Tratti il candidato del principio nominalistico e del maggior danno, oltrechè del problema della prescrizione in merito all’anatocismo.

a cura del Dott. Domenico Arcuri

Tra le obbligazioni che possono scaturire da una delle fonti previste dall’art. 1173 c.c. vi è quella di dare una somma di denaro al soggetto che ne è creditore. A tale tipo di obbligazione, definita pecuniaria, il codice civile dedica una specifica sezione nel titolo I capo VII. Le norme che dovranno trovanore applicazione rispetto alle obbligazioni pecuniarie sono pertanto quelle ivi contenute – in particolare gli articoli 1277 c.c. e ss.- oltre a quelle riguardanti le obbligazioni in generale (artt. 1173 e seguenti).

L’art. 1182 c.c. si riferisce in maniera specifica all’obbligazione pecuniaria e prescrive che la stessa deve essere adempiuta al domicilio che il creditore ha al tempo della sua scadenza, salvo quanto previsto dal secondo comma del numero III dello stesso articolo. Le altre norme sulle obbligazioni in generale trovaeranno applicazione anche per quelle pecuniarie laddove siano compatibili.

Nel più ampio genere degli obblighi di dare una somma di denaro occorre distinguere quelli che hanno sin dall’origine tale oggetto, definiti debiti di valuta, e quelli che, invece, hanno originariamente un bene diverso dal denaroobblighi diversi, definiti debiti di valore, i quali che però si possono convertireono nell’obbligo di dare una somma di denaro, a seguito dell’operazione di c.d. “liquidazione” che determina la trasformazione del debito di valore in debito di valuta poiché la prestazione originaria è divenuta impossibile ad effettuarsi da parte del debitore o è divenuta per lui eccessivamente gravosa. Si possono distinguere in tal modo i debiti di valuta, e cioè quelli che hanno ab origine come oggetto una somma di denaro, dai debiti di valore e cioè quelli che in realtà obbligherebbero il debitore ad altra prestazione ma che, per i motivi succitati, si convertono in una somma di denaro che equivale al valore dell’obbligo precedentemente assunto e rimasto colposamente inadempiuto o al valore dell’interesse leso nel caso di fatto illecito. Si deve d’altra parte precisare che un debito originariamente di valore si convertirà in debito di valuta, con tutte le conseguenze che ciò comporta sul piano giuridico, nel momento in cui la somma dovuta a titolo di risarcimento per l’inadempimento o per il fatto illecito verrà quantificata e liquidata.

Le conseguenze cui si è fatto cenno sono quelle evincibili dall’art. 1277 del c.c. per cui i debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento e per il loro valore nominale.

L’articolo appena menzionato sancisce il cosiddetto principio nominalistico per il quale il debitore di una somma di denaro – originariamente pecuniaria- estinguerà la stessa pagando al creditore la stessa somma che doveva al momento in cui l’obbligazione aveva origine e senza tener conto del decorso del tempo e della fisiologica diminuzione del potere d’acquisto della moneta.

Diversamente si può affermare nel caso di debiti di valore per i quali, come si è detto, la moneta sostituisce un bene o un interesse leso che deve essere risarcito. Se infatti il risarcimento del danno è finalizzato a rimettere il creditore nella stessa situazione in cui si trovava prima della verificazione dell’evento dannoso, allora la somma monetaria alla quale sarà obbligato il debitore, non potrà non comprendere il maggior danno da svalutazione monetaria, ovvero l’aumento del prezzo subito dal bene per il decorso del tempo.

D’altra parte l’art. 1282 c.c. statuisce che i crediti liquidi ed esigibili di somme di denaro producono interessi di pieno diritto. In sostanza l’ordinamento considera il denaro come un bene fruttifero e dispone che tali frutti devono essere computati nel calcolo della somma dovuta al creditore pecuniario salvo che la legge o le stesse parti stabiliscano diversamente.

Gli interessi stabiliti dalla legge sono quelli cui fa riferimento l’art. 1284 c.c.. Le parti possono convenire interessi in misura diversa rispetto a quella stabilita dalla legge e tale pattuizione, qualora superi il saggio legale e con i limiti previsti dall’art. 1815 c.c., necessita della forma scritta, in quanto diversamente gli interessi saranno computati nella misura legale.

Sia che si discuta di interessi legali che di quelli convenzionali, si fa riferimento agli interessi corrispettivi, ovvero a quella somma di denaro dovuta in ragione del godimento del bene denaro che un soggetto (il debitore) ha ricevuto in prestito.

Si distinguono dagli interessi corrispettivi quelli compensativi. Questi ultimi sono dovuti dal debitore in ragione del godimento di un bene diverso dal denaro, fuoriuscito dalla disponibilità del creditore; bene per il quale il debitore non ha pagato tempestivamente il prezzo e che vanno appunto a compensare il mancato godimento del bene da parte del creditore per il periodo in cui non ha potuto sfruttarne l’utilità senza che a ciò si accompagnasse alcuna controprestazione del debitore.

Il debitore che non adempia la propria obbligazione entro il termine fissato dalla legge o dalle parti è costituito in mora ai sensi dell’art. 1219 c.c..

La costituzione in mora oltre ad avere gli effetti previsti all’art. 1221 c.c., ne ha di rilevanti sul piano degli interessi dovuti dal debitore.

Ai sensi dell’art. 1224 c.c. infatti dal giorno della costituzione in mora saranno dovuti gli interessi legali anche nell’ipotesi in cui le parti li avevano in precedenza convenzionalmente esclusi.

Diversamente accade nel caso in cui le parti avessero precedentemente fissato la misura degli interessi moratori. In tal caso questi ultimi saranno dovuti nella misura precedentemente pattuita.

Dalla costituzione in mora, quindi, il debitore inadempiente è tenuto al pagamento degli interessi derivanti dal ritardo nell’adempimento, oltre al c.d. maggior danno, di cui tratta l’art. 1224, che è norma dDi particolare interesse è poi quanto previsto al punto due dell’art. 1224 c.c..

Nel caso di obbligazioni pecuniarie il creditore potrà, infatti, dimostrare di aver subito un danno maggiore per effetto della svalutazione monetaria.

Tale danno, però, a differenza di quanto avviene per i debiti di valore dovrà essere puntualmente allegato e dimostrato dal creditore. In sostanza quest’ultimo dovrà dimostrare che qualora avesse avuto la disponibilità della somma nei termini pattuiti, l’avrebbe sicuramente investita sottraendola in tal modo al fenomeno dell’inflazione ovvero alla sua fisiologica perdita di valore.

Abbandonata, infatti, dalla giurisprudenza la teoria che negli anni 70 fondava il risarcimento del maggior danno da svalutazione monetaria sulla base della categorizzazione dei creditori, per cui ve ne erano alcuni (come ad esempio gli imprenditori) per i quali si poteva presumere l’investimento della somma in attività remunerative e per i quali pertanto poteva presumersi il maggior danno da svalutazione, mentre per altri ( risparmiatori) tale danno non sarebbe mai stato sussistente, la tesi oggi dominante vuole che ogni creditore possa dimostrare in giudizio il danno da inflazione secondo i dettami stabiliti dall’art. 2043 c.c.. Il mancato pagamento del debito pecuniario nei termini comporterà quindi che laddove il creditore riesca a dimostrare che da tale illecito sia derivato un danno, quest’ultimo potrà essere risarcito ed il suo ammontare calcolato in via equitativa ex art. 1226 c.c.. Agli interessi legali pertanto andrà sommato il denaro dovuto a titolo di risarcimento del danno da svalutazione monetaria. In particolare: dovranno dapprima calcolarsi gli interessi legali dovuti dalla scadenza dell’obbligazione o gli interessi convenzionali ed in seguito aggiungervi la somma dovuta a titolo di risarcimento, con la precisazione che, quest’ultima, dovrà essere calcolata

non già sulla somma dovuta maggiorata degli interessi, ma sulla somma di denaro dovuta in partenza, maggiorata secondo l’indice di rendimento dei titoli di Stato.

L’onere di dimostrazione del maggior danno da inflazione è invece, come accennato, non necessaria nel caso di debito di valore per il quale tale danno è congenito al tipo di lesione. Con il risarcimento, infatti, si dovrà mettere il creditore nella medesima situazione esistente prima dell’evento dannoso e ciò non potrà prescindere da una valutazione attualizzata del bene leso. Diversamente il creditore riceverà sì una somma corrispondente al valore del bene all’epoca del danneggiamento, ma non sufficiente a reintegrarlo pienamente nella posizione antecendente all’evento dannoso. In altri termini: con la somma dovuta

 

“allora” il creditore non potrà acquistare il bene danneggiato con il prezzo che lo stesso ha “ora” , perchè la somma, per l’effetto inflattivo, sarebbe insufficiente.

Tornando agli interessi legali, vi è da dire che questi ultimi consistono in una somma di denaro che il debitore è tenuto a pagare alla stregua di qualsiasi altro debito pecuniario ma, a differenza di quest’ultimo, non potranno produrre a loro volta interessi se non nei limiti previsti dall’art. 1283 c.c..

Sono i limiti all’anatocismo per cui gli interessi potranno produrre interessi solo laddove vi siano usi normativi che dispongano in tal senso, oppure dal giorno della domanda giudiziale o ancora per effetto di accordo tra le parti posteriore alla loro scadenza e sempre che tale accordo verta su interessi dovuti almeno per sei mesi.

La giurisprudenza ha avuto modo negli ultimi anni di chiarire cosa debba intendersi per uso normativo quale fonte legittimante la capitalizzazione degli interessi secondo modalità diverse da quelle permesse dall’ordinamento in base all’art. 1283 c.c..

Vi sono state infatti opinioni giurisprudenziali contrastanti se la prassi degli istituti di credito di capitalizzare trimestralmente gli interessi trovasse quale fonte del diritto un uso normativo e che pertanto fosse legittima o se, piuttosto, tale pratica fosse da considerare un uso negoziale, non vincolante per la parte che non l’abbia accettata, e nulla la clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi perchè contraria a norme imperative.

In un primo momento la Corte di cassazione affermava che il diritto degli enti creditizi di capitalizzare trimestralmente gli interessi trovava fonte legale negli usi e che, pertanto, la clausola del contratto di conto corrente che li prevedesse era da considerarsi legittima.

Tale era l’orientamento giurisprudenziale sino al 1999, allorquando la Suprema Corte interveniva nuovamente sulla questione indagando funditus sulla nozione di uso quale fonte del diritto, chiarendone il concetto, e statuendo che la pratica delle banche di capitalizzare trimestralmente gli interessi non era da considerarsi quale espressione di un diritto nascente da un uso normativo bensì che si trattava di un uso negoziale e che pertanto fosse nulla la clausola che la prevedesse perchè contraria a norma imperativa inderogabile quale appunto quella prevista all’art. 1283 c.c..

In particolare gli usi, perchè possano considerarsi fonte di diritto, devono essere caratterizzati da specifici elementi. Anzitutto devono essere caratterizzati dalla diuturnitas, ovvero dalla ripetizione costante nel tempo di un certo comportamento da parte dei consociati che, per tale motivo, cominceranno a considerare il suddetto comportamento come prescritto da una norma di legge (opinio iuris ac necessitatis). Inoltre gli usi normativi potrebbero essere solo quelli secundum legem (ovvero raccolti in testi normativi) o al limite praeter legem ( non contrastanti con le norme di legge), ma mai contra legem ovvero contro norme preesistenti allo stesso comportamento usuale.

Proprio la contrarietà dell’uso bancario ad una norma imperativa preesistente, ovvero quella prevista all’art. 1283 c.c., ostava al riconoscimento quale uso normativo della prassi bancaria di capitalizzazione trimestrale degli interessi. Tale pratica, infatti, a parere della Suprema Corte, si era sviluppata in un’epoca successiva all’emanazione del codice civile (1942) ed era contraria alla norma più volte citata ivi contenuta (art. 1283 c.c.). La S.C. statuiva pertanto che si trattava di un uso negoziale, contrario alla legge, e pertanto era nulla la clausola contrattuale che lo avesse prevededuto.

A seguito di tale decisione gli istituti di credito tentarono di trovare un rimedio per limitare il più possibile l’ammontare delle restituzioni dovute ai propri clienti in virtù della declaratoria di nullità della clausola anatocistica vietata. In particolare tentarono di seguire la strada della capitalizzazione annuale degli interessi passivi sulla base del fatto che allo stesso modo venivano capitalizzati gli interessi attivi a favore dei clienti. Ma tale pattuizione fu considerata nulla per gli stessi motivi già esposti ovvero per i limiti imposti dall’art. 1283 c.c..

Diversa questione affrontata dalla giurisprudenza è stata quella inerente al giorno dal quale sarebbe cominciato a decorrere il termine prescrizionale perchè i clienti potessero coltivare in tempo e con successo l’azione finalizzata a recuperare le somme indebitamente percepite dagli istituti di credito in forza dell’anatocismo vietato.

L’art. 2033 c.c. statuisce : ” chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato” e tale diritto si prescrive ex art. 2946 c.c. in dieci anni.

Il problema è stato quindi quello di individuare il momento in cui possa dirsi che il cliente abbia effettuato il “pagamento non dovuto”, perchè è da quel momento che comincia e decorrere il termine prescrizionale.

Secondo quanto sostenuto dagli enti creditizi la decorrenza del termine prescrizionale doveva essere individuata per ogni singola rimessa in conto corrente da parte del cliente giacchè già da tali momenti egli avrebbe pagato quanto non dovuto. Di diverso avviso è stata la giurisprudenza per cui i singoli versamenti, a conto corrente ancora aperto, non possono ancora informare se un pagamento sia dovuto o meno, e ciò in ragione della natura del rapporto che viene ad instaurarsi a seguito di apertura di un conto corrente. Durante l’esecuzione del rapporto vi sono infatti continui prelievi e versamenti tanto che sino alla sua estinzione non può stabilirsi con certezza chi siano il debitore ed il creditore, poiché le posizioni dei contraenti saranno delineate in maniera definitiva solo alla chiusura del conto. Per tale motivo il termine iniziale di decorrenza della prescrizione dovrà e potrà essere individuato solo al momento della chiusura del conto. Solo allora infatti potrà stabilirsi con certezza chi sia il soggetto debitore o creditore ,quanto sia dovuto e soprattutto se vi sia stato un pagamento indebito in forza dell’anatocismo illecito.

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