALE E LA DETERMINAZIONE DEL DANNO RISARCIBILE AL LAVORATORE IN CASO DI ILLEGITTIME SANZIONI DISCIPLINARI

 

Cassazione, sez. IV, 14 maggio 2012, n. 7471

 

a cura di Loretta Moramarco

Massima

Il lavoratore, che sia anche rappresentante sindacale, si pone, in relazione all’attività di sindacalista, su un piano paritetico con il datore di lavoro, ma è comunque tenuto al rispetto dei limiti della correttezza formale nell’esercizio del diritto di critica dell’operato datoriale. Ove tali limiti non siano superati il comportamento del lavoratore non può essere legittimamente sanzionato in via disciplinare e questi ha diritto al risarcimento del danno anche non patrimoniale se adeguatamente provato.

 

 

Norme di riferimento

Artt. 2, 21, 32, 37, 39 e 41 Cost; art. 1 L. 300/70; art. 2105 c.c.

 

Il fatto

Un rappresentante sindacale aziendale viene sanzionato per aver offeso l’onore del datore di lavoro denunciando l’irregolarità degli appalti di manutenzione. La corte di merito accerta l’illegittimità della sanzione (la sospensione dal lavoro), la annulla e condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno patrimoniale. Rigetta, invece, la domanda di risarcimento dei danni non patrimoniali, in quanto non adeguatamente provata dal sindacalista che si era limitato ad allegare genericamente di aver subito discredito nell’ambiente di lavoro e sociale a causa dell’irrogazione della sanzione disciplinare.

 

Il quesito giuridico

La Corte di Cassazione è investita di due ricorsi. In via principale è chiamata a pronunciarsi sulle corrette modalità di assolvimento dell’onore probatorio in caso di domanda di risarcimento del danno non patrimoniale conseguente all’irrogazione di sanzioni illegittime da parte del datore di lavoro. In via incidentale, invece, viene sollevata la questione dei limiti del diritto di critica sindacale che l’azienda ritiene violati dal lavoratore rappresentante sindacale.

 

Nota esplicativa

La Corte di Cassazione, per addivenire al rigetto del ricorso principale presentato dalla difesa del sindacalista, si premura di richiamare i criteri stabiliti dalla (ormai consolidata) giurisprudenza di legittimità in ordine all’onere della prova in caso di denunciato danno non patrimoniale; criteri di cui la corte di merito ha fatto corretta applicazione. L’ipotesi in esame rientra nella terza tipologia di danno non patrimoniale risarcibile –  codificata dalla giurisprudenza e, in particolare, dalla sentenza della Cassazione a sezioni unite n. 26972 del 2008 – ovvero il caso in cui il fatto illecito abbia violato in modo grave i diritti inviolabili della persona (il diritto alla reputazione, alla salute e a lavorare in un ambiente di lavoro salubre), come tali oggetto di tutela costituzionale ex artt. 2, 32 e 37 Cost. Quando invoca la tutela risarcitoria a fronte della lesione di interessi costituzionali, l’attore ha l’onere di allegare elementi di fatto dai quali desumere l’esistenza e l’entità del pregiudizio mentre il giudicante dovrà individuarli e discriminare i danni dai meri pregiudizi insuscettibili di risarcimento, ristorando interamente il danno subito e evitando duplicazioni del risarcimento (Cass. 12 maggio 2009, n. 10864; sull’onere della prova Cass. SU 16 febbraio 2009, n. 3677).

Qualunque sia la “voce” del danno non patrimoniale azionata, quindi, esso va provato nell’an e nel quantum, allegando specifici elementi di fatto, ferma restando la possibilità per la parte di avvalersi di prove presuntive (Cass. n. 20143 del 2009; Cass. n. 7695 del 2008).

Tale possibilità non va, però, fraintesa confondendo la “presunzione semplice” con mere enunciazioni generiche o ipotetiche (Cass. 13 maggio 2011, n. 10527; Cass. 21 giugno 2011, n. 13614). In particolare non è sufficiente invocare lo stress conseguente alla condotta illegittima del datore di lavoro o il discredito nell’ambiente di lavoro, essendo – al contrario – necessario allegare e provare la lesione dell’integrità psico-fisica ovvero la lesione della vita di relazione (Cass. 1 dicembre 2011, n. 25691; Cass. 21 giugno 2011, n. 13614).

Il meccanismo di funzionamento della presunzione, come è noto, prevede che da un fatto noto sia ricavabile quello ignoto attinente il thema probandum e che tale relazione sia spiegabile con una massima di esperienza (che funge da legge di copertura): esempio classico è quello delle tracce dei pneumatici che consentono di determinare la velocità dell’autovettura o la tipologia di ecchimosi da cui si desume una colluttazione.

Il valore probatorio delle presunzioni semplici (ovvero non stabilite dalla legge) è sancito dall’art. 2729 c.c. che ne lascia la valutazione alla discrezionalità (rectius prudenza) del giudicante. Due sono i limiti stabiliti dal legislatore: le presunzioni non sono ammissibili nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni (art. 2721, 2722 c.c.) e qualora non siano gravi, precise e concordanti (il che implica necessariamente una pluralità di elementi oggetto di valutazione). Questo implica che il controllo di legittimità della Suprema Corte può riguardare solo l’iter logico seguito dal giudicante e non può mai tradursi in una diversa valutazione dei fatti prospettati davanti alla Corte di merito.

I LIMITI DEL DIRITTO DI CRITICA DEL LAVORATORE CHE SIA RAPPRESENTANTE SINDACALE

Di particolare interesse è anche l’analisi della Corte di Cassazione in ordine ai limiti del diritto di critica sindacale, sebbene questi siano stati già definiti da precedenti e illuminanti sentenze della Suprema Corte che opportunamente vengono richiamate.

Il presunto superamento dei limiti nel suo esercizio era stato posto a fondamento della sanzione irrogata dal datore di lavoro, ma la Corte di merito ha ritenuto che il diritto di critica fosse stato esercitato nel pieno rispetto dei limiti della verità oggettiva e della continenza. L’accertamento del rispetto di tali limiti è, come è noto, questione di fatto sottratta al sindacato di legittimità salva l’ipotesi di erronea o insufficiente o contraddittoria motivazione (Cass. 8 luglio 2009, n. 16000; Cass, 14 giugno 2004, n. 11220; Cass. 10 dicembre 2008, n. 29008).

In particolare il parametro della verità richiede che il sindacalista ponga a fondamento della critica sindacale fatti veri o ritenuti veri in assenza di dolo o colpa grave. Sul punto la giurisprudenza ha ritenuto non sufficiente la verosimiglianza o la seria attendibilità delle notizie divulgate, anche alla luce della possibilità per il dipendente di verificare la fondatezza delle proprie critiche. La sola possibilità di conoscere la falsità delle accuse mosse, quindi, è stata ritenuta idonea a fondare la sanzione comminata al lavoratore (che può essere anche quella massima ovvero il licenziamento).

Quanto alla continenza molto si è scritto sui criteri per discernere il rispetto dalla violazione di essa, criteri che mutano inevitabilmente al mutare della percezione sociale (si pensi ad esempio all’aggettivo “scemo”, un tempo considerato gravemente offensivo e attualmente privo di portata lesiva dell’onore e/o della reputazione). In linea generale deve dirsi superato il limite della continenza quando vengono utilizzate espressioni o termini impropri, sovrabbondanti, contenenti illazioni o attacchi personali tali da ridurre la critica all’utilizzo di meri argumenta ad nominem.

La critica mossa da un delegato sindacale può essere anche aspra – come nell’ipotesi di specie in cui era oggetto di contestazione il buon andamento dell’attività svolta dall’impresa – purché si rispetti il limite della correttezza formale (oltre che sostanziale) per il consueto bilanciamento dei due interessi costituzionalmente tutelati che vengono in rilievo in tali fattispecie: il diritto di critica sindacale (artt. 21 e 39 Cost.) e il diritto a non vedere lesa la reputazione dell’azienda con effetti negativi anche sull’esercizio dell’attività economica (art. 2 e 41 Cost)

Trattandosi di un lavoratore dipendente oltre che di un delegato sindacale, la Corte si è premurata di esaminare anche l’influenza del rapporto di subordinazione sull’esercizio del diritto di manifestare il proprio pensiero in senso critico che sembra cozzare con il vincolo fiduciario e con l’obbligo di fedeltà sancito dall’2105 c.c.

Si rammenta, a tal proposito la pronuncia della Corte di Cassazione del 14 giugno 2004, n. 11220 con la quale è stato chiarito che l’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c. va interpretato tenendo conto del generale obbligo di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. e, pertanto, devono ritenersi vietati tutti i comportamenti che «per la loro natura e le loro conseguenze, appaiono in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o creano situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa stessa o sono idonei, comunque, a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto stesso».

La Corte ha precisato che il lavoratore è su un piano paritario rispetto al datore di lavoro solo per la sua qualità di esponente sindacale, mentre come lavoratore è pur sempre soggetto agli obblighi derivanti dal vincolo di subordinazione come tutti gli altri dipendenti. Ciò implica che anche laddove sia lesa la “supremazia” (rectius l’autorità) del datore di lavoro, non è possibile assoggettare le contestazioni del lavoratore che sia anche rappresentante sindacale a sanzione se queste sono giustificate dall’esigenza di tutelare gli interessi collettivi dei lavoratori in attuazione dell’art. 39 Cost. (sempre che il vulnus all’autorità sia l’effetto di politiche di tutela dei dipendenti e non l’unico obiettivo del sindacalista).

L’esigenza di consentire e, nel contempo, limitare il diritto di manifestare il proprio pensiero anche sul posto di lavoro è, peraltro, stata avvertita anche dai redattori dello Statuto dei lavoratori, il cui primo articolo sanciva (e sancisce) sia la sussistenza del diritto sia la necessità di rispettare i limiti desumibili dalle norme della Costituzione e dagli obblighi posti dalla stessa L. 300/70.

Pronunce conformi e/o difformi

Conformi: Cass. SU 16 febbraio 2009, n. 3677, Cass. n. 20143 del 2009; Cass. n. 7695 del 2008 ;

Cass. 8 luglio 2009, n. 16000; Cass, 14 giugno 2004, n. 11220; Cass. 10 dicembre 2008, n. 29008;  Cass. 7 dicembre 2003, n. 19350

 

 

Sentenza

Cassazione, sez. IV, 14 maggio 2012, n. 7471

1.- La sentenza attualmente impugnata – in riforma della sentenza del Tribunale di Milano n. 527/2008 – annulla i provvedimenti di sospensione dal lavoro adottati dalla (…) s.p.a. nei confronti di R. (…) e, di conseguenza, condanna la società a pagare la retribuzione per i giorni di sospensione con accessori di legge.

La Corte d’appello di Milano, per quel che qui interessa, precisa che:

a) l’esercizio del potere disciplinare (che ha comportato due sospensioni dal lavoro, rispettivamente di tre e di cinque giorni) è stato, nella specie, del tutto ingiustificato perché il lavoratore, nell’aver segnalato – nella qualità di r.s.a. – al presidente della società datrice di lavoro una serie di irregolarità relative agli appalti di manutenzione, non ha violato i limiti circa il rispetto della verità oggettiva, né ha adottato modalità e termini tali da offendere l’onore, la reputazione e il decoro dell’impresa;

b) è infondata la domanda di risarcimento dei danni non patrimoniali, in quanto in merito ad essa nel ricorso introduttivo del giudizio mancano una allegazione specifica o un riferimento concreto ai pregiudizi subiti, per esempio alla posizione aziendale oppure nell’ambito della vita familiare o sociale (danno morale, danno esistenziale):

c) la più recente giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 3677 del 2009 e n. 26972 del 2008) esclude che il danno non patrimoniale sia in re ipsa e afferma la necessità di una specifica allegazione e prova concreta, anche sulla base delle nozioni di comune esperienza e su presunzioni, assenti nella specie;

d) comunque per il ristoro di ogni eventuale danno subito dal lavoratore nel ristretto ambito aziendale è sufficiente disporre l’annullamento delle sanzioni e la restituzione degli importi trattenuti sulla retribuzione,

2.- Il ricorso di (…) domanda la cassazione della sentenza per un unico motivo; resiste, con controricorso, la S.E.A. (…) s.p.a. che propone, a sua volta, ricorso incidentale, per un motivo, cui replica il (…) con controricorso.

Entrambe le parti depositano anche memorie ex art. 378 cod. proc. civ.

Motivi della decisione

I – Profili preliminari

1.- Preliminarmente deve essere dichiarata l’infondatezza delle censure di inammissibilità del ricorso principale prospettate nel controricorso in riferimento a: a) la mancata formulazione dei quesiti di diritto per l’illustrazione del motivo di ricorso; b) al giudicato interno che si sarebbe formato sul capo della sentenza – assertiamente strettamente collegato al rigetto della domanda risarcitoria contestato nel presente ricorso – relativo alla sufficienza dell’annullamento delle sanzioni conservative e della restituzione degli importi trattenuti sulla retribuzione a ristorare ogni eventuale danno subito dal lavoratore nel ristretto ambito aziendale.

1.1.- Quanto alla prima delle suddette censure, va ricordato che, diversamente da quanto sostenuto dal controricorrente, essendo stata la sentenza attualmente impugnata pubblicata in data 22 marzo 2010, al presente ricorso non si applica l’art. 266-bis cod. proc. civ.

Il suddetto articolo, inserito nel codice di rito (con decorrenza 2 marzo 2006) dall’art. 6 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 marzo 2006), è stato abrogato dall’art. 47, comma 1, lettera d), della legge 18 giugno 2009, n. 69, entrata in vigore il 4 luglio 2009.

L’art. 58 della legge n, 69 cit è espressamente dedicato alle “disposizioni transitorie”.

Il comma 1 del suddetto articolo – cui fa riferimento il contro ricorrente, che però nei propri atti difensivi non ne riporta la significativa parte iniziale – detta il regime transitorio generale e stabilisce testualmente: «Fatto salvo quanto previsto dai commi successivi, le disposizioni della presente legge che modificano il codice di procedura civile e le disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile si applicano ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore art. 366-bis cod. proc. civ.».

Il testo del successivo comma 5 – espressamente dedicato alla disciplina transitoria delle modifiche del codice di procedura civile afferenti il giudizio di cassazione, contenute nel precedente art. 47 – è il seguente: «le disposizioni di cui all’art. 47 si applicano alle controversie nelle quali il provvedimento impugnato con il ricorso per cassazione è stato pubblicato ovvero, nei casi in cui non sia prevista la pubblicazione, depositato successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge» (vedi, fra le tante: Cass. 8 aprile 2011, n. 8059; Cass. 10 marzo 2011, n. 5752; Cass. 12 ottobre 2010, n. 21079; Cass. 27 settembre 2010, n. 20323; Cass. 24 marzo 2010, n. 7119).

Ne consegue che è sufficiente leggere il testo integrale del comma 1 e del comma 5 del suindicato art. 58 per avere chiaro che l’art. 366-bis cod. proc. civ. non si applica nel presente giudizio, visto che la attualmente sentenza impugnata con il ricorso per cassazione è stata pubblicata dopo il 4 luglio 2009.

Peraltro, vi è una copiosa, uniforme e condivisa giurisprudenza di questa Corte che si è occupata dalla suddetta problematica (vedi, fra te tante: Cass. 17 ottobre 2011, n. 21431; Cass, 8 aprile 2011, n. 8059; Cass. 10 marzo 2011, n. 5752; Cass. 12 ottobre 2010, n. 21079; Cass. 27 settembre 2010, n. 20323; Cass. 24 marzo 2010, n. 7119).

1.2- Quanto alla censura riguardante il giudicato interno, va ricordato che, in base ad orientamenti consolidati e condivisi di questa Corte:

a) il giudicato interno si forma solo su capi autonomi della sentenza, che risolvano questioni aventi una propria individualità e autonomia, tali da integrare una decisione del tutto indipendente (Cass. 23 agosto 2007, n. 17935; Cass. 17 novembre 2008, n. 23747), non anche su quelli relativi ad affermazioni che costituiscano mera premessa logica della statuizione in concreto adottata (Cass. 30 ottobre 2007, n. 22863):

b) ove non sia stata proposta impugnazione nei confronti di un capo della sentenza e sia stato, invece, impugnato un altro capo strettamente collegato al primo, è da escludere che sul capo non impugnato si possa formare il giudicato interno (vedi, per tutte: Cass. 2 marzo 2010, n. 4934).

Nella specie, è del tutto evidente che, come riconosce la stessa società controricorrente, il capo della sentenza sul quale si sarebbe formato il giudicato implicito, essendo “strettamente collegato” al rigetto della domanda risarcitoria. non integra una decisione autonoma, ma piuttosto rappresenta un passaggio motivazionale della statuizione in concreto adottata.

Ne consegue che la mancata specifica impugnazione del suddetto passaggio motivazionale non può certamente configurare una situazione di formazione di un giudicato interno e quindi non incide sull’ammissibilità del ricorso.

Il -Sintesi del ricorso principale

1.- Con l’unico motivo del ricorso principale si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3 e n. 5, cod. proc. civ.: 1) violazione degli artt. 112 e 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., 118, secondo comma, disp. att. cod. proc. civ.; 2) falsa applicazione dell’art. 2729 cod. civ.; 3) incongruenza argomentativa e omessa motivazione nella reiezione delle censure dell’appellante su punti controversi decisivi per il giudizio.

Si contesta la statuizione della Corte d’appello di rigetto della domanda del B. di risarcimento del danno per ingiusta sanzione disciplinare, motivata dal difetto nel ricorso introduttivo del giudizio di specifica e concreta allegazione ai pregiudizi subiti (nella posizione aziendale oppure nella vita familiare o sociale).

Si rileva che i riflessi delle sanzioni subite ingiustamente sulla posizione aziendale e nella vita sociale erano assolutamente noti e comunque nel ricorso introduttivo erano stati contemplati, tanto che era stata anche proposta una quantificazione del relativo risarcimento del danno (pari a euro 50.000,00).

Si sostiene, pertanto, che la contestata statuizione sia il frutto di un travisamento della domanda, con conseguente violazione dell’art. 112 cod. proc. civ.

Si aggiunge che ciò è stato fatto dalla Corte milanese attraverso un contraddittorio e improprio richiamo alla giurisprudenza di legittimità sui criteri per il riconoscimento del danno non patrimoniale (Cass. SU n. 26972 del 2008 e n. 3677 del 2009).

Infatti, la domanda del (…) era ed è perfettamente rispettosa dei principi affermati nelle richiamate pronunce visto che in esse si è detto che il danno non patrimoniale non è in re ipsa, si può allegare e provare in concreto anche in base alle nozioni di comune esperienza e a presunzioni.

Questo è proprio ciò che si verifica nella specie in quanto il (…) quando ha chiesto di essere risarcito per il discredito aziendale e personale derivante dai provvedimenti disciplinari subiti ingiustamente, non ha fatto altro che mettere il giudice nelle condizioni di liquidare il relativo danno attraverso l’applicazione dell’art. 115 cod. proc. civ.. del tutto in linea con i principi affermati dalle Sezioni unite.

III – Sintesi del ricorso incidentale

2- Con l’unico motivo del ricorso incidentale si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 5. cod. proc. civ., insufficiente e/o omessa motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Si sostiene che la Corte milanese non ha, in realtà, compiuto un accertamento in ordine agli addebiti mossi dalla società al (…), ma, travisando e/o interpretando male le deduzioni della società, ha ritenuto che le irregolarità denunciate dal lavoratore fossero sussistenti sulla base delle affermazioni della società ricostruite nel suddetto modo.

Questo è il presupposto logico erroneo sulla cui base la Corte territoriale è pervenuta, con motivazione viziata, alla conclusione della illegittimità delle sanzioni in oggetto.

IV – Esame del ricorso principale

3.- Il ricorso principale deve essere respinto, per le ragioni di seguito precisate.

3.1.- Tutte le censure sono incentrate nella contestazione del mancato riconoscimento, da parte della Corte milanese, dei danni non patrimoniali, motivato dalla mancanza di una specifica allegazione e prova concreta, anche sulla base delle nozioni di comune esperienza e su presunzioni, dei pregiudizi subiti dal lavoratore a causa delle sanzioni in oggetto, per esempio alla posizione aziendale (oltre a quelli in cui ristoro è stato disposto nella sentenza impugnata) oppure nell’ambito della vita familiare o sociale.

La suddetta statuizione, diversamente da quanto sostiene il ricorrente, è del tutto conforme ai consolidati e condivisi orientamenti di questa Corte in materia, secondo cui:

  1. in linea generale, il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi ”previsti dalla legge”, e cioè, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ.: (a) quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall’ordinamento, ancorché privo di rilevanza costituzionale; (b) quando ricorra una delle fattispecie in cui la legge espressamente consente il ristoro del danno non patrimoniale anche al di fuori di una ipotesi di reato (ad es., nel caso di illecito trattamento dei dati personali o di violazione delle norme che vietano la discriminazione razziale); in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione dei soli interessi della persona che il legislatore ha inteso tutelare attraverso la norma attributiva del diritto al risarcimento (quali, rispettivamente, quello alla riservatezza od a non subire discriminazioni); (c) quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di tali interessi, che, al contrario delle prime due ipotesi, non sono individuati ex ante dalla legge, ma dovranno essere selezionati caso per caso dal giudice (Cass. SU 11 novembre 2008, n. 26072);
  2. in particolare, nella disciplina del rapporto di lavoro, ove numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata alla persona del lavoratore con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale (artt. 32 e 37 Cost.), il danno non patrimoniale è configurabile ogni qualvolta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i diritti della persona del lavoratore, concretizzando un vulnus ad interessi oggetto di copertura costituzionale; questi ultimi, non essendo regolati ex ante da norme di legge, per essere suscettibili di tutela risarcitoria dovranno essere individuati, caso per caso, dal giudice del merito, il quale, senza duplicare il risarcimento (con l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici), dovrà discriminare i meri pregiudizi – concretizzatisi in disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili – dai danni che vanno risarciti, mediante una valutazione supportata da una motivazione congrua, coerente sul piano logico e rispettosa dei principi giuridici applicabili alla materia, sottratta, come tale, anche quanto alla quantificazione del danno, a qualsiasi censura in sede di legittimità (Cass. 12 maggio 2009, n. 10864);
  3. in materia di risarcimento danni, in caso di lesione di un diritto fondamentale della persona, la regola, secondo la quale il risarcimento deve ristorare interamente il danno subito, impone di tenere conto dell’insieme dei pregiudizi sofferti, ivi compresi quelli esistenziali, purché sia provata nel giudizio l’autonomia e la distinzione degli stessi, dovendo il giudice, a tal fine, provvedere all’integrale riparazione secondo un criterio di personalizzazione del danno, che, escluso ogni meccanismo semplificato di liquidazione di tipo automatico, tenga conto, pur nell’ambito di criteri predeterminati, delle condizioni personali e soggettive del lavoratore e della gravità della lesione e, dunque, delle particolarità del caso concreto e della reale entità del danno (Cass. 21 aprile 2011, n. 9238);
  4. il danno non patrimoniale è risarcibile solo ove sussista da parte del richiedente la allegazione degli elementi di fatto dai quali desumere le esistenza e l’entità del pregiudizio (Cass. SU 16 febbraio 2009, n. 3677);
  5. in particolare tale onere di allegazione va adempiuto in modo circostanziato, non potendo risolversi in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche, perché il danno non patrimoniale, anche nel caso di lesione di diritti inviolabili, non può mai ritenersi in re ipsa, ma va debitamente allegato e provato da chi lo invoca, anche attraverso il ricorso a presunzioni semplici (Cass. 13 maggio 2011, n. 10527; Cass. 21 giugno 2011, n. 13614);
  6. conseguentemente, il ristoro del danno non patrimoniale determinato dal comportamento ostruzionistico da parte del datore di lavoro, può essere accordato al lavoratore purché sia allegata e provata la concreta lesione in termini di violazione dell’integrità psico-fisica ovvero di nocumento delle generali condizioni di vita personali e sociali e a tal fine non è sufficiente il generico riferimento allo ‘”stress” conseguente alla suddetta condotta, posto che esso si risolve nell’affermazione di un danno in re ipsa (Cass. 1° dicembre 2011, n. 25691).

3.2.- D’altra parte, è jus receptum che:

a) in sede di legittimità occorre tenere distinta l’ipotesi in cui si lamenti l’omesso esame di una domanda, o la pronuncia su una domanda non proposta, dal caso in cui si censuri l’interpretazione data dal giudice di merito alla domanda stessa: solo nel primo caso si verte propriamente in tema di violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. per mancanza della necessaria corrispondenza tra chiesto e pronunciato, prospettandosi che il giudice di merito sia incorso in un error in procedendo, in relazione al quale la Corte di cassazione ha il potere-dovere di procedere all’esame diretto degli atti giudiziari, onde acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini delle pronuncia richiestale; nel caso in cui venga invece in considerazione l’interpretazione del contenuto o dell’ampiezza della domanda, tali attività integrano un accertamento in fatto, tipicamente rimesso al giudice di merito, insindacabile in cassazione salvo che sotto il profilo della correttezza della motivazione della decisione impugnata sul punto (vedi, per tutte: Cass. 24 luglio 2008, n. 20373; Cass. 11 marzo 2011, n. 5876);

b) il principio jura novit curia, di cui all’art. 113, cod. proc. civ., presiede alla soluzione delle questioni di diritto, mentre, per il c.d. giudizio di fatto, è necessario pronunciare iuxta alligata et probata, ai sensi dell’art. 115 cod. proc. civ. (vedi, per tutte: Cass. 25 marzo 2010, n. 7190);

c) conseguentemente, affinché sia riconoscibile valore giuridico alle presunzioni semplici è necessario che gli elementi presi in considerazione siano gravi, precisi e concordanti, ovvero siano tali da lasciar apparire l’esistenza del fatto ignoto come una conseguenza ragionevolmente probabile del fatto noto, dovendosi ravvisare una connessione tra i fatti accertati e quelli ignoti secondo le regole di esperienza che convincano di ciò, sia pure con qualche margine di opinabilità, senza che sia consentito al giudice, in mancanza di un fatto noto, fare riferimento ad un fatto presunto e far derivare da questo un’altra presunzione (vedi, per tutte: Cass. 20 giugno 2006, n. 14151);

d) comunque, le presunzioni semplici costituiscono una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza, anche in via esclusiva, ai fini della formazione del proprio convincimento, nell’esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova, controllarne l’attendibilità e la concludenza e, infine, scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione, sicché spetta al giudice del merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità, dovendosi tuttavia rilevare che la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi a prospettare l’ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziano possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo (Cass. 11 luglio 2007, n. 10847; Cass. 2 aprile 2009, n. 8023; Cass. 27 ottobre 2010, n. 21961).

3.3.- Ne deriva che il rigetto della domanda di cui si tratta, da parte della Corte territoriale, lungi dal potersi considerare il frutto di un “travisamento della domanda” appare costituire una esatta applionsiderato che non soltanto dal presente ricorso per cassazione, ma anche dagli atti introduttivi dei precedenti gradi del giudizio (consultabili, dato il tipo di censure prospettate), risulta che – a parte la effettuata quantificazione dei danni non patrimoniali, in una somma non interiore ad euro 50,000,00 (cinquantamila/00) – il (…) non ha adempiuto in modo circostanziato l’onere di allegazione posto a suo carico al riguardo.

Risulta, infatti, che:

a) nel ricorso introduttivo il lavoratore si è limitato a fare presente che l’esecuzione delle sanzioni disciplinari in oggetto «ha provocato al ricorrente una frustrazione personale e un discredito nell’ambiente di lavoro che meritano un risarcimento adeguato all’iniquità della cosa»;cazione dei suindicati principi, giustificata con una motivazione congrua e corretta dal punto di vista logico-giuridico.

b) nell’atto d’appello il (…) ha ribadito la richiesta, sottolineando che il domandato risarcimento poteva essere considerato «come quello che a mala pena potrebbe ristorarlo della sofferenza morale subita, del discredito a lungo protratto presso tutti i colleghi di lavoro, della intollerabile vessazione (leggi: tentativo di estorsione) subita ad opera di un datore di lavoro scorrettissimo e tracotante»;

c) nel ricorso per cassazione il lavoratore, poi, chiarisce che le precedenti censure andavano riferite «alla ontologica notorietà di quelle sanzioni in termini di “posizione aziendale o nell’ambito della vita sociale” (per usare precisamente le parole della sentenza)».

Ne deriva, quindi, per tabulas che in realtà la domanda in oggetto è stata formulata facendo ricorso ad enunciazioni generiche e tali da non consentire neppure il ricorso ad un eventuale ragionamento presuntivo, data la mancanza di “fatti noti” allegati e provati, con specifico riguardo ai richiesto danno non patrimoniale.

Invero, non può certamente essere censurata la sentenza impugnata per il fatto di non aver valorizzato, ai suddetti fini, la “ontologica notorietà delle sanzioni” in quanto tale notorietà non deve essere confusa con la sussistenza agli atti di “fatti noti” configurabili come causa specifica del richiesto danno.

Né a tal fine avrebbe potuto essere sufficiente considerare la notorietà del fatto che le sanzioni in argomento sono state irrogate al B. a causa di segnalazioni da questi effettuate nella qualità di r.s.a.

Al riguardo va ricordato che, in base ad un orientamento consolidato e condiviso di questa Corte, il lavoratore che sia anche rappresentante sindacale se, quale lavoratore subordinato, è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione degli altri dipendenti, si pone, in relazione all’attività di sindacalista, su un piano paritetico con il datore di lavoro, con esclusione di qualsiasi vincolo di subordinazione, giacché detta attività, espressione di una libertà costituzionalmente garantita dall’art. 39 Cost., non può in quanto diretta alla tutela degli interessi collettivi dei lavoratori nei confronti di quelli contrapposti del datore di lavoro essere subordinata alla volontà di quest’ultimo; conseguentemente, la contestazione dell’autorità e della supremazia del datore di lavoro siccome caratteristica della dialettica sindacale, ove posta in essere dal lavoratore sindacalista e sempreché inerisca all’attività di patronato sindacale, non può essere sanzionata disciplinarmente (Cass. 3 novembre 1995, n. 11436).

Da tale principio si desume che anche il lavoratore che sia rappresentante sindacale se, per effetto di un comportamento scorretto e/o ostruzionistico del datore di lavoro, lamenti di avere subito un danno non patrimoniale, deve allegare e provare la concreta lesione patita in termini di violazione dell’integrità psico-fisica ovvero di nocumento delle generali condizioni di vita personali e sociali, in quanto il generico riferimento alla frustrazione personale e al discredito nell’ambiente di lavoro conseguenti alla suddetta condotta – quale e quello effettuato nella specie in realtà si risolve nell’affermazione di un danno in re ipsa, situazione che non è mai configurabile neppure ove si lamenti la lesione di diritti inviolabili (vedi, per tutte: Cass. 21 giugno 2011, n. 13614).

V – Esame del ricorso incidentale

4.- Deve essere respinto anche il ricorso incidentale.

4.1.- Va ricordato che la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata non conferisce al Giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, bensì la sola facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito, non essendo consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una autonoma valutazione delle risultanze probatorie, sicché le censure concernenti il vizio di motivazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito (vedi, tra le tante: Cass. 18 ottobre 2011, n. 21486; Cass. 20 aprile 2011, n. 9043; Cass. 13 gennaio 2011, n. 313; Cass. 3 gennaio 2011, n. 37; Cass. 3 ottobre 2007, n. 20731; Cass. 21 agosto 2006, n. 18214; Cass. 16 febbraio 2006, n. 3436; Cass. 27 aprile 2005, n. 8718).

Infatti, il controllo in sede di legittimità della adeguatezza della motivazione del giudice di merito non può servire a mettere in discussione il convincimento in fatto espresso da quest’ultimo, che come tale è incensurabile, ma costituisce lo strumento attraverso il quale si può valutare solamente la legittimità della base di quel convincimento e neppure consente di valutare l’eventuale ingiustizia in fatto della sentenza; pertanto, il vizio riscontrato deve riguardare un punto decisivo, tale, cioè, da rendere possibile una diversa soluzione ove il relativo errore non fosse stato commesso (Cass. 12 febbraio 2000, n. 1595; Cass. 16 maggio 2003, n. 7635; Cass. 16 gennaio 1996, n. 326).

Nella specie le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal Giudice di appello io ordine alle sanzioni disciplinari irrogate al (…) sono congruamente motivate e l’iter logico – argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione.

4.2.- In particolare deve essere sottolineato che la Corte d’appello perviene alla conclusione della ingiustificatezza dell’esercizio del potere di disciplinare – che, peraltro, si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato, come accade nella specie – mettendo l’accento sul tatto che il lavoratore, non ha violato i limiti del rispetto della verità oggettiva né ha adottato modalità e termini tali da offendere l’onore, la reputazione e il decoro dell’impresa.

Ne deriva che la Corte milanese si è attenuta, sul punto, ai consolidati e condivisi orientamenti di questa Corte secondo cui:

1) in tema di esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, è necessario che il prestatore non travalichi, con dolo o colpa grave, la soglia del rispetto della verità oggettiva con modalità e termini tali da ledere gratuitamente il decoro del datore di lavoro o del proprio superiore gerarchico e determinare un pregiudizio per l’impresa. Il relativo accertamento costituisce giudizio di fatto, incensurabile in sede di legittimità se correttamente e congruamente motivato (Cass. 8 luglio 2009, n. 16000; Cass, 14 giugno 2004, n. 11220; Cass. 10 dicembre 2008, n. 29008);

2) l’esercizio da parte del lavoratore, anche se investito della carica di rappresentante sindacale, del diritto di critica, anche aspra, nei confronti del datore di lavoro – come deve riconoscersi nel caso in cui un sindacalista si esprima sulla funzionalità del servizio espletato dall’impresa – sebbene sia garantito dagli artt. 21 e 39 Cost., incontra i limiti della correttezza formale imposti dall’esigenza, anch’essa costituzionalmente garantita (art. 2 Cost.), di tutela della persona umana; ne consegue che, ove tali limiti siano superati con l’attribuzione all’impresa datoriale o a suoi dirigenti di qualità apertamente disonorevoli e di riferimenti denigratori non provati, il comportamento del lavoratore può essere legittimamente sanzionato in via disciplinare (Cass. 7 dicembre 2003, n. 19350).

A fronte di questa situazione, le doglianze mosse dalla ricorrente incidentale si risolvono sostanzialmente nella prospettazione di un diverso apprezzamento delle stesse prove e delle stesse circostanze di fatto già valutate dal Giudice di merito in senso contrario alle aspettative della medesima ricorrente incidentale e si traducono nella richiesta di una nuova valutazione del materiale probatorio, del tutto inammissibile in sede di legittimità.

VI – Conclusioni

5.- Per le suesposte considerazioni, entrambi i ricorsi vanno respinti.

La natura delle questioni trattate e la difformità delle soluzioni adottate dai Giudici del merito giustificano la compensazione delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate nella misura complessiva indicata in dispositivo.

Tale compensazione, però, viene limitata alla metà della suddetta somma complessiva, mentre per la parte residua si ritiene equo condannare la società ricorrente incidentale al relativo pagamento in favore del ricorrente principale, in considerazione della prevalente soccombenza della ricorrente incidentale, oltre che della palese infondatezza di alcune delle argomentazioni poste a base della prospettata inammissibilità del ricorso principale.

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi e li rigetta entrambi. Compensa tra le parti, per la metà, le spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in complessivi euro 40,00 (quaranta/00) per esborsi e euro 5000,00 (cinquemila/00) per onorari, oltre IVA. CPA e spese generali. Condanna la ricorrente incidentale al pagamento della residua somma, in favore del ricorrente principale.

 

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