Riflessioni in tema di danno biologico, esistenziale, morale e tanatologico

A cura dell’Avv. Federica Federici
Il danno patrimoniale si verifica nel momento in cui vi è un danno che colpisce la sfera patrimoniale del soggetto e viene risarcito ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. Il danno morale, invece, viene a sussistere tutte le volte in cui non vi sia un danno patrimoniale, ma comunque una specifica disposizione di legge a carattere penale così come stabilito dall’art. 2059 cod. civ. Tradizionalmente il sistema risarcitorio è quindi caratterizzato dalla rigida dicotomia tra danno patrimoniale e danno morale, voluta dal legislatore del 1942 ed incentrata sugli artt. 2043-2059 cod. civ. All’epoca dell’emanazione del codice (1942) l’unica espressa previsione del risarcimento del danno non patrimoniale era racchiusa nell’art. 185 c.p. del 1930. Tradizionalmente si forniva una lettura restrittiva dell’art. 2059 cod. civ. (in relazione all’art. 185 c.p.c.) come diretto ad assicurare tutela soltanto al danno morale soggettivo, alla sofferenza contingente al turbamento dell’animo transeunte determinati da fatto illecito integrante reato (interpretazione fondata sui lavori preparatori del codice e largamente seguita dalla giurisprudenza). Tale tesi è stata oggetto di progressiva revisione sul presupposto che nel vigente assetto dell’ordinamento (nel quale assume posizione preminente la Costituzione, che all’art. 2 riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo) il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria più ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona.
Nella legislazione successiva al codice si rinviene un cospicuo ampliamento dei casi di espresso riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale anche al di fuori dell’ipotesi di reato, in relazione alla compromissione di valori personali: art. 2 legge 1988/117 (risarcimento anche dei danni non patrimoniali derivanti dalla privazione della libertà personali cagionanti dall’esercizio di funzioni giudiziarie); art. 29, comma 9, legge 1996/ 675 (impiego di modalità illecite nella raccolta di dati personali); art. 44, comma 7, d. lgs. 1988/286 (adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi); art. 2 legge 2001/89 (mancato rispetto del termine ragionevole di durata dei processi).
Si è quindi sviluppata una profonda modificazione del danno non patrimoniale, dei suoi fondanti e delle tecniche risarcitorie con una generale tendenza ad ampliare tale voce di danno, estendendo la stessa definizione di salute anche alla sfera interiore ed intima dell’uomo, anche se tale ampliamento ha provocato naturali reazioni difensive da parte soprattutto degli assicuratori, esposti a maggiori risarcimenti e, non sempre a torto, sospettosi sulla effettività di eventuali risvolti di danni non facilmente accertabili. L’attività più significativa è stata svolta dall’interprete: difatti la giurisprudenza ha progressivamente riconosciuto una lata definizione della nozione di “danno non patrimoniale” come danno da lesione di valori inerenti alla persona (e non più solo come “danno morale soggettivo”) e in tale partizione si è inserito il danno biologico, inteso come danno non patrimoniale all’integrità psico-fisica della persona, risarcibile secondo il combinato disposto degli artt. 2043 cc. e 32 Cost. Il riconoscimento di tale nuova figura di danno ha avuto effetto dirompente sull’originario assetto, in quanto ha una avuto portata negatrice del tradizionale assunto che subordinava la tutela risarcitoria ad un processo di patrimonializzazione del pregiudizio. Il
rovesciamento della logica patrimonialistica in tema di responsabilità civile ha quindi sicuramente rappresentato il primo passo di un più ampio processo di evoluzione dell’istituto di cui all’art. 2043 cod. civ., attraverso la creazione di fattispecie inedite di danno, riguardanti lesioni suscettibili di ripercuotersi nella sfera relazionale e di realizzazione dell’offeso, espressione delle nuove esigenze di protezione della sfera personale. L’attuale panorama di giurisprudenza mostra, in effetti, un costante incremento di fattispecie inedite di danno, riguardanti lesioni ed interessi della sfera
relazionale dell’offeso. Emerge un paradigma alternativo rispetto al passato; un modello al cui
interno sono destinate a trovare posto dimensioni pregiudizievoli in precedenza trascurate – ossia i vari momenti riguardanti (non solo sul versante biologico, ma anche rispetto a prerogative diverse dalla salute o dall’integrità psicofisica) la sfera di esplicazione “esistenziale” dell’uomo. Il “fare non reddituale” e le attività realizzatrici della persona umana, compromesse più o meno definitivamente, acquistano nuova rilevanza.
Il “danno biologico” o “danno alla salute” o anche definito “danno fisiologico” è la lesione dell’integrità fisica e psichica del soggetto, medicalmente accertabile e risarcibile a prescindere dalla capacità di produzione di reddito del danneggiato, in quanto fattispecie indipendente dalla capacità produttiva del danneggiato. Nell’ambito del danno biologico rientrano tutte le fattispecie di danno non reddituale, cioè il danno estetico, il danno alla vita di relazione, consistente nel sacrificio delle distinte manifestazioni della vita di relazione dovute all’evento dannoso, nonché il danno alla sfera sessuale e la riduzione della capacità lavorativa generica. La figura del danno biologico è venuta creandosi nel corso degli anni ad opera della giurisprudenza e si è affiancata alle figure del danno patrimoniale e del danno morale previste dalla legge. Il nostro ordinamento giuridico ha accolto inequivocabilmente la categoria logico-giuridica del c.d. danno biologico e la sua piena risarcibilità solo in epoca piuttosto recente.
Infatti il codice civile del 1942 (artt. 2043 e seguenti) senza fare riferimento a tale danno, si limita a prevedere i danni patrimoniali e i danni non patrimoniali: i primi, costituiti dalla perdita – o dalla riduzione del reddito – conseguenti alla condotta del danneggiante, e destinati ad essere risarciti in ogni caso; i secondi, costituiti dalle sofferenze fisiche e psichiche patite dal danneggiato (c.d. pecunia doloris) destinati ad essere risarciti solo in casi espressamente stabiliti dalla legge e cioè, in buona sostanza, nel caso in cui il danno sia l’effetto di una condotta costituente reato (combinato disposto artt. 2059 cod civ e 185 cod. pen.).
In tale situazione la figura del danno biologico era del tutto esclusa, se non addirittura confusa con quella del danno morale, e quindi ammessa al risarcimento solo in caso di condotta del danneggiante costituente reato, o con la figura del danno patrimoniale futuro ed incerto.
La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha individuato i caratteri essenziali della figura del danno biologico nella menomazione dell’integrità psicofisica della persona in sé e per sé considerata, in quanto incidente sul valore uomo in tutta la sua concreta dimensione, che non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si collega alla somma delle funzioni naturali afferenti al soggetto nell’ambiente in cui la vita si esplica, ed aventi rilevanza non solo economica, ma anche biologica, sociale, culturale ed estetica.
Solo con una sentenza del 1986 – generatrice del succitato orientamento – è stato riconosciuto, come già aveva fatto, sia pure sulla base di argomenti parzialmente diversi, anche la più accorta giurisprudenza del merito, che il nostro ordinamento, con il combinato disposto degli artt. 32 Cost. e 2043 cod. civ. consente la risarcibilità, in ogni caso, del danno biologico.
I giudici costituzionali hanno argomentato che, dovendosi il diritto alla salute certamente ricomprendere tra le posizioni subiettive tutelate dalla Costituzione (art. 32. Cost.), non sembra dubbia l’esistenza dell’obbligo della riparazione in caso della violazione del diritto stesso.
Secondo tale orientamento il danno biologico costituisce l’evento del fatto lesivo della salute, mentre il danno morale subiettivo (ed il danno patrimoniale) appartiene alla categoria del danno conseguenza in senso stretto. La menomazione dell’integrità psico-fisica dell’offeso, che trasforma in patologia la stessa fisiologica integrità costituisce l’evento interno al fatto illecito, legato all’altra componente interna del fatto, il comportamento, da un nesso di causalità e alla (eventuale) componente esterna, danno morale subiettivo (o danno patrimoniale) da diverso ed ulteriore rapporto di causalità materiale. Se da un alto la Corte costituzionale ha stabilito la non coincidenza tra le due definizioni di danno, la Cassazione ha stabilito che il danno biologico, come menomazione dell’integrità psicofisica della persona, costituisce un danno ingiusto di natura patrimoniale, in quanto colpisce un valore essenziale che fa parte integrante di quel complesso di beni di esclusiva e diretta pertinenza del danneggiato.
Il danno alla salute deve essere risarcito in ogni caso di danno alla persona, mentre il danno morale e quello patrimoniale per perdita di capacità lavorativa e di reddito lo saranno solo se, quanto al primo, derivi da un atto illecito che abbia carattere penale, quanto al secondo sia dimostrata la effettiva diminuzione patrimoniale. La figura del danno alla salute si è venuta così individuando come figura a sé stante appunto come tertium genus del danno.
Nel corso dell’ultimo ventennio in questa categoria del danno alla salute si sono inserite diverse tipologie di danno: da quello alla vita di relazione, inteso come danno che incide negativamente sull’esplicazione di attività diverse da quella lavorativa normale, come le attività sociali e ricreative a quello del danno alla sfera sessuale, consistente nella menomazione autonomo-funzionale del soggetto, idonea a modificarne le preesistenti condizioni psicofisiche, e quindi ad incidere negativamente sulla sfera individuale al danno estetico come lesione delle funzioni naturali dell’uomo nella sua dimensione. Si sono quindi accresciuti nel tempo i sintomi dell’esistenza di un danno biologico: dalla modificazione dell’aspetto esteriore, ossia dei caratteri morfologici della persona alla riduzione dell’efficienza psicofisica, ossia ridotta possibilità di utilizzare il proprio corpo alla riduzione della capacità sociale, ossia dell’attitudine della persona ad affermarsi nel consorzio umano mediante la sua vita di relazione con gli altri; da quella della capacità lavorativa generica, ossia dell’attitudine dell’uomo al lavoro in generale alla c.d. perdita di chances lavorative o lesione del diritto alla libertà di scelta del lavoro alla maggior fatica nell’espletamento del proprio lavoro, senza perdita di guadagno fino all’usura delle forze lavorative di riserva, quando non renda necessario il prepensionamento. In particolare in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali il risarcimento del danno biologico pone problemi ulteriori rispetto a quelli, che pone il risarcimento di quel danno secondo le norme comuni.
Successivamente e consequenzialmente alla ammissione del danno biologico, come danno alla salute suscettibile di accertamento e rilevazione medica, risarcibile equitativamente sulla base delle risultanze mediche medesime, la giurisprudenza ha enucleato ulteriori possibilità di lesione, in rapporto alle molteplici esplicazioni della personalità umana, riconoscendo la risarcibilità anche del c.d. danno esistenziale, derivante dalla forzosa rinuncia allo svolgimento di attività non remunerative, fonte di compiacimento o benessere per il danneggiato, ma non causata da una compromissione dell’integrità psicofisica. Proprio perchè elaborata piuttosto di recente dalla giurisprudenza, la fattispecie in oggetto non trova alcuna esplicito riscontro normativo. Il danno esistenziale trova la propria fonte di tutela costituzione nell’art. 2 della Costituzione che tutela i “diritti inviolabili dell’uomo, sia come singole che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. Inoltre vanno ricompresi, secondo l’orientamento della Corte di Cassazione, tra i diritti costituzionalmente garantiti che trovano tutela risarcitoria anche nel danno esistenziale, i “diritti della famiglia” (art. 29 Cost.) con l’importante precisazione che non vanno limitati alla tutela della persona nell’ambito esclusivo di quel nucleo, bensì nel più ampio senso di modalità di realizzazione della vita stessa dell’individuo, alla stregua dei valori e dei sentimenti che il rapporto personale ispira, sia generando bisogni e doveri, sia dando luogo a gratificazioni, supporti, affrancazioni e significati. Ad esempio il danno esistenziale da lesione parentale può essere riconosciuto allorché la morte del congiunto incida profondamente nel complessivo assetto interpersonale con una rimarchevole dilatazione dei bisogni, rendendo necessaria una qualitativamente rilevante intensità delle alterazione esistenziale per il suo riconoscimento tanto da provocare una sconvolgimento delle abitudini di vita che non costituisca un fatto meramente intellettivo e interiore. Occorrerà – in sede di giudizio – sempre allegare le modificazioni peggiorative nella qualità della vita nell’ambito familiare dimostrando la perdita, a seguito della morte del congiunto, del rapporto “affettivo o di assistenza morale (cura, amore, cui ciascun componente del nucleo familiare ha diritto nei confronti dell’altro). A seguito dell’evento lesivo possono anche verificarsi mutamenti peggiorativi del fare quotidiano che si ripercuotono all’esterno del nucleo familiare, incidendo sulla vita di relazione, con una diminuzione della attività ricreative, di svago che possono sostanziarsi ad esempio e a titolo esemplificativo nell’uscire meno, nel non fare più viaggi (che prima si facevano), nel non andare più a cinema, a teatro, allo stadio, ecc., comportamenti che devono assumere la valenza di mutamenti peggiorativi delle abitudini di vita quotidiana .
Il danno esistenziale si differenzierebbe dalle altre tipologie di danno, e precisamente: dal danno patrimoniale, poiché non è determinato da un pregiudizio economico di qualsiasi natura; dal danno morale perché l’azione compiuta dal responsabile può non integrare gli estremi di un reato e perché non consiste in una sofferenza ma in una privazione di un’attività concreta, un non facere; infine dal danno biologico poiché il danno esistenziale può sussistere anche prescindendo dall’esistenza di una lesione alla persona come compromissione dell’integrità psico-fisica del soggetto danneggiato.
Il riconoscimento del danno esistenziale dimostra anch’esso l’accresciuta attenzione verso i temi della famiglia (legami parentali; potestà dei genitori; vincoli di solidarietà familiare) e delle relazioni sociali della persona. Il danno alla vita di relazione è un nocumento che si risolve nell’impossibilità o nella difficoltà di reintegrarsi nei rapporti sociali e di mantenerli ad un livello normale. Nell’ambito del danno alla vita di relazione sono configurabili il danno estetico, alla sfera sessuale, da stress, ecc. Inoltre il danno esistenziale, nella sua originaria configurazione, è stato collegato dalla giurisprudenza al minore che riceve in ritardo il mantenimento da parte del proprio padre naturale ovvero alla lesione del diritto all’autodeterminazione della coppia idonea a causare una nascita indesiderata, e quindi presupponeva una lesione dinamica della propria vita, implicitamente confermando la permanenza in vita del soggetto leso, diversamente dal caso di morte. La nozione di danno esistenziale ricomprende qualsiasi evento che, per la sua negativa incidenza sul complesso dei rapporti facenti capo alla persona, è suscettibile di ripercuotersi in maniera consistente e talvolta permanente sull’esistenza di questa. Diventa allora decisiva una considerazione non restrittiva degli eventi potenzialmente lesivi, non ancorata, cioè, a valutazioni tecniche basate su parametri e tabellazioni, bensì capace di segnalare quelle interferenze comunque negative e pregiudizievoli in senso ampio.
Si può spiegare, così, l’individuazione di questa ulteriore fattispecie rispetto alle altre viste finora (danno biologico, danno morale, danno non patrimoniale) in quanto la bipartizione danno patrimoniale-danno morale talvolta non è sufficiente né esaustiva, come non lo è neanche l’inclusione del danno biologico: un fatto-evento causato da terzi può rivelarsi dannoso quand’anche, non traducendosi nella concreta e materiale lesione dell’integrità fisio-psichica, sia tuttavia idoneo ad incidere sulle possibilità realizzative della persona umana: ad essere, dunque, leso dalla condotta in questione è il diritto allo svolgimento della personalità umana, considerato globalmente ex art. 2 Cost., o qualsiasi diritto comunque assistito da garanzia costituzionale. Resta ferma la possibilità di mettere in relazione tale figura con l’art. 2043 cod. civ., il quale concerne il danno “ingiusto” cioè lesivo di situazioni soggettive giuridicamente protette, atteso che la tutela costituzionale non distingue tra categorie di diritti tutelabili. Il danno esistenziale, proprio perché sussiste a prescindere da lesioni concrete (a differenza del danno biologico); sussiste, altresì, al di là di una incidenza del fatto-evento su una prospettiva reddituale (a differenza del danno patrimoniale) ed, infine, sussiste anche in assenza di comportamenti penalmente rilevanti, non può essere ricondotto, neanche secondo una configurazione da genus a species, ad alcuna delle figure menzionate.
Pertanto non pare condivisibile l’impostazione che ne fa un genus al quale ricondurre il danno biologico ed il danno psichico, quali distinte species; è più ammissibile la costruzione che, al contrario, considera il danno esistenziale una delle possibili prospettive del danno biologico (assieme al danno estetico, alla vita di relazione, al danno psichico, ecc.), assurto a categoria generale ed onnicomprensiva di danno alla persona. Peraltro non bisogna dimenticare che, a differenza del danno biologico, il danno esistenziale, pur qualificato “lesione in sé”, deve essere specificamente provato nei suoi stessi presupposti; può sussistere anche in mancanza di una lesione, e presentarsi, bensì, come esclusiva ed unica conseguenza del fatto che si assume lesivo. Eventuali lesioni che si assume di aver subito, ma non rientranti nell’art. 2043 cod. civ., nella risarcibilità cioè di tipo ordinario, ad esempio perché non direttamente riconducibili alla colpa dell’autore, andranno riportati all’art. 2059 cod. civ.
Si pensi al disagio subito dal consumatore che ha sottoscritto un nuovo contratto di telefonia per avere un servizio più veloce ed economico e, al contrario, per un disguido, si trova improvvisamente privo di qualunque collegamento telefonico: sicuramente sarà possibile individuare un danno patrimoniale, dovuto alla necessità di utilizzare il cellulare al posto del
telefono fisso e di utilizzare qualche internet point per collegarsi ad internet. Al contrario, ben difficilmente questo disagio potrà comportare una vera e propria lesione all’integrità psico-fisica: non sembra pesabile, in sostanza, che la mancanza del telefono possa comportare un vero e proprio
esaurimento nervoso. Allo stesso modo, non è plausibile che il danno possa causare un disagio che
possa leggersi in termini di sofferenza morale. D’altra parte, nella lettura tradizionale dell’art. 2059 cod. civ., tale danno sarebbe risarcibile solo in presenza di reato. Al contrario, saranno sicuramente ravvisabili una serie di disagi dovuti alla necessità di provare per giorni e giorni a mettersi in contatto con gli operatori del call center, all’incertezza dell’esito di tutta la vicenda,
alla possibile diminuzione dei contatti con amici e parenti, per il maggiore costo delle telefonate, o ancora, all’impossibilità, per un periodo, di contattare con un amico che si trova in America, e quant’altro. Ancora, si pensi al turista che, arrivato nel luogo di villeggiatura convinto di trovare una struttura attrezzata per le immersioni subacquee, scopre invece che non esiste un diving center nel raggio di chilometri. Anche in questo caso valgono le medesime considerazioni. Al di là del danno
patrimoniale, non è ravvisabile né un danno biologico né un danno morale vero e proprio.
Al contrario, sarà facile immaginare il disappunto di chi si è caricato un’ attrezzatura particolarmente pesante pregustando un periodo in cui dedicarsi al suo sport preferito, che magari durante tutto l’anno ha a disposizione quel solo periodo di ferie e che, al posto di rilassarsi, torna a casa più stressato e insoddisfatto di quando era partito. Tutte queste attività realizzatrici della persona, che nel sistema tradizionale non avrebbe avuto alcun rilievo in termini risarcitori, trovano de plano la loro collocazione all’interno della categoria di interessi risarcibili nel nuovo sistema del danno esistenziale.
Il “danno da lutto” può essere riconosciuto nella nozione di danno esistenziale liquidabile anche ricorrendo alle presunzioni semplici, quale danno di natura temporanea, ricompreso nella modificazione (peggiorativa) della personalità dell’individuo, che si obiettivizza socialmente nella negativa incidenza sul suo modo di rapportarsi con gli altri, sia all’interno del nucleo familiare, sia all’esterno del medesimo, nell’ambito dei comuni rapporti della vita di relazione.
Il danno morale è rappresentato dalle sofferenze psichiche, dalle ansie e dal patema d’animo conseguenti alle lesioni subite. Tale danno è individuabile anche nelle ipotesi di ingiusto turbamento dello stato d’animo del danneggiato in conseguenza dell’illecito.
Si ha diritto al danno morale solo se le lesioni subite siano la conseguenza di un fatto illecito di rilevanza penale e la responsabilità dell’autore materiale del fatto sia provata. Sia in dottrina che in giurisprudenza, si rinviene frequentemente il riferimento al danno morale in contrapposizione al danno materiale inteso, quindi, come complesso delle perdite non materiali subite da un individuo a causa di un dato comportamento. Esso viene pertanto identificato in via negativa come insieme delle conseguenze dannose subite da un individuo, non costituenti un danno alla persona fisica od ai beni materiali della stessa. In tale prospettiva danno morale e danno non patrimoniale sono considerati sinonimi. In realtà essi rappresentano fenomeni distinti, caratterizzati da una diversa ampiezza e da diversi presupposti di qualificazione e quantificazione. L’espressione danno morale, in particolare, fa riferimento al danno subito dall’individuo nella sua sfera psichica, mentre l’espressione danno non patrimoniale appare più ampia e tale da ricomprendere tutto ciò che rappresenta un danno alla sfera giuridica dell’individuo, pur non traducendosi immediatamente in una perdita di carattere patrimoniale. Il danno morale, ad esempio, proprio perché inteso come insieme delle sofferenze psichiche arrecate ad un individuo, non può essere riconosciuto ad una persona giuridica, al contrario del danno non patrimoniale. La giurisprudenza più recente ha sancito definitivamente la distinzione dal momento che la Suprema Corte ha voluto intendere che la norma sul danno morale è contenuta all’art. 2059 cod. civ., senza volere intendere che tale articolo contenga solo una norma sul danno morale, per cui danno non patrimoniale e danno morale sono nozioni distinte: il primo comprende ogni conseguenza pregiudizievole di un illecito che, non prestandosi ad una valutazione monetaria di mercato, non possa essere oggetto di risarcimento sebbene di riparazione, mentre il secondo consiste nella cosiddetta pecunia doloris. Anche le conseguenze del riferimento all’una o all’altra voce, sotto il profilo del quantum restitutionis, sono rilevanti, dal momento che il risarcimento del danno morale è sottoposto a limiti rigorosi ed assume una relativa (e spesso insufficiente) consistenza solo nel caso di lesioni particolarmente gravi, specie se correlate alla morte di individui legati al richiedente da uno stretto vincolo di parentela, mentre il risarcimento del danno non patrimoniale è spesso oggetto di quantificazioni rilevanti, in particolare allorquando siano coinvolti, indirettamente, valori patrimoniali, come avviene nel caso di lesione dell’immagine di un’impresa, con conseguente compromissione o riduzione della sua competitività e capacità concorrenziale. Rispetto al danno biologico la giurisprudenza ha ribadito che il danno morale si configura quale danno che non ha alcun rapporto di dipendenza rispetto al danno biologico, per cui la sua liquidazione non può essere parametrata in rapporto all’entità di quest’ultimo. Il fondamento del danno morale da illecito, ed in particolare da un illecito civile che si accompagna ad un illecito penale, è la lesione della integrità morale della persona. Occorre pertanto sistemare la figura del danno (che è la componente concreta del danno ingiusto che procura l’illecito o il delitto) che lede l’integrità morale della persona, in una dimensione europea e costituzionalmente orientata. il danno morale, che attiene alla lesione della integralità morale della persona umana, è ontologicamente autonomo rispetto al danno biologico, e pertanto non può essere considerato come un “minus” rispetto ad esso, con la conseguenza che la quantificazione automatica del danno morale come quota del danno biologico al quale il primo si accompagna è illogica e potenzialmente riduttiva. La liquidazione del danno morale, va effettuata unitariamente in relazione al singolo fatto illecito (cioè al singolo reato), senza che possa scomporsi in varie voci, in relazione ad esempio ad un danno per inabilità permanente e ad un danno per invalidità temporanea. In tema di determinazione del danno morale, è censurabile in sede di legittimità l’esercizio del potere equitativo del giudice di merito solo quando la liquidazione del danno stesso appaia manifestamente simbolica o per nulla correlata con le premesse in fatto in ordine alla natura ed all’entità del danno dal medesimo giudice accertate. La giurisprudenza ha chiarito che, benché il danno biologico sia riconducibile, come il danno morale, nell’ampia categoria del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 cod. civ., il danno morale subiettivo non costituisce tuttavia una componente di esso, configurandosi invece come una voce autonoma di danno non patrimoniale. Vi sono difficoltà, in base ai criteri risarcitori oggi vigenti, in mancanza di una lesione fisica, nel riconoscere un danno alla salute risarcibile con una visione riduttiva della disciplina risarcitoria vigente a cui stanno faticosamente tentando di ovviare la dottrina e la giurisprudenza più attente a cogliere tali segnali. Le varie voci di danno non patrimoniale sono enucleate dalla Cassazione, che ha anche prospettato l’adozione del sistema bipolare (danno patrimoniale e danno non patrimoniale), ponendone in risalto le differenze in base alla specificazione di ciascuna voce di danno. La responsabilità aquiliana va ricondotta nell’ambito di tale bipolarità e il danno non patrimoniale, al cui interno è ricompresso il danno esistenziale, deve essere risarcito non solo nei casi previsti dalla legge ordinaria, ma anche nei casi di lesione di valori della persona umana costituzionalmente protetti, poiché il danno biologico, quale danno alla salute, rientra a pieno titolo, per il disposto dell’art. 32 Cost., tra i valori della persona umana considerati inviolabili dalla Costituzione, la cui tutela è apprestata dall’art. 2059 cod. civ., e non dall’art. 2043 cod. civ., che attiene esclusivamente alla tutela dei danni patrimoniali. Il danno morale soggettivo è stato individuato nei “dolori e sofferenze”, il danno biologico nella lesione dell’interesse, costituzionalmente garantito, dell’integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico (art. 32 Cost.) e il danno esistenziale, nella modificazione peggiorativa della qualità della vita.
Il c.d. danno tanatologico è l’ultima – storicamente parlando – tra le fattispecie di danno individuata in giurisprudenza: è stata ipotizzata l’esistenza di una fonte di danno derivante dalla morte dell’individuo, autonomamente risarcibile, separata e distinta rispetto al danno morale, biologico ed esistenziale, fondata sul rilievo che l’intero ordinamento, nel suo complesso, tutela a pieno il diritto alla vita. L’espressione “danno da morte” (cosiddetto danno tanatologico) indica diverse situazioni giuridiche, riferibili: a) direttamente al danneggiato; b) alle cosiddette “vittime secondarie” (congiunti o parenti). Quanto al danno tanatologico diretto un soggetto perde la vita per fatto ingiusto altrui; la perdita della vita è risarcibile come danno biologico ed è trasmissibile iure hereditatis. Esistono due sotto ipotesi: a) perdita istantanea della vita; b) lesioni (o malattia) con esito mortale. Fattore determinante: la condotta lesiva altrui. Di riflesso si verifica la menomazione psicofisica del congiunto, parente, convivente o amico, come conseguenza causale della morte del soggetto: l’evento-morte produce un ulteriore evento che danneggia la salute del terzo il quale agisce iure proprio per il ristoro integrate del danno personale.
Tale impostazione non è pacificamente condivisa da quanti, mossi essenzialmente dal timore dell’inutile duplicazione delle voci di danno legate ad un solo evento lesivo, sostengono l’inutilità della figura del danno tanatologico, tanto più che il titolare del risarcimento personalissimo (e quindi non trasmissibile) comunque sarebbe deceduto: se il danno tanatologico è personalissimo e, per ciò solo, intrasmissibile, allora, conseguentemente, non si comprende quale possa essere in concreto il titolare del diritto al risarcimento per danno da morte, attestato che il titolare formale e sostanziale non è più in vita. Non è peraltro chiara la dimensione applicativa di questa nuova voce di danno, che sembrerebbe duplicare il concetto di danno biologico ed esistenziale. Il problema interpretativo posto appare di difficile soluzione, poiché lo stesso legislatore, ex artt. 2043 cod. civ. e 2059 cod. civ., non spiega espressamente cosa debba intendersi per “danno ingiusto” e la stessa Costituzione, non ipotizzando in alcun articolo un danno da morte risarcibile verso il danneggiato (o meglio, più precisamente, verso gli eredi), impone all’interprete una difficile opera di decodificazione.
In merito ai danni non patrimoniali risarcibili iure successionis, la Cassazione, successivamente all’orientamento maturato dalla Corte costituzionale, si è venuta ad assestare definitivamente sulle seguenti posizioni:
– in caso di morte istantanea: nessun risarcimento iure successionis sia del danno biologico che del danno morale e nessun risarcimento iure successionis per la perdita della vita in sé e per sé considerata;
– in caso morte quasi immediata (arco di tempo limitato a pochi giorni o ore): in via generale nessun risarcimento iure successionis del danno biologico; nessun risarcimento iure successionis per la perdita della vita;
– morte seguita all’evento lesivo dopo un arco di tempo apprezzabile: risarcibili iure successionis sia il danno biologico e sia il danno morale (a prescindere dallo stato di consapevolezza della vittima principale); nessun risarcimento iure successionis per la perdita della vita.
E’ evidente come la Suprema Corte sia contraria al risarcimento della perdita della vita.
Si deve inoltre rilevare che non è chiaro, se per la Cassazione il criterio di liquidazione da applicarsi al danno sofferto nell’arco di tempo apprezzabile tra evento lesivo e morte sia veramente quello dell’invalidità temporanea: il problema è infatti lasciato in pratica al giudice di merito, con un’evidente rinuncia della Suprema corte a svolgere un ruolo nomofilattico sul punto.
La figura del danno tanatologico impone di operare un distinguo con gli altri istituti giuridici similari nonché con le altre voci di danno, passibili di risarcimento, in seguito a morte per illecito altrui, anche al fine di delimitarne meglio i confini applicativi e verificarne la possibilità di cumulo. Con riferimento al rapporto tra danno biologico (fisico e/o psichico, iure successionis e iure proprio) e danno tanatologico il problema dell’individuazione di un criterio discretivo sufficientemente determinato è complesso, perché entrambe le tipologie di danno hanno natura giuridica non patrimoniale, tale per cui sono inquadrabili nell’ambito applicativo dell’art. 2059 cod. civ., letto in combinato disposto con i valori espressi nella Carta Fondamentale, seppur il primo è riferibile alla lesione del diritto alla salute, ex art. 32 Cost., mentre il secondo alla lesione del diritto di vita, ex art. 2 Cost. In tal senso, pertanto, emergerebbero beni-interessi tutelati diversi, come la salute e la vita, seppure aventi la medesima natura giuridica non patrimoniale, tale per cui si pone il problema della cumulabilità; invero, il profilo della medesima natura giuridica, strictu sensu, non esclude di per sé la cumulabilità, poiché quello che realmente rileva è il bene-interesse tutelato, tanto più che, evidentemente, è quest’ultimo che prende in considerazione le varie tipologie di danno. In realtà la possibilità di cumulo tra danno biologico e tanatologico rischia di creare dei paradossi argomentativi, oltre ad entrare in contrasto con i principi di proporzionalità e con lo stesso art. 3 Cost. Se, infatti, si legittima il cumulo, allora, il soggetto che avrà cagionato delle lesioni che successivamente abbiano portato alla morte, sarà punito in modo più grave rispetto a colui che direttamente uccide, creando il paradosso tale per cui uccidere sarebbe più conveniente che ferire, entrando altresì in contrasto con l’art. 3 Cost. Inoltre, il danno biologico di colui che viene ferito e successivamente muore non può essere parificato al normale danno biologico, dove il soggetto resta in vita, perché nella prima ipotesi emerge un’intensità del dolore fisio-psichico di gran lunga più elevata, soprattutto se si considera che ne vengono, inevitabilmente, pregiudicate le possibilità di recupero e di guarigione. D’altronde, se è vero che il danno biologico presuppone la permanenza in vita del soggetto leso, allora nell’ipotesi in cui quest’ultimo morirà, emergerà un danno da morte (come appunto quello tanatologico) piuttosto che quello biologico (inteso come danno alla salute, ex art. 32 Cost.). Accogliendo tuttavia tale tesi, si dovrà negare la possibilità di cumulo tra danno biologico e danno tanatologico. Ne discenderà il corollario applicativo che nell’ipotesi di una lesione che abbia cagionato la morte, ovvero nel caso di morte immediata, la domanda risarcitoria dovrà far riferimento al danno tanatologico, cumulato con il danno futuro e morale (difficilmente anche con il danno esistenziale), ma non con il danno biologico iure successionis.
Un ulteriore distinguo da farsi è poi quello tra danno tanatologico e danno morale. Il primo è danno-evento derivante dal combinato disposto dell’art. 2059 cod. civ. con l’art. 2 Cost., attinente alla lesione del diritto di vita, mentre il secondo è danno-conseguenza (rientrante comunque nell’ambito applicativo dell’art. 2059 cod. civ.), idoneo a risarcire il transitorio dolore e patema d’animo (c.d. pretium doloris) conseguenti, ad esempio, alle lesioni da incidenti d’auto. Pertanto, entrambe le tipologie di danno sono non patrimoniali, seppur collegati ad aspetti giuridici ben diversi, tali da legittimarne il cumulo nella richiesta risarcitoria. Il danno morale è danno-conseguenza, diversamente dal danno tanatologico che è danno-evento, per cui nel primo caso quello che il danneggiante sarà tenuto a risarcire saranno le conseguenze derivanti dall’illecito, mentre nel secondo caso rileverà l’evento in sé, come violazione di legge e, più in particolare, come lesione del diritto di vita, ex art. 2 Cost. Peraltro il risarcimento del danno tanatologico e di quello morale sembrano assolvere a funzioni ben diverse: il primo ha una funzione tipicamente afflittivo-sanzionatoria, e cioè mirante a fungere da deterrente psicologico contro la commissione di illeciti tramite la “minaccia della sanzione”, nonché a rieducare, lato sensu, il danneggiante; diversamente, il secondo tutela le conseguenze dell’illecito in concreto subite dai parenti della vittima primaria dell’illecito, anche dal punto di vista della dignità offesa dal reato (c.d. pretium lesae dignitatis). In altri termini, nell’ambito della responsabilità extracontrattuale il legislatore sembra essersi mosso in un’ottica afflittivo-sanzionatoria e reintegratoria, mirando ad una tutela piuttosto ampia del danneggiato in concreto, sicché se le due tipologie di danno corrispondono a ratio ispiratrici ben diverse, il cumulo dovrebbe ritenersi possibile.
Un’ulteriore distinzione è quella relativa al rapporto tra danno tanatologico ed esistenziale. Il primo, come si è visto, deriva da una lettura combinata dell’art. 2059 cod. civ. con l’art. 2 Cost., mentre il secondo da una lettura combinata dell’art. 2059 cod. civ. con altri valori della Costituzione, come ad esempio il diritto alla famiglia, ex artt. 29 e ss. Entrambe le tipologie di danno hanno natura non patrimoniale, rientrando nell’alveo dell’art. 2059 cod. civ., sicché si sarebbe indotti a negare la possibilità di cumulo giuridico; più in particolare, il danno esistenziale, che è danno-evento al pari del danno tanatologico, sembra riguardare tutte le attività realizzatrici della persona umana, per cui una illegittima lesione imporrebbe il risarcimento: così nelle ipotesi di nascita non programmata, ovvero esclusione illegittima dall’assegnazione di incarico dirigenziale, nonché la perdita di un congiunto; id est il danno esistenziale riguarderebbe l’aspetto relazionale del soggetto illegittimamente leso. Tenuto conto che il danno esistenziale attiene ad alcuni aspetti della vita, ma non riguarda la vita in sé e tenendo presente che il danno tanatologico è un quid pluris rispetto al danno esistenziale (tanto che viene quantificato in maniera superiore in quanto il valore corrispondente al 100% di invalidità permanente, indicato nelle tabelle adottate dai vari Tribunali sede di Corte di Appello, rappresenta il quantum minimo al di sotto del quale l’interprete non potrà andare), sembra preferibile la tesi che considera il danno tanatologico assorbente rispetto al danno esistenziale (seppur il giudice nella quantificazione del risarcimento del danno da morte dovrà tenere presente tutti gli elementi del caso, come ad esempio l’ampiezza del nucleo familiare).
L’autonoma e separata liquidazione delle voci di danno (biologico, esistenziale, morale e in ultimo tanatologico) lascia all’interprete la valutazione, in relazione alle peculiarità della fattispecie, se ricorrere alla liquidazione unitaria e separata delle voci di danno non patrimoniale, evidenziandosi che non sempre tutte le voci di danno saranno presenti, essendo ben possibile la mancanza, in concreto, di alcuna di esse. Al fine di differenziare le varie voci di danno nell’ambito del danno non patrimoniale, va evidenziata una discrasia ancora presente nel nostro sistema risarcitorio, costituita dalle diverse definizioni di danno biologico; 1) della Corte Costituzionale; 2) della Cassazione; 3) del tre nuovi codici delle Assicurazioni, con la precisazione che tale ultima definizione ricomprende anche le compromissioni di natura esistenziale. Per la Consulta il danno biologico, va intesa come “lesione dell’interesse, costituzionalmente garantito, dell’integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico” (art. 32 Cost.), in quanto solo la menomazione dell’integrità psicofisica può essere accertata in base ai criteri valutativi della medicina legale e solo tale menomazione dovrebbe essere ricompresa in tale figura di danno. La Corte di Cassazione elabora una nozione più ampia di danno biologico ritenendo che trattasi di un danno “complesso” che comprende, oltre alla invalidità psichica e fisica anche altre voci di danno che esulano dalla definizione legislativa di danno biologico, estendendosi anche alla tutela del danno alla vita di relazione, estetico, sessuale, da incapacità lavorativa generica, alla serenità familiare. Non appare più giustificata tale nozione ampia di danno biologico alla luce della stessa tripartizione risarcitoria adottata dalla Corte Costituzionale e della più recente evoluzione della giurisprudenza di legittimità che ha riconosciuto autonomia concettuale e risarcitoria al danno esistenziale, ricomprendendo in tale nozione poste che prima erano liquidate sotto la voce del danno biologico (danno alla vita di relazione, danno edonistico, danno alla sfera sessuale). Sono infatti venute meno le limitazioni risarcitorie del danno non patrimoniale in base alla interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ. e sono anche mutate le esigenze che stavano alla base dell’accorpamento di tali ulteriori voci all’interno del danno biologico, costituite dalla generale risarcibilità delle voci di danno comunque ricomprese nel danno biologico e liquidabili, anche in mancanza di fatto reato. La lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cod. civ. va tendenzialmente interpretata non come occasione di incremento generalizzato delle fattispecie di danno, ma soprattutto come mezzo per colmare le lacune nella tutela risarcitoria della persona, ricondotta al sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale, quest’ultimo comprensivo del danno biologico in senso stretto (configurabile solo quando vi sia una lesione dell’integrità psico-fisica secondo i canoni fissati dalla scienza medica), del danno morale soggettivo come tradizionalmente inteso (il cui ambito resta esclusivamente quello proprio della mera sofferenza psichica e del patema d’animo) nonché dei pregiudizi, diversi ed ulteriori, purché costituenti conseguenza della lesione di un interesse costituzionalmente protetto e che portano al danno esistenziale e tanatologico.
In forza della nuova definizione di danno biologico contenuta nel Codice delle Assicurazioni, il danno esistenziale è inglobato all’interno del danno biologico c.d. “statico” che ricomprende le normali ripercussioni delle lesioni sotto l’aspetto fisico e il profilo psichico, quale necessarie conseguenze del disagio derivante dalle lesioni fisiche, includendovi espressamente anche l’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico relazionali della vita del danneggiato, con la conseguenza che le tabelle devono tener conto di tale ulteriore voce di danno, in precedenza autonomamente liquidabile sotto la voce del danno esistenziale.
Il fondamento logico delle “tabelle” e di tutte le liquidazioni ad essa commisurate percentualmente o proporzionalmente è dato dalla loro corrispondenza alla media dei precedenti giudiziari in un dato ambito territoriale, ma nessuna tabella in uso negli uffici giudiziarie o stabilite ex lege, allo stato esistenti risultano essere stata formulate in ragione di tali parametri. Per le voci (micro e macro permanenti) è richiesto, l’equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato, necessario per consentire la valutazione da parte del giudice d’appello e della Cassazione dell’iter logico seguito dal primo giudice per l’aumento percentuale.
In forza del richiamo all’equità il giudice ha un ampio margine decisionale, incensurabile in Cassazione, essendo sganciata la valutazione equitativa a regole rigide ed essendo sufficiente la correttezza e non illogicità della motivazione. La eventuale prassi che affidi al medico-legale, come già evidenziato, la sola valutazione della lesione psico-fisica, con l’indicazione della percentuale invalidante tabellare, non appare irragionevole, lasciando al giudice la valutazione ulteriore delle compromissioni esistenziale che possono essere liquidate o con l’aumento percentuale previsto dalle stesse tabelle o con l’aumento del punto percentuale di invalidità, anche al fine di adeguare il risarcimento al diritto vivente. Il criterio risarcitorio tabellare appare a molti insufficiente ed incostituzionale, ove il valore attribuito alla specifica invalidità appaia inadeguato, non essendo idoneo a garantire un giusto risarcimento, con il pericolo di un’interpretazione della normativa differente dalla sua ratio, in quanto il giudice sarà indotto a quantificare l’aumento del risarcimento non solamente in relazione alle condizioni soggettive del danneggiato, ma anche per ricondurre l’importo liquidato in termini di equità, nella percentuale idonea ad adeguarlo ai previgenti standard risarcitori, adottati dai vari Tribunali, che costituiscono il c.d. “diritto vivente”. L’attuale criterio risarcitorio, infine, del danno tanatologico appare complicato, ancorato a parametri e presupposti risarcitori superati alla luce dei nuovi diritti previsti dall’ordinamento comunitario, quale il diritto alla vita, pertanto necessiterebbe di una revisione concettuale e semplificazione risarcitoria, essendosi la Cassazione limitata a prevedere i criteri risarcitori settoriali limitati al danno biologico iure hereditatis, al danno biologico iure proprio, al danno morale e al danno esistenziale.
Occorre spostare l’ottica risarcitoria del danno tanatologico dalla tutela della salute alla tutela della vita nella prospettiva europeistica, trattandosi, sia con riferimento alla “vita” che alla “salute”, di diritti “personalissimi”, ne dovrebbe essere affermata l’intrasmissibilità agli eredi, escludendo il risarcimento iure hereditatis, sostituito dal risarcimento del danno non patrimoniale iure proprio (e non “riflesso” o “di rimbalzo”) costituito dal danno esistenziale con un’unica liquidazione, nell’ambito del sistema bipolare, che tenga anche conto anche del danno morale e del danno biologico, sempre “iure proprio” ove riconosciuti anche con la liquidazione di un’unica voce di danno ai familiari superstiti unitaria che dovrà tenere conto, per ciascuno di essi delle, specifiche voci di danno che la compongono. Modificando l’ottica risarcitoria nel senso indicato, il risarcimento dovrebbe essere riconosciuto non alla vittima primaria e poi materialmente corrisposto agli eredi, ma direttamente ai familiari del defunto iure proprio a titolo di risarcimento per la perdita della vita del congiunto e deve essere comprensivo di tutte le implicazioni di carattere affettivo, economico ed interrelazionale connesse alla morte del familiare e liquidato unitariamente anziché frazionato, come oggi ancora accade, in più voci di danno non patrimoniale (danno biologico iure hereditatis, danno biologico iure proprio, danno morale, danno esistenziale) che possono dar luogo a risarcimento sproporzionati in eccesso o difetto ove il giudice non abbia una visione unitaria delle conseguenze connesse alla perdita della vita della vittima.
È sulla perdita della vita e sulle conseguenze che ne sono derivate agli stretti congiunti della persona offesa che occorre spostare il baricentro risarcitorio, in base alle prove offerte ed alla situazione familiare della vittima e liquidare un‘unica voce di danno tenendo conto dei pregiudizi effettivi, anche di natura esistenziale, conseguenti alla morte del familiare.
La morte, prima ancora che perdita della vita è perdita della salute e il relativo danno va qualificato “danno da perdita della vita di un familiare” e non più “danno da morte” in quanto il diritto leso è non solo la salute, ma la vita che la ricomprende. Agli stretti congiunti della vittima va, quindi, risarcita un’unica voce di danno iure proprio che racchiude tutte le conseguenze non patrimoniali derivanti dalla perdita della vita del familiare, tenendo conto dei risvolti del caso specifico quali il grado di parentela, il rapporto di coniugio o di filiazione, il numero dei figli, la loro età, la convivenza, la durata del matrimonio, la alterazione della vita di coppia, etc.) elaborando parametri, necessariamente equitativi, anche tabellari per assicurare uniformità di base liquidatoria ed arrivare ad una unitaria, equa e ponderata liquidazione del danno da perdita della vita che tenga conto di tutte le conseguenze connesse alla morte del familiare nella sua cerchia degli affetti.
In conclusione, l’art. 2059 cod. civ., non ha più ragione di esistere nel nostro sistema risarcitorio in quanto ormai antistorico, non essendo più legato alla funzione punitiva penale che ne aveva giustificato e legittimato l’applicazione, essendo ormai esteso il risarcimento del danno non patrimoniale a svariate situazioni in cui non si ravvisa alcuna violazione di norma penale: oggi la funzione repressiva originariamente collegata al danno non patrimoniale tende più ad assumere la funzione di danno “neutro”, collegato ai valori inerenti alla persona, ma non si può condividere una interpretazione abrogans che svuoterebbe di contenuto l’art. 2059 cod civ., negandone l’applicazione e abrogandolo di fatto, occorrendo esplicitare i limiti di applicazione di tale norma nel nostro sistema risarcitorio extracontrattuale. In mancanza di fatto reato la risarcibilità del danno non patrimoniale extracontrattuale, dovrà essere ancorata alla lesione di un diritto tutelato dalla Costituzione, fondamentale o meno, in quanto tale doppia categoria ha la funzione di privilegiare, in caso di contrasto tra diritti, entrambi previsti dalla nostra Carta costituzionale, quello ritenuto fondamentale, senza per questo delegittimare gli altri diritti, soprattutto nel caso in cui non vengano in rilievo più violazioni di diritti Costituzionalmente garantiti. Alla lesione di un diritto costituzionalmente garantito, fattispecie che non si registra in ogni evento lesivo, si accompagna la tutela risarcitoria incondizionata del danno non patrimoniale, tra cui il danno esistenziale.

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